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Gerardo Milani Mario Pepe

D

A

A

FRODITE A

V

ENERE CAPITOLO 3 DA AFRODITE A VENERE La questione delle origini e il significato del nome. La transizione da dea italica a dea romana. Marte e Venere. Il processo di ellenizzazione: l’identificazione di Venere con Afrodite. Il culto della Venere

verticordia

. La Venere pompeiana. Le testimonianze letterarie: dalla commedia di Plauto al

Pervigilium Veneris

. La sintesi “disgiuntiva” di Valerio Flacco.

CAPITOLO 3 DA AFRODITE A VENERE La questione delle origini e il significato del nome. La transizione da dea italica a dea romana. Marte e Venere. Il processo di ellenizzazione: l’identificazione di Venere con Afrodite. Il culto della Venere

Pervigilium Veneris verticordia

. La sintesi “disgiuntiva” di Valerio Flacco. . La Venere pompeiana. Le testimonianze letterarie: dalla commedia di Plauto al

Il culto della dea

Venus

, divinità italica, preromana, è antichissimo, ma d’incerta datazione e d’oscuro significato, collegato forse con un demone della preghiera. E’ in ogni modo probabile che in origine si trattasse di una divinità agricola, propiziatrice, venerata, per quanto ne sappiamo, come dea della primavera e degli orti in due santuari del territorio laziale, uno nei pressi di Ardea, datato ad epoca anteriore alla fondazione di Roma, dove compare l’epiteto etrusco di una dea indigena, una sorta di Grande Madre locale,

Frutis

, poi chiamata Venere, e un altro, di epoca più tarda (VI-IV sec. a. C.), a Lavinio, nel quale il nome locale della divinità ci è però sconosciuto (ma qualcuno ha creduto di riconoscervi il santuario del

Frutinal

) e dove, secondo la leggenda di Enea in Etruria, si riteneva che fossero custodite le reliquie troiane. Secondo Robert Schilling, autore di un fondamentale saggio su Venere (1954), dovette compiersi proprio in questa città latina “aperta alle influenze etrusche per la sua immediata vicinanza ad Ardea, e aperta alle influenze siciliane per i suoi rapporti marittimi...la metamorfosi che fece del neutro

venus

una dea”. Restano tuttavia misteriose le circostanze che resero possibile tale processo. Sappiamo che in epoca medievale si celebrava una festa religiosa, il palio di Santa Marina, che era la continuazione di una festa pagana dei Rutuli di Ardea, dedicata alla suddetta

Frutis

o

Fruti

, vocabolo in rapporto forse con la parola latina di origine mediterranea

frutex,

“arbusto”, “albero”, “cespuglio” e con

fruticare

, “germogliare”, e da taluni considerato un’alterazione etrusca del nome di Afrodite. Sappiamo anche che questa dea locale venne identificata per l’appunto con l’Afrodite

pontía

(“marina”) che conosciamo come “dea del viaggio felice”, patrona della navigazione e ben nota nei porti del Mediterraneo, dove ancora oggi circolano imbarcazioni che portano il suo nome. Tito Livio nella sua

Storia dalla fondazione di Roma

(XXII, I, 19) racconta che, per esorcizzare strani prodigi verificatisi nel 217 a.C., fu deciso di portare sacrifici alla Venere di Ardea. Poiché la festa rutula era una festa equirria (corse dei cavalli con carri) il culto di Venere

Frutis

(

Veneri Matri, quae Frutis

78

dicitur

, come attesta lo scrittore latino Solino) doveva essere associato a quello di Marte, originariamente dio dell’agricoltura, fecondatore dei campi e protettore delle messi, come si evince dal

Carmen Lustrale

, in seguito nume tutelare dei rituali guerreschi (il rapporto tra le due funzioni costituisce per gli studiosi una

vexata quaestio

, ma è evidente che in una società di contadini-guerrieri la cura e la difesa dell’

ager Romanus

non possono non essere strettamente connesse). Padre di Romolo e dunque progenitore di Roma e dei Romani, Marte incarnò, in versione patriarcale, lo spirito che abita nella lancia. Figurazioni della dea compaiono su specchi etrusco-laziali del IV-III secolo a.C. e il suo nome (in latino arcaico

VENOS

, attestato per la prima volta in territorio italico) si legge in uno specchio di manifattura prenestina (Parigi, Louvre) databile alla seconda metà del secolo IV. Vi è raffigurata la dea che, addolorata, nasconde il viso in un lembo della veste, mentre ascolta da Giove il vaticinio della morte di Adone. Studiosi come l’etruscologo Massimo Pallottino, considerano

Venus

il nome latino della dea etrusca

Turan

(che dovrebbe derivare da una radice

tyr-

col significato di “signora”), protettrice degli amori e simbolo del desiderio sessuale, ma con uno spettro di funzioni che in origine doveva essere più ampio (si è parlato anche di una divinità guerriera). Il culto di questa dea, formatosi in rapporto a una primitiva religiosità mediterranea, venne associato, all’epoca dei contatti col mondo greco, con quello di Afrodite: lo provano, tra l’altro, leggende e figurazioni relative al mito di Afrodite e Adone (

Turan

e

Atunis

). L’assimilazione di Venere con

Turan

si sarebbe poi verificata nel periodo della dominazione etrusca su Roma e sul regno latino all’epoca dei Tarquini, tra il VII e il VI secolo a.C., in un’epoca in cui l’antropomorfismo greco, prima in ambiente etrusco e poi in quello romano, fa sentire i suoi effetti favorendo un lento e graduale processo di identificazione con il pantheon olimpico in sostituzione della religione romana più antica. In proposito Varrone Reatino ci riferisce che prima di Tarquinio Prisco per circa 170 anni (a partire dalla fondazione di Roma) i Romani avevano adorato i loro dèi in forma aniconica, senza dar loro un’immagine. L’origine del nome della madre di Enea rappresentava un problema già per gli antichi. Per Marco Terenzio

Varrone

(116-27 a. C.) non si tratta di un nome né latino né greco, non rintracciabile nei documenti più antichi. Nel V libro del

De lingua Latina

(61) suppone un collegamento con

vis

nel senso di “forza fisica” e

vincio

, “avvolgo”. Nel

De Re rustica

(I, 1), scritto a ottant’anni suonati, quando è tempo di “raccogliere le vele”, l’erudito latino contrappone agli dèi di città (

i cui dorati simulacri sorgono presso al Foro

) una lista di dèi di campagna. Ossia quelli che

sono principalmente la guida

79

degli agricoltori

: Giove e la madre Terra; il Sole e la Luna; Cerere e Libero; Ruggine e Flora; Minerva e Venere, l’una protettrice degli uliveti, l’altra degli orti; Linfa e il Buon Evento. Cicerone nel

De natura deorum

ci riferisce una vecchia opinione secondo cui

Venus

doveva derivare dal verbo

venire

e precisamente

a veniendo quia se facilem petentibus praebet

. Un’ipotesi abbandonata, avanzata dal filologo ottocentesco Adalbert Kuhn, istituiva una relazione col greco

óinos

, “vino”, dal tema mediterraneo

eno-

. Oggi, come s’è già accennato, si ritiene che

Venus

sia la personificazione, realizzatasi in circostanze ignote, di un antico sostantivo neutro (

venos

, “filtro amoroso”) derivato da una radice protoindoeuropea

wen-

che significa desiderio nel senso della concessione in genere e in quello dell’azione amorosa in particolare (Virgilio,

Eneide

, IV, 33; VI, 24; XI,736). Secondo Robert Schilling è in relazione con

venia

(“favore”, “grazia”),

venenum

(“incantesimo”, “sortilegio”, “bevanda nociva”, corrispondente al greco

phíltron

),

veneror

(“venero con timore religioso”, “adoro”, “supplico”). E’ dunque evidente nel nome il valore accattivante, tipicamente romano, della

benevolentia,

ma anche la presenza inquietante di una forza magica, misteriosa, in grado d’interagire con l’oltremondo e d’esercitare, come la greca Afrodite, un potere nel mondo degli incantesimi e dei filtri d’amore. È da notare, inoltre, la simmetria ambivalente con il verbo “amare”, derivato da una radice mediterranea sopravvissuta nel nome della divinità etrusca

Aminth

e che significa “puntura”. Da un punto di vista linguistico il genitivo arcaico

Venesis

(poi

Veneris

) è antecedente alla riforma fonetico-alfabetica attribuita ad Appio Claudio Cieco (IV sec. a. C:), consistente nella rotacizzazione dell’

s

intervocalico, ossia nella trasformazione dell’

s

in

r

tra due vocali. La penetrazione e la diffusione del culto di Venere nel mondo romano sono lente e difficili. Presente ai margini della società e riservata alle classi contadine nell’antica epoca repubblicana, la dea dell’amore (inteso come sessualità ed estraneo all’istituzione del matrimonio) è considerata una figura “caotica”, sovversiva nei confronti dei valori della romanità, legata al mondo degli istinti incontrollabili, incompatibile con quell’idea di purezza che i Latini chiamavano

pietas

. Forse per questo venne esclusa dal nucleo originario delle divinità arcaiche. Il suo nome compare comunque nel più antico calendario romano, risalente secondo la tradizione a Numa Pompilio e pubblicato da Gneo Flavio nel 305 a. C., il cosiddetto Calendario di Anzio, scoperto nel 1915, in vigore con varie modifiche fino alla riforma cesariana del 46 a.C., ed è menzionato due volte, nel mese di

Aprilis

(Venere

Erycina

) e in quello di

Sextilis

, corrispondente nel calendario cesariano ad agosto. Per una regola religiosa di origine etrusca, come c’informa Vitruvio, era d’obbligo collocare i santuari di Venere, Marte, 80

Vulcano e Cerere fuori della cinta urbana, oltre il

pomerium

, in quanto divinità straniere. La ragione indicata per Venere è facilmente intuibile: “le passioni suscitate dalla dea – scrive Vitruvio – devono essere tenute lontane dagli adolescenti e dalle madri di famiglia” (

De architectura

, 1, 7, 1). In un certo senso, per il suo livello implicito di pericolosità sociale, si potrebbe dire, essa si configura inizialmente come un portato della modernità (proveniente dal tempo delle origini) in cui la “speranza del paradiso”, l’aspettativa di un mondo migliore, si confonde con l’inferno della vita quotidiana, attraversata da bisogni ed esigenze immaginative e irrazionali che i culti ufficiali, nell’arcaica società romana, non sono in grado di soddisfare e che piuttosto respingono o condannano, così come accadde, ad esempio, per il culto di Bacco che, introdotto a Roma da una donna campana, venne punito con la pena di morte. Solo dopo la conquista dell’Italia e i primi contatti con le genti mediterranee, la sensazione di pericolo che Venere rappresenta per l’identità romana e l’ordine costituito comincia ad attenuarsi. L’universo religioso, che in origine riguardava soprattutto l’agricoltura e la vita familiare, si arricchisce di figure divine, di miti e di riti stranieri e le “qualità” di

