una donna consacrata in continuo cammino formativo, compagna di

Download Report

Transcript una donna consacrata in continuo cammino formativo, compagna di

USMI LAZIO
Convegno per Animatrici di comunità
Roma, 13-15 febbraio 2015
FORMARSI PER FORMARE
"Godere dell'amorosa Presenza
per comunicare amore"
La superiora locale:
una donna consacrata in continuo cammino formativo,
compagna di viaggio di ogni sorella e della comunità.
Spunti di riflessione
Roma, 14 Febbraio 2014
Premessa
Il tema del Convegno: ‘Formarsi per formare’ riguarda l’essere della VC.
La consacrazione ha la sua radice nell’esperienza vocazionale, nella chiamata del Padre a stabilire
un’Alleanza di Amore profetica che richiede di essere costantemente curata e accompagnata, ‘formata’ per tutta
la vita, fino alla totale configurazione a Cristo Gesù.
La formazione, dunque, parte da questa esperienza vocazionale. E’ dentro tale esperienza che ogni
consacrata elabora la propria identità di donna chiamata alla sequela di Cristo per annunciarlo con la vita nello
stile del Carisma dei Fondatori.
La formazione permanente è una esigenza intrinseca alla consacrazione religiosa che impegna la
persona in un processo continuo di rielaborazione di se stessa e di conformazione a Cristo (cf VC 69).
Inoltre, l’idea di una formazione per tutta la vita, ampiamente condivisa dalla nuova sensibilità culturale,
scaturisce dalla natura stessa della persona, sempre aperta a successive maturazioni.
La formazione permanente, come dimensione della vita e processo sempre in atto, si rivolge a persone adulte
responsabili e impegnate nell’autoformazione, nella disponibilità a lasciarsi formare, potenzialmente capaci di
formare altre persone, in tutte le stagioni della vita.
Oggi si fa strada sempre più l’esigenza del Passaggio dall’idea di formazione come preparazione alla
vita, ad un compito specifico, all’idea di formazione intesa come dimensione della vita, intrinseca alla missione
che viene affidata..
Questa convinzione guiderà la nostra riflessione. Guarderemo alla consacrata, chiamata a svolgere nella
comunità un servizio di animazione e di governo, come a una persona sempre in cammino, aperta e disponibile
a collaborare con lo Spirito Santo e con le sorelle della comunità per diventare, giorno dopo giorno, ciò a cui è
chiamata ad essere, prima che a fare. Non si tratta solo di formare al compito, ma di formarsi costantemente
‘dentro’ il compito e grazie al compito che viene affidato.
Con la trasparenza del suo insegnamento Maria Domenica Mazzarello, la Fondatrice del mio Istituto –
scusate se vi propongo questa citazione, ma mi sembra molto appropriata - ci orienta a considerare tutta
l’esistenza come un progredire, tenace e perseverante, sulla strada dell’amore per Dio e per i giovani. Per
divenire sante e sapienti occorre ricominciare ogni giorno, vincere noi stesse, «fondarci sulla virtù vera e
soda» (L 49,6), vigilare attentamente sul nostro cuore perché sia «tutto intero per Gesù» (L 65,3).
1. Costruire il proprio essere, la chiamata a servire la comunità, sulla virtù vera e soda
Chi è chiamata ad essere animatrice e formatrice è sollecitata a sviluppare un modo di essere che la
rende compagna di cammino e punto di riferimento significativo nella comunità.
Donna radicata in Dio e docile al suo progetto, l’animatrice cerca di vivere con serenità la propria vocazione e
l’appartenenza all’Istituto, di cui approfondisce vitalmente la storia e la spiritualità. Sa porsi accanto e a servizio
degli altri in modo flessibile, propositivo, rispettoso, consapevole di essere lei stessa in cammino di continua
formazione.
Conosce la fatica delle lunghe maturazioni anzitutto in se stessa, come in ogni persona, per questo si impegna a
vivere le relazioni con fiducia e realismo, credendo profondamente nella forza dello Spirito.
L’essenza e il segreto dell’autorevolezza richiesta dal compito di Superiora è il carattere. Non è dunque
legata al temperamento che riceviamo dalla natura, ma al carattere che possiamo modificare, modellare e
rinforzare, e nel farlo acquistiamo coerenza, costanza ed equilibrio.
Il contenuto del carattere sono le virtù, l’insieme delle virtù umane. Se un’animatrice di comunità non si sforza
di crescere in virtù allo stesso modo in cui respira, sarà una superiora solo di nome. La virtù è più che un
semplice valore: è una forza dinamica che aumenta la nostra capacità di essere e di agire, così necessarie a chi è
chiamata a guidare una comunità. La virtù a sua volta produce fiducia e credibilità, senza le quali è quasi
impossibile svolgere il proprio servizio di animazione e di guida.
Alla superiora locale sono richieste in modo particolare:

Magnanimità: rispondere alla propria vocazione, realizzare la missione a cui si è chiamate, avere
obiettivi personali elevati, per se stesse e per gli altri.
La definizione classica di magnanimità è tensione dello spirito verso le cose grandi.
Le superiore sono interpellate ad essere magnanime.
. Nei loro sogni, che attuano grazie alla perseveranza e all’impegno nel loro lavoro, qualità che differenziano la
magnanimità dalla vanità. A quest’ultima piacciono gli onori e il prestigio delle grandi cose, mentre la
magnanimità ama il lavoro e lo sforzo che si deve mettere per realizzarle.
. Nel senso della loro missione: la missione è ciò che Dio spera dalla persona. L’animatrice è chiamata a
scoprire, giorno dopo giorno, questo che cosa e rispondere con fiducia e audacia. Si può correre il pericolo di
passare per la vita come attraverso un tunnel. Con questa ‘visione da tunnel’ non si vede al di là di se stessi.
. Nell’entusiasmo con cui si sforzano per arrivare alla meta: un entusiasmo alimentato dalla consapevolezza che
si vive e si lavora per collaborare alla costruzione del Regno di Dio, lì, nella piccola o grande comunità da
servire, con le persone che il Signore ci affida.
