La lunga notte dei caregiver fami

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Transcript La lunga notte dei caregiver fami

l’inchiesta L’assistenza sommersa
Si prendono cura
di un parente disabile.
Sono quasi sempre donne
e spesso non riescono
a trovare un minuto
libero. Neppure per poter
riposare un’intera notte,
lavorare o badare alla
loro salute. E ora hanno
deciso di reclamare
i propri diritti dinanzi
ai giudici
La lunga notte dei
Antonella Patete/foto Michele Palazzi
S
ono dodici anni che Chiara non vede il mare. L’ultima volta è stato in
Sardegna, dove è andata con suo
figlio Simone. La volta precedente due
anni prima, quando suo marito era ancora in vita, e tutto era più facile. Poter respirare ancora la brezza marina a
pieni polmoni è solo uno dei tanti sogni di questa donna, vitale nonostante
la fatica e sorridente malgrado la rabbia.
Che quattro anni fa ha lasciato il lavoro per occuparsi a tempo pieno del suo
unico figlio, affetto da una grave disabilità e bisognoso di cure 24 ore su 24.
Bresciana di nascita e romana di adozione, Chiara Bonanno è la promotrice
di un blog chiamato “La cura invisibile” e anche una delle circa 400 persone
SuperAbile INAIL
8 Novembre 2014
che hanno ingaggiato una difficile battaglia legale per il riconoscimento giuridico della figura del family caregiver:
termine inglese che indica chi, e sono
quasi sempre le donne, si prende cura
dei propri cari non autosufficienti perché gravemente malati o disabili. Un lavoro a titolo gratuito, svolto al chiuso
delle pareti domestiche, che secondo i
promotori dell’azione collettiva nei confronti dell’Inps permette alle casse dello
Stato un risparmio dai 400 ai 1.000 euro al giorno a famiglia.
«Tutto è iniziato di notte, una delle
tante in cui sono rimasta seduta accanto al letto a vegliare Simone – racconta
Chiara –. Ero al mio computer portatile, come spesso accade, e ho cominciato a fare una ricerca su Internet relativa
Le foto in queste pagine
sono di Michele Palazzi,
dell’agenzia Contrasto.
Nato a Roma nel 1984,
si è diplomato presso
la Scuola romana di
fotografia. Ha ottenuto
numerosi riconoscimenti,
tra cui il primo premio
all’Environmental
Photographer of the
Year Award. Dal 2012 è
impegnato in un progetto
di lungo termine in
Mongolia. Il suo sito è
Michelepalazziphotographer.
com.
caregiver familiari
ai caregiver familiari negli altri Stati
europei. Ho scoperto che siamo all’ultimo posto. I principali Paesi riconoscono questo tipo di assistenza attraverso
compensi e tutele. Perfino la Grecia nel
2011, in piena crisi economica, ha emanato una legge che, tra le altre cose,
sancisce il diritto al prepensionamento: perché il lavoro di cura usurante va
protetto, non solo dal punto di vista sanitario ma anche sociale».
In realtà nel nostro Paese esistono alcune proposte di legge sul prepensionamento dei caregiver, circa una ventina
negli ultimi 20 anni. L’ultima è arrivata alla Camera dei deputati nel maggio
del 2010, dove è stata approvata all’unanimità e in maniera bipartisan, bloccandosi poi in commissione Bilancio al
Senato per mancanza di coperture economiche. Qualche mese dopo il governo
Berlusconi è caduto e, complice l’austerità, della legge sui caregiver non se ne
è fatto più niente. Nel frattempo a livello regionale, l’unica a legiferare è stata
l’Emilia Romagna che, lo scorso maggio, ha riconosciuto il ruolo di chi si occupa dei propri familiari disabili.
Stanchi di attendere, nel novembre di
due anni fa i caregiver familiari hanno
deciso di unire le forze. Si sono incontrati nei gruppi di discussione online
e grazie ai social network, si sono conosciuti meglio attraverso il telefono e,
nella maggior parte dei casi, non si sono mai visti in faccia. Si sono però intesi
subito su poche parole d’ordine: siamo
ai domiciliari, ma senza aver commesSuperAbile INAIL
9 Novembre 2014
so reato. Da qui l’idea di portare la battaglia nelle aule di giustizia. «Un ricorso
collettivo promosso dal Coordinamento nazionale famiglie disabili gravi e
gravissimi presso i tribunali di Milano, Roma e Palermo – spiega Chiara –.
