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amici

di

follErEau per i diritti degli ultimi

N. 3 marzo 2014

DONNE

: il valore della diff erenza

Fai della tua vita qualcosa che vale

É l’esperienza che migliaia di volontarie e volontari hanno sperimentato anche quest’anno nella 61

a

Giornata mondiale dei malati di lebbra.

Le mille piazze

Banchetti per informare sulla realtà della malattia, e per raccogliere con il “Miele della solidarietà” le offerte che consentiranno all’Aifo di continuare la lotta contro la lebbra, e tutte le lebbre.

Il giorno più lungo

La preparazione ha richiesto tanto impegno. In alcuni casi si è cominciato prima del 26, e tanti hanno organizzato banchetti ben oltre l’ultima domenica di gennaio.

Una giornata lunga un anno!

L’occasione per pensare a fare meglio, per progettare nuove attività

Una dimensione mondiale.

La GML è tale perché viene organizzata non solo in Europa, ma in Asia, Africa e America latina.

Giovani e bambini alla GML

Dove sono stati presenti, giovani, bambine (soprattutto) e bambini hanno saputo coinvolgere, parlare, convincere.

La GML è donna

Lo dicono anche le fotografie!

Editoriale

Non ci basta solo l’8 Marzo

L eggevo in uno degli che articoli, appaiono numerosi in occasione dell’8 Marzo, che il difetto più grande della donna è quello di “non capire il suo valore”. Sembra assurdo infatti, in una società dove le donne sono più della metà della popolazione ed hanno spesso una scolarità superiore agli uomini, che ci sia bisogno di un giorno particolare all’anno, ci sia bisogno di Commissioni di pari opportunità, ecc. per ricordarci che non siamo niente di meno di nessun uomo in dignità, in diritti, in doveri, in meravigliose possibilità di partecipazione. Eppure anche in Italia c’è ancora tanta strada da fare verso il giusto concetto e nella giusta valorizzazione della donna.

Una donna che conosce e afferma i propri diritti e tutte le sue possibilità nel mondo, ma ricorda anche doveri, responsabilità, profondo amore per la vita, ricorda che non è possibile “vivere felici da soli”. Abbiamo bisogno di donne così: forti, responsabili, professionali

non siamo niEntE di mEno di nEssun uomo in dignità, in diritti, in dovEri, in mEravigliosE possibilità di partEcipazionE. EppurE c’è ancora tanta strada da farE. ogni giorno è buono pEr costruirE …ma anche con grande capacità di amore, di tenerezza e di speranza in questo nostro tempo di crisi culturale, di individualismo, di famiglie e di vite allo sbaraglio, di grande fragilità nascosta dietro apparente cinismo.

Una campagna di due anni fa: “L’Africa cammina sui piedi delle donne”, rilanciava la proposta di assegnare il premio Nobel per la pace alle donne africane per il loro impegno nella pacificazione del Continente. Le

donne africane, che ricordo con ammirazione e affetto, lo meriterebbero davvero: sono a ragione il perno della loro società: si dice che senza di loro l’Africa crollerebbe. Le trovi per strada, prima dell’alba, con un carico sulla testa ed un bambino che riposa tranquillo sulle loro spalle: vanno a lavorare nei campi o a prender l’acqua o a vendere i loro prodotti al mercato. Lavorano i campi, si occupano del marito, dei figli, dei malati, fino alla notte.

Le trovi a fare chilometri e attese interminabili in ospedale e, se vuoi che la medicina preventiva nel territorio funzioni bene, devi convincere loro: una volta convinte però saranno la tua voce e la tua radio nei villaggi.

Se vuoi che un Progetto di microcredito abbia successo, loro sono quelle che ti daranno più garanzia. vecchio Continente, che ci stiamo adagiando sui risultati raggiunti.

una strada”.

Costituiscono il 70% della forza agricola dell’Africa e, soprattutto, si battono per la pace.

In questo tormentato Continente, ricchissimo e avrà altri problemi, ma non meno urgenti.

Per questo non ci basta solo l’8 Marzo.

impoverito dall’avidità di tanti, le donne si muovono da sole o si mobilitano tutte insieme contro la violenza, per la fine delle ostilità, talvolta quasi costringendo i loro uomini alla pace: in Congo, in Somalia, in Liberia, ecc. e dando un esempio di sempre più attiva partecipazione politica e sociale a noi donne di questo ormai Non possiamo perdere tempo: il nostro Continente Ogni giorno è buono per costruire: “ogni giorno il suo

colpo di piccone nella stessa direzione … e si riesce ad aprire

Anna Maria Pisano

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Profezia

Donne di tutto il mondo

Giancarla Codrignani

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Primo piano

Perché non dobbiamo avere paura dell’Islam

Intervista a Shahrazad Houshmand a cura di Anna Contessini

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Emergenze: mettiamoci un band aid

Davide Maggiore

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Dossier

Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità

Nicola Rabbi, disegni di Kanjano

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Progetti

Quando le donne si muovono in Mozambico

Luciano Ardesi

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Cina: apriamo la grande muraglia

Tino Bilara

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Strumenti

Educare alla liberazione femminile

Antonella Fucecchi

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Esperienze

Dall’India all’Africa e ritorno

Nicola Rabbi

profezia

Donne di tutto il mondo

Il fallImento dI un modello. la presenza delle donne, della loro cultura e competenza, condIzIone per convIvere e per la sopravvIvenza dell’umanItà

di Giancarla Codrignani

Fonte: google.it

I dote. l genere ha una storia che procede da secoli - ma con una forte accelerazione trasformativa in questi decenni - incontrando difficoltà perfino quando le leggi si piegano ad accogliere la parità. Di recente è stato respinto il report presentato dalla parlamentare portoghese Edite Estrela che si riprometteva di prospettare standard comuni dei diritti riproduttivi per tutta l’Unione Europea: l’espressione suscita sempre sospetti perché ha a che vedere con la libertà femminile. Infatti le difficoltà incominciano con la scomodità giuridica di un corpo che per secoli è stato un oggetto di proprietà degli uomini, dei padri che consegnavano una figlia ad un altro uomo, spesso in cambio di una Per il mondo occidentale il problema all’ordine del giorno in questi tempi è motivare, in democrazia e in parità, il fatto che ovunque, a tutti i livelli sociali, troppe donne vengono uccise “da chi dice di amarle”. Per il resto del mondo il problema è lo stesso, aggravato da conseguenze - da noi scomparse - quali l’accettazione della sottomissione, la violenza del sesso forte, la discriminazione sociale, gli impedimenti al diritto allo studio e al lavoro, la cittadinanza dimezzata e il voto condizionato. E perfino le mutilazioni genitali che certamente, al femminile, non corrispondono a nessuna circoncisione, anche se ai tempi di Erodoto si chiamavano “circoncisione faraonica”.