. Nella loro capacità di darsi obiettivi personali elevati, per se stessi e per coloro che li circondano: obiettivi
adeguati alle reali possibilità delle persone e della comunità e nello stesso tempo in sintonia con quanto diceva
Goethe: “Se trattiamo la gente per com’è la faremo peggiore, se la trattiamo come dovrebbe essere la guideremo
là dove dovrebbe stare”.
Magnanimità: animo grande, capiente che fa posto agli altri: E’ la forza che ci fa uscire da noi stessi,
permettendoci di intraprendere opere grandi. La persona magnanima impiega senza riserve le sue forze in ciò
che vale; è quindi capace di offrire se stessa. Non si accontenta di dare: semplicemente si dà.
 Umiltà: oltrepassare il proprio io e servire gli altri abitualmente e incondizionatamente.
L’umiltà non è un atteggiamento che riguarda le relazioni tra gli uomini: è un atteggiamento dell’uomo faccia a
faccia con Dio. L’umiltà è una virtù religiosa. Spinge l’uomo a riconoscere la sua condizione di creatura. E’
l’abitudine a vivere nella verità: la verità sulla propria condizione di creature, la verità quanto alle proprie
qualità e ai propri difetti.
L’umiltà è anche l’atteggiamento dell’uomo verso l’uomo. Grazie all’umiltà le superiore rispettano
spontaneamente ciò che viene da Dio in ogni creatura. Questo sostiene la volontà di servire: servire Dio presente
negli altri. Agendo in tal modo si sviluppa lo spirito di servizio
In contrapposizione all’umiltà, la superbia non genera verità ma bugie, non il desiderio di servire ma l’egoismo.
Chi disconosce la verità fondamentale su se stesso e sugli altri perde il contatto con la realtà. La superbia
trasforma l’ intimità della persona in un regno immaginario, accecandolo e rendendolo incapace di percepire la
bellezza del servire
Chi è vittima di questa cecità esistenziale ha una necessità vera di ciò che i greci chiamavano metanoia, una
profonda conversione del cuore.
La magnanimità (tensione dello spirito verso le cose grandi) e l’umiltà (umiliazione davanti a Dio e
davanti a ciò che è di Dio negli altri) sono due virtù inseparabili. Gesù Cristo dimostrò un grado estremo di
magnanimità nel compiere la più elevata missione che possa esistere: divinizzare l’uomo e portarlo alla salvezza
ed alla felicità eterna. Nello stesso tempo dimostrò un grado estremo di umiltà: assunse la condizione di servo,
morì su una croce ed offrì il suo corpo all’umanità come alimento spirituale.
 Prudenza: prendere decisioni buone e rette.
La prudenza o saggezza pratica non è frutto dell’accumulo di esperienze, quanto piuttosto della rilettura e
contestualizzazione delle esperienze.
2
La prudenza è una virtu fondata certamente su talenti personali, ma anche coltivata e sviluppata attraverso un
lungo tirocinio fatto di convivenza con le sorelle della comunità, con i laici, con i destinatari della nostra
missione, di condivisione della loro vita, di partecipazione ai loro interessi, di ascolto dei loro bisogni.
La prudenza, virtù di natura intellettuale, sostenuta da componenti affettive e volitive, consiste nella capacità di
cogliere con grande facilita e immediatezza il cuore della realtà, delle questioni che si pongono, dei ‘cuori’ delle
persone, così come emerge nella pratica e di impostare un'azione che risponda in maniera congruente e
flessibile a questa esigenza.
La prudenza si esprime nella saggezza pratica di chi sa deliberare, giudicare e decidere a tempo e luogo, in
modo serio e responsabile, cosa fare, come agire, quali relazioni instaurare.
Questa prudente saggezza non può che scaturire da una persona lei stessa impegnata in tale impresa. Come
afferma Romano Guardini, «la vita è destata e accesa solo dalla vita. La più potente forza di educazione consiste
nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico per crescere».
Anche qui mi permettete di citare Don Bosco, nel bicentenario della sua nascita. Dicono gli studiosi:
nell'intreccio tra la fede in Dio e la sua indomita volontà - che del contadino piemontese possedeva la pazienza,
la tenacia e la perseveranza – egli seppe compiere una vera metamorfosi trasformandosi dall'impulsivo ragazzo
dei Becchi nel don Bosco educatore, mite e calmo, capace di trovare la parola e il gesto più appropriato per
entrare discretamente nel cuore e nella mente di
ciascuno dei suoi giovani, si chiamassero Domenico Savio oppure Michele Magone.
E’ anche prudenza il cercare di prevedere per quanto è possibile le conseguenze delle proprie azioni.
 Fortezza: mantenere la rotta e resistere a qualsiasi tipo di pressione.
La fortezza è il sacrificio di se stessi per la realizzazione di obiettivi giusti e prudenti.
Ciò che costituisce l’essenza della fortezza è la resistenza. La capacità di resistenza rivela la forza più segreta e
profonda dell’uomo.
Per una superiora resistere significa prima di tutto restare fedele alla propria coscienza, indipendentemente dalle
circostanze, significa ‘stare’, uno stare che richiama lo ‘stabat mater’.
Nella vita quotidiana chi ha una responsabilità di governo è interpellata a
- essere coerente e chiara nei comportamenti;
- non abbattersi quando la comunità non incoraggia, non sostiene o addirittura rifiuta le proprie idee, anzi
ne fa oggetto di mormorazione e di critica; nella missione che viene affidata bisogna mettere in conto la
sofferenza;
- imparare a sorridere.
La capacità di resistere produce la pace del cuore, dello spirito e dell’anima, e il santo orgoglio per aver lottato
per una causa giusta.
 Dominio di sé: sottomettere le passioni allo Spirito e dirigerle verso la realizzazione della missione.
Prima di dirigere altre persone occorre imparare a dirigere sé stessi. È necessario acquistare la virtù del
dominio di sé, chiamata anche temperanza, che assoggetta le passioni, le emozioni e i sentimenti alla ragione,
canalizzando la nostra energia verso la realizzazione della nostra missione.
Il controllo di sé è inseparabile dall’umiltà. Crea nel cuore della superiora uno spazio per gli altri, uno spazio in
cui può concretizzarsi l’ideale del servizio. La persona intemperante poche volte è disposta a servire,
normalmente è centrata su se stessa.
