Il benessere psicologico in cardiologia

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Andrea Carta, Ricercatore Università L.U.de.S. Lugano
Il benessere psicologico in cardiologia
Introduzione
La Psicocardiologia (o Cardiac Psychology) è un ramo recente della psicologia, che si pone come
scopo quello di “studiare i processi psicologici sottostanti la prevenzione e il trattamento delle
malattie cardiache” e il sostegno ai pazienti durante la loro convalescenza [Bellg, 1998]; nonché di
studiare gli aspetti psicosociali inerenti l’eziologia, la degenza, la riabilitazione e i processi di
coping emotivo di tutte le malattie cardiache [Jordan, Bardè; Zeither, 2003]. Nelle ultime tre decadi,
lo scopo degli psicologi che si occupano di psicocardiologia si è concentrato sui vissuti dei
pazienti, sul loro modo di percepire e reagire a numerose malattie cardio-circolatorie. Ricerche in
tal senso sono state effettuate principalmente negli USA e in Germania: le fonti più numerose sono
però quelle Americane.
La questione ci porta tra i temi più importanti per la psicologia clinica: l’importanza del legame e
dell’influenza reciproca tra psiche e corpo, la relazione tra la qualità della vita, benessere
psicologico e il rischio di malattie psicosomatiche. Infatti molti degli studi o delle osservazioni,
anche a carattere storico, hanno come denominatore comune questo fattore.
Le origini della disciplina possono essere rintracciate già nel 2697 A.C. quando un imperatore
cinese notò in maniera ingenua che “se le menti delle persone sono chiuse e scompare il sorriso”
esse possono ammalarsi [Strauss, 1968, p.38]. Dobbiamo aspettare però il 1628 per avere una
descrizione scientifica psicocardiologica: William Harvey scoprì infatti che un “disturbo mentale che
provoca panico, gioia eccessiva, speranza immotivata o ansia” estende i suoi effetti sino al cuore.
Nel 1897, Sir William Osler, fu il primo a correlare l’arteriosclerosi a comportamenti eccessivi (da
notare che descrive la malattia come una giusta punizione alla trasgressione). Sempre Osler
(1910) pose la prima pietra per la psicocardiologia moderna, riuscendo a descrivere il paziente
arteriosclerotico con tratti comportamentali (acuto, ambizioso e sempre di corsa). Ulteriori ricerche
sulla correlazione tra comportamenti psicologici e attivazioni fisiologiche sono stati condotti nel
secolo scorso, nell’ambito della psicologia generale, ad opera di Cannon (1932) e di Selye, con la
“reazione generale di allarme” (1956).
Il proliferare della ricerca in psicocardiologia si ebbe però con la famosissima descrizione operata
da Friedman e Rosenman (1959) del pattern comportamentale di Tipo A.
Secondo Allan [Allan e Scheidt, 2012] la cardiologia, come scienza medica, oggi ha fatto passi da
giganti, riesce a curare le malattie dal punto di vista anatomico e biologico e a restituire una vita
quasi identica ai periodi precedenti alla malattia. Tuttavia i chirurghi e i cardiologi sono sempre
meno interessati a seguire giorno per giorno i pazienti e ad aiutarli a ridurre, tramite un corretto
stile di vita, il rischio di ripetersi di malattie. E’ proprio in questa mancanza di sostegno che lo
psicologo di formazione psicocardiologica può trovare notevoli applicazioni della teoria, in
particolar modo in pazienti con insorgenza della malattia prima dei 65 anni, cioè quando la
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patologia è considerata prematura e fortemente correlata a componenti di qualità della vita e
benessere psicologico negativi. Non è solo questo il campo di azione dello psicologo: è stato
dimostrato, che l’intervento psicosociale, anche attraverso la psicoterapia, può aumentare la
longevità o ritardare la morte. Infatti, l’intervento psicologico prevede la riduzione del panico dovuto
alla malattia (spesso accompagnato da depressione, ansia e ostilità) e ciò aumenta la qualità della
vita, diminuendo la possibilità di recidiva [Burrell, 2012].