Eppure la globalizzazione economico-finanziaria e, in particolare, la crisi generalizzata imporrebbero una globalizzazione culturale nuova, dentro la quale la relazione tra i generi è un aspetto rilevante. Non abbiamo ancora molto chiaro quanto il mondo si stia trasformando perfino antropologicamente; ma le donne continuano a rappresentare un “settore sociale” storicamente penalizzato, mentre rappresentano metà dell’umanità e una potenzialità ancora inesplorata di cui la società non può continuare a privarsi.

Evidentemente le società, diverse nella successione storica del tempo e nella localizzazione culturale geografica, hanno fin qui rappresentato un modello comportamentale femminile che non è mai stato congruo ai bisogni e ai desideri delle donne. Tutti i miti delle origini lasciano intravedere la presenza di una “potenza” della donna che dà continuità alla vita e un contrasto con il “potere” che gli uomini attribuiscono a se stessi: quando il mondo romano fissa i caratteri del diritto, stabilisce che alla donna spetta il matrimonium, cioè il “ruolo” della madre, mentre il patrimonium amici di follereau n. 3 / marzo 2014 |

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profezia

raffigura la proprietà di un uomo su una famiglia che comprende la casa e i suoi beni, comprese le persone che la abitano, siano donne, bambini, servi.

Purtroppo è rimasta latente nei secoli la concezione maschile del diritto proprietario che controlla e opprime la donna anche quando la si dichiara “uguale” e “compagna”. Nemmeno il Cristianesimo è riuscito a sconfiggere il pregiudizio che vedeva l’ebreo ringraziare quotidianamente Dio per non essere nato “né schiavo, né pagano, né donna”. Oggi non solo le conseguenze della discriminazione sono diventate intollerabili, ma la crisi di sistema ha bisogno di recuperare tutte le capacità e competenze per evitare la prosecuzione fino al fallimento di un modello allocato su standard di competitività e di violenza, sia nel mercato, sia nei connotati culturali. Perché da noi i media hanno fin qui sottolineato l’ingiustificabile fenomenologia dei femminicidi, agiti da uomini che dicono di amare; ma in India una ragazza è stata stuprata da almeno dodici persone “per punizione” di essersi fidanzata con un uomo di altra fede religiosa e il giudizio è stato eseguito su un palco pubblico in modo da permettere a tutti, compresi i bambini, di vedere senza che nemmeno la madre potesse salvarla.

In Marocco Amina Filali aveva sedici anni: dopo essere stata stuprata e picchiata il giudice l’ha costretta a sposare il suo aguzzino secondo la legge che prevede il matrimonio riparatore quando la vittima è minorenne. Amina si è suicidata. In Turchia, secondo i dati del ministero degli Interni locale, nel 2009 sono state uccise 171 donne, 177 nel 2010, 163 nel 2011 e 155 nel 2012; assassini sono stati i mariti, i padri, i fratelli, i cugini il cui onore (non quello delle donne che evidentemente non possiedono onore) è leso da presunte trasgressioni femminili.

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amici di follereau n. 3 / marzo 2014 Desmond Tutu - ma non è stato il solo - ha chiamato gli uomini a farsi carico delle loro responsabilità perché “è profondamente triste, anche se forse non sorprendente, sapere che circa il 70% delle donne fanno esperienza di violenza fisica e/o abuso sessuale durante la loro vita... Ma non prendetevi in giro da soli: quanti milioni di uomini hanno ferito donne e abusato di loro? Quanti altri milioni sono rimasti a guardare e hanno lasciato che ciò accadesse?”.

In Mali Aminata Traoré, ex-ministra, è stata la prima firmataria di un appello di donne contro la guerra a cui François Hollande, pur riconoscendo che le donne sono le prime vittime delle violenze, ha negato la possibilità di mettere fine al conflitto aprendo un dialogo: “negoziati con dei terroristi? non può essere”. Risulta evidente che la stessa concezione della vittima come “soggetto debole” impedisce di creare quelle situazioni concrete di pace (non solo in Mali e non solo in presenza di conflitti aperti), che sono la precondizione per riuscire a perseguire “un mondo migliore”, come diciamo tutti. Bisogna smantellare il vittimismo dalla tradizionale benevolenza compassionevole con cui si giudicano (e si sottovalutano) le capacità di quel “soggetto debole” che è ritenuto essere la donna: la forza, tenendo conto del potenziale di violenza (e di armi) che abita il mondo non ha più senso. Ma per attraversare i conflitti senza volerli trasformare in guerra, l’alleanza con il genere sottostimato - che oggi ha presenze di alto livello ad ogni latitudine - la presenza delle donne, delle loro competenze, della loro cultura è diventata condizione politica di convivenza e sopravvivenza dell’umanità. Non possiamo permetterci in nessun ambito, pubblico e privato, di farne davvero (la parola non piace alle donne, ma perfino i governi la usano) la risorsa. ■

primo piano

Perché non dobbiamo avere paura dell’Islam

glI stereotIpI deformano una realtà complessa, come Quella delle donne musulmane e dello stesso corano

Intervista a Shahrzad Houshmand a cura di Anna Contessini

M

i sento profondamente cittadina del mondo ma l’Iran e l’Italia dove ho vissuto in modo eguale i miei 50 anni hanno un posto particolare. L’amore per il sapere mi ha portata a studiare due diverse teologie in un lungo percorso durato più di 20

anni. Si presenta così

Shahrzad Houshmand

teologa musulmana. In Iran ha insegnato studi islamici e letteratura, in Italia studi coranici e spiritualità alla Pontifi cia università gregoriana. Presidente dell’associazione culturale “donne per la dignità”, dove iraniane e italiane cercano di fare da ponte per un contributo alla dignità umana partendo dal femminile che è simbolo di accoglienza.

In Italia, e non solo, le paure verso l’Islam e gli stereotipi si accumulano. Partiamo dalla condizione femminile. ritieni che l’Islam sia una religione contro la donna?

Non lo penso aff atto, anzi. Il Corano, che si presenta come un libro ispirato e rivelato, conferma la natura spirituale e divina anche del Vangelo e della Torà, o dei Salmi, e presenta la fonte di ogni libro sacro con un termine al femminile umm al kitab cioè madre del Libro. Il Corano guida così il lettore verso un’origine celeste della sapienza che è l’unica fonte divina dalla quale prendono vita i libri sacri, e quella fonte è donna. La città santa dell’Islam è presentata al femminile: la Mecca viene nominata umm al qura: madre delle città. Troviamo questa presenza nella stessa fi gura del profeta Mohammad, il Corano lo chiama: ummi, materno. Gli esegeti lo interpretano come vergine intellettualmente, visto che il profeta dell’Islam era analfabeta. Ciò viene paragonato alla vergine Maria che partorisce il Verbo, così un messaggero del deserto, orfano e analfabeta, fa nascere un libro divino. Tre parole di fondamentale importanza al femminile: il libro sacro, la città santa e il profeta. Il Dio coranico non si fa aff errare essendo infi nito, perciò non è né padre né madre. Ma i due nomi più importanti usati dal Corano Rahman e Rahim, ripetuti all’inizio dei suoi 113 capitoli, e che letteralmente signifi cano Amore e Misericordia, hanno la stessa radice in comune con la parola rahem: l’utero materno. Perciò il Corano insegna sottilmente che il Dio unico dell’universo è più madre che padre. Accoglie nel suo Essere il creato, lo sostiene, lo nutre e lo protegge.