Spesso si dimentica la virtù del dominio di se stessi nei libri sul servizio di autorità, ma ciò non sorprende: in
una società che mette al centro il piacere e la comodità materiale, il dominio di sé è una virtù rivoluzionaria.
Non solo, alcuni pensano al governo di una comunità come ad una attività, una cosa da fare che non avrebbe
nessuna relazione con propria vita “privata”, “personale” o “intima”.
Di fatto, basta considerare le conseguenze della mancanza di temperanza per capire quanto sia necessario per la
superiora coltivare la virtù del dominio di sé.
 La mancanza di temperanza pregiudica l’intelligenza ed oscura la luce della ragione. La persona che si
getta alla ricerca del potere, del denaro o del piacere perde il contatto con la realtà.
 La mancanza di temperanza pregiudica la volontà, mina la fortezza (capacità di mantenere la rotta) e la
giustizia.
 La mancanza di temperanza pregiudica soprattutto il cuore: ostacola la pratica della magnanimità e
dell’umiltà.
 La mancanza di temperanza pregiudica la fiducia.
Il dominio di sé ha un’influenza diretta su come la superiora assume la missione che le è affidata. Pensiamo per
esempio al famoso problema della gestione del tempo. L’animatrice sa che deve dedicare una parte molto
3
importante del proprio tempo a ciò che è richiesto dal proprio servizio: la pianificazione a lungo termine,
l’attenzione formativa alla comunità e ad ogni membro in particolare, a sostenere e dare vita, con la preghiera,
lo studio, la riflessione, la propria motivazione etc. Gli studi dimostrano che raramente le superiore dedicano più
del dieci per cento a queste funzioni essenziali. Hanno la tendenza a fare quello che loro piace, più che quello
che devono. Si tratta di umana debolezza naturale, ma è anche il fallimento del dominio di sé.
«Gli affari urgenti - afferma uno studioso in questo ambito - in generale balzano agli occhi. Ci fanno pressioni,
ci invitano all’azione (...). Normalmente li abbiamo sotto il naso. E sono gradevoli, semplici, divertenti! Però
altrettanto frequentemente sono privi d’importanza. L’importanza, d’altra parte, ha a che vedere con i risultati.
Ciò che è importante apporta qualcosa alla crescita della persona, della comunità, al desiderio di spendere la
propria vita nella missione».
Son molte le persone che occupano posizioni direttive ma che non sanno controllare le proprie passioni.
 Giustizia e carità: dare a ciascuno il suo ed entrare nel cuore degli altri.
Le superiore rispettano la dignità di coloro che hanno intorno quando rispettano il loro diritto a sapere la
verità, a essere trattati con fiducia e giustizia, a vedersi riconosciute per quello che sono e anche per ciò che
fanno. In questo modo danno a ciascuna ciò che le spetta. In verità le superiore fanno molto più di questo:
vivendo l’umiltà sanno che la vita è un dono di Dio e di conseguenza hanno la capacità di donare a loro volta,
pur non essendo obbligati a farlo.
Parlando in senso stretto, non “dobbiamo” agli altri la gentilezza, la mitezza e l’amore, e gli altri non hanno
il “diritto” di pretendere che pratichiamo con loro queste virtù. Eppure, quanto più profonda e vera è la nostra
conoscenza dell’uomo, tanto più capiremo cosa significhi trattare l’essere umano con giustizia. «Proprio perché
l’uomo è un essere personale - dice Giovanni Paolo II - non si può essere giusti nei suoi confronti [dargli il suo]
se non amandolo». Il problema non è la giustizia o l’amore ma la giustizia e l’amore.
La giustizia esige che tratti il mio prossimo non come uno “straniero”, ma come “un altro”. L’amore esige
che lo tratti come “un altro me stesso”. Per agire così è importante acquisire e maturare importanti qualità di
animazione: l’empatia, I’amicizia, il buonumore e la misericordia.
L’empatia è la capacità di mettersi al posto dell’altro, la capacità di percepire i desideri e i sentimenti dell’altro.
Praticare l’empatia è trattare ogni persona come un individuo unico, rispettare il suo temperamento e il suo
modo di essere, sforzarsi di capirne l’ambiente culturale, sociale e familiare in cui si è formato.
L’amicizia e il buon umore sono altre importanti virtù dell’animatrice. Il buon umore è il risultato della
nostra determinazione a servire gli altri. Il modo più sicuro per essere infelice è stare attaccato al proprio ego; il
modo più sicuro per essere felici è scordarsi di se stessi e servire gli altri.
L’amicizia è in crisi nel mondo moderno. Sono molti quelli che temono l’amicizia, perché temono i
doveri che comporta. Rifiutano qualunque forma di legame, compresi i più nobili. Non coltivano l’amicizia ma
relazioni e contatti. Ridono e scherzano ma non hanno alcun interesse per le persone. Le superiore al contrario
sono propensi a costruire amicizie, perché li muove il desiderio di servire. Amicizia, in effetti, è sinonimo di
servizio
Infine, praticano la misericordia. Perdonano facilmente. Non giustificano il male, ma cercano di portare
l’autore del male ad una conversione vera e profonda. Gesù Cristo non giudicò la donna adultera, ma le mostrò
la via che doveva seguire in futuro: «vai e non peccare più».
Ma, praticare la misericordia è un conto, tollerare un comportamento che costituisce un grave attentato al bene
comune è una cosa ben diversa. La superiora che, col pretesto della misericordia, agisse diversamente, si
comporterebbe ingiustamente verso quelli che subiscono le conseguenze della sua decisione, o meglio, della sua
indecisione.
«La giustizia e la misericordia sono unite tra loro - afferma Tommaso d’Aquino - al punto che l’una non può
funzionare senza l’altra; la giustizia senza la misericordia è crudeltà, la misericordia senza giustizia è la madre
della dissoluzione».
L’empatia, l’allegria, l’amicizia e la misericordia sono virtù di comunione, virtù che crescono con noi,
valorizzando anche la missione che ci è affidata. Portano alla comunicazione perché agevolano l’entrata nel
cuore degli altri.
