Castagne - Azione

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Ambiente e Benessere
Viaggi e tatuaggi
Viaggiatori d’Occidente Da simbolo d’infamia e di esclusione sociale a elogio della trasgressione,
Claudio Visentin
Il tatuaggio, insieme ad altre forme
di manipolazione del proprio corpo,
è oggi pienamente accettato e anzi di
moda, ma per secoli è stato un simbolo d’infamia e di esclusione sociale:
nell’antica Roma per esempio identificava gli schiavi e i gladiatori. Ancora
nell’Ottocento l’esercito inglese marchiava con la «D» i disertori catturati
e anche in tempi più vicini a noi i tatuaggi segnavano il corpo di carcerati
(pensate al romanzo Educazione siberiana di Nicolai Lilin), prostitute e altri marginali.
Furono i grandi viaggi di esplorazione nel Pacifico nel Settecento a
cambiare per sempre l’immaginario
legato al tatuaggio. Questa nuova parola fa la sua comparsa quando James
Cook torna dal suo primo viaggio nei
mari del sud (1768-1771) e racconta:
«Uomini e donne si dipingono il corpo
facendo penetrare del colore sotto la
pelle in modo che rimanga indelebile».
Il termine tahitiano tattow riproduce
il suono onomatopeico «tau-tau» dello strumento utilizzato per incidere le
carni.
L’eco delle sue parole si avverte
anche nei racconti di Louis Antoine de
Bougainville, approdato a Tahiti nel
1768, pochi mesi prima di Cook. L’esploratore francese contribuisce più di
ogni altro all’idealizzazione dell’isola
e alla tessitura di un immaginario esotico dove l’umanità vive felice benché
ignara del progresso. I tatuaggi hanno
grande spazio nel suo racconto: «Mentre in Europa le donne si tingono di
rosso le gote, quelle di Tahiti si tingono di turchino le reni e le natiche: è un
ornamento e, insieme, un segno di distinzione. Gli uomini sottostanno alla
stessa moda».
I marinai di queste prime spedizioni si lasceranno presto tentare. Nel
1789, dopo un lungo e felice soggiorno
a Tahiti con finalità botaniche, i marinai del leggendario «Bounty» si ammutinano al loro capitano William Bligh.
Questi viene abbandonato in mare
aperto su di una lancia coi marinai a
lui fedeli, ma riesce miracolosamente a
salvarsi e, giunto a Timor, diffonde una
lettera in cui descrive gli ammutinati. Il
primo della lista è il loro capo, il suo secondo Fletcher Christian: segni distintivi una stella tatuata sul petto a sinistra
e altri tatuaggi sui glutei. Il rivoltoso era
tatuato.
L’incontro con i Maori in Nuova
Zelanda destò maggiore apprensione
perché questi bellicosi guerrieri erano
soliti tatuarsi anche il volto con profondi solchi, utilizzando al posto degli
aghi una specie di scalpellino d’osso,
mentre i tahitiani e gli altri popoli del
sud-est asiatico si limitavano al corpo.
Sono sempre uomini di mare i primi entusiasti: nel 1828 torna a Bristol
dai mari del sud un marinaio inglese,
John Rutherford, completamente coperto di tatuaggi, anche in faccia, alla
maniera maori. Questi tatuaggi tribali, mai completi, che con i loro forti segni neri accompagnavano tutta la vita
Kris Krüg
fino a diventare uno sfregio di moda
dei guerrieri, saranno poi riscoperti in
forma semplificata negli anni Ottanta
del Novecento dalla cultura punk rock
americana, con una deliberata volontà
di apparire selvaggi, estranei alla società occidentale.
L’immaginario legato al tatuaggio
si ampliò ancor più alla fine dell’Ottocento con l’apertura del Giappone al
mondo. Anche in quel Paese i tatuaggi erano guardati con diffidenza dalla
cultura ufficiale: nella regione di Tama
si tatuava in fronte ai criminali «cane»
e a ogni condanna veniva inciso uno
dei quattro segni di cui era composto
tale ideogramma, così che solo i reci-
divi potevano ostentare il tatuaggio
completo. Durante lo shogunato dei
Tokugawa anche i samurai ricorrevano al tatuaggio, ma solo per rendere
possibile l’identificazione del corpo nel
caso fossero spogliati delle vesti e delle
armi dopo la morte.
Ma in Giappone, al di fuori degli ambienti più rispettabili, fiorisce
un’arte sofisticata e complessa del tatuaggio, con nuovi temi (draghi, pesci)
e delicate sfumature di colore, che sedurrà molti europei appartenenti alle
classi elevate. Infatti, mentre i tatuati
venivano esposti come un’attrazione
nei circhi, compreso il famoso Bar-
num, molti aristocratici, ufficiali e alti
funzionari britannici cominciarono
con discrezione a farsi tatuare prima
di tornare a casa dall’Oriente. Il principe di Galles, che salirà al trono col
nome di Edoardo VII, per ricordare
un viaggio si era fatto tatuare sul metacarpo un drago da un famoso tatuatore
giapponese, Soyo. Sir Randolph Churchill, padre del più famoso Winston,
ministro per l’India, aveva un serpente
tatuato sul braccio. E perfino Nicola II,
ultimo sfortunato zar, aveva sulla pelle
un tatuaggio giapponese. Particolarmente ricercati erano i tatuatori nei
porti franchi di Yokohama e Nagasaki.
Nel Novecento la passione per i tatuaggi ha infranto ogni limite di età o
classe sociale, perdendo interamente il
suo originario carattere trasgressivo.
Un risultato paradossale, se pensiamo
che mentre la pratica del tatuaggio si
diffondeva in Occidente nei luoghi
d’origine veniva combattuta e spesso
estirpata dai troppo zelanti missionari,
insieme ai liberi costumi amorosi, alla
musica e alle danze tradizionali. Negli
ultimi anni sono stati proprio i viaggiatori occidentali a riportare in quei
luoghi la pratica del tatuaggio, in una
sempre più consapevole ricerca delle radici e degli originari significati di
questa meravigliosa arte.
Bibliografia
Alessandra Castellani, Storia sociale
dei tatuaggi, Donzelli, 2014, pp.152,
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