Le donne musulmane hanno elaborato un proprio pensiero. Possiamo parlare di una teologia musulmana femminista?

Dipende da che cosa intendiamo per femminismo. Se si intende un cammino fatto da donne che attraverso lo studio e le opere sociali cercano di valorizzare il femminile e, quando necessario, di combattere le interpretazioni maschiliste, allora sí, esiste una teologia femminista islamica. Si potrebbero ricordare centinaia di intellettuali, studiose ed anche esegeti donne in diversi angoli del mondo, senza dimenticare le migliaia di donne che sono al lavoro nel campo politico, sociale, educativo, giudiziario. Due donne musulmane hanno vinto il premio Nobel per la pace: l’iraniana Shirin Ebadi (2003) e la yemenita Tawakkol Karman (2011), due credenti, convinte che non sia l’Islam ad opprimere donne e uomini ma la sete del potere, che mette al suo servizio interpretazioni discriminatorie. Non si può negare la situazione disastrosa delle donne in Afghanistan, ma in quella terra violentata e massacrata soff rono uomini e donne e bambini, e non può essere presa come esempio. Nessuno ricorda che il più popoloso paese a maggioranza musulmana, l’Indonesia, ha avuto come presidente della Repubblica una donna. Basta navigare sulla rete per scoprire che alla donna il diritto di voto in molti paesi a maggioranza musulmana è arrivato prima che nei paesi occidentali. Le donne musulmane sono al lavoro, a volte ad un durissimo lavoro, dove è stato rubato loro il diritto di esprimersi pienamente in tutti i campi.

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Fonte: google.it

Fonte: google.it

Fonte: google.it

In Italia, come sei stata accettata in quando musulmana, e in quanto donna?

Ho notato una netta differenza prima e dopo l’11 settembre. Prima ero una specie interessante, direi quasi esotica, da scoprire, conoscere e con cui dialogare, ma dopo la fabbrica del terrore tutto è cambiato.

Da dove nasce, secondo te, il timore, talvolta la paura profonda, anche nella gente comune, nei confronti dell’Islam?

Siamo immersi nel mare dell’informazione e purtroppo quando non c’è una base solida di conoscenza, i mezzi di comunicazione possono canalizzare informazioni deformate. Non è difficile presentare un’intera nazione attraverso le sue mancanze, reali certo ma non maggioritarie. Il fenomeno del terrorismo esiste anche nel mondo musulmano ma non supera 1% della sua popolazione.

Vedi sforzi per una migliore comprensione dell’Islam?

Al di là degli stereotipi, o a volte delle vere fabbriche di paura, ci sono grandi centri di studio sull’Islam in Europa e tanti centri per il dialogo sponsorizzati dalle due parti. È un lavoro importante perché ha effetti sulla vita di milioni se non miliardi di persone. Sappiamo il ruolo negativo di un pensiero razzista abusivamente poggiato su una rivendicazione a volte religiosa. Studiosi e teologi hanno una responsabilità enorme: le loro conoscenze dovrebbero essere libere dalle varie forme di attaccamenti nazionali,

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amici di follereau n. 3 / marzo 2014 regionali, razziali o religiosi per accostarsi in modo libero alla conoscenza. Le religioni non dovrebbero essere dei partiti ma puri pensieri a favore del benessere globale. Oggi sono più di un miliardo e mezzo i musulmani nel mondo. I pensatori cristiani dovrebbero tener conto del fatto che come non si può parlare di un solo cristianesimo anche le forme presenti dell’Islam sono varie. Non favorisce la convivenza ridurre l’Islam al terrorismo e le donne musulmane a situazioni estreme di guerra.

Come vedi la figura di papa Francesco? Bergoglio ha scelto un nome molto evocativo anche nei confronti dell’Islam.

Visitando Assisi ho notato che san Francesco aveva tenuto pochissimi oggetti con sé, tra questi i doni del sultano. I veri credenti si ritrovavano fratelli ed amici. Francesco sta facendo un lavoro di evangelizzazione autentica. Inoltre presenta l’Islam e il suo messaggio originale come una religione di pace, spiegando che sono alcune interpretazioni che portano un messaggio contrario. Questa è fede autentica, una fede profonda certa, sicura che ha trovato la pace nel Signore e perciò il prossimo è amabile, rispettabile, dignitoso al di là di ogni sua apparenza. Questa voce attira, sono milioni i musulmani che amano papa Francesco e perciò possono amare Gesù, e così possono superare gli stereotipi sui cristiani colonizzatori. Papa Francesco come il suo santo è capace di creare fratellanza, amicizia tra i figli dell’unico Dio. In un momento difficile della storia c’era la necessità di una presenza come la sua. ■

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Fonte: google.it

Emergenze: mettiamoci un band AID

Quando le celebrItà sI prendono la scena e glI ultImI fanno da contorno nelle crIsI umanItarIe e nella cooperazIone

di Davide Maggiore

Q uando parliamo di cooperazione siamo ancora fermi a Band Aid? Vent’anni fa questo super gruppo musicale che riuniva i più grandi nomi della musica britannica e irlandese lanciava un singolo destinato a spopolare, Do they know it’s Christmas? L’obiettivo era raccogliere fondi contro la fame in Etiopia: il successo spinse uno degli ideatori, il cantante Bob Geldof, a lanciare l’anno dopo l’evento Live Aid, destinato ad essere ricordato soprattutto per un altro brano musicale, We are the World. Da allora, l’abbinamento celebrità-cause umanitarie si è tanto diffuso da non essere più messo in discussione, quando si tratta di avvicinare il ‘grande pubblico’ alle questioni umanitarie.

In Italia è stato il programma tv Mission - trasmesso in due puntate su Rai1 il 4 e il 12 dicembre 2013 - a suscitare sul tema un dibattito acceso. È giusto mandare nei campi profughi personaggi del piccolo schermo e telecamere per raccontare la vita dei rifugiati, e per dare visibilità a organizzazioni impegnate sul campo (in questo caso Unhcr, parte del sistema delle Nazioni Unite, e Intersos) e ai loro progetti di raccolta fondi? La risposta di chi ha recensito Mission è stata per lo più negativa. E anche il successo è stato più ‘finanziario’ (le donazioni raccolte attraverso sms sono state pari, nella sola sera della prima puntata, al triplo di quelle registrate nella settimana precedente), che di pubblico: lo share, il 4 dicembre, si è fermato all’8%.

