Documento - Diritto penale contemporaneo

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IL DIRITTO NON GIUSTO NON È DIRITTO, MA IL SUO CONTRARIO.
APPUNTI BREVISSIMI SULLA SENTENZA DI CASSAZIONE
SUL CASO ETERNIT
di Luca Santa Maria
Il procuratore generale presso la Cassazione, dott. Francesco Iacoviello, nel
chiedere ai giudici del Supremo Collegio, chiamati a decidere in ultima istanza sul
caso Eternit, di prosciogliere l’imputato per intervenuta prescrizione del reato di
disastro innominato contestato dall’Accusa, ha concluso la sua articolata e
appassionata requisitoria sostenendo che “ci sono dei momenti in cui diritto e
giustizia vanno da parti opposte, è naturale che le parti offese scelgano la strada della
giustizia, ma quando il giudice è posto di fronte alla scelta drammatica tra diritto e
giustizia non ha alternativa. È un giudice sottoposto alla legge; tra diritto e giustizia
deve scegliere il diritto”.
Chiaro il messaggio del procuratore Iacoviello: il senso di giustizia reclamava
la condanna dell’imputato per un grave fatto di reato effettivamente commesso e che
aveva provocato e continuava ancora a provocare la morte di centinaia di persone,
ma la necessaria applicazione delle fredde norme sulla prescrizione impediva
l’affermazione della giustizia all’interno del processo.
Effettivamente la Cassazione ha condiviso la posizione del procuratore
generale e ha pronunciato sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione
del disastro doloso, reato che si sarebbe addirittura prescritto anni prima dell’avvio
del procedimento penale nei confronti dei due ex titolari della multinazionale
svizzero-belga, vanificando così gli sforzi non solo della procura della repubblica
presso il tribunale di Torino, ma anche quelli delle migliaia di parti civili costituite
per ottenere il risarcimento dei danni sofferti.
Per dirla col procuratore Iacoviello, ingiustizia è stata fatta. Ma davvero il
diritto non lasciava spazio per una decisione diversa e “più giusta”, che non
suonasse come una resa di fronte all’inesorabile decorso del tempo?
Noi pensiamo di no.
Sgombriamo subito il campo dall’idea che la posizione assunta dalla Corte
circa la prescrizione del reato fosse l’esito scontato e necessitato dell’applicazione
meccanicistica delle norme che regolano la prescrizione, ovvero di orientamenti
dottrinali o giurisprudenziali consolidati.
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2010-2015 Diritto Penale Contemporaneo
È vero piuttosto il contrario.
Sul tema del momento consumativo del delitto di disastro innominato e, in
particolare, proprio del disastro ambientale, infatti, in questi anni, in giurisprudenza
e dottrina, sono state proposte diverse soluzioni interpretative, anche in contrasto le
une con le altre. La decisione della Cassazione nel caso Eternit si inserisce in questo
variegato panorama, proponendo, a sua volta, una soluzione interpretativa
innovativa, alla quale i giudici del Supremo Collegio pervengono sulla scorta di
premesse giuridiche originali e dunque, in quanto tali, tutt’altro che scontate.
Andiamo con ordine.
La Corte, seguendo l’insegnamento dominante in giurisprudenza ma in
contrasto con la dottrina prevalente, sulla natura della fattispecie di cui al secondo
comma dell’art. 434 c.p. accoglie la tesi secondo cui il legislatore avrebbe qui
introdotto una fattispecie circostanziata e non una figura autonoma di reato,
esaurendosi pertanto il fatto tipico della fattispecie nella realizzazione della condotta
diretta a cagionare il disastro. Sulla base di tale presupposto ci si sarebbe attesi,
allora, che la Corte, in linea con le indicazioni della manualistica – secondo cui il
reato si consuma col realizzarsi di tutti e solo gli elementi costitutivi del fatto tipico –,
individuasse il momento consumativo del reato nel momento di realizzazione della
condotta e che non attribuisse, invece, alcun rilievo, a tal fine, alla verificazione
dell’evento aggravatore di disastro.