Venus

(forse un

numen

, ossia una “potenza divina” di tipo astratto, divinità allegorica come la

Pudicitia Plebeia

o come il

Pavor

e il

Timor

, compagni di Marte) s’impersonano in una divinità antropomorfa benevola, generosa, aperta all’inclinazione umana verso la “venerazione” della bellezza e comprensiva nei confronti dell’istinto naturale portato a esaltare i piaceri della sessualità e i valori della fertilità. Si costituisce così, nell’arcaico pantheon latino, il modello archetipo di una Venere “conciliatrice” (l’epiteto è documentato a Fossanova in Abruzzo, presso l’abbazia di s. Giovanni in Venere) che svolge un ruolo emancipatorio e compensativo e che tende gradualmente a corrispondere alla sensibilità religiosa dei Romani, contraddistinta da un’intima esigenza di partecipazione alla vita segreta della natura. Accanto al nome proprio della dea si affermano il sostantivo eponimo (originariamente di genere neutro, poi divenuto femminile)

venus

, che indica attrazione e può significare “bellezza”, “grazia”, “leggiadria” (affine a

pulchritudo

), e la nozione parallela di

venustas

: quest’ultima ha significati analoghi a quelli di

venus

, ed è stata utilizzata concettualmente e criticamente da scrittori d’arte come Plinio il Vecchio, Vitruvio, Isidoro di Siviglia, nel senso di

suavitas

, di bellezza congiunta alla grazia, all’eleganza, all’ornamento misurato, mentre

species venusta

(in greco

epaphróditos

) è la bellezza visibile, di aspetto ben ritmato, che attrae lo sguardo. È possibile, come s’è già accennato, che il sostantivo di genere neutro, che è un genere “esitante”, sia divenuto femminile per il fatto che il concetto che esso esprimeva venne personificato e divinizzato in modo da corrispondere alla greca Afrodite. Analogamente il sostantivo

cupido

(il 81

desiderio fisico) divenne un nome proprio per essere posto in relazione con Eros. È certo che il processo di ellenizzazione comporta un ampliamento da una sfera strettamente funzionale all’agricoltura (Venere dea delle vigne e degli orti, che sono – come ci dice Plinio ( XIX, 52) – “i campi della gente modesta”, protettrice degli erbivendoli, affine a Flora e a Pomona) a una dimensione estetica che include l’idea greca della bellezza come appagamento fisico e spirituale e che è contigua alla nozione di

charis

, intesa come grazia, virtù, amabilità e, in genere, come insieme di qualità che rendono l’uomo “simpatico” ai suoi simili. La più antica e sicura testimonianza del culto romano è costituita dal tempio fatto elevare nel 295 a. C. presso il Circo Massimo da Fabio Gurge con il ricavato delle imposte fatte pagare alle donne adultere, dedicato a

Venus obsequens

, ossia “rispettosa” e “propiziatrice”, nel senso che “accompagna” i Romani, vincitori nell’epoca dello scontro durissimo con i Sanniti e nell’anno della grande vittoria romana presso Sentino. È leggendaria invece la notizia di un culto a Roma sotto Anco Marzio (640-616 a. C.) di una

Venus Calva

, cui sembra però che agli inizi del secolo IV fosse stata eretta una statua: la

Calva

(proposta anche la derivazione dal verbo

calvor

, “inganno”, “raggiro”) avrebbe celebrato il sacrificio delle donne romane che durante l’assedio dei Galli si tagliarono i capelli per realizzare delle funi e farne cavi di macchine da guerra. Nel 248 a. C. il console romano L. Giunio occupa il famoso santuario siciliano del monte S. Giuliano nei pressi di Erice (nel mito figlio di Afrodite e di Bute, uno degli Argonauti ammaliato dalle sirene e finito in mare, salvato dalla dea che se ne innamorò) e nel 217 a.C. viene introdotto a Roma il culto di

Venus Erycina

, ufficialmente collegato alla leggenda della vittoria contro Turno, elargita da Giove ad Enea, e ben conosciuto ai soldati romani impegnati in Sicilia nella lunga guerriglia contro i mercenari cartaginesi di Amilcare Barca. Con questo culto della montagna, noto anche in Africa presso i Cartaginesi e in Sardegna, si compie l’identificazione definitiva di Venere con Afrodite, già venerata con lo stesso appellativo presso il santuario, dove la dea greca, contornata sulle monete dell’epoca da spighe di grano e colombe, era stata a sua volta associata a

Tanit

, che abbiamo ricordato come divinità punica della fertilità. La tradizione attribuisce la fondazione del santuario agli Elimi, antichissima popolazione locale di origine non accertata, hittita o italica, che si considerava discendente da emigrati troiani. Il rito della prostituzione sacra venne soppresso dai Romani, pur con qualche difficoltà (

n. 1

), e sostituito dalla festa del vino (

Vinalia

), celebrata il 23 aprile (e replicata il 29 agosto e l’11 ottobre nei

Vinalia rustica

e nei

Meditrinalia

) in cui, tra l’altro, si assaggiava il vino nuovo e se ne faceva offerta a Giove, patrono della festa, in memoria della vittoria 82

elargita dal dio ad Enea. Il culto di Giove col tempo venne soppiantato dal culto di Venere, accompagnato da divertimenti popolari. Poco dopo, nel 215 a. C., Q. Fabio Massimo fa erigere un tempio sul Campidoglio dove Venere

Erycina

, già dea degli erbivendoli addetta ai legumi, alle viti e agli orti, è accolta e legittimata con l’appellativo di

victrix

accanto a Marte: nuda, col giavellotto in mano, assicura ai Romani il vittorioso esito delle campagne militari. Sulle monete romane appare insignita di diadema e corona di lauro o raffigurata come una Vittoria con palma e corona su una quadriga al galoppo o in piedi in atto di avanzare con un trofeo. Solo in epoca imperiale le sarà concesso il titolo istituzionale di

capitolina

. Intanto, nel 184 a. C. il console L. Porcio Licino dedica un secondo tempio a Venere

Erycina

fuori le mura della città, vicino alla Porta Collina. Ovidio ci riferisce che in questo tempio le giovani spose eseguivano il rito della

lavatio

della statua della dea. Nel III secolo il processo d’ellenizzazione in atto si consolida, ma la sua entità è variabile: per convergenza evolutiva Venere riceve le sue energie da Afrodite, ma la sua identità sul terreno, nei diversi luoghi del culto, non è mai uguale, e così se sul Campidoglio è completamente romanizzata, altrove, in Sicilia o in Campania, per effetto di un tradizionalismo religioso, prevale il suo collegamento con gli dèi e sopratutto le dee arcaiche ( Proserpina, Cerere, Libero, Silvano) della natura e della fecondità oppure è adorata come dea patrona della navigazione: un tempio di Venere coronata di alloro, ad esempio, dominava la città e il porto di Ancona, dove il culto venne portato da coloni Corinzi. Bisogna anche aggiungere che, in generale, l’influenza greca (insieme con quella dei culti orientali e dell’orfismo) non riuscì mai a cancellare completamente i caratteri originali della religione romana - che a sua volta aveva già subìto l’impronta della religione etrusca - specie per quel che riguarda la funzione dei sacerdozi, lo stretto rapporto tra religione e politica e le complesse e oscure interrelazioni tra il mondo umano e la sfera del soprannaturale. In ogni caso il successo di Venere è enorme, anche tra le matrone delle classi alte, che si compiacciono di farsi ammirare come ellenistiche Veneri, mentre i coniugi altolocati rivolgono la loro attenzione a Marte e Venere, ossia alla coppia classica per eccellenza. In un dipinto di Ezione (

Aetíon

), artista greco celebre nel suo tempo (IV sec. a.C.), troviamo rappresentate (copia romana a Pompei, Antiquarium) le

Nozze di Alessandro e Statira raffigurati quali Ares e Afrodite

: senza alcuna distinzione, il ruolo pubblico e privato delle due divinità nel mondo antico assume una straordinaria rilevanza. Intanto si estende l’assimilazione di Venere alle divinità locali, a cui essa “offre” nome e identità e da cui riceve una “qualità”, un connotato particolare. Si tratta di un successo che è parallelo 83

alla diffusione nel mondo romano (per effetto della conoscenza dei poemi omerici) della leggenda del

pius

Enea, il figlio di Afrodite e Anchise, accompagnato nelle sue peregrinazioni dal “favore” degli dèi, fusa con quella locale del fondatore Romolo: una leggenda che consentì ai Romani, sotto la protezione di Venere, di costruirsi, rispetto ai popoli italici, un “altrove” e una storia “diversa”. Ricordiamo alcuni significativi esempi di contaminazione di Venere con antiche divinità italiche e romane locali, destinate a scivolare nel ruolo di epiteti o appellativi.

Venus Salacia

: in questo caso l’accostamento con

Salacia

si riferisce ad un’antica divinità marina il cui nome deriva da

salum

con il significato originario di “onda”. A Preneste venne associata alla dea

Fortuna

. Il culto di

Venus Cupra

traeva invece origine da quello della dea

Cupra

, venerata dall’antica popolazione dei Piceni e collegata a riti d’iniziazione femminile ai misteri lunari. In un tempio romano situato ai piedi dell’Aventino era venerata

Murcia

, nome di significato non certo, non attribuibile con sicurezza a una divinità, riferito da alcuni a

mulceo

(“accarezzo”, “consolo”), da altri inteso come “dea della pigrizia” (da

murcidus

, “debole”) e più tardi assimilato, secondo la testimonianza di Varrone, a Venere

Myrtea

, dea del mirto (lat.

myrtus

o

murtus

), pianta purificatrice e simbolo del congiungimento amoroso, della quale esisteva un altare presso il Quirinale. Sul percorso della

Cloaca Maxima

, nella parte nord-orientale del Foro, si trovava il tempio di Venere

Cluacina

(da

cluere

, “purificare”), eretto secondo la leggenda in memoria della riconciliazione tra Romani e Sabini che vollero purificarsi con rami di mirto, dopo il ratto delle Sabine, in un luogo in cui si trovavano le immagini della dea. Sembra che questo culto si sia innestato su quello della dea

Cloacina

, dea protettrice delle cloache e dunque purificatrice delle case e dei pubblici luoghi urbani. Il tempio della

Cloacina

, il cui nome era, in effetti, connesso con la

Cloaca

(Plinio, XV, 119), è ricordato anche da Tito Livio nel terzo libro delle sue

Storie

, dove si racconta l’episodio in cui Virginio trascina la propria figlia davanti al tempio e l’uccide trapassandole il petto con un coltello (III, 38). È stato giustamente osservato che in questo caso la sovrapposizione dei due culti venne facilitata dalla similarità fonica dei due epiteti. All’epoca delle guerre sannitiche (IV-III sec. a. C.) risale probabilmente l’assimilazione con

Postverta

, “dea del parto rivoltato”, ossia dei parti difficili, una divinità intesa anche come personificazione della “predizione dell’avvenire”.