Appare condivisibile il commento sul tema diffuso dalla Federazione della Stampa Missionaria Italiana (Fesmi): “Le testimonianze, le storie di dolore, di violenze subite e raccontate ai noti personaggi televisivi - si legge nel comunicato - hanno toccato certamente la sensibilità dei telespettatori, i quali hanno potuto verificare le terribili condizioni di vita di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini costretti a fuggire dal loro paese d’origine”. Tuttavia, prosegue il testo “era necessario anche mettere in evidenza (…) quali sono gli interessi e i fattori economici, amici di follereau n. 3 / marzo 2014 |

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politici e geostrategici che scatenano conflitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi (…) le cause e le complicità che protraggono questi conflitti”.

I limiti denunciati dalla Fesmi, va detto, non sono propri solo del programma di Rai 1, in cui spesso i ‘vip’ non sono stati semplici voci narranti, ma il centro dell’attenzione delle telecamere, con i rifugiati a fare da contorno. Lo ‘stile Band Aid’ sembra essere ormai proprio di buona parte dell’informazione generalista, quando si discute di cooperazione e temi umanitari.

di Luciano Ardesi

ad esempio, in relazione all’impegno dell’attore George Clooney più che per l’effettiva situazione politica del paese), almeno un evento ‘mediatico’ che faccia da catalizzatore. Può essere un concerto o una prima tv, ma anche un video di attivisti (occidentali) su YouTube, come accaduto, due anni fa, per Kony 2012, capace di attirare - pur con diverse imprecisioni - l’attenzione sulla sorte dei bambini-soldato in Uganda.

Ma una volta affrontata la notizia con toni sensazionalistici (e parole come: ‘dramma’, ‘emergenza’, ‘tragedia’), la situazione che l’ha originata torna nell’ombra, fino all’esplosione successiva: chi, tra il grande pubblico, ha più sentito parlare del signore della guerra Joseph Kony dopo l’exploit del video? Chi si preoccupa delle cause strutturali (e non risolvibili da una mobilitazione una tantum) delle carestie del Corno d’Africa, contro cui si mobilitavano le star della musica negli anni ’80? Puntare solo sui volti noti, poi, ha altri rischi; primo tra tutti quello di banalizzare l’idea stessa della cooperazione. Questa è ridotta alla semplice assistenza e appare qualcosa cui persino il ‘famoso’ di turno può dedicarsi senza preparazione e senza sforzo; in più, l’impatto concreto delle iniziative viene immediatamente associato a quello mediatico: ma lo scavo di un pozzo, ad esempio, porta più sviluppo e benefici di un intero campo profughi, pur non facendo notizia.

Quel che è peggio è che lo stereotipo finisce per investire intere aree del mondo: si pensi all’Africa, ormai automaticamente associata a guerre, emergenze e crisi d’ogni genere, quasi riassumesse tutte le disgrazie del pianeta. Tanto che il sito internet di un grande quotidiano italiano (www.repubblica.it) inserisce ormai da tempo le notizie dal continente nella pagina “mondo solidale” e non in quella degli esteri. Questo modo di guardare all’universo umanitario e della cooperazione, puntando magari forzatamente l’obiettivo sui più deboli tra i deboli (donne e bambini, soprattutto), impedisce anche di vedere quegli elementi che puntano in una direzione completamente diversa.

Si prendano, ad esempio, proprio le donne africane: ‘in positivo’ sembrano fare notizia solo singolarmente, quando rappresentano, in apparenza, un’eccezione (come l’attrice Lupita Nyong’o la cui storia è di solito riassunta con un “dal Kenya a Hollywood”), mentre il loro contributo collettivo allo sviluppo e alla pace è trascurato. Eppure gli esempi di donne capaci di contribuire in prima persona allo sviluppo non mancherebbero: da quelle (1300, contro solo 100 uomini) che in Burundi hanno contribuito a piantare 400 mila alberi nella foresta a rischio di Kibira, o a quelle del Sud Kordofan sudanese, che una ricerca delle Nazioni Unite definisce “influenti nella risoluzione dei conflitti” pur se rimaste ai margini del potere locale. Forse è da qui che possono ripartire il dibattito e i tentativi (sempre benvenuti) di informare sulla cooperazione: dall’augurio, cioè, di vedere magari una donna di Bujumbura o del Sudan fare da voce narrante - in positivo - in un Mission riveduto e corretto, sottraendo per una volta il palcoscenico alla retorica di attori e rockstar.

Fonte: google.it

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CONVENZIONE SUI DIRITTI DELLE PERSONE DISABILI

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progetti

Quando le donne si muovono in Mozambico

Il progetto nella provincia di manica vede le donne al centro dell’iniziativa per promuovere il benessere socio-sanitario della popolazione

di Luciano Ardesi

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a bicicletta di Teresa

Teresa vive in un piccolo villaggio della provincia di Manica, nel Mozambico centro-occidentale. Ha perso entrambi i genitori e vive praticamente tutto il giorno nella sua capanna, sdraiata per terra, guardando il tetto di paglia che la sovrasta. Non può muoversi da sola, perché ha una grave malformazione alle gambe ed anche le braccia non la sorreggono. In questa regione Aifo promuove un programma socio sanitario molto articolato e indirizzato, tra gli altri obiettivi, a sostenere la scolarizzazione dell’infanzia, con una particolare priorità per i soggetti vulnerabili, come orfani e disabili. Attraverso la Chiesa Anglicana, uno dei partner locali del progetto, Aifo viene a conoscenza della particolare condizione della bambina che ha ormai 12 anni, ma la cui vita sociale, oltre che fisico-motoria, è fortemente limitata. Si decide di farsi carico della vicenda. Un artigiano locale costruisce una carrozzina, personalizzata secondo le sue esigenze, e che permette a Teresa di poter star finalmente seduta, di parlare normalmente con quelli della sua età e con gli adulti. Grazie alla solidarietà comunitaria la bambina può spostarsi, incontrare gli altri. La “bicicletta di Tersa” diventa così un’esperienza che la comunità decide di raccontare. È l’esempio di come anche un piccolo contributo possa cambiare completamente la vita di una persona. La storia oggi è anche su YouTube (digitare: La bicicletta di Teresa).

Il Progetto Manica

Uscito da una lunga lotta di liberazione contro il colonialismo portoghese e da una tragica guerra civile, il Mozambico è uno dei paesi più poveri dell’Africa e del mondo. L’insieme delle infrastrutture è fortemente carente. Le insufficienze nel campo sanitario sono particolarmente gravi e a farne le spese è la popolazione. Il personale medico e paramedico è concentrato nei principali centri urbani, e pertanto il territorio nazionale mostra profonde disparità, soprattutto nelle zone rurali. In queste condizioni non stupisce che lo stato di salute della popolazione presenti gravi carenze. Il paese ha uno degli indici di prevalenza dell’HIV/AIDS più alti, tanto da costituire uno dei principali ostacoli allo sviluppo e alla crescita. Vi sono inoltre malattie, come la lebbra, la tubercolosi e la malaria, che hanno un impatto molto forte sulla salute ma anche sulla vita sociale dei mozambicani. La lebbra, in particolare, malgrado il numero di nuovi casi si sia relativamente stabilizzato (circa 1.100 nuovi casi all’anno), rimane una malattia endemica e un serio problema di salute pubblica, oltre che sociale. La Provincia di Manica, nel centro del paese al confine con lo Zimbabwe, è una delle regioni

Fonte: Sunil Deepak

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progetti

maggiormente colpite. Per migliorare lo stato di salute ed il benessere socio-sanitario della popolazione di questo territorio, Aifo promuove da tempo un’iniziativa integrata e multisettoriale, vale a dire con un ventaglio di azioni diversificate ma collegate tra loro.