2. Assumere con responsabilità la propria missione, mettendosi in cammino con ogni sorella
e con la comunità
Obbedire con spirito di fede alla chiamata ad essere animatrice e guida di una comunità non può essere un
atteggiamento passivo, tutt’altro… richiede grande senso di responsabilità, apertura, disponibilità a lasciarsi
trasformare dalle esigenze della missione, a investire tutto ciò che si è per formarsi, per maturare atteggiamenti e
4
valori richiesti dal proprio essere persona consacrata, secondo uno specifico carisma, e dalle sorelle, dalla
comunità che si è chiamate a servire.
Si richiedono alcuni passaggi che non avvengono spontaneamente, hanno bisogno di essere supportati e resi
possibili dalla consapevolezza che non si è persone arrivate, nominate superiore perché perfette o in possesso di
tutto quanto viene richiesto da questo compito, ma per approfondire l’esperienza vocazionale e tradurla in un
esercizio di maternità più profondo, più coinvolgente ed esigente.
a. Dalla docilitas alla docibilitas
Un passaggio nevralgico che favorisce la disponibilità a continuare il proprio cammino formativo, anche
e soprattutto quando si è chiamate ad essere animatrici di comunità, è quello dalla docilitas alla docibilitas. La
docilitas, infatti, quale semplice ossequio obbedienziale verso una categoria di persone chiamate superiori o
anche verso i ‘non superior’i, in certi momenti della vita, è atteggiamento un po’ passivo e che comunque
attende l’intervento dell’altro: mi hanno chiesto di fare la Superiora?...io che nella mia vita ho cercato di essere
sempre obbediente dico di si…e poi vada come vada …!. Questa può essere considerata la forma più eclatante
di ‘disobbedienza’.
La docibilitas, invece, sarebbe il pieno compimento e superamento della semplice docilitas. La persona
docibilis è colei che ha imparato un’altra libertà: quella di lasciarsi toccare e provocare dalla vita e dagli altri, da
ogni situazione esistenziale, bella o brutta. Non trascura né butta via nulla della vita. Anzi, è libera di imparare o
di lasciarsi educare e formare da essa e dall’esperienza d’ogni giorno, dal rapporto con gli altri, dai suoi stessi
fallimenti e peccati.
Docibilitas è la piena intraprendenza dello spirito, o una forma alta d’intelligenza, forse la più alta, tipica di chi
non sta ad attendere ordini che piovano dall’alto, ma prende lui stesso l’iniziativa per scrutare nella realtà quella
valenza e opportunità formativa di cui la realtà medesima è sempre piena, e di cui lui ha bisogno per la sua
crescita.
Non limita, di conseguenza, la sua obbedienza a quella canonica o ai momenti in cui gli altri, in particolare i
superiori, gli danno indicazioni comportamentali, ma cerca di sviluppare una sorta di obbedienza universale
(verso tutti) e come atteggiamento stabile (per sempre), proprio per sfruttare - idealmente - ogni opportunità
formativa.
Tale atteggiamento va formato, preparato e monitorato costantemente perché la persona non abbia
paure e chiusure nei confronti della realtà, ma sia libera di esserle attenta e protesa verso di essa; e libera pure di
lasciarsene toccare, condizionare, istruire, educare, provocare, metter in crisi, specie dalla realtà dell’altro.
La persona docibilis è persona che ha imparato a imparare, da tutti e per sempre, o soggetto libero di apprendere
la vita dalla vita e per tutta la vita. Sembra un gioco di parole, ma non lo è per niente, perché la vita,da
apprendere e da cui lasciarsi formare è sempre un dramma, anche quella consacrata,
La docibilitas, come intelligenza dello spirito e dei sensi, della sensibilità e della coscienza, implica alcuni
atteggiamenti a cui formarsi costantemente nell’esercizio del proprio servizio:
 Pieno coinvolgimento attivo e responsabile della persona, prima protagonista del processo educativo
La vita è piena di valenza formativa, anche le situazioni considerate negative (una calunnia, un insuccesso,
una malattia seria, persino una fragilità morale…) possono diventare occasione di crescita se ci formiamo a
porci dinanzi alla vita con senso di responsabilità, poiché la vita parla se c’è un cuore che ascolta. Nella
concezione della FP ordinaria il responsabile è indubitabilmente il singolo (mentre in quella straordinaria è
l’istituzione). Che è come dire (e ripetere) che ogni situazione esistenziale può diventare mediazione dell’azione
formativa del Padre, e dunque occasione preziosa per continuare nel proprio cammino formativo.
La formazione alla responsabilità è formazione
- al senso dell’io, anzitutto, come destinatario d’una proposta di salvezza, che però non si compie senza la
sua partecipazione responsabile;
- al senso dell’attenzione vigile per accorgersi dei tanti modi in cui questa salvezza, e la realtà di Dio, in
ultima analisi, si fanno presenti.
È in fondo la spiritualità del pellegrino come del vir ob-audiens, come di colui che porta una mano all’orecchio
ogni istante per scrutare il dono e la proposta che Dio gli fa nella vita.
 Atteggiamento fondamentalmente positivo nei confronti della realtà: di riconciliazione e gratitudine
verso la propria storia e di fiducia verso il futuro
5
Con questa seconda componente vogliamo alludere all’importanza di formarsi a rileggere la propria
vita, per cogliere quanta grazia e possibilità di crescita vi sia stata concretamente in essa, anche nei
momenti in cui non ci si è accorte o in cui non si ha comunque saputo accogliere la proposta divina
nella mediazione umana.
È il cammino, non semplice in verità, dell’integrazione (sul piano psicologico), o della ricapitolazione in
Cristo (su quello spirituale), grazie al quale è persino possibile riattivare l’esperienza vocazionale delle origini,
ridare senso a ciò che ne sembra privo o dare senso positivo a ciò che sembra averne solo uno negativo. Ed è un
lavoro indispensabile da compiere per riappropriarsi, in qualche modo, della grazia ricevuta, riattivarla in se
stesse. E soprattutto ci si pone con fiducia dinanzi al futuro, nella certezza che sarà anch’esso dono che viene
dall’alto attraverso il quale il Padre continua la propria formazione.