In un bosco sacro dell’Esquilino era poi celebrato il culto arcaico di

Libitina

, la dea dei funerali, che sembra avere un riscontro con una divinità coi serpenti raffigurata su una placca proveniente da una tomba di Cere e identificata con Turan, equivalente etrusca di Afrodite/Venere. Nel tempio di

Libitina

si prestava il servizio funebre e si teneva il registro dei 84

morti. Venere

Libitina

(da non confondere, per quanto consta, con

Lubentina

o

Libentina

, epiteto della dea riferito al piacere sessuale, attestato da Varrone, che peraltro accosta i due termini, e da Cicerone) diventa così, come Afrodite, signora dei vivi e dei morti, sui quali esercita la sua benevolenza. Sembra così inverarsi l’archetipo freudiano della Madre nella sua doppia figurazione di Sposa e Morte, la madre-terra che accoglie l’uomo nel suo morire. L’etimologia accattivante ( da

libet

, “piace”, sempre che sia corretta, supposta anche la derivazione dall’etrusco

lupu

, “sepolcro”) suscita certamente qualche stupore, ma non bisogna dimenticare che nella coscienza degli antichi permane un dualismo insanabile che rende incerti i confini tra il bene e il male, tra il divino e l’umano. La morte non è annullamento totale: è un viaggio (un “tuffo”) che prolunga la vita, come dice Omero, in un “tristissimo luogo”, in un limbo sospeso tra l’oscurità e la luce. Per accedervi, come ricorda lo storico John Scheid (1988), era importante essere correttamente sepolti: “La religione romana non offriva alcun insegnamento sulla morte e l’aldilà. I rituali funebri esponevano implicitamente un’indistinta sopravvivenza dei defunti, ma era in fondo una sorte poco invidiabile… Dalle iscrizioni funerarie ci si rende conto che i Romani avevano in realtà diverse opinioni e credenze riguardanti l’aldilà, e che esse coesistevano, nella loro varietà, tutte insieme. Alcuni non credevano nell’aldilà, altri esprimevano idee filosofiche, e queste credenze erano espresse sulla stele”. Sono così attestate iscrizioni che consacrano molte defunte sotto il nome di Venere e sappiamo, per esempio, da un’iscrizione di Ostia, che i genitori di Arria Maximina avevano eretto una statua sepolcrale di Venere in memoria della figlia morta all’età di quasi 16 anni. La divinità, in questo caso, sembra offrire in qualche modo, sotto la sua ala protettrice, un’alternativa originale e rasserenante alla contraddizione implicita nel politeismo pagano, nel quale, come si è visto, confluiscono culture primitive, antico-mediterranee e orientali, che appartengono a mondi strutturalmente diversi: da una parte la volontà razionale di distinguere, di separare la vita dalla morte, l’uomo da dio, la condizione mortale dall’immortalità, dall’altra l’esigenza profonda, ancestrale (ben evidente nei miti di morte e metamorfosi vegetale) di riconoscere la vita e la morte come momenti dialettici della perenne continuità dell’esistere delle cose. Del resto, il ruolo esercitato da Venere nel mondo dei morti trova un riscontro, come s’è visto, in Afrodite. A Delfi, ci racconta Plutarco, presso la statua di Afrodite

epitymbía

si recavano i morti a celebrare il rito funebre delle libagioni. Su una placca proveniente da una camera mortuaria di Cere, in Etruria, è raffigurata una “dea con serpenti” identificata con Turan, la “signora”, equivalente etrusca di Afrodite.

Alla dea purificatrice e “angelo” consolatorio, dotata dello straordinario potere di guidare le 85

anime nell’oltretomba, si accosta poi il culto della Venere

verticordia

, cioè di “colei che volge il cuore”, che allontana le giovani dalle passioni scostumate e serba nel cuore la

pudicitia

, valore custodito con intransigenza nella tradizione romana. Questo culto (v. p. 184), praticato in un tempio edificato a Roma nel 114 a. C. per espiare l’incesto commesso da tre vestali (

n. 2

), richiama quello coltivato in Grecia, a Tebe, di Afrodite

apostrophía

, “che allontana il male” (Pausania,

Per.

, IX, 16, 3-4). Plutarco in un trattatello

Sulla Fortuna dei Romani

(323a) ricorda che a Roma vicino al tempio della Fortuna virile esisteva l’altare di “Venere del canestro” (in greco

Aphrodíte epitalários

), ossia di una Venere “madre” connessa a un antichissimo culto precerealicolo simbolicamente rappresentato da una cesta di vimini usata dai pastori per coagulare il latte, un culto che probabilmente in seguito venne assimilato al culto della “voltatrice di cuori”. Il I secolo a.C. è il secolo della grande svolta, dell’ascesa di Venere (identificata

tout court

con la greca Afrodite) al ruolo di star internazionale nel firmamento degli dèi che popolano la civiltà ellenistico-romana. Da dea

peregrina

e dea degli umili a dea dei potenti, dalla campagna alla città. Siamo nell’epoca in cui il mondo divino arcaico subisce profondi sconvolgimenti e le istituzioni repubblicane sono in declino e Venere, già padrona del cuore dei devoti, in concomitanza con un processo in atto d’emancipazione femminile, assume una funzione politica, si fa “garante”, com’è stato detto, del sovvertimento dei valori e con l’appellativo di

Concordia

si pone a fondamento dei nuovi rapporti sociali. Il primo a servirsi in modo strumentale e arbitrario di Venere per esaltare e consolidare il proprio potere fu il dissoluto e feroce Silla: nell’86 a. C., conquistata Atene, fece coniare monete d’oro recanti sul dritto una testa di Venere con diadema, sotto la quale è il suo nome. In alcune è raffigurato dormiente: la dea gli appare in sogno, mentre la Vittoria (Nike) illumina la scena con una torcia. A lui, introduttore in Roma del culto della dea

Mâ,

frutto del sincretismo tra la latina

Bellona

e la dea anatolica

, ossia la “Madre”, si deve anche l’associazione di Venere con la dea

Fortuna

(antica divinità, nume tutelare di Servio Tullio) e l’introduzione del culto della

Venus felix

, apportatrice nella società romana della

Felicitas

. Il dittatore si proclamò

felix

e si aggiunse il soprannome di

epaphróditos

, che non vuol dire solo “piacevole” o “fortunato”, ma anche “favorito di Venere”, un appellativo riferito usualmente al gioco degli astràgali (un gioco simile a quello dei dadi nel quale

Venus

era detta la combinazione vincente)

,

con un significato analogo al latino

faustus

. È singolare e davvero interessante che il successo di Venere sia così profondamente legato a un cinico avventuriero la cui configurazione appare “paradossale”, nel senso che nella sua controversa personalità, come ha 86

recentemente dimostrato Laura Carrara (2004), convergono per la prima volta in assoluto, nella storia della romanità, tendenze oppositive, grandi qualità intellettuali, politiche e militari e istinti criminali. Del resto sono anni in cui la dea, solitamente soccorrevole e benevola verso i supplicanti, assume una connotazione decisamente bellicosa. Cambiano i tempi e gli dèi si adeguano. A Minerva, vissuta a Roma come dea pacifica protettrice delle arti e delle scienze, Pompeo, reduce dai trionfi in Oriente, innalza un tempio nel campo Marzio (61 a. c.) e un altro ne fa edificare Ottaviano Augusto dopo la battaglia di Azio. Nella

Vita di Lucullo

(12, 1) Plutarco racconta che Venere apparve in sogno al generale romano per incitarlo a sterminare i nemici. Più tardi, nel 55 a.C., sarà Pompeo, al ritorno dalla guerra contro Mitridate, a consacrarle a Roma un tempio come

victrix

. Seguirà il divo Cesare, il quale, seguendo le orme di Scipione l’Africano (che pretendeva di intrattenersi in privato con suo padre Giove Capitolino) proclamerà, attraverso la favola di Enea, la discendenza divina della sua

gens

, la

gens Iulia

, per poi istituire il culto della

Venus genetrix

, “madre genitrice”, alla quale volle dedicare nel 48 a. C., alla vigilia della battaglia di Farsalo, un grandioso tempio di marmo e d’oro nel Foro: all’interno della cella era la statua della dea, opera dello scultore greco Arkesilaos (

n. 3

). Fu così che, a partire da Cesare, proclamato in un’iscrizione di Efeso “dio visibile, figlio di Ares e Afrodite”, la divinizzazione dei membri della famiglia Giulio-Claudia condusse alla rappresentazione in sculture e monete, in veste di Veneri, delle autorevoli donne che ne facevano parte: Livia Drusilla, Giulia figlia di Augusto, Agrippina. Marziale ci descrive una statua di Giulia, figlia di Tito, paragonandola al cesello di Fidia. Sabina, moglie di Marco Aurelio, si mostra nel Museo Ostiense (Ostia antica) nella trasparente veste di

Venus genetrix

. Nel I secolo d.C., quando l’impero è al suo apogeo, Venere diventa il segno, al femminile, della potenza romana. A un poeta, Virgilio, spetta il compito di spendere la sua figura materna e clemente come antidoto alla

inclementia divum

(

Eneide

, II, 602). Nel 65 d.C. Nerone, dopo aver ucciso con un calcio la moglie Poppea, per onorarla innalza un tempio dedicato a

Sabina Venus

, nella cui iscrizione era scritto che il tempio era stato costruito dalle donne di Roma. Dopo la distruzione di Gerusalemme, nel 70 d.C., viene edificata sullo stesso luogo una nuova città, Elia Capitolina. Dove sorgeva l’antico Tempio viene eretto un tempio a Giove Capitolino e una statua di Venere Astarte viene innalzata sul Calvario. Agli inizi del III secolo d.C. Eliogabalo, l’imperatore folle, sacerdote del Sole, si proclama

Magna Mater

e assume indifferentemente le vesti di Dioniso e di Venere. Nell’era cristiana il culto, quasi a sottolineare una complice contiguità, prosegue in quello di Santa Venere, diffuso in Italia centro- meridionale. 87

Per comprendere le ragioni della massima compatibilità del sincretismo religioso greco e romano si può leggere quanto afferma Cicerone nel

De divinatione

, dove accanto alla “fede” romana si fa spazio l’interpretazione filosofica: “Il saggio deve mantenere le usanze degli avi per l’osservanza dei culti e dei riti. La bellezza del mondo e l’ordine dei corpi celesti ci obbligano a riconoscere che esiste un essere eterno che l’uomo deve onorare ed ammirare”. Cicerone non cita Venere, ma chi altri se non lei è lo specchio, appunto, della “bellezza del mondo”? In definitiva nel pantheon universale tutte le dee, essendo divinità polivalenti, da Cibele a Proserpina, da Minerva a Diana, da Venere a Cerere, alla stessa Giunone/Hera, sono associabili e interscambiabili. Il carattere compositivo e conciliativo del politeismo è la manifestazione “geniale” di una tipica forma di relativismo religioso proprio della civiltà ellenistica, ne garantisce l’internazionalità e ne connota il cosmopolitismo. Alla conclusione delle

Metamorfosi

di Apuleio ( II sec. d.C.) la regina Iside, la dea egizia sposa, madre e guida dei defunti, si presenta a Lucio, trasformato in asino, e gli dice: eccomi, sono io l’unica potenza, “l’archetipo immutabile degli dèi e delle dee”, colei che è adorata su tutta la terra sotto multiformi aspetti e con innumerevoli nomi. E subito dopo, nell’incredibile mercato degli dèi, enumera dieci titoli (dieci “specializzazioni”) sotto i quali è onorata in dieci diversi paesi: I Frigi, primi abitatori della terra, mi chiamano la Pessinunzia madre degli dèi; gli Attici autoctoni, Minerva Cecropia; gli isolani Ciprioti, Venere Pafia; i Cretesi, famosi arcieri, Diana Dictinna; i Siculi trilingui, Proserpina Stigia; gli Antichi Eleusini, Cerere Attica; altri mi chiamano Giunone, altri Bellona, e chi Ecate, e chi Ramnusia; e infine i popoli che il sole nascente rischiara coi suoi primi raggi, cioè entrambi gli Etiopi e gli Egizi, d’antica sapienza, solo questi mi onorano con le cerimonie che mi son proprie e mi chiamano con il mio vero nome di Iside regina. (XI,5, trad. M. Cavalli) Anche Luciano di Samosata (II sec. d. C:) commentando nella “Dea di Siria” (

De dea Syria

, 32) gli svariati attributi della Grande Madre Atargatis afferma: “Nell’insieme ella è Hera, ma ha qualcosa degli attributi di Athena, di Afrodite, di Selene, di Rea, di Artemide, di Nemesi e delle Moire”. In questo caso, per uno scrittore intriso di cultura filosofica come Luciano, le singole figure riaffluiscono, a livello speculativo, nella rappresentazione unificata del mito originario, il mito della Grande Madre, solitamente predisposto a scindersi e disperdersi in differenti epifanie. Un caso esemplare di politeismo sovrano, “dinasticodipartimentale” (nel senso che le varie divinità sono connesse tra di loro da legami di affinità e di parentela), aperto alla tolleranza e alla novità, è costituito da Pompei, oggi sede di un celebre santuario mariano. In questa città campana, ove si stabilì nella prima metà del I secolo a. C. una florida colonia dei seguaci di Silla (