Progetto socio-sanitario multisettoriale

Il progetto si integra nella politica socio sanitaria messa in campo dalle autorità nazionali, ed ha come partner locale la Direzione Sanitaria Provinciale, insieme ad altri soggetti: Kulima, una Ong locale, Kuzvipira, un’organizzazione ecumenica, AMPAL, l’associazione mozambicana che riunisce le persone colpite dalla lebbra, e la Chiesa Anglicana. Le iniziative Aifo nella Provincia di Manica sono gestite su base annuale e si inseriscono nel Programma Paese Mozambico predisposto dall’Associazione. Nel 2013 il progetto è stato cofinanziato dalla Regione Emilia Romagna e si è avvalso della collaborazione di due Ong italiane: EducAid di Rimini e GVC di Bologna.

e campagne di informazione. Lo scopo è di informare gli studenti e la popolazione sui sintomi precoci della lebbra e della tubercolosi, sulla prevenzione dell’infezione HIV, e di promuovere la salute collettiva (igiene domestica e ambientale). Materiale informativo (brochure e poster) è prodotto e messo a disposizione delle Unità sanitarie distrettuali.

Grazie agli incontri comunitari con le persone colpite dalla lebbra, è possibile insegnare semplici tecniche di fisioterapia da realizzare in casa, e come utilizzare i kit, distribuiti ai pazienti, per la prevenzione delle disabilità.

Infine Aifo favorisce l’organizzazione di Gruppi di auto aiuto, volti ad attivare iniziative generatrici di reddito. Si parte con un apporto finanziario iniziale per la creazione di un fondo comune, si garantisce la gestione delle quote mensili dei membri del Gruppo che, a rotazione, permette l’avvio delle attività generatrici di reddito, si prosegue con l’assistenza tecnica, la fornitura di attrezzature di base e materiali di consumo. Una particolare attenzione è dedicata alle questioni di genere, affinché alle donne sia possibile assumere un ruolo attivo nel promuovere il benessere della comunità. Nella formazione dei Gruppi, a seguito di diversi incontri nelle comunità, viene favorita la leadership femminile. ■

La leadership delle donne

Il sostegno al programma di Controllo della lebbra e tubercolosi della Direzione Sanitaria Provinciale consiste principalmente nella formazione del personale locale per aumentare le capacità di prevenzione, diagnosi e trattamento delle due malattie. Il personale è formato anche per poter identificare le persone che, a causa delle disabilità originate dalla lebbra, hanno bisogno di chirurgia riabilitativa; gli interventi sono realizzati nell’Ospedale centrale di Nampula, nell’omonima Provincia a nord di quella di Manica.

La formazione è estesa anche agli agenti di salute comunitaria e ai volontari individuati dai partner locali di Aifo. Si tratta di percorsi formativi che intendono favorire la diagnosi precoce dei casi di lebbra e di tubercolosi, di prevenire le disabilità e di gestire lo sviluppo di un programma di visite domiciliari settimanali per le persone con AIDS in fase terminale. Vengono organizzati incontri nelle comunità e nelle scuole,

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Mozambico, la forza di un popolo

Grazie alla Mostra fotografica di Paola Aliprandi, Aifo ha potuto testimoniare l’impegno da oltre trent’anni accanto al popolo mozambicano. La galleria delle fotografie di Paola Aliprandi è accessibile sul sito dell’autrice: www.alimmagini.com

La Mostra è disponibile per i gruppi che volessero allestirla.

Per informazioni e prenotazioni rivolgersi ad Aifo: [email protected]; tel. 051.4393212

progetti

Apriamo la grande muraglia

l’attivazione in cina di centri territoriali di salute mentale. coinvolgere i pazienti e i loro famigliari, informare correttamente i cittadini

di Tino Bilara

E siste un unico paese al mondo che ha, secondo le stime ufficiali, circa 17 milioni di cittadini con problemi mentali, questo paese è la Cina che solo negli ultimi anni sta cambiando l’approccio al tema della salute mentale, basato tradizionalmente sull’ospedalizzazione delle persone e sulla cura essenzialmente di carattere farmacologico.

Come affronta la Cina il tema della salute mentale?

La Cina ha cominciato ad affrontare in un modo diverso il problema della salute mentale dei suoi cittadini dopo il 2000. Fino ad allora si poteva contare solo sull’internamento della persona negli ospedali psichiatrici e su servizi che prevedevano l’uso esclusivo di farmaci. Le norme che regolavano questa istituzionalizzazione e il rispetto dei diritti della persona erano ambiti che rimanevano in un cono d’ombra. Nelle aree rurali poi i problemi erano maggiori perché i servizi esistenti erano concentrati solo nelle aree urbane. Il primo piano innovativo riguardante la salute mentale è del 2002 e aveva proprio l’obiettivo di attivare servizi di salute mentale territoriali in alcuni distretti, diminuire il numero delle persone internate negli ospedali, promuovere i diritti dei malati. Nel 2004 il Ministero della Sanità inaugurò un programma denominato “686” - prendeva curiosamente il nome dalle prime tre cifre del budget assegnato al progetto – che aveva lo scopo di migliorare le capacità del personale sanitario coinvolto e di informare la popolazione sul tema. Nonostante il finanziamento consistente e il numero di cittadini raggiunti (100 milioni!) il programma si fondava ancora sul modello dell’assistenza ospedaliera psichiatrica. Non introduceva vere esperienze di salute mentale comunitaria nell’ambito delle strutture sanitarie di base.

Per una psichiatria su base comunitaria

Leggere le testimonianze dei famigliari e dei pazienti che Aifo ha raccolto dal 2011, anno in cui è partito il primo progetto di questo tipo nel paese, è come trovarsi di fronte ad una grande muraglia invalicabile. “Mio figlio era molto malato – dice una madre della città di Tongling – avevo divorziato, se d’estate potevo coltivare un campo di grano per sfamarci, durante l’inverno questo non era più possibile”. Un’altra madre della stessa città racconta: ” Mia figlia ha avuto questo problema a cominciare dai 13 anni, ora ne ha 45; noi siamo poveri e spendiamo quasi tutto per le sue necessità. Lei ama cantare ma io non riesco più ad ascoltare la sua voce che canta”. Una famiglia da sola non può riuscire a sostenere il peso di un famigliare con problemi di salute mentale ma deve essere aiutata.