 Libertà interiore e desiderio di lasciarsi istruire da qualsiasi frammento di verità e bellezza attorno a
sé, godendo di ciò che è vero e bello
È l’atteggiamento prima chiamato del vir ob-audiens, ovvero di colei che cerca Dio, la sua presenza e la sua
parola di vita con così tanto desiderio e passione da imparare a riconoscerla anche quand’è difficile riconoscerla,
quand’è sottile o frammista a elementi che sembrerebbero contrari (un fallimento, una caduta, un’ingiustizia…);
è il contrario del credente rozzo che pretende i segni evidenti e non si rende conto che sta perdendo una certa
sensibilità interiore, spirituale. È fondamentale formarsi ad una soglia percettiva bassa, per saper riconoscere il
tutto nel frammento, per imparare a ricondurre ogni circostanza della vita, anche le più avverse, a ciò che
possono svelare la verità di sé.
Docibilitas è anche coscienza di non sapere o di sapere molto poco, per questo è pure disponibilità e desiderio di
apprendere da ogni frammento di realtà e da ogni altro.
 Capacità di relazione con l’alterità, di interazione feconda, attiva e passiva, con la realtà
oggettiva, altra e diversa rispetto all’io, fino a lasciarsene formare
Se la relazione interpersonale rappresenta la mediazione formativa per eccellenza, occorre una continua
autoformazione mirata in tal senso, che metta in condizione di lasciarsi provocare, metter in crisi dall’altro, di
accogliere quella verità (per quanto minima) di sé che emerge nel rapporto con l’altro, d’imparare da lui, di
lasciarsi confrontare e anche condizionare dall’altro e dai suoi limiti, fino al punto di lasciarsene educare e
formare. L’altro come colui che non si è ha scelto e da cui non si è state scelte, come possono essere gli amici e
pure la gente qualsiasi, gl’incontri imprevisti, anche quelli faticosi. Senza tanta distinzione tra santi e meno
santi. Poiché il Perfetto sopporta l’imperfezione.
Tale disponibilità nei confronti dell’altro è in fondo un simbolo del senso della vocazione cristiana come
chiamata che viene da un Altro, e che si compirà in pienezza quando “un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu
non vuoi” (Gv 21,18). Allora sarà richiesto il livello più alto di docibilitas, ma sarà molto dura per chi non ha
imparato quest’arte e libertà interiore.
Questi atteggiamenti mettono la persona dell’animatrice di comunità in condizione di “imparare a
imparare”, ovvero di vivere in perenne stato di formazione per tutta l’esistenza. Proprio questo stato interiore
costante di libertà d’apprendere nella vita e dalla vita è il punto d’arrivo del proprio cammino formativo.
b. Dalla perseveranza alla fedeltà
Anche questa è una distinzione che si gioca tutta su un filo sottile che va al di là del puro e semplice
fatto di rimanere nella struttura, nella comunità, di continuare a svolgere un determinato compito. Che sarebbe
la semplice e materiale perseveranza. Molte volte, ahimè, ci si ferma alla perseveranza, ritenendola già virtuosa
(la “santa perseveranza”), senz’accorgersi che potrebbe esser solo o soprattutto esteriore o fatto puramente
materiale, di permanenza fisica.
La superiora si forma a vivere la vita come formazione permanente quando non s’accontenta di
perseverare nelle scelte compiute; ma quando è provocato a esser vigile per sfruttare le tante occasioni di
crescita che la vita offre, a scrutare i propri ideali di vita per coglierne sempre più senso e ricchezza, per lasciarsi
colpire dalle loro provocazioni a camminare, a convertirsi, a lasciarsi formare in continuazione dalla vita per
tutta la vita. E questa è fedeltà. Qualcosa di più della semplice perseveranza, che è sostanzialmente statica e
ripetitiva, mentre la fedeltà è dinamica e creativa.
Perseverante è colei che resta al proprio posto, resistendo in modo più o meno virtuoso alla tentazione
di cambiare e ribadendo la scelta già fatta, senza necessariamente approfondirla.
6
Fedele è chi decide di restare perché in quella scelta di dire si all’assunzione di un compito percepisce
un nuovo appello, un impegno più esigente, una maniera più ricca di vivere la propria vocazione: resta, ma non
sta ferma. Chi persevera solamente è passivo, al contrario di chi sceglie d’esser fedele.
Di conseguenza, si rispetta il contratto stipulato o si persevera così nel linguaggio parlato nell’impegno
preso, preso con se stessi, soprattutto, con una scelta perseverante che è segno di coerenza e serietà; il tipo
fedele, invece, si scopre dentro una relazione, si scopre amato, anzi, chi-amato, e decide d’esser fedele a Colui
che lo chiama. Se il perseverante è tutt’al più… fedele a se stesso e alla parola data, colui che è davvero fedele è
fedele al cuore donato, cioè fedele nell’amare e all’amore riscoperto continuamente, magari purificato e
rimotivato, più essenziale e vero; l’amore fedele è amore che cresce e, ancora una volta, impegnato e provocato
in un cammino di verifica di formazione continua.
La perseveranza richiama l’idea del proprio impegno formativo come imitazione, ove importante è
particolarmente la norma da osservare, magari a denti stretti; la fedeltà nasce, invece, dalla scoperta, in ultima
analisi, della fedeltà degli altri, della vita, d’un Altro verso di noi, è sentimento e atteggiamento umano che
sgorga da quello divino, indica un cammino d’identificazione coi sentimenti del Figlio.
Per questo perseverare e basta è questione soprattutto di volontà (a volte potrebbe esser questione
d’orgoglio o di paura) e operazione che alla lunga diventa molto difficile; mentre la fedeltà è questione di cuore,
è solo il risultato dell’amore, con maggiori garanzie di tenuta; chi è fedele scommette che sia possibile
impegnarsi anche nei sentimenti, essere fedeli anche a essi, non solo agli impegni, e proprio per questo giungere
a provare quelli di Cristo; ed è possibile scommettere sui sentimenti, di per sé, solo se si è fatto un cammino di
formazione dei sentimenti stessi e della sensibilità. Chi persevera ha in genere un forte senso del dovere, della
norma da osservare; chi è fedele va oltre il “si deve” e riempie la sua scelta di restare di motivazioni nuove che
la “costringono”, in qualche modo, a fare in continuazione quella discesa nel proprio cuore che apre alla
conoscenza progressiva di sé e delle proprie risorse per mettere tutto a servizio della costruzione del Regno
nello stile del proprio carisma.