Colonia Veneria Cornelia

), Venere, alla quale venne dedicato un tempio nei pressi di Porta Marina, divenne la divinità protettrice 88

dei traffici commerciali, il nume cosmico tutelare, una Venere

Fisica

(dal nome, a quanto sembra, di una divinità locale) che è il corrispettivo di Afrodite

sýntrophos

e dell’

alma mater

celebrata dall’epicureo Lucrezio. L’epiteto è stato anche posto in relazione con il greco

physiké

e con l’italico

futrix

. Il culto, officiato da un’unica sacerdotessa, veniva accostato a quello di Cerere, dea delle messi e protettrice dei defunti (identificata con la greca Demetra), e di Libero (nome italico di Bacco). È evidente l’attaccamento dei Pompeiani agli dèi della natura e della fecondità, ma ciò non esclude la presenza contemporanea di altri culti e così, accanto alla triade di Ercole (fondatore della città), Libero e Venere, troviamo anche quella “istituzionale” di Giove, Giunone e Minerva e poi ancora quella isiaca di Iside, Serapide e Anubi (

n. 4)

. Recenti scavi (2004) condotti sotto il tempio della Venere sillana dall’archeologo Emmanuele Curti hanno portato alla scoperta dei resti di un tempio d’epoca sannitica (Pompei, prima di essere conquistata dai Romani, subì il dominio dei Sanniti a partire dal 425 a.C.), dedicato forse a una divinità sotterranea femminile, Mefite (

Mephitis

), in grado di difendere dalle esalazioni pestilenziali della terra e dunque protettrice del bestiame e delle acque. Numerosi i reperti rinvenuti in due cisterne, tra cui terrecotte votive, monete, ossa di provenienza non ancora identificata, e blocchetti di porpora usata dalle giovinette per truccarsi, da porsi in relazione con il rito della prostituzione sacra. In un vaso rinvenuto a Pompei, d’epoca repubblicana, troviamo la seguente iscrizione:

Presta mi sinceru(m), sic te amet que custodit ortu(m) Venus

(

Corpus inscriptionum latinarum

, IV, 2776). Il documento epigrafico – il più antico che ci sia pervenuto – dovrebbe avere il seguente significato: “Versami vino puro; che sia caro a Venere protettrice dei giardini”. L’accostamento con il vino, “fonte di ebbrezza” (

seminarium hilaritatis

, come dice Varrone) riconduce all’ipotesi di Adalbert Kuhn, che abbiamo già ricordato. A Pompei la dea s’incanaglisce aggirandosi per le taverne e i lupanari della città, dove l’oggetto del desiderio è raffigurato sui muri delle case e delle botteghe da umili pittori popolari. L’ultimo evento che suggella il connubio di Venere e Roma è la costruzione del

templum Urbis aeternae

nei pressi del Foro, fra la basilica di Massenzio e la valle del Colosseo, innalzato su un podio di 145 per 100 metri di lato. L’edificazione (135 d.C.), voluta dall’imperatore Adriano (

n. 5

), è accompagnata da un cruento fatto di cronaca che ci è narrato da Dione Cassio nella sua

Storia romana

(4.1-5). Si noti la modalità magica del rapporto che gli antichi istituivano con le statue di culto, rappresentazioni del soprannaturale,

effigies

sacre quanto la divinità stessa. Porfirio, filosofo neoplatonico, soleva dire che solo gli ignoranti considerano le statue pezzi di legno o di pietra: 89

Adriano dapprima mandò in esilio poi condannò a morte l’architetto Apollodoro – che a Roma aveva realizzato i vari complessi monumentali di Traiano: il foro, l’odéon, il ginnasio – senza alcun motivo apparente, ma in realtà perché una volta, mentre Traiano discuteva con lui di qualcuno di quegli edifici, egli rimbeccò Adriano, che li aveva interrotti con alcune osservazioni, dicendogli «va’ a dipingere zucche, giacché non capisci nulla di queste cose» (è possibile che a quel tempo Adriano si vantasse di questo genere di pittura). Divenuto imperatore, Adriano si ricordò dell’antica ingiuria e non tollerò più la libertà di parola di Apollodoro. Gli inviò il disegno del tempio di Venere e Roma, in modo da dimostrargli che si poteva realizzare una grande opera anche senza di lui, e gli chiese se il progetto fosse soddisfacente. L’architetto rispose in primo luogo che il tempio avrebbe dovuto essere costruito in alto e il terreno al di sotto avrebbe dovuto essere scavato, affinché, trovandosi in posizione elevata l’edificio presentasse un prospetto più imponente sulla Sacra via, e all’interno del basamento si potessero collocare macchine che, predisposte là di nascosto, potessero poi essere introdotte improvvisamente nell’anfiteatro [Colosseo]; quanto alle statue, affermò che erano state progettate troppo alte in rapporto alle dimensioni della cella: «infatti» disse «se le dee volessero alzarsi e uscire, non potrebbero farlo». A questa risposta così franca, l’imperatore si sdegnò e provò un gran dispiacere, poiché era caduto in un errore che non poteva più correggere, e non sapendo più contenere né l’ira né il dispiacere, mise a morte l’architetto. (trad. M.L. Gualandi). Se nel tardo Impero Venere, da una parte, tende ad assumere i contorni “primitivi”di una

dea pedissequa

della

Magna Mater

, dall’altra essa conserva, intatto nel tempo, il suo legame personale con Roma. Nel 307 Massenzio (l’antagonista di Costantino) rinnova il suo culto nel tempio di Venere ed è probabile che ad una statua di questo tempio dedicato alla madre di Enea s’ispiri il severo affresco con Venere seduta (la cosiddetta “dea Barberini”, in quanto originariamente custodita nella collezione dell’omonimo Palazzo) proveniente da un ambiente scavato nel XVII secolo presso il Battistero di s. Giovanni in Laterano (Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme). La figura femminile è assisa in trono, adorna di ricchi gioelli, e sostiene sulla mano destra una Vittoria alata, di sillana memoria, sulla spalla destra ha una Psiche e sulla sinistra forse un Eros. Associata alla dea Roma, essa è stata integrata da un restauro secentesco con l’aggiunta della parte superiore della testa con elmo. Massenzio soccombe, ma Venere sopravvive e gli uomini del Medioevo non cesseranno di credere nella continuità dell’Impero romano. Col processo di ellenizzazione avviato nel corso del III secolo a. C. si compie la definitiva assimilazione degli dèi romani agli dèi greci (

n. 6

). Il tarentino

Livio Andronico

, considerato iniziatore della letteratura latina, traduce in versi saturni l’

Odissea

e scrive tragedie ispirate al ciclo troiano. La circolazione della leggenda di Enea nel mondo latino è rappresentata poco più tardi nel

Bellum Poenicum

di

Nevio

. Siamo negli ultimi decenni del secolo e Nevio è l’iniziatore dell’epica storica latina, l’autore che, prima di Ennio e Virgilio, ci racconta in un testo letterario l’arrivo di Enea da Troia in Italia. Nel contesto romano la dea greca della voluttà assume, come sappiamo, il ruolo prevalente di madre, un ruolo che nella tradizione romana esalta la centralità della famiglia come nucleo di trasmissione delle virtù civili tramandate di padre in figlio. Del poema ci restano alcuni frammenti, uno dei quali contiene un lamento di Venere dinanzi a Giove. E’ certamente presente la figura della dea 90

nelle opere drammatiche del

pater

Ennio

, un autore che, sulla scorta di Euripide, dimostra di prediligere i personaggi femminili e che è influenzato, per la sua formazione culturale in ambiente osco-greco, dalla concezione pitagorica circa la natura “fisica” degli dèi: “penso che esistano – afferma – ma non credo che si occupino delle cose degli uomini”. Alcuni riferimenti si colgono nei frammenti del primo libro del suo poema epico, gli

Annales

(185-170 ca. a. C.), dove

Venus

è invocata come “genitrice del padre nostro e cognata” (28). In un altro frammento (444-445) è inclusa,

pulcherrima divum

, in un elenco canonico di dodici divinità:

Iuno Vesta Minerva Ceres Diana Venus Mars Mercurius Iovis Neptunus Volcanus Apollo

. In un passo di un’opera minore, intitolata

Euhemerus,

ispirata alla tesi dello scrittore greco Evèmero da Messene (IV - III sec. a. C.) circa l’origine umana degli dèi, Venere è dichiarata fondatrice dell’arte del meretricio (v. p. 108). Prima e oltre le interpretazioni filosofiche o le stesse trasfigurazioni poetiche interessa subito sottolineare, partendo da una commedia di

Plauto

, il carattere intimo, familiare, la presenza costante e invadente della dea (una presenza rassicurante e certamente consolatoria, come già abbiamo detto) nella vita quotidiana dei ceti popolari. Da una traduzione rielaborata di Temistocle Gradi, leggiamo in un passo del

Rudens

(“La gòmena”, ca. 200 a.C.), un dialogo tra due giovinette, Palestra e la sua ancella Ampelisca scampate alla tempesta, e Ptolemocratia, una sacerdotessa del tempio di Venere. È interessante l’espressione

Bonam atque obsequentem deam

, che potrebbe ipotizzare un collegamento con la

Bona Dea

, ossia colei che facilita e favorisce, complessa divinità “selvaggia” (come

Anna Perenna

o la

Mater Matuta

, la

Magna Mater

latina erede di culti femminili antecedenti l’invasione dei popoli indoeuropei, o

Moneta

, successivamente identificata con Giunone) della religione arcaica romana, esclusivamente riservata alle donne, sopravvivenza di una religiosità primitiva praticata nei villaggi e negli insediamenti semistabili. Certo è che Venere appare come una dea temuta e rispettata, ma in definitiva indulgente, giusta, in grado di proteggere vittime innocenti - si tratta, non a caso, di donne - da azioni scellerate. È indispensabile accostarsi a lei in una condizione materiale di purità, una condizione che lascia trasparire la remota persistenza di un rapporto con la natura profondamente simpatetico e vissuto nell’intimità di tutti i sensi: Ptol. Ho sentito qualcuno che pregava, e perciò sono uscita. Chi si raccomanda alla mia Signora? Costui invoca una Dea buona, generosa, che volentieri concede a chiunque e con benevola intenzione la sua protezione. Pal. Ti salutiamo, o madre. Ptol. Ben trovate, giovinette. Ma, ditemi, da dove venite con coteste vesti tutte molli e in così meschino arnese? Pal. Ora veniamo di poco lontano, ma da qui al luogo da cui siamo state portate, ce n’è di molto. Sac. Vuol dire che siete venute per mare eh? Pal. Appunto. 91

Ptol. Era però più conveniente che foste venute vestite di bianco e con le offerte: come siete conciate non è solito venir nessuno in questo tempio. Pal. Ma come potevamo portare le offerte noi, dopo che la tempesta ci ha sbalzato qua fuor del mare? Ora tu ci vedi, bisognose di soccorso, senza speranza, per luoghi sconosciuti, ti abbracciamo le ginocchia pregandoti che tu ci accolga in casa tua e ci salvi. Abbi misericordia di noi e delle nostre miserie, poiché non abbiamo altro ricovero né speranza di soccorso né altra ricchezza se non quel che ci vedi addosso. Ptol. Datemi la mano, su alzatevi; non v’è una donna più compassionevole di me. Ma qui, ragazze mie, gli affari sono scarsi, meschini; io stessa ho appena da andare avanti: servo a Venere e ci rimetto le spese. Amp. Come! Questo è il tempio di Venere? Ptol. Sicuro; e io sono la sacerdotessa di questo tempio. Ma comunque, farò di buon cuore quel poco che potrò. Venite qua dentro con me. Pal. O madre, tu ci tratti con bontà e con riguardo d’amica. Ptol. È il mio dovere. (258-289) In un altro passo della commedia Palestra rivolge alla dea una supplica e dalle parole del servo Tracalione scopriamo, in alternativa al mito mesopotamico della consorella greca, che Venere è una dea nata da una conchiglia, come poi ci confermerà un erudito di Preneste, Claudio Eliano (170 – 235 d.C. ca), nel