Il progetto che sta per partire affronta vari aspetti, a

Fonte: archivio fotografico di Aifo

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progetti

Fonte: archivio fotografico di Aifo

cominciare dalla formazione professionale del personale socio-sanitario locale. Psichiatri, infermieri, ma anche amministratori, sono formati sui principi della deistituzionalizzazione in psichiatria, sui programmi di salute mentale su base comunitaria, sui principi della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Lo scopo finale è quello di creare dei Centri di Salute Mentale territoriali e delle piccole Unità Residenziali dove i pazienti possano abitare per un periodo limitato di tempo. Il tema del lavoro e dell’indipendenza economica è invece affrontato con la creazione di cooperative sociali o con l’inserimento in quelle già esistenti.

Tutti questi sforzi devono però essere accompagnati da azioni tese a incidere sulla mentalità comune, azioni che smontino i pregiudizi e i luoghi comuni, dovuti spesso alla semplice ignoranza. Infatti, il progetto prevede un’opera di sensibilizzazione dei propri diritti attraverso la costituzione di gruppi di auto aiuto e associazioni di base che coinvolgono pazienti e famigliari. Su un altro versante, quello rivolto alla popolazione in generale, saranno realizzate varie azioni educative attraverso l’attivazione di uno specifico sistema di informazione sulla salute mentale, pubblicazioni e la produzione di un documentario.

Qualcosa è cambiato

“A casa non avevo niente da fare - racconta un paziente della città di Changchun - da quando c’è il Centro di Salute Mentale parlo ai medici, posso dipingere e fare attività riabilitative. Sono commosso, c’è un programma di attività ma possiamo gestirle e modificarle, sono anziano (55 anni) e ho la possibilità di proporre delle attività non solo per i più giovani. Vengo ogni volta che è aperto, tre

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amici di follereau n. 3 / marzo 2014 volte la settimana”. A sua volta un famigliare della città di Tongling dice: “A casa mio figlio rompeva tutto, mi ha anche picchiato. Da quando va al Centro è cambiato. Ora sta lavorando, fa le pulizie nel quartiere. Può guadagnare qualcosa. I soldi li conserva e si compra dei libri, mi ha anche fatto un regalo. La mia speranza è che possa anche avere relazioni con gli altri, soprattutto quando non ci sarò più”. Le testimonianze sono tante e tutte di questo tenore. La famiglia da sola non può risolvere i problemi di relazione, di lavoro, di tempo libero dei propri famigliari con problemi di salute mentale e questi servizi ne promuovono l’autonomia e l’inclusione sociale. I centri non servono solo ai diretti interessati, ma anche ai vicini di casa come si capisce dalla testimonianza di un responsabile di quartiere, sempre nella città di Tongling: “Da quasi 10 anni viviamo nello stesso palazzo in cui abita una persona con problemi di salute mentale. Avevamo paura perché il ragazzo picchiava la madre. Attraverso il Centro di Salute Mentale è stata fatta molta sensibilizzazione, è stato organizzato un pranzo per avvicinare la gente a queste persone. Il progetto ha cambiato la vita del quartiere, il Centro è un punto di riferimento fondamentale. I farmaci non possono risolvere tutti i problemi dei malati”. ■

Il Progetto sulla salute mentale

Il numero delle persone coinvolte e una cultura da rinnovare rendono importante questo progetto cofinanziato dall’Unione Europea. Aifo ha da poco iniziato le attività e continuerà a portarle avanti fino al 2017. Le iniziative, che si svolgeranno in 4 distretti sanitari, sono molto articolate e accomunate da una serie di intenzioni: formare il personale socio-sanitario, coinvolgere i pazienti e i loro famigliari in programmi di inclusione sociale, creare centri di salute mentale integrati nel sistema sanitario di base, sensibilizzare politici, amministratori e la cittadinanza sul tema dei diritti nel campo della salute mentale.

strumenti

Educare alla liberazione

l’IstruzIone strumento dI emancIpazIone non solo per la donna. la rIcchezza della dIfferenza

di Antonella Fucecchi *

E ducare significa iniziare un processo di formazione che conduce al rispetto di sé e degli altri, apre alla socialità e al pieno esercizio della libertà nel segno della responsabilità. Privare l’educazione di tali finalità significa trasformarla in un addestramento, un plagio, un indottrinamento ideologico. Educare è una attività eminentemente umana ed è un processo dinamico per favorire fin dall’età più tenera lo sviluppo delle potenzialità presenti in ogni individuo che permettono alla vita di essere degnamente vissuta. Privare una persona dell’accesso all’educazione significa ledere un diritto fondamentale e impedirle di costruire un percorso esistenziale in linea con attitudini e inclinazioni personali. Non educare è chiudere gli orizzonti, è limitare lo sguardo, è schiavizzare e strumentalizzare.

Per millenni alle donne è stato precluso l’accesso al sapere, al nutrimento intellettuale, alla libera espressione della propria genialità. In molti luoghi del mondo alla donna è impedito di venire al mondo con l’aborto selettivo, di crescere a causa dell’infanticidio, di gestire la propria sessualità con le mutilazioni genitali, i matrimoni combinati, le violenze e le aggressioni. In molti luoghi del mondo la donna è un male necessario, una macchina da lavoro. Se le bambine sono state spesso tenute lontane dall’istruzione e dalla conoscenza ciò è avvenuto perché la società ha elaborato per loro appositi percorsi obbligati di formazione destinate a trasformarle in madri di famiglia irreprensibili e in spose sottomesse. Il rigido controllo della vita sessuale e del piacere femminile ha prodotto in molti sistemi culturali il rito della castrazione femminile: amici di follereau n. 3 / marzo 2014 | 19

non c’è limite alle violenze perpetrate per impedire alle donne di divenire se stesse.

Le mutilazioni genitali segnano definitivamente, privano la donna di un diritto fondamentale e producono una mortalità interiore in termini di creatività, senso del sé e del proprio ruolo. Uccidere il diritto al piacere significa mortificare, avvilire per sempre. Tale pratica può essere arginata soltanto all’interno degli stessi sistemi culturali che l’hanno prodotta, favorendone anche una rielaborazione simbolica, se a tutte le donne verrà offerta la possibilità di accedere all’istruzione.

DIVenTAre Se STeSSI è IL Vero FIne DeLL’eDuCAzIone

Chi educa un bambino, educa un individuo, chi educa una bambina educa una generazione: basterebbe questa constatazione per comprendere che l’accesso all’istruzione rappresenta una occasione di evoluzione e di crescita per l’intera società e non è una questione di genere, ma coinvolge l’umanità nel suo complesso. Bisogna partire dall’emancipazione dalle logiche familistiche restrittive, dall’isolamento, dall’asfissia sociale. Uscire dalla tradizione è la condizione preliminare per innescare processi di crescita, per avviare un processo di democrazia autogeno. In un testo apparso in traduzione italiana nel 2009 dal titolo L’incontro delle civiltà, gli autori Courbage e Todd sostengono che il mondo arabo, nonostante le recrudescenze del fondamentalismo, è, in realtà, avviato su un cammino orientato alla democrazia che verrà raggiunta con tempi e mezzi propri grazie a un movimento di emancipazione femminile già in corso.