Chi non va oltre la perseveranza, in particolare, di solito pensa alla formazione come a qualcosa che s’è
compiuto nella fase giovanile della vita e che va come scemando, dal punto di vista della disponibilità
formativa; chi vuol esser fedele cerca invece di crescere progressivamente nella docibilitas, fino a dare tutto di
sé, fino alla conformazione a Cristo e ai suoi sentimenti.
In altre parole chi è fedele il vero noviziato non lo fa da giovane, quand’è pieno di belle speranze e di
adolescenziali illusioni, ma lo fa nelle varie fasi della vita, quando la missione, i compiti che vengono affidati
richiedono di vivere con gli stessi sentimenti del Figlio anche i momenti di ‘morte’, nella piena assimilazione a
lui.
3. Mezzi per un vero progresso nell’esercizio delle virtù
La base dell’autorevolezza nel servizio di autorità è il carattere che si forma con l’esercizio delle virtù.
Nella lotta per vivere le virtù, facciamo ciò che Dio si aspetta da noi. La nostra strada può essere piena di
ostacoli ma la vittoria è certa: Dio non ci ha creati per il fallimento.
Consideriamo alcuni mezzi senza i quali non può esserci vero progresso nell’esercizio delle virtù.
1. L’esame di coscienza, che ci permette di valutare il nostro comportamento quotidiano e di conoscere i
nostri valori e le nostre priorità in ordine alla crescita personale e al sevizio che ci viene affidato.
2. La direzione spirituale, che ci aiuta a fissare obiettivi personali a breve e a lungo termine.
3. Il “piano di vita”, che va delineato e responsabilmente seguito.
Prima di esaminare in profondità i diversi punti, conviene esaminare gli ostacoli che irrimediabilmente
incontreremo nel nostro percorso.
Gli ostacoli
1. Il conformismo morale. Preparatevi a nuotare contro corrente, contro le onde potenti dell’egoismo,
del relativismo e del materialismo che inondano il nostro pianeta. Siate insensibili a quel che
diranno.
2. Il perfezionismo. Il perfezionismo e l’amore per la perfezione sono due cose ben diverse. Il
perfezionismo non accetta il fallimento; e quando il fallimento arriva, si sente umiliato e abbandona
7
la lotta. Il perfezionismo è frutto dell’orgoglio. Dobbiamo comportarci come atleti professionisti
che non si perdono mai d’animo e ricominciano dopo ogni fallimento. Ci occorrono la semplicità e
la flessibilità dei bambini che, dopo aver inciampato, si alzano rapidamente da terra come palloni di
gomma. Dobbiamo prendere ogni giorno, ogni ora della nostra esistenza come un nuovo capitolo
della nostra vita.
3. L’impazienza. La virtù, come il buon vino, matura lentamente. Se è vero che le nostre convinzioni
nei vari ambiti possono cambiare rapidamente, il carattere invece ha bisogno di tempo per
svilupparsi e maturare.
4. L’assenza di realismo. Di frequente dimentichiamo che le persone che ci circondano – in
particolare le sorelle della nostra comunità - sono delle collaboratrici privilegiate, benché
involontari, nel nostro cammino di formazione continua. «Senza gli urti che nascono dalla
convivenza col tuo prossimo, come faresti a perdere le asprezze, gli spigoli e le sporgenze imperfezioni, difetti - del tuo temperamento, per acquistare la forma regolare, brunita e fortemente
soave della carità, della perfezione?»(Escrivà).
Dobbiamo considerare le persone con le quali non andiamo particolarmente d’accordo come se
fossero un dono e non un peso da sopportare. Senza rendercene conto ci forniscono occasioni di
miglioramento personale. Dobbiamo esercitare la prudenza per decidere il modo migliore di trattare
con loro, il dominio di noi stessi per non adirarci, la fortezza per essere pazienti, la giustizia per dar
loro, nonostante tutto, quanto loro dobbiamo. In molti casi praticare la giustizia significherà aiutarli
a rendersi conto dei loro difetti e migliorare il loro carattere.
5. L’autocompiacimento. Abbiamo la tendenza a pensare che ciò che facciamo sia già abbastanza e
che non sia il caso di esagerare. Questa indulgenza con noi stessi è incompatibile con la
magnanimità. Bisogna respingerla ad ogni costo.
Ma, nella pratica, come posso gestire e anche, nei limiti del possibile, superare questi ostacoli, incluso
il più grande... me stessa?
Presento alcune ‘vie’ da percorrere, alcuni pilastri della vita spirituale, per rendere più efficace il nostro
impegno di crescere nella virtù.
Esame di coscienza
Prima di andare a letto, si dedichi un tempo, anche breve, a esaminare lo svolgimento della giornata. Ci si
lasci guidare dalla decisione ferma di sradicare i difetti personali per poter aiutare gli altri in modo efficace.
1. Non si perda di vista l’obiettivo dell’esame: conoscere le proprie qualità e i propri difetti, per
rinforzare le prime ed estirpare o almeno saper gestire i secondi. Cercare le radici dei propri difetti, ma
non dimenticare che l’esame di coscienza non è egocentrismo psicologico. La questione chiave per la
Superiora è sapere come utilizzare la propria libertà e non in che misura sia «vittima» della sua
esperienza di vita. L’esame di coscienza deve portare ad una costrizione sincera e a un desiderio
profondo di migliorare.
2. Si distingua tra gli effetti del proprio carattere e gli effetti del proprio temperamento. Si concentri
su ciò che deve cambiare (valori e carattere) e non su ciò che non deve o, probabilmente, non può
cambiare (il temperamento). Come già abbiamo visto, non si può cambiare temperamento come si
cambia un paio di scarpe. Se la persona è flemmatica per natura è assurdo agire come se fosse
passionale. Si concentri nel forgiare bene il carattere. Quanto più cresce in virtù, tanto più si equilibrerà
la sua personalità e si limeranno gli spigoli del suo temperamento.
3. Si cerchi di essere oggettive. Solo nell’incontro personale con Dio si raggiunge la vera conoscenza di se
stessi. Mettersi alla presenza di Dio chiedergli: «Chi sei tu?» e a seguire si faccia a se stesse la stessa
domanda: «Chi sono io? ». Solo dopo aver approfondito la coscienza della propria relazione
fondamentale con Dio, della propria vocazione, del senso della missione a cui si è chiamate, si potrà
vedere con maggior chiarezza quello che deve cambiare nella propria vita (comportamenti,
atteggiamenti, scelte…).