De natura animalium

(14.28): Pal. Ed ora ti supplichiamo, alma Venere, qui abbracciate al tuo altare piangenti e in ginocchio, deh, proteggici e salvaci. Tu, Dea, vendicati di questi malvagi che profanarono il tuo tempio e permettici, con tua pace, di avvicinarci a questo altare, poiché già Nettuno ci lavò entrambe nella scorsa notte. E non volercene e non farci una colpa, se pensassi che noi fossimo lavate poco bene. Trac. Esse ti chiedono ciò che è giusto; tu dovresti accontentarle. È conveniente per te essere indulgente con loro; la paura le spinge a fare quel che fanno. Se tu, come si crede, sei nata da una conchiglia, non disprezzare le conchiglie di costoro che ora t’invocano. (690-705) Sulla contagiosa popolarità di Venere, una popolarità dal basso che, come si è visto, scardina, in tempi che le fonti non ci consentono di misurare con esattezza, le resistenze e le diffidenze delle gerarchie dominanti, è il caso d’insistere, ricordando qui anche una testimonianza in diretta, senza filtri letterari, di un’iscrizione di mano ignota rinvenuta sui muri di Pompei, singolare per il suo stridente contrasto con le oscene trivialità di altri e ben più numerosi “graffittari” dell’epoca. Si commenta da sola: “Methé di Atella, serva di Cominia ama Chresto. Che Venere pompeiana, propizia, possa blandire sempre i loro cuori e farli vivere in perpetua concordia” (trad. A. Varone).

La testimonianza letteraria più antica risale a un’oscura citazione tratta dai frammenti delle commedie di

Nevio

(III sec. a. C.):

Cocus edit Neptunum Cererem et Venerem expertam Volcanum, Liberumque obsurduit

(

Comicorum Romanorum fragmenta

, 121). Probabilmente Nettuno allude ai pesci, Cerere al pane e Venere agli erbaggi; Libero è il nome italico di Bacco e Vulcano è la divinità del fuoco, protettore degli artigiani e soprattutto dei fabbri. Più chiaro, nella sua nuda prosaicità, un altro 92

frammento (112) dove si parla di mangiare “Venere che ha sentito la potenza di Vulcano”, ossia la verdura bollita. Nelle opere di un altro autore latino, il commediografo

Terenzio

(ca. 190 – 160 a. C.), uno scrittore vicino agli ambienti nobiliari e legato al circolo degli Scipioni, i riferimenti religiosi risultano in generale particolarmente sobri, contenuti. Frequenti le invocazioni (e le imprecazioni) a Giove, le allocuzioni generiche agli dèi e, talora, alle dee; sporadici accenni a Minerva, a Giunone Lucina, a Esculapio e a un numen,

Salus

. Manca invece ogni allusione a Venere, eccezion fatta per la citazione nell’

Eunuchus

(Atto IV, sc. V) di un detto contadino divenuto famoso proprio attraverso la testimonianza di Terenzio:

Sine Cerere et Libero friget Venus

(“Senza Cerere e senza Libero Venere si raffredda”). A quanto sembra, si tratta di una bonaria replica in un senso che potremmo definire “sincretistico” all’altrettanto famoso detto riferito da Plauto nel

Rudens

: “Cerere cura il grano, Venere gli amori” (

Amori [Venus] curat; tritico curat Ceres

, Atto I, sc.II). Evidentemente due filosofie e due concezioni del sacro, al limite del biologico, radicalmente diverse, ma fondate su un comune presupposto, in base al quale le pratiche cultuali, come il lavaggio del simulacro del dio, l’offerta di cibo e bevande, coincidono con le necessità fisiche degli uomini. Nel caso della nostra dea – è superfluo dirlo – il rapporto tra il sacro e la corporeità è scopertamente esemplare. Il tipo della Venere “frigida”, come vedremo, ha curiosamente ispirato in epoca moderna numerosi pittori, in particolare dei Paesi Bassi, della Francia e della Germania del XVII secolo. In un’età storica più avanzata, nel mondo raffinato e galante dell’urbe augustea, statue e statuette di Venere ornavano le case dei Romani e la loro presenza nelle varie occasioni della vita, dal fidanzamento al lutto, era familiare come lo erano le edicole dei Lari, ossia delle divinità tutelari protettrici della famiglia e della casa.

Ovidio

, l’antiquario della mitologia greca (con le

Metamorfosi

) e della mitologia romana (con i

Fasti

), nella sua

Ars amatoria

- dove Venere personifica il piacere dei sensi - ricorda la statua della dea, attribuita a Scopas, colta nell’atto di uscire nuda dall’acqua con i capelli madidi (3, 343-5) e ricorda pure il famoso quadro di Apelle coo che

se non avesse esposta la sua Venere, sommersa / ella sarebbe ancora nel suo mare

(3, 606-7). Lo stesso Ovidio nel libro IV dei

Fasti

celebra l’elogio di Venere e della primavera. L’impero della

formosa Venus

– egli ci dice – non è inferiore a quello di nessun altro dio.

Cicerone

, dal canto suo, riconosce la sua natura composita e nel

De natura deorum

con freddezza professionale ricapitola la sua genealogia distinguendo quattro Veneri, l’ultima delle quali allude a un culto di origine fenicia: la prima, di cui vediamo un tempio in Elide, si dice che ebbe come genitori il Cielo e la Luce; la seconda è nata dalla spuma del mare ed è madre di Mercurio e Cupido secondo, la terza, nata da Giove e Diana, sposò Vulcano, ma da lei e 93

Marte nacque Antéros. La quarta è la Venere, concepita da Siria e Cipro [?], che si chiama Astarte e secondo la tradizione sposò Adone. (III, 59; trad. gm) C’è poi chi non manca di esprimere una certa sussiegosa diffidenza. Un poeta legato agli ambienti più intransigenti,

Persio Flacco

, dichiara:

ditemi, pontefici, che ci sta a fare l’oro nei santuari? All’incirca quello che ci fanno per Venere le bambolette che le dedicano le ragazze

” (

Satire

, II, 46-47). Una connotazione dispregiativa appare anche nella requisitoria ciceroniana contro Verre,

homo venerius

, ossia dissoluto, perverso. L’opera in cui la dea di Roma riceve la più alta consacrazione poetica è il

De rerum natura

di

Lucrezio

, il grande poeta seguace di Epicuro, divenuto pazzo (come ci riferisce san Girolamo) per un filtro d’amore. Il poema fu pubblicato postumo, a quanto sembra, per iniziativa di Cicerone. L’invocazione iniziale, dedicata a Venere, anziché alle Muse, fa della dea

vulgivaga

, “che erra dovunque”, oltre che una potente immagine poetica, una sorta di bandiera, di manifesto di una corrente di pensiero che ha, non a caso, in Empedocle di Agrigento (V sec. a. C.) il suo più prestigioso esponente. È un’immagine poetica che assume una consistenza ambivalente che è anche il segno di una tormentata dialettica degli opposti: nell’invocazione essa è simbolo cosmogonico della forza generatrice della natura, rappresentazione figurale della

voluptas

creatrice e portatrice del piacere “catastematico”, consistente nell’assenza di dolore e turbamento, mentre nel quarto libro è un ardore funesto che congiunge e consuma nella stretta carnale i corpi degli amanti. Leggiamo lo splendido inno e il passo del quarto libro che sembra riproporre, nella tensione estrema della penetrazione, il mito dell’androgino, della “dualità dei corpi non duale”: Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dèi, alma Venere, che sotto gli astri vaganti nel cielo popoli il mare solcato da navi e la terra feconda di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma e una volta sbocciata può vedere la luce del sole: te , o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire le nubi del cielo, per te la terra industriosa suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare, e il cielo placato risplende di luce diffusa. Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, e libero prende vigore il soffio del fecondo zefiro, per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea, e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale. Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio, 94

e guardano i rapidi fiumi; così, prigioniero al tuo incanto, ognuno ti segue ansioso dovunque tu voglia condurlo. E infine pei mari e sui monti e nei corsi impetuosi dei fiumi, nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure, a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore, fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le stirpi. Poiché tu solamente governi la natura delle cose, e nulla senza di te può sorgere alle divine regioni della luce, nulla senza te prodursi di lieto e di amabile, desidero di averti compagna nello scrivere i versi… (I, 1-24) Come in sogno un assetato che cerchi di bere, e bevanda non trovi che estingua nelle sue membra l’arsura, ma liquidi miraggi insegua in un vano tormento, o immerso in un rapido fiume ne beva, ma la sete non plachi, così in amore Venere con miraggi illude gli amanti che non sanno appagarsi mirando le svelate forme, né a una carezza involare qualcosa dalle tenere membra, irrequieti vagando per l’intera superficie del corpo. Quando infine con le membra avvinte godono del fiore della giovinezza, e già il corpo presagisce il piacere, e Venere è sul punto di riversare il seme nel campo femmineo, comprimono avidamente i petti, confondono la saliva nelle bocche, e ansimano mordendosi a vicenda le labbra; invano, perché nulla possono distaccare dalla persona amata, né penetrarla e perdersi con tutte le membra nell’altro corpo. Infatti talvolta sembrano voler fare ciò e ingaggiare una lotta: a tal punto si serrano cupidamente nella stretta di Venere, finché le membra, stremate dall’intensità del piacere, si struggono. (IV, 1097-1114, tradd. L. Canali) Essendo il mese di aprile sacro a Venere marina, il dotto Macrobio ci informa che alcuni sottili commentatori, per spiegare la connessione, peraltro seccamente smentita da Varrone, aspiravano la consonante

p

e scrivevano

Aphrilis

, ponendo così in relazione questo mese con

aphrós

, “schiuma”. Ci troviamo difronte a un caso non infrequente di grecomania, oltre che di supponenza erudita, che si manifesta nella Roma del tempo anche in forme estreme e quasi maniacali presso alcuni ambienti intellettuali di “modernolatri”, come quel poeta, Lutazio Catulo, disposto a spendere tutto il suo patrimonio per comprarsi un dotto schiavo greco o quel tale Tito Albucio, satireggiato da Lucilio, che salutava in greco gli amici. Negli eleganti e armoniosi versi iniziali dell’

Ode a Sestio

di

Orazio

( I,4), dove Venere insieme con le Grazie balla al chiaro di luna, ritroviamo un esempio luminoso della “teologia mitica” o “fabulosa” (così definita nelle censure di Varrone e di sant’Agostino) maggiormente sfruttata dai poeti: Si scioglie l’inverno pungente al gradito tornar della Primavera e del Favonio. I rulli spingono in mare le chiglie già in secco, e ormai non gode più delle stalle l’armento, o del focolare l’aratore, e i prati non sono candidi di brina. 95