Secondo i due studiosi, infatti, stanno mutando alcuni parametri significativi. La possibilità per le donne di intraprendere gli studi universitari aumenta la consapevolezza e la coscienza di sé che produce come effetto immediato il rifiuto del matrimonio endogamico

Fonte: Marcello Carrozzo

prevalentemente tra cugini di primo e secondo grado, combinato dalle famiglie di origine, sostituto dalla tendenza a rimandare le nozze per scegliere liberamente come partner un uomo estraneo alla cerchia dei consanguinei. Tale soluzione si accompagna ad una riduzione del numero di figli per donna: la nascita del primogenito è ritardata da scelte di vita diverse e il nucleo familiare tende a ridursi per offrire ai nuovi nati migliori opportunità di crescita.

Quando questi processi sono in atto, una società si incamminerà definitivamente verso soluzioni politiche di tipo non autoritario e non patriarcale. L’educazione femminile è, dunque, un fattore di progresso che prepara l’intera collettività all’esercizio responsabile della propria libertà.

Tale considerazione è particolarmente vera per i paesi del mondo incamminati verso una rinascita che intende liberarli dalla morsa del fondamentalismo religioso e delle dittature militari, ma è tanto più vero anche per i paesi della vecchia Europa spesso poco vigili sull’applicazione e difesa di diritti conquistati a prezzo di sangue, non di rado traditi.

Se IL FeMMInISMo non BASTA PIù

Benché nel Novecento la condizione femminile abbia registrato un miglioramento irreversibile, le ondate di violenza in costante aumento indicano che per difendere il diritto delle donne alla vita, alla scelta consapevole e autonoma dei propri percorsi esistenziali le carte dei principi e i documenti non bastano. Ufficialmente in Europa tutti i diritti sono sanciti, certificati, ma nonostante le dichiarazioni, la condizione femminile anche nel nostro paese registra livelli di graduale peggioramento. Senza considerare la discriminazione praticata nei luoghi di lavoro e il sovraccarico di mansioni che una donna svolge nel corso della sua vita familiare e professionale, la condizione femminile è aggravata dalla violenza domestica praticata in modo più o meno segreto, dalle varie forme di restrizione, abuso, limitazione della libertà che rendono la sua vita più fragile e minacciata. Eppure proprio il secolo scorso ha dimostrato quanto il pensiero femminile possa essere fecondo e articolato, vibrante e nutrito di intuizioni profonde, capace di contaminare i linguaggi e di produrre visioni alternative a quelle elaborate al maschile. Nell’epoca post moderna e nei tempi liquidi in cui siamo immersi non si tratta di contrapporre polemicamente maschile e femminile, già in crisi per la rottura dell’identità di genere, ma di rivalutare la ricchezza della differenza e della complementarietà alla luce del bisogno di un nuovo patto e di una fertile stagione di dialogo. ■ *Centro di educazione alla mondialità (Cem)

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Esperienze

Dall’InDIa all’afrIca e rItorno

la determInazIone dI rosamma medIco e mIssIonarIa, una vIta passata con glI ultImI

di Nicola Rabbi

“ 61 a E ro molto giovane quando ho sentito che volevo vivere con i poveri. Ho parlato con una donna in un lebbrosario e le cose che mi ha detto non le ho più dimenticate. Avevo solo 15 anni e in quel posto lavorava mia zia che era anche suora: è partito tutto da lì”.

Inizia così il suo discorso Rosamma Antony Thottukadavil, uno dei testimoni invitati in Italia dall’Aifo in occasione della Giornata mondiale dei malati di lebbra, e le sue parole sono come un fiume in piena nonostante il suo italiano un po’ incerto. Ha molto da raccontare questa minuta missionaria laica indiana di 61 anni che ha attraversato il nostro paese incontrando alunni, studenti, genitori e semplici cittadini. La sua è la testimonianza di una vita passata a lavorare con i poveri, i disabili, i lebbrosi, dall’India all’Africa.

Il suo incontro decisivo è stato con quella donna, oramai guarita dalla lebbra ma di cui portava ancora i segni: “Sedeva tranquilla con le gambe incrociate e parlava lenta, raccontava la sua storia dolorosa, di madre che non poteva più tornare a casa dai suoi 4 figli”. Siamo negli anni ’60 e il pregiudizio verso i malati di lebbra è ancora molto forte e se quella donna, benché guarita, fosse tornata a casa, i suoi figli avrebbero fatto fatica a sposarsi, a mettere su famiglia perché i figli di lebbrosi erano visti con sospetto o apertamente evitati.

“Se non fosse stata accolta da mia zia suora - continua a ricordare Rosamma – quella donna sarebbe finita sulla strada. Ed io, dopo quell’incontro, avevo ben chiara una cosa: volevo diventare come mia zia!”.

un DISPenSArIo neLLA BArACCoPoLI

Nata nel sud dell’India da una famiglia cristiana, ha uno zio vescovo e alcune zie suore, una vocazione di famiglia insomma che la porta già a 22 anni a prendere i voti nell’Associazione Missionaria Internazionale con sede a Faenza (www.ami-

Fonte: archivio fotografico di Aifo

ima.net). Ma è solo 8 anni dopo, nel 1982, che a Cochin nello stato indiano del Kerala conosce l’Aifo e si lega ai suoi progetti. Decide di diventare medico e frequenta l’università prima a Roma, poi a Modena dove porta a termine i tre anni di specializzazione come medico chirurgo. Parte per la Tanzania e poi per l’Eritrea, qua si ferma per buona parte degli anni ’90 assieme ad un’equipe di medici. Siamo proprio nel periodo di guerra con l’Etiopia “La fame che ho visto in quel paese non l’ho più rivista; una volta ho spezzato del pane e ne è caduto un pezzettino, subito dei bambini si sono buttati nella sabbia per cercarlo, un pezzetto di pane”.

Ritorna a Cochin nel ’99 e vi rimane fino al 2007. Lavora in un dispensario, una specie di farmacia dislocata nei quartieri poveri della città. Il suo non è solo il lavoro di un medico ma è qualcosa di ben altro: “Cerco di conoscere i miei pazienti più a fondo; chiedo come va a casa, vado a trovare le loro famiglie per rendermi conto della situazione. A volte vado a conoscere anche i vicini che forse possono dare una mano”. Il dispensario è infatti frequentato anche da volontari, persone agiate, di fede religiosa diversa, che capiscono l’importanza delle attività del dispensario e vogliono dare il loro contributo. amici di follereau n. 3 / marzo 2014 |

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Esperienze

Fonte: Francesca Moore Fonte: Francesca Moore

Rosamma ricorda la storia di una coppia molto povera che aveva avuto due fi gli ambedue ammalati di distrofi a muscolare; una famiglia che abitava in un’unica stanza dove mangiava e dormiva. I fi gli non camminavano ma si muovevano sul pavimento spostandosi con le mani. Grazie ad un gruppo di studenti di ingegneria, che per tirocinio dovevano fare esperienze sociali durante il loro percorso di studio, sono state costruite delle carrozzine che adesso i due fratelli utilizzano quando vogliono muoversi.