8
4. Si faccia di tutto per essere concrete. Non ci si chieda se si è buone o cattive. Queste considerazioni
generali non portano a nulla. Si rifletta piuttosto su quanto si è vissuto nelle ultime 24 ore, e ci si
proponga degli obiettivi concreti, vitali per il giorno dopo.
Direzione spirituale
Siamo abituati ad ascoltare tutti i tipi di guru e di saggi perché ci aiutino a migliorare in un modo o
nell’altro; siamo disposti a pagare per quello che ci offrono avvocati, idraulici, istituti di bellezza o palestre
perché crediamo ci offrano dei servizi necessari.
Ma da chi andremo se vogliamo percorrere con costanza la strada della progressiva configurazione a
Gesù, per assumere il suo modo di essere, di agire, di animare e siamo coscienti che non possiamo riuscirci
da soli?
Il direttore spirituale ci aiuterà a superare il quinto ostacolo, l’autocompiacimento. Ci aiuterà a conoscerci
meglio, a scoprire i nostri inganni e a orientarci nella vita quotidiana. La maggior parte di noi sarà stata colpita
dal sentire la propria voce in un registratore, rendendosi conto che è così come gli altri ci ascoltano. Ci avrà
colpito anche vederci in una fotografia che ci mostra come siamo realmente. Questo è l’impatto salutare che ci
dà l’incontro con un buon direttore spirituale. Il direttore è il megafono o la macchina fotografica che ci mostra
come siamo in realtà.
Per una direzione spirituale davvero efficace è necessario essere sinceri, non avere paura di mostrarci per
come siamo e obbedire alle indicazioni del nostro direttore.
Per trovare un buon direttore si ha bisogno di tanta prudenza perché deve essere un uomo di Dio, una
persona non perfetta, ma in cammino nell’esercizio delle virtù della saggezza, della prudenza e della pietà
profonda.
Ma cosa si fa nella direzione spirituale? Di cosa si parla? Di molte cose o di molte poche. Possiamo noi
stessi stabilire col nostro direttore quali sono gli argomenti di conversazione. Dobbiamo concentrarci in un’area
molto specifica del nostro carattere che ha bisogno di migliorare, quel difetto che ci impedisce di progredire più
rapidamente, di servire più evangelicamente le nostre sorelle e la nostra comunità. E di tanto in tanto
approfitteremo della direzione spirituale per toglierci un peso dall’anima e parlare delle nostre gioie e delle
nostre pene.
Gli incontri col nostro direttore spirituale avranno una certa frequenza, ma attenti al pericolo che
diventino luoghi e tempi di evasione, di creazione di dipendenze a vari livelli. È utile prendere appunti, mettere
per iscritto i propositi e all’incontro successivo spiegare al direttore come li abbiamo messi in pratica. Non
lasciare terminare l’incontro senza aver fissato prima, orientativamente, un appuntamento per la volta
successiva.
Ernesto Cofiño, un importante pediatra latinoamericano, che aveva capito perfettamente il senso della
direzione spirituale, scrisse nelle sue memorie: «Con mani amorevoli i miei direttori hanno tagliato la pietra
informe che ero: mi piaceva essere tagliato, godevo nel veder cadere spigoli e angoli. In realtà non mi accorgevo
dell’immagine che stava nascendo, ma avevo fiducia nello scultore»4.
Piano di vita
L’esame di coscienza e la direzione spirituale sono parte di un «piano di vita» più ampio.
Il piano di vita non è fine a se stesso, ma un mezzo per mantenere ed approfondire l’unione con Dio. I passi
del piano di vita, come afferma Escrivà: «Non devono diventare norme rigide, compartimenti stagni; indicano
un cammino duttile, adattato alla propria condizione di uomo/donna che vive in mezzo al mondo, con la propria
consacrazione, con una missione specifica, con doveri e relazioni sociali: da non trascurare, perché proprio in
questo si continuai a incontrare il Signore. Il proprio piano di vita deve essere come un guanto di gomma che si
adatta perfettamente alla mano che lo calza. Non dimenticare che quello che conta non è fare molte cose;
limitati a compiere, con generosità, quelle cose che puoi fare ogni giorno, sia che tu ne abbia o no la voglia.
Quei passi ti condurranno, quasi senza che te ne avveda, all’orazione contemplativa. Germoglieranno sempre di
più dalla tua anima gli atti di amore... E tutto ciò mentre assolvi i tuoi obblighi: mentre prendi il telefono o sali
su un mezzo di trasporto, mentre chiudi o apri una porta,mentre preghi, quando incontri le sorelle, quando inizi
un nuovo compito, o mentre lo svolgi o quando lo concludi; farai tutto alla presenza di Dio tuo Padre.
Quest’ultimo punto è essenziale. L’energia divina acquisita attraverso la realizzazione del piano di vita deve
riflettersi nel compimento delle nostre responsabilità ordinarie. Questa energia deve condurci a vivere
eroicamente ogni istante della giornata: alzarsi puntualmente quando suona la sveglia, evitando di rimanere a
sonnecchiare a letto; lavorare con attenzione, senza aver la testa tra le nuvole o perdere il tempo; fare per prime
le cose più importanti e dopo ciò che più ci piace; portare a termine ogni lavoro nel modo migliore possibile,
curando i dettagli; correggere le nostre sorelle (con carità) anche se lo troviamo difficile; essere amabile con
9
quelli con cui non andiamo d’accordo; sorridere anche se non ne abbiamo voglia; sopportare con buonumore le
contrarietà, grandi e piccole; stare con la comunità anche quando siamo morti di stanchezza; mangiare quello
che abbiamo a disposizione, evitando i capricci.
Se abbiamo imparato questo, avremo ottenuto la più grande delle vittorie.
Conclusione
In questo anno della VC siamo chiamate a ‘Rallegraci’, ‘Scrutare’, a operare un profondo cambiamento nella
qualità e nello stile della nostra VC. Il Papa ci sollecita ad essere sì radicali, ma soprattutto ‘profeti’ perché la
profezia è lo specifico della VC.