Già Venere Citerea guida le danze al lume di luna, e le belle Grazie, unite per mano alle Ninfe, battono con passi alterni la terra, mentre l’ardente Vulcano se ne va a visitare le faticose officine dei suoi Ciclopi (trad. G. Lipparini) Il sentimento religioso di questo poeta vacilla, e tuttavia non manca, anche nella sua poesia, un’invocazione a Venere, intrecciata con un omaggio a Mercurio, dio dell’eloquenza, l’una e l’altro presenze divine testimoni di un legame personale, privato, tra il poeta e gli dèi. Ma noi non sappiamo e dubitiamo che Orazio creda veramente alla venuta di Venere e del suo corteggio nell’elegante tempietto a lei dedicato dalla bella Glicera. Egli è un poeta e il rito vale sul piano simbolico per le immagini di bellezza ideale che esso evoca: O Venere, signora di Cnido e di Pafo, abbandona la tua diletta Cipro e raggiungi l’ornato tempio della tua Glicera, che con molto incenso t’invoca. Il fanciullo ardente, tuo figlio, sia con te, e insieme con lui anche le Grazie dalle vesti discinte e le Ninfe e Giovinezza, che senza di te è poco lieta, e Mercurio! (

Ode a Venere

, I, 30; trad. gm) Nei

Carmina

(71)

Catullo

, l’emulo di Callimaco e il più grande dei

poetae novi

(ossia dei “poeti moderni”), dice di sé:

non sono ignoto alla Dea che una dolce amarezza mescola con gli affanni

. È famoso il suo

incipit

(

Veneres Cupidinesque

) del carme 3, dove torna alla mente l’immagine topica di Venere mentre vola nell’aria accompagnata da stormi di tortore e di passeri:

Piangete Veneri e Amori e quanto c’è al mondo di bellezza. E’ morto il passero della mia donna

… In una graziosa e fresca poesia attribuita a

Tibullo

una

puella

innamorata, l’orgogliosa Sulpicia, proclama la sua felicità: Ecco, amore è venuto; e tal che onta più sarebbe per me se si sapesse ch’io l’ho nascosto che non s’io lo svelo. Ecco, invocata dalle mie Camène, Venere Citerea me l’ha condotto e l’ha deposto qui, dentro il mio seno! Venere le promesse ha mantenute; racconti pur le gioie mie colui che si dice che mai non le conobbe! Non a me piace or d’affidare nulla a tavolette, per timor che alcuno legga prima di lui le mie parole; ma il peccato m’è dolce, e mi ripugna atteggiarmi a virtù; diran ch’io fui d’un uom degno di me, degna di lui. (

Corpus Tibullianum,

III, 13, trad. G. Vitali). Per il mite

Tibullo

Venere

psychopompós

(ossia “conduttrice di anime”) è una divinità del Cielo disposta a scendere agli Inferi per concedere ai poeti l’immortalità. È densa di suggestivi significati la sottesa antitesi tra Giove, la suprema, ma ormai vacillante, divinità patriarcale, e la dea dell’amore, ultima carta da giocare per uno che ha consumato tutte le sue chance: 96

Ora, sotto il dominio di Giove, ci sono di continuo eccidi e ferite, ora il mare, ora le mille vie di una rapida morte. Giove padre, risparmiami! Benché timoroso, non ricordo di essere stato spergiuro, né ho pronunciato empie parole contro gli dèi sacrosanti. Se ho compiuto quest’oggi gli anni assegnati dal fato, concedi che una pietra si erga sulle mie ossa con questa inscrizione: QUI GIACE TIBULLO, CONSUNTO DA MORTE CRUDELE, MENTRE SEGUIVA MESSALLA PER TERRA E PER MARE. Poiché sono sempre propenso alla giovanile passione d’Amore, Venere stessa mi guiderà nei campi Elisi. Qui regnano danze e canzoni; volando qua e là gli uccelli modulano un dolce suono nelle gole sottili; il suolo, senza essere arato, reca cannella; per ogni campagna la terra benigna fiorisce di rose odorate; mentre la schiera dei giovani, mista alle giovani amabili, folleggia, di continuo Amore accende battaglie. Laggiù si trova ogni amante, che la Morte rapace raggiunse; reca corone di mirto sui capelli lucenti. (

Elegie

, I, 3, 49-66; trad. F. Della Corte) Per Valerio Marco

Marziale

(siamo giunti all’età dei Flavi) Venere è una dea in azione e l’arguto epigrammista ne descrive con spregiudicata sfrontatezza le miserie e le voglie. Nel libro VIII degli

Epigrammi

, dedicato alla maestà di Domiziano, il poeta invita (a malincuore) Venere a ritirarsi: Libro, che entrerai fra le mura di lauri onuste del nostro Signore, impara a più onestamente favellare con vereconda lingua. Retro, Venere nuda, vade: non sei tu questa volta che m’ispiri. O Pallade cesarea, vieni, vieni. (VIII, 1, trad. G. Ceronetti) Spetta a

Seneca

, austero interprete del pensiero stoico, il compito di celebrare Venere come dea che anima l’universo. Nella

Fedra

la nutrice di Ippolito esorta il giovinetto, odiatore delle donne, ad assaporare le gioie dell’amore:

Che sarebbe la terra, se Venere dovesse abbandonarla? Una landa deserta, uno squallido mondo senza pesci nel mare, senza uccelli nel bosco e belve nelle foreste

. Per

Ovidio

, invece, Venere incarna il piacere della seduzione: essa è quella forza (

vis eadem

) che

preserva ogni essere vivente sotto il vasto mare e d’innumerevoli pesci riempie le acque

. Sotto la sua protezione

si mantengono la bellezza, i costumi e la buona fama

. Nel X libro delle

Metamorfosi

il poeta racconta la straordinaria storia di Pigmalione, re di Cipro e famoso scultore, innamorato perdutamente di una statua d’avorio da lui stesso scolpita e trasformata, per grazia di Venere, da immagine ideale in donna viva. Ne leggiamo alcuni versi, un vero pezzo di bravura di questo poeta 97

brillante e malizioso, ricordando anche che del cosiddetto

pigmalionismo

(qui inteso come condizione umana di solitudine esistenziale) nella cultura antica ci riferisce Ateneo nei

Deipnosofisti

(XIII, 591a, 605f -606b). Questo erudito, al quale dobbiamo interessanti informazioni sulla sessualità nella Grecia ellenistica, ci racconta, tra l’altro, l’episodio di Cleisofo di Selimbria, il quale s’innamorò di una statua di marmo pario a Samo e tentò di congiungersi ad essa, rinchiudendosi nel tempio ( v. pp. 171 segg.). Ma torniamo ad Ovidio: [Pigmalione] le dà baci e immagina che lei li ricambi, le parla e l’abbraccia, e crede che le dita affondino nelle membra che tocca, e teme che restino lividi negli arti che preme; ora la vezzeggia, ora le porta doni graditi alle fanciulle: conchiglie, pietruzze levigate, uccellini, fiori di mille colori, gigli, palline dipinte e le lacrime cadute dall’albero delle Eliadi; la adorna anche di vesti, mette gemme alle dita, dona al collo lunghi monili; dalle orecchie pendono perle leggere, sciarpe dal petto: tutto le sta bene, ma nuda non appare men bella. … Era giunto il giorno di Venere, festeggiatissimo in tutta Cipro, e le giovenche, con le corna ricurve coperte d’oro, eran cadute, colpite nel niveo collo, e fumavano gli incensi, quando, reso il suo omaggio agli altari, si fermò e timidamente: “O dèi, se tutto potete concedere, vorrei avere per moglie”, non osò dire “la fanciulla d’avorio”, ma disse: “una donna come quella d’avorio”. Capì l’aurea Venere, che era presente alla sua festa, il senso di quella preghiera e, presagio del favore divino, la fiamma tre volte si accese e mosse la punta nell’aria. (256 –279, trad. G. Garbarino) Alla profondità enigmatica e sconcertante della rappresentazione lucreziana, alle intriganti allusioni di Ovidio e Catullo, a Orazio, il quale dichiarava di accontentarsi della

Venus parabilis

offerta dalle professioniste dell’amore, alla

Venus nuda

di Marziale si oppone nell’

Eneide

la Venere “angelicata” di

Virgilio

, una

Venus mater

, una dea

tristior

dell’inquietudine, ansiosa per le sorti del proprio figlio in fuga attraverso i mari, disposta a tutto con strumentale e intelligente cinismo e dunque pronta ad esercitare, per usare un’espressione della grecista Marisa Tortorelli Ghidini, “l’ambiguo potere delle madri”. Con qualche forzatura di significato si è parlato anche di una

Venus Virgo

, di una creatura “semicasta” o “semivoluttuosa” che avrebbe ispirato i neoplatonici del Rinascimento. Protagonista, come già Afrodite nell’

Iliade (

rispetto alla quale, tuttavia, rivela risorse strategiche superiori), la dea itinerante esplica la sua funzione di protettrice dei naviganti (I, 382) nel segno fausto della speranza e svolge un ruolo materno attivissimo, decisivo nella storia delle origini di Roma: nella 98

notte fatale di Troia, straziata dal tumulto e dal lutto, appare ad Enea, luminosa nello splendore della sua bellezza e potenza (

s’offerse alla vista, più chiara e distinta che mai,/ l’alma mia madre e brillò nella notte tra limpida luce

, II, 589-590), lo sottrae alla furia degli dèi avversi; ferito da una punta di freccia, lo guarisce

con succhi d’ambrosia salubre

(XII, 411-24) e gli restituisce l’asta per il colpo con cui Turno verrà ucciso (XII, 786-7). Le sue parole, le sue lacrime, che velano i suoi

fulgidi occhi

(I, 228), i suoi atti, ora supplichevoli, ora maliziosamente efficaci, non hanno altro scopo, per esempio quando nell’episodio più audace del poema (dove non c’è spazio per i divertimenti erotici) concede in via del tutto eccezionale le sue grazie allo sposo Vulcano: …vedendolo incerto, la dea in un morbido amplesso, chiuso tra candide braccia, l’avvince. La fiamma di sempre rapida irrompe su lui, l’ardore che già conosceva penetra fino al midollo, gli corre per l’ossa in fermento: capita proprio così talora che un lampo guizzante segni di luce le nubi, sbrigliato da un tuono improvviso. (VIII, 387-392, trad. G. Vergara). Nel poema l’ottica virgiliana, come riflesso anche della politica augustea, privilegia i legami affettivi familiari fino a rasentare l’eccesso. Enea, sappiamo, è figlio di Venere e padre di Iulo/Ascanio. Anche Cupido è figlio di Venere. Dunque, poiché Cupido è fratello di Enea, è suo “dovere” accorrere in soccorso di Enea per sventare la minaccia dell’ostile Giunone. Gli ordini di una madre non si discutono (II, 606-7). Sugli alti ideali prevalgono i bassi espedienti. Qui non è in gioco il capriccio, la crudele indifferenza della celeste Afrodite, ma l’abilità femminea (questa sì diabolica) di una donna-dea - un’autentica

trickster

- che versa, letteralmente, il suo veleno alla sventurata e incolpevole Didone, eroina vittima, come Medea, della follia proveniente dagli dèi: “Tu [Cupido] fingi il suo aspetto non più di un’unica notte, e vesti, da fanciullo qual sei, il noto volto del fanciullo [Iulo], perché, allorquando Didone ti accoglierà felice in grembo in mezzo alle mense regali e al liquido Lieo, quando darà abbracci e imprimerà dolci baci, le ispiri il tuo fuoco segreto e la inganni col tuo veleno”. Amore obbedisce alle parole della cara madre, e spoglia le ali, e avanza gioioso con il passo di Iulo. Venere infonde nelle membra di Ascanio una placida quiete, e stringendolo in grembo la dea lo solleva negli alti boschi dell’Idalio, dove la molle maggiorana lo avvolge olezzante di fiori e di dolce ombra. (I, 683-94, trad. L. Canali) 99

Da Virgilio trasferiamoci nell’età dei Flavi (l’età di Marziale).