Non solo, l’interesse si dimostra dal fatto che prima del 1930, gli studi erano ridotti ad interventi di
qualche grande luminare, dopo il 1930, si tentarono di dare spiegazioni psicoanalitiche e con il
1950 si moltiplicarono gli studi sistematici in questa direzione. L’aumento delle malattie
cardiovascolari nelle nazioni industrializzate ha spronato la ricerca in cardiologia: l’evidenza portò
a riconoscere una connessione tra fattori prettamente psicologici e patologie cardiache.
Gli studi in psicocardiologia
In molti scritti dai titoli suggestivi come Psychoanalitycal observation in cardiac disorders
(Menninger, 1936) e Identification mechanisms in coronary occlusion (Arlow, 1945) i meccanismi di
difesa vengono considerati le vere cause di colpi di cuore o infarti. Tramite il noto fenomeno della
somatizzazione, alla stregua delle nevrosi o dell’isteria, si può modificare il sostrato fisiologico,
alterando i valori di norma e creando quindi patologia. A questa interpretazione e possibile
accostarne almeno un’altra. E’ noto che la psicoanalisi ha evidenziato il ruolo fondamentale dei
traumi infantili rimossi, che possono influire sulla dinamica psichica e avere ripercussioni sul corpo.
Come vedremo più avanti, un’eccessiva ostilità nella vita quotidiana provoca nell’individuo un forte
stress (e quindi un aumentato rischio di CHD, Coronary Heart Disease). L’eccessiva risposta
emotiva è, infatti, correlata alla mancanza di un amore incondizionato o di una madre
sufficientemente buona (per dirlo con Winnicott) nell’infanzia.
Dagli inizi degli anni ’50 sino ai primi anni ’90 la Cardiac Psychology ha conosciuto un notevole
sviluppo di studi (quasi 8000 studi) che si sono orientati su tre vie: la prima è lo studio dei fattori di
rischio comportamentali, la seconda è la ricerca sui fattori di rischio più prettamente psicologici e la
terza è la correlazione tra tratti di personalità e rischio di CHD.
I fattori di rischio comportamentali sono i più facilmente modificabili, anche attraverso percorsi di
psicoterapia. Fumo, alcool, obesità, poca attività fisica e dieta sregolata sono fattori di rischio ormai
scoperti da tempo. Come affermato dal Ministero della Salute (2009): “Nell’Unione Europea il fumo
provoca circa il 90% dei tumori del polmone, l’80% delle broncopneumopatie croniche ostruttive e il
25% delle morti per malattie di cuore” .
Ma in che modo la psicologia può essere d’aiuto in un contesto così prettamente medico?
La risposta è semplice: aiutando, attraverso opportuni trattamenti, il paziente a modificare il
comportamento “deviante”.
Già a partire dal 1977 (Ornish et al) ci si è interrogati su come
modificare le abitudini, attraverso opportuni interventi, in ottica preventiva e riabilitativa. Buoni
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interventi psico-educazionali, colloqui clinici e psicoterapia possono essere prime valide soluzioni
per intervenire su comportamenti e stili di vita errati.
La seconda direzione che seguirono le ricerche fu quella di correlare patologie cardiache a
psicopatologie. Ansia, depressione, intenso sforzo lavorativo, stress e isolamento sociale furono
tra le cause più studiate e più confermate. Per esempio partendo dal presupposto che eventi come
la morte del coniuge, il divorzio, il matrimonio, la perdita del lavoro, le vacanze, i problemi con la
legge sono considerate situazioni altamente stressanti, due studi [Holmes e Rahe (1967) e Rahe,
Romo, Bennet & Siltanen, (1974)] hanno tentato di collegare eventi stressanti a CHD. Tramite un
questionario (Recent Life Change questionnaire) si è valutato -su un campione di 279
sopravvissuti ad un attacco di cuore e su 226 casi di infarto mortale- che punteggi alti al
questionario (che dunque indicavano notevoli cambiamenti con conseguente aumento di stress)
erano stati riscontrati per tutti i sei mesi prima dell’evento cardiaco, con una fortissima correlazione
con l’infarto mortale.
Nel periodo di massima industrializzazione anche la salute sul lavoro venne presa in
considerazione negli studi di psicocardiologia. Alcuni studiosi infatti [Karasek, Baker, Marxer,
Ahlbom & Theorell, 1981] hanno dimostrato l’esistenza di un netto aumento del rischio di CHD con
lavori condotti in maniera “febbrile” nel gruppo dei soggetti con alto job strain (cioè sforzo
lavorativo).