Per quanto riguarda la lebbra, i pregiudizi tendono a diminuire anche se lo stigma c’è ancora: “In ambulatorio nei primi tempi quando vedevano pazienti segnati per via della lebbra, gli altri pazienti se ne andavano via, adesso nessuno va via perché hanno capito dal nostro comportamento e dalla nostra educazione sanitaria che loro non contagiano, perché sono guariti”.

non C’è TeMPo Per L’AMArezzA

Nella località dell’Assam, lo stato settentrionale dell’India dove Rosamma lavora adesso, la situazione è molto diversa: “Siamo andati là, perché è una realtà molto arretrata rispetto allo stato del Kerala, là c’ è la foresta. Quando siamo arrivati un gran numero di bambini moriva di diarrea, mancava una corretta educazione sanitaria ai genitori”. Del resto i medici disposti a trasferirsi in quelle zone dove manca perfi no l’elettricità sono rari e allora il lavoro di questi dottori missionari è ancora più prezioso. In pochi anni il numero di bambini morti per diarrea è diminuito enormemente. “Rimangono le morti per malnutrizione, e oltre alla cura bisogna fare molta educazione sanitaria ai genitori. Bisogna anche far capire ad una popolazione ancora analfabeta l’importanza dell’istruzione e spesso siamo noi stessi a pagare le rette scolastiche per permettere ai fi gli delle famiglie più povere di andare a scuola”. Non sempre sono storie a lieto fi ne, Rosanna ricorda con amarezza la vicenda di una mamma che venne a trovarla con una neonata malnutrita e in pericolo di vita. Passate due settimane dal primo incontro decide di andare a trovarla nelle foresta e dopo due ore di cammino e la traversata di un fi ume riesce a ritrovarla. La bimba sta ancora male e allora le lascia delle medicine con la promessa di ritornare dopo due settimane. Cose che fa ma ritrova la bimba nelle stesse condizioni e s’accorge che la mamma invece di darle il cibo le da delle foglie da masticare, una droga locale che la gente del posto usa nei momenti di diffi coltà per superare la stanchezza e la fame. Poi Rosamma deve partire dall’Assam e starsene lontano per un po’. “Al mio ritorno però mi veniva in mente sempre questa mamma con la bambina piccola. Avevo una strana sensazione e allora sono ripartita per andarle a trovare. Pensavo che la bambina fosse morta invece era la mamma che se ne era andata, si era suicidata; la bambina era viva e accudita dal nonno. Adesso la bimba è cresciuta e sta bene”.

Sono questi i momenti più diffi cili per Rosamma; “Qualche volta sento qualcosa dentro quando perdo una paziente, ma non possiamo salvare tutto il mondo, uno può fare solo il suo dovere. C’è sempre tanto da fare e non c’è tempo per essere depressa, triste”. ■

Fonte: Francesca Moore

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Fonte: Francesca Moore

Fonte: Francesca Moore Fonte: Francesca Moore

Il papa Francesco ha ricordato la GML durante l’Angelus di domenica 26 gennaio a piazza San Pietro, dove era presente uno striscione Aifo:

“Si celebra oggi la Giornata mondiale dei malati di lebbra. Questa malattia, pur essendo in regresso, purtroppo colpisce ancora molte persone in condizione di grave miseria. È importante mantenere viva la solidarietà con questi fratelli e sorelle. Ad essi assicuriamo la nostra preghiera; e preghiamo anche per tutti coloro che li assistono e, in diversi modi, si impegnano a sconfi ggere questo morbo.”

Un’occasione per farci conoscere e coinvolgere nuovi volontari

“Si è utili e ci si diverte” è la conclusione che abbiamo potuto trarre da questa giornata!”

amici di follereau

Mensile per i diritti degli ultimi, dell’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo) Via Borselli 4-6 – 40135 Bologna Tel. 051 4393211 – Fax 051 434046 [email protected] Lettere alla Redazione: [email protected] www.aifo.it

Direttore Responsabile

Mons. Antonio Riboldi

Direttore

Anna Maria Pisano

Redazione

Luciano Ardesi (Caporedattore), Nicola Rabbi

Progetto Grafico e Impaginazione

Swan&Koi srl

Hanno collaborato a questo numero

Rosamma Antony Thottukadavil, Tino Bilara, Giancarla Codrignani, Anna Contessini, Antonella Fucecchi, Shahrazad Housmand, Kanjano, Davide Maggiore, Anna Maria Pisano

Fotografie

Google immagini, Paola Aliprandi, Sunil Deepak, Marcello Carrozzo Per foto GML: Marco Petriachi, Luciano Ardesi, Nicola Rabbi Per la copertina si ringrazia Marcello Carrozzo Per l’illustrazione pag. 19 si ringrazia Marco Picco

Abbonamenti

Le attività dell’Associazione sono il frutto della solidarietà e della condivisione di coloro che la sostengono.

Puoi contribuire anche tu, sottoscrivendo l’abbonamento ad Amici di Follereau Ordinario 13 € / Simpatizzante 18 € / Sostenitore 30 € Tiratura xxxx copie Chiuso in tipografi a il xx/xx/xxxx Il numero di Febbraio è stato spedito il xx/xx/xxxx

Stampa

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DATA MEC srl, via Speranza, 31 – 40068 San Lazzaro (BO) Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana (USPI) Autorizzazione del Tribunale di Bologna N. 2993, del 19 aprile 1962

APPELLO Mozambico Puntare sulle donne per cambiare

Aifo è presente da anni in uno dei paesi più poveri al mondo per migliorare la situazione sanitaria e socio-economica della popolazione, partendo dal ruolo della donna nelle comunità.

Nella provincia di Manica, dove l’incidenza della lebbra, della tubercolosi e dell’infezione HIV/AIDS è particolarmente elevata, Aifo promuove e gestisce un’iniziativa socio sanitaria dalle prospettive incoraggianti grazie al protagonismo dei gruppi di donne nei villaggi rurali.

Per un aiuto concreto: • Sostegno ad un Gruppo di auto aiuto di donne per attività generatrici di reddito: 100 euro • Formazione di un medico locale per il controllo della lebbra e tubercolosi: 80 euro • Supervisione tecnica ai servizi di trattamento della lebbra e tubercolosi: 60 euro • Una visita domiciliare: 40 euro • Produzione di materiale per gli incontri di informazione nelle comunità: 30 euro

COME FARE LA TUA DONAZIONE

• Bollettino postale n. 7484 intestato ad AIFO - Onlus, Bologna • Conto Banca Popolare Etica IBAN: IT 89 B 05018 02400000000 505050 • Carta di credito American Express, Visa, MasterCard telefonando al n. verde Aifo • Pagamento periodico bancario - RID - richiedendo il modulo al n. verde Aifo

Numero verde 800550303

Le donazioni devolute in favore delle attività Aifo sono fiscalmente deducibili