Valerio Flacco

è l’autore di un remake delle

Argonautiche

di Apollonio Rodio, un poema epico al cui centro “emergono i temi della tirannide, del

furor

, del suicidio, del sangue, tutto, come nella tragedia, nell’ambito oppressivo di uno spazio chiuso, lo spazio omicida del potere” (Franco Caviglia). Venere è una dea perfida, ingannatrice che istilla la follia amorosa. Nel secondo libro Valerio Flacco evoca la furia gelosa della dea contro le donne di Lemno (v. p. 284), indotte a massacrare tutti gli uomini dell’isola, accusati falsamente (secondo una delle versioni circolanti) di adulterio con le donne di Tracia. L’isola è cara a Vulcano (Efesto per i Greci, il marito tradito) e ostile a Venere, il cui ritratto illumina, sotto una cupa luce, una dea ambivalente, luogo simbolico ed esistenziale della coabitazione degli opposti. Una sintesi “disgiuntiva” senza le pretese unificanti degli esegeti di orientamento idealistico, non un amalgama, ma un’entità binaria in cui i conflitti e le differenze permangono e si moltiplicano e il cui potere è simboleggiato dalla “luce” stillante dal suo corpo: L’altare di Venere è sempre spento in quel luogo, da quando ella temette la collera giusta dello sposo e rimase bloccata, insieme con Marte, da catene tramate nel silenzio, inavvertite. Per questo motivo, la dea sulla colpevole Lemno scagliò la dannazione, le furie della rovina. Ella non è soltanto una visione di vita, quando si lega le chiome con oro aggraziato e nel corpo si effondono pieghe stillanti di luce: quella medesima dea è feroce ed enorme, il volto cosparso di macchie, uguale alle furie d’Averno, con la torcia che stride, con il cupo mantello. (l. II, 98-106, trad. F.Caviglia) Se l’identità della Venere virgiliana, la dea dalla “bocca di rose”, deve fare i conti storici con la

pudicitia

romana, non così è per

Apuleio

. Con questo celebre scrittore latino-africano Venere, la dea che

profuma di cannella e stilla aromi balsamici

, riacquista, integro, il suo potere sovrano, la sua dimensione femminile-sessuale, e torna ad essere dea della bellezza e dell’amore. Allo scopo essa entra nella realtà romanzesca e affonda, per dir così, nelle sabbie mobili della finzione letteraria assumendo la natura di racconto. Una Venere postmoderna, frutto di un sapiente assemblaggio, un vero “cocktail culturale”, come l’ha definita Claudio Marangoni (2006). Il sacro cede al fascino della favola e la letteratura diventa un’appendice della vita. Nelle

Metamorfosi

, scritte nel II secolo d.C., in un’epoca densa di inquietudini religiose, di ripiegamento nostalgico, di sconfinata ammirazione per la tradizione greca, leggiamo la delicata, “mistica” storia di

Amore e Psiche

, ravvivata da un erotismo allegro e 100

malizioso. È la tormentata storia di una fanciulla più bella di Venere, antagonista e vittima della sua gelosia e salvata da Amore dal sonno profondo della morte. Psiche è “l’anima”, archetipo freudiano della femminilità, in qualche modo un doppio di Venere, rappresentazione primordiale del femminile che ogni uomo racchiude in sé e madre del Piacere (

n. 7

): C’era una volta in un paese di questo mondo un re e una regina che avevano tre figliole di una grande bellezza. Ma per le due maggiori, sebbene splendide, si poteva sperare di trovar lodi umane adatte a renderle celebri, mentre la bellezza della più giovane era così eccezionale che per la povertà del linguaggio umano non si poteva descriverla e neppure lodarla abbastanza. Cittadini e forestieri moltissimi, attratti dalla fama d’un tal prodigio, accorrendo premurosi in gran folla rimanevano stupefatti per la meraviglia di quella impareggiabile bellezza; e mettendo dinanzi alla bocca la mano destra e accostando il dito indice al pollice eretto rimanevano dinanzi a lei in religiosa adorazione come dinanzi a Venere. Ormai per le vicine città e per le regioni contigue s’era sparsa la voce che la dea un tempo partorita dalle azzurre profondità del mare e nutrita con la rugiada dello schiumoso flutto, ora s’era stabilita fra le genti umane concedendo loro la grazia della sua divina presenza; o fors’anche da un nuovo seme d’eteree stille non più il mare ma la terra aveva germinato un’altra Venere in tutto lo splendore della sua grazia verginale. Di giorno in giorno quest’opinione fece giganteschi progressi, e la fama si sparse nell’isole vicine e in parecchie province di gran parte del continente. Moltissime persone affluivano da ogni luogo facendo lunghi viaggi per terra e attraversando profondissimi canali di mare per venire a vedere la grande meraviglia del secolo; e nessuno più andava a Pafo, nessuno a Cnido e nemmeno a Citera per visitare i santuari di Venere. …… Questa proterva trasposizione di onori divini al culto di una fanciulla mortale irritò fortemente l’animo della vera Venere, la quale non poté frenare la propria indignazione ma scuotendo fieramente il capo e fremendo di collera così ragionò tra sé: “Come?! Io prima genitrice della natura, prima origine degli elementi e anima di tutto il mondo, io, Venere, dovrò dunque dividere con una fanciulla mortale gli onori dovuti alla mia maestà? Tollerare che il mio nome, consacrato in cielo, sia profanato da queste terrene nefandezze? Sopportare questo equivoco di una venerazione sostituita con un culto in comune? E che una vergine mortale porti in giro un’immagine di me? Invano dunque quel famoso pastore [Paride], la cui sentenza giusta e fedele al vero fu confermata dal supremo Giove, mi preferì per la mia eccelsa bellezza a due così grandi dee! Ma questa donna, chiunque ella sia, non godrà a lungo degli onori che mi usurpa, perché farò anzi in modo che debba pentirsi di questa sua illecita bellezza. (IV,28 –30, trad. F. Carlesi) D’incomparabile grazia la rappresentazione del giudizio di Paride. Ora siamo a teatro: si alza il sipario e l’affascinante Venere si porta al centro della scena: Per ultima si fece avanti una terza fanciulla, ancor più bella, che lo splendido incarnato color dell’ambrosia rivelava subito come Venere: Venere quando era ancora una vergine, che mostrava la perfezione del suo corpo incedendo completamente nuda, tranne un impalpabile velo di seta che le ombreggiava il pube. Ma c’era un venticello curiosetto e impudico che scherzava con quel velo, e ora lo scostava, facendo apparire il bel fiore della giovinezza, ora soffiando più forte lo faceva aderire, così che quello disegnava i voluttuosi contorni. Due colori rivelavano la dea: il bianco del suo candido corpo, in quanto discesa dal cielo, e l’azzurro del velo, in quanto nata dal mare. …. Ed ecco Venere si porta al centro della scena, fra gli applausi del pubblico: con un dolce sorriso, circondata da un nugolo di bambini bellissimi, paffutelli, bianchi come il latte, dei veri Amorini appena giunti in volo dal cielo o dal mare, con le alucce e le freccine e il vestitino proprio intonati al loro personaggio. Con le fiaccole accese facevano luce alla loro signora, come se stesse andando a un banchetto di nozze. A questo punto entrò in scena un gruppo di fanciulle giovani e belle, di qua le graziosissime Grazie, di là le bellissime Ore, che veneravano la dea lanciandole petali e corone di fiori, e formavano un corteo perfetto per deliziare la regina dell’amore con le chiome della primavera. Allora i flauti a più fori intonarono dolci melodie lidie. Il cuore degli spettatori era accarezzato da quella soavità, e ancor più soave era Venere quando incominciò a muoversi, dapprima piano, con passo lento ed esitante, poi facendo ondeggiare dolcemente la schiena e oscillando appena la testa: e venne avanti, armonizzando i suoi delicati gesti con il molle suono del flauto; lo sguardo ora riluceva tenero, ora lampeggiava ardente, tanto che in certi momenti si sarebbe detto che danzasse solo con gli occhi. Quando arrivò vicino al giudice, muovendo le braccia gli fece capire che, se l’avesse preferita alle altre due dee, gli avrebbe dato in sposa una donna bella come lei. E a queste parole il giovane frigio diede con tutto il cuore a lei la mela d’oro che aveva in mano, simbolo della vittoria. (X, 31-32, trad. M. Cavalli) 101

Al II secolo d.C. sembra appartenere una specie di manuale di mitologia scritto da

Igino

(

C. Iulius Hyginus

), da non confondere con un erudito omonimo vissuto in epoca augustea. L’opera, ricostruita con l’apporto dei filologi, porta il titolo

Genealogiae

, ma è meglio nota come le

Fabulae

, dall’edizione rinascimentale che è la fonte del testo, costituito da una serie di brevi paragrafi, ciascuno dei quali è dedicato a un personaggio del mito. Uno di essi riferisce la favola della nascita di Venere associando, l’uno all’altro, due elementi legati all’origine del cosmo e della vita: l’acqua e l’uovo. L’uovo di “straordinaria grandezza”, da cui esce il dio cosmogonico, racchiude in sé l’universo e nella cultura mediterranea è luogo di accoglienza dei morti e principio di fecondità, simbolo della genesi degli esseri: Si racconta che nel fiume Eufrate cadde dal cielo un uovo di straordinaria grandezza e che i pesci lo trascinarono a riva. Qui l’uovo venne covato da alcune colombe e così riscaldato si racconta che da esso si dischiuse Venere. La quale fu poi detta dea Siria. Avendo essa superato per giustizia e probità tutti gli altri ed essendo stata data facoltà a Giove, i pesci furono accolti tra gli astri. E per questo motivo gli abitanti di Siria non mangiano pesci e annoverano tra le divinità le colombe. (CXCVII,

Venus

, trad. gm) In uno scenario lussureggiante di fiori e di verde

Reposiano

, poeta della seconda metà del III secolo, colloca la storia degli amori di Marte e Venere sorpresi da Vulcano. Il poemetto (

De concubitu Martis et Veneris

), scritto con l’intento di insegnare “a non mai ritenere sicure le avventure d’amore”, ha ispirato l’iconografia rinascimentale e barocca (Carlo Saraceni,

Venere, Marte e una ronda di Amorini

; San Paolo, Museum de arte, 1605-1610). Nel chiudere questa breve rassegna non si può ignorare un componimento, scandito con delicato contrappunto da un ritornello popolare:

Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora

. Un capolavoro, un vero gioiello della poesia della tarda classicità, l’ultimo omaggio pagano al tripudio della natura e, insieme, al desiderio appagato, all’amore vissuto e non sognato. E’ il

Pervigilium Veneris

(“Vigilia della festa di Venere” o “Veglia prolungata di Venere”), composto probabilmente nel III secolo d.C. e pervenuto anonimo, cantato forse in occasione della veglia notturna che precedeva la festa di Venere Iblèa in Sicilia al principio della primavera. Nell’epoca della dissoluzione della poesia imperiale, come scriveva Ettore Bignone, “pare di presentire l’aura della Rinascita fiorentina e della grazia quattrocentesca delle maggiaiole di Lorenzo e del Poliziano”. Nel 1648 il