Chiediamo il riconoscimento dei diritti umani più elementari, quali quello al
riposo, alla salute, alla vita sociale, completamente annullati in un contesto di
moderna schiavitù sommersa».
Al momento a pronunciarsi sono state solo le sezioni Lavoro del Tribunale
di Milano e Roma, che hanno respinto
il ricorso. Il motivo? Perché il problema
sottoposto all’autorità giudiziaria dovrebbe trovare la soluzione tra i banchi
del Parlamento. Ma i caregiver familiari non si arrendono e in molti già pensano di portare le loro istanze alla Corte
europea per i diritti dell’uomo e al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite.
l’inchiesta L’assistenza sommersa
In corso una petizione
per le cure domiciliari
O
ttenere dal Parlamento una legge
che riconosca alle persone non
autosufficienti il diritto pienamente
e immediatamente esigibile alle
prestazioni sociosanitarie domiciliari.
È questo l’obiettivo della petizione
popolare per il finanziamento dei
livelli essenziali di assistenza (Lea)
voluta dalla Fondazione promozione
sociale onlus di Torino insieme a
un comitato a cui hanno aderito
oltre una ventina di istituzioni, enti
e associazioni del privato sociale.
La richiesta – spiegano i promotori
– parte dalla constatazione che
molto spesso il Servizio sanitario e
le amministrazioni comunali non
erogano le prestazioni dovute a
causa della carenza delle risorse
economiche necessarie.
La petizione chiede anche il
riconoscimento della figura del
“volontario intra-familiare”, ovvero
del caregiver che si prende cura
in maniera prevalente o esclusiva
del familiare non autosufficiente,
a cui va corrisposto un rimborso
forfettario delle spese vive
sostenute. Tale rimborso dovrebbe
comprendere anche una somma in
denaro corrispondente al mancato
guadagno per chi rinuncia al lavoro.
«Un contributo economico che
permette di chiedere l’aiuto di terzi»,
precisano dalla Fondazione. E che
per una donna che esclude la via
della permanenza del proprio caro in
un istituto assistenziale deve poter
includere «ricoveri di sollievo e,
quando praticabili, centri diurni parttime». [A.P.]
Vita da caregiver. In attesa di un riconoscimento la vita di tutti i giorni continua. Storie diverse dove il dramma
è diventato routine, diluito in giornate tutte uguali, scandite dai ritmi delle
cure. E dove l’aiuto da parte di terzi, pur
presente, non è sufficiente ad alleviare
le fatiche del caregiver. Chiara ha azzerato il tempo dedicato a se stessa: «Non
vado dal parrucchiere, non frequento
cinema e non riesco neppure a portare
la macchina dal meccanico». Alle sette
del mattino di una giornata senza emergenze, è già reduce da una nottata dove
le ore di veglia superano quelle di sonno: «Se tutto va bene, mi sveglio ogni
due ore per controllare la saturazione
dell’ossigeno, cambiare la posizione e
sostituire il pannolino. Se invece Simone sta male, resto tutta la notte accanto al suo letto». Poi col sorgere del sole
ricomincia la trafila: si inizia alle sette
con la prima medicina e il cambio del
pannolino, poi un altro medicinale alle
otto e di nuovo alle nove, accompagnato
dall’inserimento del catetere. Alle dieci
l’igiene personale, alle undici la medicazione della stomia e il lavaggio della peg e poi, ora dopo ora, insieme alla
somministrazione dei farmaci, attività
ludiche, fisioterapia motoria e respiratoria accanto a massaggi per prevenire
le piaghe da decubito, ma anche momenti dedicati all’ascolto delle fiabe e
della musica e, alle 22, il riassunto della
giornata «fondamentale per l’umore di
Simone», ci tiene a precisare sua madre.