Viceversa la Corte afferma che “nell’ipotesi di cui all’art. 434, secondo comma,
cod. pen. la realizzazione dell’evento disastro funge da elemento aggravatore ma la
data di consumazione del reato comunque coincide con il momento in cui l’evento si
è realizzato”. Pare comprendersi, dall’articolato percorso argomentativo sviluppato
sul punto nella sentenza, che il Collegio sia pervenuto a tale conclusione muovendo
dalla distinzione – di origine puramente dottrinale – tra “perfezione” e
“consumazione” del reato, dove la consumazione coinciderebbe con il momento in
cui “si chiude l’iter criminis e il reato perfetto raggiunge la massima gravità concreta
riferibile alla fattispecie astratta”. Massima gravità che – secondo la personale
rilettura che di tale teoria fornisce la Corte –, nei reati aggravati dall’evento, si
avrebbe al verificarsi dell’evento, anzi, più precisamente, nel momento in cui l’evento
raggiunge l’apice della sua gravità.
Già questo primo passaggio argomentativo è tutt’altro che scontato e tanto
meno necessitato, poggiando a ben vedere su una teoria dottrinale peraltro assai
poco battuta dalla giurisprudenza.
Allo stesso modo, tutt’altro che scontato e necessitato è il modo in cui la Corte
di Cassazione applica la sua stessa teoria per individuare il momento consumativo
del disastro nel caso di specie. La Corte, infatti, considera pacifico che nel caso di
specie l’evento di disastro abbia raggiunto il suo apice di gravità in occasione
dell’ultima condotta di immissione di amianto nelle aree attorno ai quattro
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stabilimenti Eternit, e dunque non oltre il 1986, anno di chiusura degli impianti per
dichiarato fallimento della società.
A tutto voler concedere, però, quella che la Corte indica come conclusione
logica del proprio ragionamento è una mera congettura, che avrebbe richiesto di
essere verificata in un eventuale giudizio di rinvio.
Ma il vero punto debole del ragionamento della Corte sta nell’aver considerato
come evento di disastro l’abbancamento di materiali contenenti amianto nelle aree
esterne degli stabilimenti e non, invece, la dispersione di fibre di amianto nell’aria
per interi decenni. Ciò, peraltro, sebbene la stessa Corte, in un precedente passo della
sentenza, avesse correttamente riconosciuto l’evento di disastro proprio nella
immutatio loci consistita nella contaminazione dell’aria per effetto della dispersione di
fibre di amianto provenienti dai materiali abbancati quando gli impianti erano in
produzione. Ebbene, è del tutto evidente che, se la Corte avesse tenuto fede a tale sua
prima interpretazione dell’evento di disastro, non avrebbe certamente potuto dare
per scontato che l’evento avesse raggiunto la sua massima gravità quando è cessata
l’attività di abbancamento.
Insomma, la Corte di Cassazione per poter presentare come necessitata la
decisione di prosciogliere per intervenuta prescrizione è stata costretta a modificare
in corsa l’interpretazione di evento di disastro che lei stessa si era data, finendo per
sposare, all’interno della stessa sentenza, due diverse concezioni di evento di
disastro: una concezione valida per definire il momento consumativo, tutta
focalizzata sul fatto di abbancare amianto nei terreni; un’altra concezione, elaborata
per dimostrare la sussumibilità dei fatti di disastro ambientale all’interno della
fattispecie di cui all’art. 434 c.p., che sposta, invece, il fuoco sull’immutatio loci data
dalla compromissione della matrice ambientale aria per effetto della dispersione
delle fibre di amianto provenienti dai materiali abbancati. Un espediente
argomentativo ovviamente inaccettabile, che mina alla base l’intera struttura logica
della sentenza, rendendo inevitabilmente altrettanto inaccettabili, proprio sul piano
logico prima ancora che giuridico, le conclusioni della Corte in punto di prescrizione
del reato di disastro.