Pervigilium

venne tradotto in inglese da Thomas Stanley e nel 1773 in tedesco da Gottfried A. Bürger: Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. La fresca primavera, la primavera canterina è qui; di primavera nacque il mondo, 102

a primavera si stringono gli amori, a primavera gli uccelli sposano e il bosco abbandona la chioma alle carezze delle piogge. Domani la dea che annoda gli amori, sotto ombre d’alberi intreccia verdi capanne di ramoscelli di mirto, domani detta legge Dione [Venere] assisa nel suo trono sublime. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. Quel giorno l’oceano, dal sangue divino, in una nube di spuma, tra le cerule file dei flutti e i cavalli bipedi, produsse Dione e la cullò sulle onde marine. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. Essa dipinge di verdi gemme la rossa stagione, essa schiude sui turgidi nodi i boccioli nascenti al soffio di zefiro; essa dissemina le fresche gocce della lucida rugiada, che la brezza notturna abbandona. Come rilucono, lacrime tremule al peso trascinante, pendula goccia, che la minuscola sfera contrae per non cadere. Ecco, le porpore dei fiori hanno scoperto il loro pudore: quell’umore che gli astri irrorano nelle notti serene, al mattino scioglie i seni verginali dal loro umido peplo. Lei volle che le vergini rose sposino nel frescore del mattino. Fatte del sangue di Cipride e dei baci d’Amore, di gemme, di fiamme e della porpora del sole, domani, spose d’un desiderio solo, non avranno vergogna a svelare il pudore, che si nascondeva sotto manto di fuoco. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. La stessa dea comandò alle Ninfe di convenire al boschetto dei mirti; va il fanciullo con loro, ma non si può credere che Amore è in festa, se porta le frecce con sé. Avanzatevi, Ninfe: ha lasciato le armi, è in festa anche Amore. Gli fu imposto di venire inerme, gli fu imposto di venire nudo E di non ferire nessuno con l’arco, con freccia, col fuoco. Nondimeno in guardia, Ninfe, perché Cupido è bello: è tutto armato anche quando è nudo, Amore. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. “Vergini d’ugual pudore, Venere ci manda a te; ti chiediamo una cosa sola: allontànati, vergine Delia [Diana], onde il bosco rimanga intatto dal sangue di fiere. Di persona te ne pregherebbe, se potesse piegare una dea virtuosa; e t’inviterebbe a venire, se convenisse a una dea vergine. Per tre notti vedresti allora i cori in festa, mescolati a schiere di devoti, trascorrere per le tue balze sotto festoni di fiori, sotto pergolati di mirti; né Cerere né Bacco mancano, né il dio dei poeti. Tutta la notte bisogna occupare, tutta vegliare cantando: Regni nelle selve Dione! Tu ritírati, Delia!” Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. La dea dispose che il suo palco fosse inalzato tra i fiori d’Ibla; di lassù detterà le sue leggi e le Grazie l’assisteranno. Ibla, effondi tutti i tuoi fiori, quanti l’anno apportò. Ibla, vèstiti di fiori, per quanto il piano etneo si stende. Qui converranno le ninfe dei campi, qui le ninfe dei monti, quelle che abitano le selve e i boschi e le fonti. La madre dell’alato fanciullo prescrisse a tutte di presenziare, 103

prescrisse che le fanciulle non si fidassero d’Amore, anche nudo. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. ……………………………………….. E porti verdi ombre sui fiori novelli ……………………………………….. Domani sarà il giorno in cui l’Etere consumò la prima volta le sue nozze: per generare l’intero anno con le sue nubi di primavera il Padre fluì, pioggia fecondante, nel grembo della sposa celeste; congiunto al grande corpo, ne alimentò tutti i germogli. Venere, con soffio che penetra nel sangue e nell’anima, con misteriose forze interiori guida la procreazione. Per il cielo e la terra e il mare ammansito Avviò il corso concatenato della sua fecondazione E volle che il mondo conoscesse le vie delle nascite. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. È lei che mutò i suoi nipoti Troiani in Latini, lei che diede in sposa a suo figlio la fanciulla di Laurento e poi offrì a Marte dal suo tempio una vergine ritrosa; è lei che compose le nozze dei figli di Romolo con le Sabine per trarne i Ramni e i Quiriti e, prole erede di Romolo, Cesare padre e nipote. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. Il piacere feconda la campagna, la campagna sente Venere. Lo stesso Amore figlio di Dione lo si dice nato in campagna: lei, mentre la terra partoriva, lei stessa lo prese al suo seno; lei stessa lo allevò coi baci delicati dei fiori. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. Ormai anche i tori rilasciano il fianco dietro le ginestre, sicuro ciascuno del patto coniugale che lo lega. Ecco, sotto le ombre vedi i greggi delle pecore coi compagni. E la dea volle che i canori volatili non tacessero; anche i cigni ciarlieri strepitano, una voce roca sugli stagni. Risponde sotto l’ombra del pioppo la sposa di Tereo, e diresti che che la sua voce armoniosa esprima moti d’amore e non compianga la sorella perseguitata dal barbaro marito. Ella canta, io taccio: quando verrà la mia primavera? Quando farò come la rondine, e cesserò di tacere? Ho perduto la Musa per il troppo tacere, e Febo non mi guarda più. Così la città di Amicle, poiché tacque, la perdette il silenzio. Domani ami chi mai amò, chi amò domani ami ancora. (trad. C. Carena) La dea italica, protettrice dei vigneti e degli orti, sembra opporre alla dea greca la sua esuberante vitalità che non si traduce necessariamente in lussuria e lascivia, quanto piuttosto in una gioia carnevalesca ereditata e fatta propria dai goliardi e dai

clerici vagantes

del Medioevo. Le divinità romane nel loro insieme e salvo rare eccezioni (tra le quali rientra la nostra Venere) in confronto a quelle greche appaiono accostate tra loro piuttosto che in reciproca relazione e assumono l’aspetto, come ha scritto Georges Dumézil (1974), “di un mondo d’ombre pressoché immobili, di una massa 104

crepuscolare da cui solo poche divinità, e pur sbiadite, sono riuscite a spiccare”. Ora, fermo restando la maggiore fluidità e “opulenza” del pantheon greco rispetto a quello romano, nell’una e nell’altra delle dee alcuni studiosi, come il mitografo inglese Arthur Cotterell (1996), hanno voluto riconoscere modelli comportamentali differenti: a Venere, considerata solamente come simbolo del desiderio sessuale e dunque come dea allettatrice, datrice di piacere, essi hanno contrapposto Afrodite come dea che esercita il suo potere nella sfera più ampia delle emozioni e degli impulsi che sono alla base della vita sociale, fondata sui valori della simpatia, dell’armonia e della dolcezza, ma anche sullo scarto negativo della scissione, della separazione dolorosa. In realtà le due figure, lasciando da parte i loro esiti letterari, appaiono sostanzialmente equivalenti, sia nella loro configurazione arcaica, primordiale, pur nella diversità delle loro sfere di competenza, l’una simbolo della potenza feconda delle acque, l’altra nume della vita agricola, sia nell’evoluzione culturale del processo che le accomuna come rappresentazioni antropomorfe, l’una e l’altra, della forza vitale sessuale-amorosa e della potenza generativa che sostiene e fa godere la vita. Una divergenza, se mai, è riscontrabile nel loro impatto - in quanto ambedue divinità “straniere” - con i mondi con cui vengono a contatto e nelle reazioni che esse provocano nella diversa sensibilità religiosa dei devoti. Un elemento significativo a questo proposito è costituito dalla particolare connotazione moraleggiante che Venere assume allorché essa è accolta e inclusa nel pantheon romano. Occorre poi ricordare che anche la dea romana, come e forse più di Afrodite, è una dea ancipite, dea dello

charme

, talora accostata al meretricio, ma anche e soprattutto dea che ha cura del matrimonio e dei valori, come la

pietas

e la

pudicitia

, ad esso connessi. Non a caso i Padri della Chiesa, se vituperarono le turpitudini di Afrodite, accolsero nel linguaggio liturgico il verbo

venerari

, derivato dalla locuzione latina

Venerem venerari

, ossia “rivolgere una preghiera a Venere” e accattivarsi così la sua benevolenza. (

1)

Il culto fu al centro di contrasti politici. Cicerone nella

Divinatio in Q. Caecilium

(55) accusò Verre di oltraggio del santuario. I Romani che si recavano in Sicilia in effetti continuarono ad associare il culto di Venere allo spasso e al divertimento, tanto che è documentata la presenza di giovani ierodule anche al tempo di Cicerone. Diodoro Siculo nella sua

Biblioteca Storica

(IV, 83) racconta che la burocrazia romana, quando si recava ad Erice, recava onore con “splendidi sacrifici” al santuario e deponeva la sua austera veste pubblica passando a “scherzi e compagnie di donne con molta allegria”. È indubbio che i costumi e le mode provenienti dalla società greca e magnogreca modificarono e “addolcirono” le classi ricche incentivando anche la prostituzione. (

2

) L’atto scandaloso compiuto dalle vergini sacerdotesse appartenenti a nobili famiglie con tre cavalieri romani suscitò la collera popolare. Due delle giovani si salvarono, ma una di esse venne condannata a morte. 105

(

3

) Il tempio fu poi ricostruito da Traiano (ca. 110 d.C.). Sorgeva su un alto podio (stilobate) innanzi al quale erano due piccole fontane. Si accedeva al tempio da due scale laterali interne al podio. Da esse ci si immetteva nel pronao, ossia nell’atrio fornito di otto colonne corinzie sulla fronte; altrettante erano disposte sui lati lunghi. Il lato di fondo, addossato alla sella del Campidoglio, era chiuso. La cella, forse coperta a volta, aveva colonne di giallo antico addossate alle pareti, raccordate da un architrave nei cui rilievi erano figure di amorini. Sul fondo un’abside entro la quale era collocata la statua di Venere dello scultore greco Arkesilaos. Nel tempio vi erano anche altre opere d’arte tra le quali due quadri di Timomaco di Bisanzio (I sec. a.C.) e una statua di Cleopatra in bronzo dorato.

(4)

L’organizzazione triadica del sistema religioso, secondo lo storico delle religioni George Dumèzil, deriva dalle tre funzioni che questo studioso ha ritenuto di riconoscere nella struttura delle società indoeuropee: sovranità, forza e fecondità, la prima relativa al patrimonio mitico e rituale e spettante all’autorità politica con forte valenza sacrale; la seconda relativa all’attività guerriera con funzioni di difesa; la terza riguardante in generale l’attività economica e produttiva. Le figure divine, configurate appunto in triadi funzionali, starebbero a legittimare sul piano ideologico la struttura tripartita del pantheon nelle religioni indoeuropee. (

5

) Il templum Urbis, noto come

Tempio di Venere e Roma

, venne successivamente completato da Antonino Pio (ca. 150 d.C.). Fu edificato sopra la sella collinosa della Velia, dove sorgeva il vestibolo della

Domus aurea

neroniana e da dove per l’occasione venne rimossa la statua colossale di Nerone. Il tempio, cui si accedeva da due ingressi monumentali (propilei), si collocava al centro di un grandioso complesso costituito da un doppio porticato con colonne di granito grigio. Si elevava da un podio (stilobate) ed era circondato da colonne, dieci sui lati corti e venti su quelli lunghi, ed era fornito di due celle absidate a ridosso l’una dell’altra. Nella cella dal lato verso il Foro era collocata la statua della dea Roma in sembianze di amazzone seduta, e in quella verso il Colosseo era sistemata la statua di Venere, anch’essa probabilmente seduta, accompagnata dai simboli della Vittoria, di Eros e Psiche. Recentemente restaurato, oggi è accessibile al pubblico.

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Nell’assimilarsi agli dèi greci, le più antiche divinità romane subiscono alterazioni e modificazioni che in qualche misura compromettono o indeboliscono la fisionomia originaria. Così è per la stessa Venere (in origine divinità protettrice degli orti). Una testimonianza di Livio riferisce che la

Iuno

(Giunone) italica, prima di essere identificata con Hera, veniva riconosciuta come dea guerriera, protettrice dei soldati, dai quali riceveva le spoglie dei vinti. Ad essa i Romani si rivolgevano nei momenti di pericolo. (

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) “Dalle nozze di Psiche e Amore nacque una figlia che noi chiamiamo Piacere (

Voluptas

)”. Così hanno termine le peripezie dei due giovani amanti. 106