A supportare Chiara nel suo impegno quotidiano di caregiver un’infermiera professionale, otto ore al giorno
dal lunedì al sabato, a cui si aggiungono
quattro ore di assistenza da parte di un
operatore socio-sanitario, che si occupa
In queste e nelle pagine precedenti Chiara Bonanno,
promotrice del blog “La cura invisibile”, e suo figlio
Simone. Per potersi prendere cura di lui, quattro
anni fa ha lasciato definitivamente il lavoro
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10 Novembre 2014
delle mansioni meno qualificate, tipo
lavaggio e cambio di posizione. A fare
i conti sembra tanto, ma Chiara spiega
che non lo è: perché una giornata è fatta non solo delle ore diurne ma anche
di interminabili notti in bianco causate da ritmi sonno-veglia alterati. Perché spesso è necessaria la compresenza
di due persone per accudire un adulto
con disabilità e perché gli operatori sanitari possono svolgere alcune pratiche
solo alla presenza del caregiver. «In media forniamo dalla 40 alle 84 ore di assistenza alla settimana, più di due lavori a
tempo pieno», spiega.
Inoltre, occuparsi di qualcuno che
ha necessità assistenziali permanenti vuol dire vivere in costante regime
di allarme. «Anche quando affidiamo
i nostri figli alla cura di terzi dobbiamo restare disponibili a fornire indicazioni su prassi di emergenza da attivare
immediatamente in attesa di raggiungere l’operatore». Da parte sua, Chiara
ha imparato a fronteggiare ogni tipo di
situazione: «So aspirare il catarro dai
polmoni, posizionare una peg, utilizzare l’ambu, una maschera con palloncino
che serve a rianimare. Sono diventata brava come un’infermiera: la nostra
non è un’assistenza qualunque, è assistenza specializzata».
Problemi economici. Un tempo Chiara faceva l’assistente sociale presso il
Dipartimento di salute mentale di una
Asl romana, e oggi proprio quel lavoro che si è sentita costretta ad abbandonare sta in cima alla lista delle cose che
più le mancano della sua vita precedente. Con la nascita di Simone, infatti, per
lei e suo marito le cose sono cambiate
come tra il giorno e la notte. «Eravamo
molto uniti. Dopo un primo periodo di
burrasca e disperazione, ci siamo riconciliati e siamo stati sempre molto vicini». Con fatica si erano riorganizzati la
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11 Novembre 2014
l’inchiesta L’assistenza sommersa
Le richieste dei 400
caregiver familiari
D
iritto a un’esistenza dignitosa,
al riposo, alle cure. È questo
l’obiettivo dei 400 ricorrenti che
hanno intrapreso un’azione legale
per ottenere il riconoscimento
giuridico della figura del caregiver
familiare. Queste le richieste
concrete:
Assicurazione integrativa che
permetta al caregiver di essere
sostituito adeguatamente in caso
abbia necessità di cure mediche o,
più semplicemente, di staccare la
spina e ricaricarsi.
Riconoscimento delle malattie
professionali tipiche di questa
figura, in modo da potersi curare
adeguatamente – sia in termini
economici che di tempo – anche
per poter proseguire l’opera di
assistenza e cura.
Riconoscimento di coperture
previdenziali per l’accesso –
anche anticipato – a una pensione
dignitosa che scongiuri il rischio di
una vecchiaia in povertà a causa
della propria opera di cura.
vita. Lei lavorava mattina e primo pomeriggio, lui attaccava la sera, non appena lei tornava a casa. Faceva il vigile
urbano ed era riuscito a “sistemare” i
turni in maniera utile per prendersi cura del figlio. Quando è scomparso, dodici anni fa, Chiara si è trovata sola con
un bambino di quattro anni gravemente disabile, che ha continuato a chiamare ogni sera suo padre per il successivo
anno e mezzo. Esauriti il periodo di
aspettativa e tutti i permessi e i congedi possibili, dopo due anni ha lasciato il
lavoro alla Asl. Negli anni successivi ha
ricominciato a lavorare presso organizzazioni impegnate nell’assistenza delle persone disabili. Fino a quando, nel
2010, il peggioramento delle condizioni di salute di Simone e il conseguente
“allettamento” l’hanno indotta a lasciare definitavamente il lavoro. Il pensiero
di trasferirlo in un istituto assistenziale
non l’ha mai sfiorata.
Oggi madre e figlio vivono con 1.200
euro al mese (la pensione di reversibilità più gli assegni per l’invalidità di Simone) a cui si aggiungono altri 1.200
euro provenienti dall’assistenza indiretta fornita dall’amministrazione comunale, che servono a pagare l’operatore
sociosanitario. «Tanti farmaci e presidi sanitari non sono forniti dal Servizio
sanitario, i soldi non bastano, viviamo
in povertà. E mi attende un futuro ancora peggiore: perché quando mio figlio
non ci sarà più resterò ancora più povera». Eppure i caregiver non chiedono
denaro. Chiara lo sottolinea con forza:
«Siamo costretti a vivere con gli assegni
dei nostri figli, mentre dovremmo essere messi in grado di andare a lavorare
per guadagnare i soldi che ci servono».
