1 BONHOEFFER: l`azione responsabile Fulvio Ferrario

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Transcript 1 BONHOEFFER: l`azione responsabile Fulvio Ferrario

BONHOEFFER: l’azione responsabile
Fulvio Ferrario, dedica il suo libro “Bonhoeffer”, Carocci editore,2014, al nostro amico veneziano Alberto
Gallas, morto prematuramente e considerato uno dei più profondi studiosi del teologo tedesco. L’autore
indica nella premessa il compito che il libro si propone: offrire una presentazione complessiva del pensiero
di Dietrich Bonhoeffer dando la parola al teologo stesso. Si rivolge quindi anche ad un pubblico non
specializzato in modo didattico e introduttivo al teologo luterano che ha profondamente rinnovato il
pensiero teologico del ‘900 in stretta relazione con la sua prassi di oppositore al nazismo. Ha infatti scelto di
ritornare in Germania per partecipare alla resistenza e alla fallita congiura per uccidere Hitler, in seguito alla
quale è stato imprigionato e impiccato nell’aprile del 1945. L’autore percorre il suo itinerario dall’infanzia e
dalla formazione teologica, con i decisivi incontri-confronti critici con i suoi maestri, al ministero pastorale e
all’assunzione di responsabilità contro il nazismo in nome della sua fede, che lo porta anche alla rottura con
la chiesa luterana tedesca. Nel libro vengono intrecciati i diversi livelli della testimonianza autobiografica,
della spiritualità cristiana, della riflessione teologica. Ferrario ci accompagna e ci offre le chiavi
interpretative della vita e dell’evoluzione del pensiero di Bonhoeffer, che rimane radicato nella tradizione
luterana ma che sviluppa, nello scontro con la realtà storica, radicali innovazioni a cui non riuscirà a dare
compiutezza per la morte avvenuta a 39 anni. Credo che la principale di queste chiavi interpretative sia la
“responsabilità” che, proprio in nome della sola fede che salva, porta all’azione “responsabile”. Nella
copertina del libro vengono significativamente riprese queste parole di Bonhoeffer che ci interrogano
anche oggi: “Chi resta saldo? Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio
principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto questo
quando sia chiamato all’azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel vincolo esclusivo di Dio: l’uomo
responsabile, la cui vita non vuol essere altro che una risposta alla domanda e alla chiamata di Dio. Dove
sono questi uomini responsabili?”. La chiamata di Dio è “essere per gli altri”. È per questo che assume la
responsabilità del “peccato” di uccidere Hitler per testimoniare Cristo crocifisso morto e risorto per noi, che
ci indica il criterio dell’azione nella solidarietà con l’umanità devastata dal peccato, senza illusioni e
menzogne. Tali sono l’eresia cattolica della bontà naturale dell’uomo; quella coscienza che non comprende
la realtà del male e vuol mantenere la propria purezza nel rapporto interiore con Dio; la ricerca della virtù
privata, erede dell’individualismo borghese, che vuol realizzarsi nella testimonianza e nelle relazioni
personali; l’idolatria del successo e quella convinta che il bene vince o che tutto sia “bene” in sé. Penso che
il nodo centrale sia la consapevolezza, senza consolatorie illusioni, che viviamo in una situazione di
“peccato”, che non possiamo uscire dal male del mondo e della storia (credo sia questo il concetto di
“peccato originale” di cui abbiamo parlato in un recente numero di Esodo). Bonhoeffer, in una elaborazione
legata alla sua pratica antinazista, indica la via dell’assunzione responsabile di questa realtà, senza appunto
le illusioni di un Disegno divino provvidenziale e miracolistico o di una armonia e bellezza insita e “vincente”
nella vita e nella storia.
Credo sia di fronte a questa consapevolezza che il pensiero del teologo tedesco arrivi alla considerazione
del tramonto del “tempo della religione” e del sorgere di “un tempo completamente non religioso”, come
processo positivo per liberare la fede cristiana dalla religione, attraverso una critica teologica alla religione.
