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Riflessioni di copertina
Riflessioni di copertina
Osservando la snella struttura a torri cilindriche che svettano
nel cielo, così in alto da restare impigliate tra le nuvole, è quasi
inevitabile l’analogia visiva con arditi e avveniristici progetti mai
realizzati, ma fondamentali per la storia dell’architettura occidentale, come Il grattacielo di vetro di Mies Van Den Rohe del
1922 oppure Il grattacielo alto un miglio di Frank Lloyd Wright
del 1956. Con questi l’opera in copertina condivide non soltanto una spiccata propensione alla verticalità, ma anche
quella sorta di alone magico del quale è sempre ammantata,
per le infinite possibilità che dischiude, la scoperta di tecnologie all’avanguardia e materiali inediti. Da un punto di vista più
strettamente estetico, invece, rievoca la temperatura calda e
il morbido fascino rétro del disegno tecnico a mano, a matita
o a china su carta, in contrasto con il freddo rigore del disegno computerizzato.
Se abbassiamo lo sguardo verso il fondo del disegno, però, la
scena muta ed emerge con forza il codice semantico più autentico dell’artista. Eludendo entrambe le istanze, rispettivamente razionalista e organicista, dei due maestri dell’architettura
novecentesca, Gaia Carboni sembra dare corpo, grazie al perfetto e ambiguo innesto tra geometria dei solidi e forme naturali, a quelli che James Graham Ballard, nel romanzo
sperimentale The Atrocity Exhibition (1970), definisce «ottimi
esempi di architettura criptica, in cui la forma non rivela più la
funzione» oppure, si potrebbe inferire, non la rivela ancora.
Per quanto nelle composizioni di Gaia Carboni ogni singolo
elemento sia di per sé riconoscibile: ci sembra infatti di scorgere figure tratte da un immaginario corporeo (trombe, valvole, membrane, diaframmi, pieghe, sacche) e vegetale
(coralli, alghe, cactus, rizomi) oppure esempi di strutture globulari (bulbi, vescicole, blastule), reticolari (radici, miceli, vasi
sanguigni, tentacoli) e cellulari (spugne, favi); tuttavia, l’oggetto complessivo, la Gestalt della nuova creatura prodotta
juxta propria principia in base a un criterio costruttivo vicino
alla sensibilità surrealista di un Max Ernst – non a caso menzionato con frequenza nel libro di Ballard –, sfugge alle classificazioni precise e conduce nell’ambito di tassonomie
inventate e fantastiche, angosciosamente distopiche o lucidamente profetiche. Scrive sempre Ballard: «Da qualche parte
all’interno del nostro cervello devono esistere i corrispondenti
neurali di queste immagini, per quanto sia difficile indovinare
a cosa possano servire».
Se dunque, da un lato, la costruzione di queste figure mentali appare ispirata a un certo «realismo magico» novecentesco, dall’altro è innegabile l’influenza stilistica sia dei grandi
medici, anatomisti, fisiologi ed embriologi italiani del XVI e XVII
secolo (tra gli esempi maggiori menzioniamo le Tabulae anatomicae di Girolamo Fabrici d’Acquapendente, realizzate a
inizio Seicento), sia degli zoologi, botanici e biologi ottocenteschi, in particolare, ci sembra, di Ernst Haeckel (autore delle
straordinarie figure raccolte nel 1899 nel prezioso volume
Kunstformen der Natur): scienziati-artisti per i quali la matita,
l’olio o la china surrogavano una strumentazione tecnologica
ancora lontana a venire.
Gaia Carboni, Pipe Organ I, 2009,
matita su carta filigranata, cm 65 × 50,
Courtesy l’artista
Gaia Carboni nasce a Torino nel 1980, attualmente vive e
lavora a Berlino. La sua ricerca si sviluppa attraverso disegno, scultura e installazioni multimedia. Si forma come artista all’Istituto per l’arte ceramica “G. Ballardi” di Faenza
(2000) e successivamente all’Accademia di Belle Arti di Bologna (2006). Nel maggio 2013 prende parte al programma
di residenza internazionale HIAP a Helsinki, realizzando una
mostra personale presso Kaapeli Factory. La sua carriera
espositiva inizia nel 2005 con la collettiva IN-CHIOSTRO 2,
a cura di Roberto Daolio (1948-2013), Museo San Domenico, Imola (BO).
Tra le principali esposizioni personali ricordiamo: nel 2013
O(Ax)=dO(Am) Equazione Impossibile, Museo MAR e Galleria Ninapì, Ravenna; Un’anatomia dell’inconcepibile, a
cura di Jean-Marie Reynier, Il Pomo Da Damo, Imola (BO).
Nel 2012 In Silenzio, Galleria VAULT, Prato.
Mentre tra le più recenti collettive sono da segnalare: nel
2012 Giorni Felici. 20 Artisti x 20 Artisti, Casa Testori, Novate Milanese, Milano; Falansterio, a cura di Daniela Lotta,
Tesco, Faenza (RA); Organic Intuitions, a cura di The Pool
NYC, Colonia Cuauhtémoc, Mexico City. Nel 2011 Officine
dell’arte, a cura di Stefano Arienti e Italo Zuffi, Viafarini Fabbrica del Vapore, Milano; Casabianca, Casabianca,
Zola Pedrosa (BO).
Eppure, l’aspetto criptico e perturbante di questa iconografia,
ricorrente nei disegni a penna, nelle sculture o nei lavori a puntasecca di Gaia Carboni, non deriva tanto, né soprattutto,
dalla commistione formale tra manufatti e creature, quanto
piuttosto dal collocarla in un arco d’incertezza e indecidibilità
non solo temporale (i cui poli sono l’arcaico e il futuro remoto),
ma altresì ideologico. Grazie anche a un sobrio ma onnipresente impiego dell’asimmetria e al sapiente uso di cavità e
vuoti, l’artista coniuga perfettamente il rigido geometrismo di
severe strutture rettilinee con la plasticità degli organismi, generando un’integrazione biotecnologica, bionica, così poco
“artificiosa”, così priva di forzature figurative, da confondere le
idee rispetto al modus operandi: quello della natura naturans
che si appropria di un manufatto umano – come un’edera aggrappata a un muro di mattoni, una colonia di funghi nata parassitariamente su una colonna di cemento o l’erba sbucata
dall’asfalto – oppure, viceversa, quello delle tecnoscienze moderne e, in particolare, dell’ingegneria biomedica, che innesta
dispositivi artificiali, elementi estranei e morti, dentro corpi ed
esseri viventi. Questa irrisolta circolarità dialettica tra téchne¯ e
bíos consente di optare per l’una o l’altra linea esegetica, con
conseguenze di volta in volta opposte.
Veronica Liotti