Anche Stella è stata costretta a lasciare il proprio lavoro, a Roma. E anche lei,
come Chiara, è una donna sola che da
sola si prende cura del proprio marito. Erano sposati da appena un anno
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12 Novembre 2014
e mezzo quando, nel febbraio del 2002,
Carlo ha avuto un incidente stradale
che lo ha lasciato bisognoso di cure e assistenza continua. Avevano entrambi 32
anni. Lei organizzava congressi medici,
lui era un assicuratore. Oggi possono
contare soltanto sull’assegno di invalidità e sulla pensione di inabilità di lui.
«Tre volte a settimana, per tre ore, viene un assistente domiciliare inviato dal
Municipio di appartenenza – spiega lei
– e altre tre volte un operatore sociosanitario della Asl per due ore». Insomma un totale di 15 ore settimanali, che
lascia Stella stanca e sfiancata. Non solo per il fatto che Carlo ha bisogno di
tutto, ma anche perché la casa che un
tempo hanno costruito insieme oggi si
è trasformata in una prigione. «Riesco
In alto e accanto, Stella e suo marito Carlo,
vittima di un grave incidente stradale,
nella loro vita di tutti i giorni
a malapena ad andare a fare la spesa, a
volte non posso neppure scendere a buttare l’immondizia. I miei sono anziani
e devono prendersi cura di mia sorella,
che è a sua volta non vedente e affetta
da una grave disabilità. Da loro ho imparato la tenacia: i medici dicevano che
non avrebbe nemmeno mai camminato
e invece ha imparato a fare tante cose».
Curarsi? Un lusso. Uno dei problemi
più grandi di Chiara, Stella e tante altre
persone nella loro situazione è quello
di non riuscire a trovare il tempo per le
cure, quando hanno necessità di salute.
Non riuscendo ad andare dal medico, finisce che un acciacco diventi un malanno e un malanno qualcosa di più grave.
Anche perché la fatica fisica di accudire un adulto con grave disabilità espone
chi lo assiste all’insorgere di pesanti patologie ostearticolari. D’altra parte, una
ricerca condotta da Elizabeth Blackbur,
premio Nobel per la Medicina nel 2009,
dimostra che l’aspettativa di vita di un
caregiver è dai nove ai 17 anni inferiore
alla media della popolazione E così gli
oltre 100 caregiver, che nella sola Roma
hanno aderito al ricorso collettivo nei
confronti dell’Inps, hanno presentato ai
giudici una valanga di certificati medici
che attestano una condizione di salute a
dir poco precaria. Veri e propri bollettini di guerra che parlano di ernie discali,
fratture dei piedi, contrazioni muscolari, osteoporosi, ipertensione. Ma anche
sintomi depressivi e attacchi d’ansia,
cefalee e disturbi dell’alimentazione.
Una situazione di stress psico-fisico,
che gli anglosassoni chiamano burden,
letteralmente carico, che va a gravare su chi per lunghi periodi si assume
sulle proprie spalle il ruolo di garantire, a discapito della propria, la migliore
qualità della vita possibile a un proprio
caro. Come Anna, che ha 49 anni, un
SuperAbile INAIL
13 Novembre 2014
impiego nel settore vendite di una multinazionale e una figlia 27enne, affetta da una grave cerebrolesione, di cui
si prende cura completamente da sola.
Separata da quando la bambina aveva
tre anni, da molti mesi non riceve più
neanche l’assegno per gli alimenti. Temendo di essere licenziata, o quanto
meno di avere problemi, non ha mai rivelato di avere una figlia disabile all’azienda per la quale lavora. «Usufruisco
di cinque ore e mezzo di assistenza domiciliare dal lunedì al venerdì, che non
mi coprono neppure l’orario di lavoro
– rivela –: il resto devo pagarmelo io. Il
sabato e la domenica svolgo da sola il
lavoro di cinque persone. Ho dei problemi di cuore, che al momento non riesco ad affrontare».
In attesa che arrivi il tempo per potersi curare, Anna procede nella vita
come un’equilibrista. In bilico, fino alla prossima tappa.