La critica di fondo va infatti a come la predicazione e il pensiero cristiano si siano fondati sull’ <a priori
religioso>, cioè –scrive Ferrario- “sul’idea di una esigenza innata di assoluto, di una sorta di apertura
all’infinito, sulla quale dovrebbe innestarsi il messaggio cristiano”. La critica va ad ogni forma di religiosità –
anche fuori delle identità confessionali- che sostiene di essere indispensabile per rispondere sia a questa
presenza <a priori> nella nostra interiorità più profonda sia all’enigma della sofferenza e della morte,
negando il tentativo moderno di sostenere l’autonomia del mondano e del secolare. “Nella lettera del 30
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aprile 1944 Bonhoeffer reagisce con ira a questa tesi”: parla di stupro religioso degli infelici, di una sorta di
sciacallaggio da parte della religione e di questo tipo di spiritualità. Si chiede, invece, come procedere verso
un cristianesimo non religioso in un mondo adulto che non ha “bisogno” di Dio per risolvere i problemi
dove le possibilità umane non riescono: le aree che si ritengono inspiegabili dalla ragione o inaccessibili
all’indagine scientifica, gli enigmi della condizione umana come le sciagure e il male, il dolore e la morte, il
rapporto con gli altri in una società preda della barbarie. Questo tipo di religiosità pone il riferimento a Dio
necessario in aree da dove deve sempre più ritirarsi, diventare sempre più interiore. È il Dio definito
“tappabuchi”, un deus ex machina, con carattere residuale di fronte all’avanzata del progresso delle
conoscenze umane e del mondo adulto. Dio è confinato là dove lo si ritiene più al sicuro dall’attacco del
mondo non religioso: “l’interiorità” e “la coscienza”. Ma così si finisce per rendere irrilevante Dio, un puro
nome proiezione del proprio io. Non si tratta di adeguare né di attualizzare il cristianesimo al nostro tempo,
né tanto meno di trovare una relazione con Dio fuori da ogni confessionalità e religione, ma di prendere
atto della svolta storica radicale e di interpretare il presente alla luce della Parola di Dio e della Croce di
Cristo. Per il teologo non si tratta nemmeno di cercare “l’essenza del cristianesimo”, una sorta di verità
universale, eliminando il rivestimento culturale del “mito”. La fede per Bonhoeffer non è infatti separabile
dalla sua espressione “mitologica”: si tratta invece di interpretare l’una e l’altra < in modo non religioso>.
Ferrario nota come “le parole <cristiane> fondamentali, come fede, salvezza, redenzione, risultino, secondo
Bonhoeffer, usurate, consumate, dal loro uso religioso”, proiettate nei cieli della “metafisica” e nella
rarefazione dell’”interiorità”. L’annuncio biblico deve quindi cercare un diverso linguaggio rispondente al
modo nuovo di comprenderlo, e, in questo cammino, occorre astenersi nei confronti anche di parole
decisive ma che non riescono più ad esprimere e comunicare il loro contenuto. La stessa coppia “preghieraimpegno per la giustizia”, in cui Bonhoeffer fa consistere il modo nuovo di dire e vivere il cristianesimo, non
può essere considerata in modo limitato come il nucleo essenziale del cristianesimo, né tanto meno di una
spiritualità umana comune che oltrepassa le religioni. “La corposità ecclesiale della fede non può né deve
essere eliminata, bensì va riletta in termini non religiosi”. La sua uccisione da parte del regime nazista gli ha
impedito di portare a maturazione esplicita queste intuizioni. Ferrario individua chiaramente negli ultimi
scritti le linee portanti di questo percorso interrotto dalla morte. In primo luogo la Bibbia parla dell’uomo
intero che, senza distinzione tra interiorità ed esteriorità, vive la fede nella storia e nella carne
sopportandone le ambiguità senza lasciarsene paralizzare, come lui stesso ha fatto partecipando
attivamente alla congiura contro Hitler. “Compiutezza” dell’uomo significa vivere la mondanità non come
allontanamento dalla dimensione cristiana, bensì come luogo nel quale essa è concretamente chiamata in
causa. Questo è l’esito del suo ripensamento della tradizionale “teologia della croce” che, nella direzione
del cristianesimo non religioso, è “la rivelazione di Dio nella debolezza del Cristo ucciso nello spazio
profano, sconsacrato, del Golgota”. Bonhoeffer critica il Dio della teologia della gloria che “chiama il male
bene”, un deus ex machina che fa sì che il male sia bene, che giustifica il male, e il conseguente dolore,
come parte necessaria del Bene. Al contrario, l’estrema impotenza della croce di Gesù è il luogo nel quale il
Dio cristiano manifesta la propria identità, contro ogni illusione religiosa e ogni forma di “teologia naturale”
cioè di ogni rappresentazione del divino come l’ideale umano di perfezione. Nel Crocifisso si rivela
l’eternità, l’onnipotenza, l’onniscienza di Dio, ma non nel modo della metafisica tradizionale, che deve
considerarlo “impassibile”, sottratto alla sofferenza in forza del suo essere trascendente o di una armonia
cosmica. Questo è il punto decisivo. La morte in croce di Gesù manifesta infatti l’assunzione del patire da