L’isolamento sociale, altra piaga sociale specialmente per gli anziani (sempre più abbandonati a sé
stessi) venne vagliata come ipotesi di fattore di rischio. I primi studi si sono infatti concentrati
sull’altissima mortalità di vedovi/e comparati con la popolazione generale che fungeva da gruppo di
controllo [Parkes, 1964; Rees & Lutkins, 1967]. Una ricerca [Ruberman, Weinblatt, Goldberg e
Chaudhary, 1984] ha studiato l’estensione della rete sociale in pazienti con MI. I 2315 maschi
intervistati, sopravvissuti ad un infarto, mostrarono che sia gli alti livelli di isolamento sociale, sia gli
alti livelli di stress, avevano più che quadruplicato il rischio di morte addirittura tre anni dopo
l’attacco di cuore.
La malattia del secolo, a detta di molti studiosi, è la depressione. Anche questa psicopatologia è
stata collegata dagli studi di Cardiac Psychology al rischio di CHD. Infatti, in una delle prime
ricerche condotte, Cassem e Hackett (1973) trovarono prove di depressione nel 76% dei 50
soggetti scelti casualmente da un campione di persone affette da CHD. Una meta-analisi [BoothKeweley&Friedman, 1987] ha ribadito che la depressione, più di ogni altro fattore psicologico, è
collegato alle malattie cardiologiche
Questi studi, al contrario di quelli esposti in precedenza, non hanno dato sempre esiti uguali. Molte
indagini, in particolar modo le prime in ordine di pubblicazione, hanno poca validità ambientale e
sono difficilmente generalizzabili a culture collettivistiche come quelle orientali.
L’efficacia della psicocardiologia è evidente anche in questo caso. Sempre con opportune terapie
si deve cercare dal punto di vista psicoterapeutico di eradicare la patologia. Questo significa anche
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agire sul piano preventivo: per esempio riducendo l’ansia oppure, come è stato studiato, creare le
condizioni, le risorse e le reti sociali per evitare l’isolamento sociale (che molto spesso è alla base
di tutti questi fattori di rischio). Secondo Allan e Scheidt (2012) è proprio attraverso l’apporto
psicologico che si può definitivamente curare e prevenire le CHD, poiché non esiste nessuna
medicina in grado di curare, per esempio, lo sforzo lavorativo troppo intenso o l’isolamento sociale.
La direttrice più affascinate di studi è però quella che fa capo allo studio di Friedman e
Rosenmann.
L’analisi sistematica della relazione tra mente e cuore, come già detto, è cominciata alla fine degli
anni ’50, quando Meyer Friedman e Ray Rosenman, due cardiologi di San Francisco, scoprirono
l’esistenza di una complessa sequenza di comportamenti che denominarono Type A behavior
pattern (o TABP). Veniva quindi delineata una minima prova empirica dell’esistenza di un
collegamento tra le malattie cardiache e lo stile di vita, che diede un notevole impulso alle ricerche
future in psicocardiologia.
Il TABP (o Type A Behavior Pattern) è “ un complesso azione-emozione, che può essere
osservato in qualsiasi persona che è aggressivamente coinvolta” in un compito che prevede di
conquistare sempre di più in meno tempo, di solito spronati da confronti con prestazioni di altre
persone. “[…]Non è una psicosi, né un complesso di paure o fobie, ma una forma di conflitto
socialmente accettabile. Le persone che hanno questo pattern sono inclini a mostrare un’ostilità
altalenante ma straordinariamente razionalizzata” [Friedman & Rosenman, 1974]
Lo studio condotto da Rosenman [ Rosenman et al., 1975] è il primo esempio di ricerca su larga
scala, volta a mostrare la correlazione tra TABP e CHD. Gli sperimentatori suddivisero attraverso
un questionario i 3154 soggetti in due categorie: quelli classificati con Type A behavior e quelli con
Type B behavior (definito univocamente come assenza di pattern A). I risultati mostrarono, durante
un follow-up di 8 anni e mezzo, che i soggetti Type A avevano un’incidenza di CHD due volte
superiore (2.24 volte) rispetto ai soggetti classificati con Type B. Più recentemente Williams
[Williams et al, 1988] mostrò, in un gruppo di 2289 pazienti, che la correlazione TABP-CHD era
marcatamente positiva nei soggetti giovani (sotto i 45 anni di età).
