Lezione 6 Catalogazione

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Lo Stato italiano e i demoetnoantropologici
Nonostante ancora oggi gli aspetti
immateriali non risultino ancora chiaramente
definiti nella legislazione nazionale, il campo degli
archivi e quello della catalogazione hanno visto a
livello nazionale riconosciuto in forme meno
ambigue il settore dei beni
demoetnoantropologici, inclusa la sfera
dell'immateriale, secondo il modello della tutela
dei beni culturali che per Costituzione è riservato
alle azioni dello Stato rispetto alle azioni di
valorizzazione.
Lo Stato italiano e i demoetnoantropologici:
gli archivi
Sul piano degli archivi particolarmente importante a livello nazionale è stata la
costituzione di strutture e centri nazionali che a partire dal secondo dopoguerra
hanno raccolto e conservato la documentazione audiovisiva e sonora di ambito
demoetnoantropologico.
Primo fra tutti è il Centro Nazionale Studi di Musica Popolare dell'Accademia di
Santa Cecilia, oggi Archivi di etnomusicologia, nato nel 1948 per opera di Giorgio
Nataletti che raccoglie importanti documenti sonori di tradizione popolare e al
quale hanno collaborato etnomusicologi come Alan Lomax, Diego Carpitella ed
antropologi come Alberto Cirese ed Ernesto De Martino.
Negli anni successivi altri archivi importanti sono nati; nel 1962 per opera di
Diego Carpitella nasce l'Archivio Etnico Linguistico-Musicale della Discoteca di
Stato (oggi parte dell'Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi), che
documenta le forme dell'espressività orale, musicale e linguistica e qualche anno
più tardi rispettivamente gli archivi sonori e audiovisivi del Museo nazionale
delle arti e tradizioni popolari, entrambi nati per iniziativa dell'antropologa
Annabella Rossi.
Lo Stato italiano e i demoetnoantropologici:
la catalogazione dei beni DEA
A partire dal 1968, anno della costituzione dell'Ufficio
Centrale per il Catalogo e la Documentazione, poi
divenuto Istituto Centrale del Ministero per i beni e le
attività culturali (ICCD), l'Italia ha investito preziose
risorse pubbliche nella progettazione di modelli di
schede di catalogo su scala nazionale, prima cartacee
poi informatizzate e nella mappatura dei beni culturali
delle diverse tipologie.
L’Italia è uno dei pochi paesi europei a dedicare un
Istituto nazionale preposto all'inventariazione e alla
catalogazione del patrimonio culturale.
Lo Stato italiano e i demoetnoantropologici:
la catalogazione dei beni DEA
Già negli anni Settanta del Novecento il "folklore"
appare in un progetto nazionale di catalogazione,
dove fin dalle prime sperimentazioni di modelli di
schede di catalogo viene riconosciuto, non solo
nella sua dimensione materiale degli oggetti legati
all'universo agropastorale, ma anche nella sua
dimensione immateriale legata alle feste popolari,
alla musica e alla narrativa.
La catalogazione dei beni DEA: le schede FK
-Le prime sperimentazioni di schede di catalogo nazionali per i
beni demoetnoantropologici furono realizzate dall'ICCD nel 1978
in collaborazione con il Museo nazionale delle arti e tradizioni
popolari con le schede chiamate FK (dove FK sta per Folklore).
-Si trattava di quattro modelli di schede, dei quali il primo
pensato per gli oggetti di natura folklorica, per lo più museizzati
(FKO), gli altri rispettivamente dedicati: ai beni musicali (FKM),
alla narrativa di tradizione orale (FKN) e alle cerimonie festive
(FKC);
-un progetto di respiro nazionale, al quale presero parte alcuni
tra i nomi più rappresentativi della demoetnoantropologia
italiana della fine degli anni Settanta, come l'etnomusicologo
Diego Carpitella, l'antropologa Annabella Rossi già allieva di
Ernesto De Martino, Elisabetta Silvestrini ed Aurora Milillo,
quest'ultima nota studiosa di fiabistica e di narrativa di
tradizione orale.
La catalogazione dei beni DEA:
le schede BDM e BDI
-La nuova stagione della sperimentazione di differenti
schede di catalogo per i beni DEA da parte dell'ICCD risale
alle soglie del 2000, quando la scheda FKO fu riformulata
nell'attuale scheda BDM (Beni demoetnoantropologi
materiali) e quando fu sperimentata per l'immateriale
un'unica scheda, la BDI (Beni demoetnoantropologici
immateriali), che riunificava i diversi ambiti della
cerimonialità festiva, dei patrimoni musicali, della narrativa
di tradizione orale, e di altri elementi immateriali.
-Le due schede nascevano da una diversa concezione
catalografica che prevedeva da un lato l'informatizzazione e
dall'altra l'"allineamento" dei diversi tracciati di schede
relativi ai diversi beni culturali (ICCD 2000, 2002, 2006).
La catalogazione dei beni DEA:
le schede BDM e BDI
-La catalogazione promossa a livello nazionale con
questi modelli di schede, si colloca in una concezione
scientifica e disciplinare dei beni culturali, che
coniuga ricerca e conservazione in un modello di
inventario nazionale, che da alcuni è stato definito
"civilizzato", o top-down, per indicarne la natura
"dall'alto" e non partecipativa nei confronti delle
comunità e dei soggetti portatori del bene, tema
questo che sarà invece centrale nei più attuali dibattiti
accesi dalla Convenzione UNESCO del 2003 in merito
alla funzione "sociale" dell'inventario e alla necessità
di una partecipazione attiva da parte delle comunità.
La catalogazione dei beni DEA:
le schede BDM e BDI
La scheda ministeriale, al contrario, nasce come un
tentativo di coniugare, nelle politiche nazionali, la
ricerca alla tutela secondo una concezione della
"proprietà culturale" del bene, di tipo oggettuale,
classificatorio e disciplinare.