parte di Dio, e questo impone un ripensamento radicale delle categorie teologiche a partire dal fatto che
Dio “si lascia scacciare fuori dal mondo sulla croce”, accetta di non essere necessario. Dio stesso impone
alla sua Chiesa di riconoscere questa “cacciata” e il carattere non religioso del mondo. Il Dio sofferente
nella croce di Cristo è quindi l’alternativa sia al deus ex machina della religione, sia ad un uso retorico e
superficiale –oggi spesso di “moda”- del tema della “debolezza di Dio” come “giustificazione” delle
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situazioni di scacco di fronte agli enigmi della vita, per cui l’uomo deve ”sostituirsi” a Dio. La fede non
sottrae l’umanità alle responsabilità dell’azione secolare, né si presenta come ultima ragione
soprannaturale quando le possibilità mondane raggiungono il loro limite. Al contrario immerge il credente
nella responsabilità del mondo “come se Dio non ci fosse” ma “davanti a Dio”, non nella sua assenza o
impotenza “metafisica”, ma in nome del Dio che si rivela presente in Cristo crocifisso e rinuncia ad imporsi
per lasciare all’uomo “adulto” lo spazio della esistenza autonoma. L’onnipotenza di Dio si rivela proprio
nell’impotenza della croce come quella di colui che condivide, sta accanto con e per gli esseri umani. Il
cristiano cessa di essere uomo religioso per essere semplicemente uomo in quanto è chiamato a
condividere la sofferenza di Dio, nella comunione in Cristo e con gli altri, soffrendo nel mondo senza Dio
senza aver “bisogno” di Dio per essere per gli altri. L’uomo compiuto vive nel profano “di fronte a Dio”, in
grado di “osare l’azione responsabile, assumendo coraggiosamente anche la colpa, fiducioso nel perdono di
Dio”. Non cerca le ragioni dell’agire nell’autogiustificazione, nella ricerca della purezza dell’agire virtuoso,
ma nella grazia che giustifica credenti e non. La giustificazione dell’agire responsabile è affidata unicamente
al perdono di Dio. Non persegue l’ideale di santità, rifiuta il cuore <incurvato su se stesso>, preoccupato dei
propri problemi esistenziali, del proprio rapporto interiore con il divino e di “fare qualcosa di noi stessi”.
Anche da questo è liberato “mediante la responsabile immersione nell’impegno mondano”. Non è una fede
generica in Dio né un umanesimo, in quanto il carattere di immanenza e trascendenza di Dio consiste nella
dedizione di Gesù fino alla morte. Cogliamo “l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza” di Dio mediante
il “partecipare a questo essere di Gesù”che nell’impotenza della croce rivela l’amore del Padre. In questo
consiste la “fede ecclesiale”, l’opposto della separazione tra cielo e terra, come di ogni forma di
ripiegamento su se stessi e di “convinzione personale”, di ascesi individuale. In una poesia scrive che
“pagani e cristiani” “vanno a Dio nella loro angoscia. //Piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza da malattia, colpa e morte”//, ma //“i cristiani stanno accanto a Dio nella Sua sofferenza”//, non in
funzione di una presenza di Dio nel mondo, di sostituirsi alla Sua assenza. In questo sta la differenza dei
cristiani, testimoni che solo il “Suo perdono” donato a tutti gli uomini “li sazia corpo e anima”.
La necessità di “nuove parole” viene spesso fraintesa riducendo a formule “a buon mercato” frasi divenute
famose e usate a sproposito, quali “come se Dio non ci fosse” o “la debolezza del Dio crocifisso”. La
riflessione rinvia sempre alla antiche parole della Scrittura – con un forte recupero del pensiero
veterotestamentario della “fedeltà alla terra”- e alla tradizione della Chiesa, anche se in modi diversi. Il
problema aperto, che ci viene riproposto oggi dall’insegnamento di Bonhoeffer, è “imparare a credere” alla
Parola di Dio in un “mondo adulto” senza adeguarsi alla secolarizzazione né essere soddisfatti per un
ritorno diffuso alla religiosità, all’attuale bisogno di divino, come risposta ai drammi del ‘900, alla “crisi” e ai
fallimenti della modernità. In questo sta l’attualità della sua eredità, che indica la strada di una Chiesa
“comunità di minoranza”, come conclude Ferrario, che ha senso non per il ruolo sociale, ma perché rimane
fedele alla propria vocazione dissonante: “testimoniare la parola inaudita e non coordinabile che Dio
rivolge all’umanità”, la “rivelazione in Cristo, ad opera dello Spirito, la promessa del suo regno”. Un
annuncio indeducibile dal mondo, non una “sublimazione religiosa della ricerca spirituale dell’umanità”, in
funzione di una spiritualità fai da te, che rende superfluo Cristo stesso morto e risorto per noi, e non solo la
religione. Non a caso oggi diffusa è la ricerca del Gesù maestro, esempio di “perfezione umana”, più che del
Cristo morto e risorto.
Ferrario alla fine pone il problema se queste riflessioni siano legate indissolubilmente alla cultura
dell’occidente in declino e osserva che Bonhoeffer resterà un compagno di strada in quanto anche la
teologia del Terzo mondo insegna che ogni riflessione teorica è contestuale, legata ad un quadro e ad una
prassi specifica, come è stato per lui.
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