Quali caratteristiche deve avere il servizio di autorità in quest’ottica di autoformazione continua, di
rinnovamento 1:
•
•
•
•
•
•
•
•
1
Un servizio centrato sull’essenziale. L’essenziale per noi è Gesù Cristo, la testimonianza del Vangelo
secondo il carisma: con questa fedeltà sosteniamo i nostri fratelli nel camminare verso il Signore. Siamo
chiamati a vivere il discepolato come condizione essenziale ed indispensabile per svolgere la nostra
missione, coscienti di essere “all’incrocio del dono”: tutto ciò che Dio ci ha donato con la fede, la
vocazione, il carisma siamo chiamati a donarlo agli altri, partendo dai più prossimi a noi: la mia
comunità! Il nostro impegno di vita consiste nell’identificarci con Gesù, che ha messo al centro le
persone, ha usato misericordia e tenerezza, ha condiviso parole e gesti di profonda umanità e di
perdono. Possiamo accompagnare come Gesù solo se viviamo in profonda unione con lui e
contempliamo le persone con il suo sguardo benevolente e rispettoso.
Un servizio che ha la sua autorevolezza nell’autenticità. Ognuno di noi è chiamato a custodire la sua
libertà interiore e ad essere se stesso, senza irrigidirsi nelle dinamiche di ruolo. La nostra credibilità è
legata alla corrispondenza delle parole e dei gesti con la verità della vita, se non vogliamo sentirci dire
quello che Gesù disse dei farisei: dicono e non fanno! Il nostro impegno è liberarci dai segni mondani
del potere e dallo spirito di mondanità, testimoniando uno stile di vita semplice, umile e gioioso.
Un servizio che si esprime con profonda umanità. Siamo invitati a combattere con decisione la
cultura dello scarto che può entrare anche nella nostra vita, riconoscendo e difendendo i diritti
fondamentali di ogni persona; siamo chiamati ad avere il coraggio di esprimere tenerezza, soprattutto
verso i più vulnerabili; a riconoscere i nostri peccati e limiti; a non pretendere di avere sempre le
risposte per tutto e per tutti, ma piuttosto a ricercare pazientemente la verità insieme ai nostri fratelli e
sorelle.
Un servizio che sa esprimersi in modo semplice e diretto. Sentiamo l’importanza di usare un
linguaggio attuale; di ascoltare molto per imparare le parole che gli altri possono capire; di avere cura
della comunicazione e della sua pedagogia, cercando e trovando parole di senso, che toccano il cuore
delle persone, perché sono vicine alla loro vita.
Un servizio che è un “camminare con le sorelle e i fratelli”. Camminiamo con le sorelle e i fratelli,
come Gesù con i discepoli sulla strada di Emmaus: davanti a loro, per aprire la strada ed indicare la
meta, scrutando l’orizzonte nella speranza; dietro di loro, per metterci al passo dei più deboli,
preoccupati che nessuno si perda; in mezzo a loro, capaci di mescolarci nel gruppo, perché anche noi
siamo sulla strada, con le nostre fatiche e le nostre allegrie, con i nostri slanci e i nostri peccati, nel
comune impegno di fedeltà alla vocazione.
Un servizio che cerca la volontà di Dio insieme alle sorelle e ai fratelli. Valorizziamo il
discernimento e la collegialità per fare crescere la comunione, creando e consolidando le strutture
necessarie per la partecipazione, nella consapevolezza che il discernimento è un processo che chiede
pazienza e tempo, ascolto e dialogo, libertà interiore, spirito di fede e coraggio di assumere decisioni
secondo la propria responsabilità.
Un servizio “profetico”. Nell’insieme dei nostri atteggiamenti e delle nostre scelte cerchiamo di
cogliere e far cogliere i segni che invitano al cambiamento, ad esprimere profezia, visione di futuro,
vicinanza ai poveri. Siamo chiamati a vivere e testimoniare in modo più visibile, con le nostre scelte
concrete, il segno della fraternità, che ci unisce gli uni gli altri, superando le tentazioni di chiuderci
cullando solo ricordi invece che alimentare la speranza.
Un servizio che ha il coraggio di “uscire e far uscire”. Raccogliamo l’invito ad andare verso le
periferie geografiche ed esistenziali, in un vitale dinamismo di “uscita” sulle strade aperte del Vangelo,
Liberamente tratto da un intervento di p. Mario Aldegani, Superiore Generale dei Giuseppini del Murialdo.
10
•
•
in uno stato permanente di missione, liberandoci da ogni forma di rigidità istituzionale e di
autoreferenzialità, “per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può
lasciare le cose come stanno” (Evangellii Gaudium 25 = EG 25).
Un servizio che esprime e diffonde la cultura dell’incontro. Siamo invitati a promuovere e
testimoniare la “cultura dell’incontro” come stile di vita e di missione, con gesti di prossimità
specialmente verso gli ultimi, i deboli, i malati che sono in mezzo a noi la carne di Cristo.
Un servizio gioioso, portatore di speranza. Siamo chiamati a ravvivare la speranza delle nostre sorelle
e fratelli, a riscaldare i cuori, testimoniando il coraggio di aprire strade nuove, oltre i percorsi
consolidati e sicuri osando il nuovo, con fede e con speranza, in fedeltà creativa al carisma e alla
volontà dei Fondatori. “Non v’è maggiore libertà che quella di lasciarci portare dallo Spirito,
rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci
spinga dove Lui desidera” (EG 280).
Solo l’amore può tutto… «un amore senza misura, senza le nostre misure. Solo la preghiera ci fa perdere le
nostre misure e ci dà la misura di Dio» (Madeleine Delbrêl).
Testi di riferimento
HAVARD Alexandre, Leadership virtuosa, EDUSC 2014.
ALDEGANI Mario csj, Punti forza per l’esercizio della leadership nel contesto dei gesti e dell’insegnamento di papa
francesco
CENCINI Amedeo, Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, Cinisello B. 2003.
CENCINI Amedeo, L’Ora di Dio. La Crisi nella Vita Credente, Bologna, EDB 2010.
CENCINI Amedeo, Formazione permanente: ci crediamo davvero?, EDB 2011.
Altri appunti personali….
11