Tuttavia non tutti gli studi condotti sino ad oggi sono riusciti a confermare la relazione tra pattern A
e malattie coronariche.
Dunque anche tratti di personalità possono influire negativamente sulla salute e in particolar modo
assai negativamente sul cuore. Interessante la spiegazione che Friedman tentò di dare chiamando
in causa la psicologia dinamica:
Andrea Cartta, Ricercato
ore Università L.U.de.S. Lugano
Fig. 2 [Frie
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16 (DS16)” [Denollet, 1998] sull’importanza dei tratti di personalità nell’insorgere di patologie
cardiologiche.
La tassonomia si basa su due tratti ampi e stabili, cioè quelli dell’affettività negativa e l’inibizione
sociale [Denollet, 1998]. In particolar modo l’affettività negativa denota la tendenza a esperire un
distress negativo rispetto al tempo (come per il TABP) e alle situazioni; mentre l’inibizione sociale
si riferisce alla consuetudine di “tenersi tutto dentro”, cioè di non esprimere questo distress nelle
interazioni sociali. Alti punteggi in entrambi i tratti danno origine alla personalità di tipo D. Secondo
Denollet (2000) Lespérance, Frasure-Smith (2012) i soggetti affetti da questo complesso tendono
ad essere impauriti, ad avere un visione pessimista della vita, a sentirsi spesso depressi, appaiono
irritati e meno coinvolti nel provare stati positivi d’umore. Nello stesso tempo, per effetto della
desiderabilità sociale, non esprimono i loro stati d’animo per paura di essere giudicati
negativamente o non accettati socialmente.
Il Type D può essere considerato un fattore cronico di rischio di ordine psicologico, poiché i
pazienti, se non trattati, continuano a mantenere il loro persistente pattern per la gestione delle
emozioni. In altre parole la personalità D aggiunge alla ricerca sulle CHD stress-related un plusvalore: il modo in cui i soggetti applicano il coping alle proprie emozioni è determinante tanto
quanto l’esperienza diretta di queste emozioni negative [Denollet, Sys, Stroobant, Rombouts,
Gillebert, Brutsaert; 2012].
Gli studi si sono concentrati, dal 2012 al 2000, sulla correlazione tra fattori di rischio psicologici
(stress, depressione, esaurimento), collegamento con la personalità di tipo D e quindi incidenza di
questi fattori sul cuore.
Il primo studio in assoluto venne svolto nel 1995 [Denollet, Sys, Brutsaert] con 105 soggetti. Il 73%
delle morti nel campione, occorse alle persone con alti punteggi di Type D. Questo portò ad una
serie di riflessioni: la personalità D era collegata ad un rischio di morte 6 volte maggiore rispetto al
gruppo di controllo (non-Type D); in più essa era collegata, attraverso fattori di rischio biologici (per
esempio è i soggetti TD tollerano male l’esercizio fisico) all’insorgere di infarti del miocardio.
I risultati preliminari furono confermati un anno
più tardi in uno studio su 303 pazienti con
CHD. Lo studio era una continuazione di
quello del 1995 e aggiunse solo maggiore
lunghezza del follow-up ed un campione più
rappresentativo. La mortalità, come si può
vedere dalla fig. 1, era più alta per i pazienti
con Type D (27% rispetto al 7%) e l’impatto dei
sintomi di fatica e esaurimento sembrarono
essere prevalenti in pazienti con questo
particolare
complesso
di
personalità
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Si è ormai radicata la convinzione che “le CHD, includendo i disordini circolatori, sono le classiche
malattie psicosomatiche del nostro secolo” [Jordan, Bardè; Zeither, 2003]. Da questa citazione si
evince l’importanza di proseguire con gli studi nel settore della psicologia cardiaca, anche perché,
oggi, al contrario dei secoli passati, non possiamo esimerci, per una comprensione completa di un
fenomeno, da una visione che comprenda gli aspetti psicologici, biologici e sociali. In particolar
modo è chiaro che l’aspetto di prevenzione psicologica giocherà un ruolo fondamentale nella
battaglia contro le malattie cardiache.
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