Tanto basterebbe a dimostrare che la soluzione che è stata presentata come
necessitata tutto era fuorché necessitata.
C’era, al contrario, la possibilità per la Corte di pervenire a conclusioni
diametralmente opposte sulla scorta di un percorso logico-argomentativo
sicuramente più rigoroso.
Innanzitutto, proprio muovendo dalla concezione dell’evento di disastro
ambientale accolta dai giudici nella prima parte della sentenza (quale fatto di grave
compromissione della qualità dell’aria in conseguenza del rilascio di fibre di amianto
provenienti dai materiali abbancati nel tempo) e prendendo per buona la tesi
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secondo cui il momento consumativo del disastro coinciderebbe col momento di
massima gravità dell’evento, si sarebbe dovuto fissare il dies a quo per il calcolo della
prescrizione molti anni dopo la chiusura degli stabilimenti, dal momento che lo stato
di abbandono degli impianti e il progressivo deterioramento dei materiali abbancati
nel tempo avevano senz’altro determinato un progressivo aumento della quantità di
fibre di amianto disperse nell’aria.
Ma non è tutto.
La stessa tesi, proposta dalla Corte recuperando un orientamento dottrinale
risalente, secondo cui il momento consumativo dei reati di evento sarebbe segnato
dal massimo aggravamento dell’evento stesso, è priva di riscontri normativi e, a ben
vedere, del tutto immotivata.
Si potrebbe, allora, sostenere che, nelle fattispecie di evento, il reato non può
dirsi consumato fintantoché l’evento è in divenire e, dunque, nel caso degli stabilimenti
Eternit, fintantoché il materiale abbancato ha continuato a compromettere la qualità
dell’aria respirata dalle persone disperdendo grandi quantità di fibre di amianto.
Si badi che ciò non significa affatto agganciare il momento consumativo del
delitto di disastro ambientale alla cessazione degli effetti dell’inquinamento. Nel caso
del disastro ambientale, infatti, ha senso parlare di effetti dell’evento solo in relazione
alle conseguenze sanitarie, ossia alle morti e alle lesioni provocate nella popolazione
esposta, che sono effettivamente elementi estranei al fatto tipico del reato. Mentre la
perdurante e massiccia dispersione di fibre di amianto nell’aria costituisce,
all’evidenza, quell’immutatio loci nella quale è la stessa Corte di Cassazione a
identificare l’evento del delitto.
Naturalmente siamo perfettamente consapevoli che nemmeno questa
soluzione interpretativa possa essere presentata come necessitata in quanto imposta
dal diritto vigente. Anzi, qualcuno potrebbe, per esempio, ricordare che la
giurisprudenza in materia di lesioni personali (tipico reato di evento) è costante
nell’affermare che il reato si consuma nel momento di insorgenza della malattia e non
nel momento della guarigione (ma, a dire il vero, neanche nel momento di massima
gravità della malattia…), e che, quindi, anche nel caso del disastro ambientale, la
prescrizione andrebbe calcolata a partire dal giorno di prima verificazione dell’evento
di disastro.
Sarebbe senz’altro interessante vagliare la tenuta logico-giuridica anche di
questa soluzione interpretativa. Ma quello che ci interessa davvero far emergere in
questa sede è che rispetto a fatti di disastro ambientale come quelli del “caso Eternit”,
caratterizzati da fenomeni di inquinamento che continuano a produrre nuova
contaminazione delle matrici ambientali anche a distanza di anni dalle condotte che
hanno innescato la fonte di pericolo, il diritto non indica all’interprete soluzioni
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univoche (peraltro non solo in materia di prescrizione), né tanto meno lo fanno le
categorie dogmatiche classiche.
Ecco allora che, in un simile contesto, dove possono essere validamente
sostenute tesi anche diametralmente opposte rispetto a quella fatta propria dalla
Cassazione, il proscioglimento per prescrizione del reato non può in alcun modo
essere spacciato come il risultato di un insanabile e drammatico dilemma fra diritto e
giustizia.
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