ONERE DELLA PROVA T.P - Associazione degli Industriali

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Transcript ONERE DELLA PROVA T.P - Associazione degli Industriali

THE BURDEN OF PROOF IN TRANSFER
PRICING CONTROVERSIES
Convegno: «I rapporti intra-gruppo,
focus su: transfer pricing – Imposte
dirette, Irap e dogana»
Associazione industriali di Lucca –
14/02/2014
Relatore: dott. Nicola Strappaghetti
Commercialista – Revisore legale
Odcec Lucca
Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
OVERVIEW
1.
2.
3.
4.
5.
Principi generali dell’onere della prova nel processo tributario;
L’onere della prova nel transfer pricing;
Disamina di sentenze di merito e di legittimità;
Il transfer pricing: tra norma ordinaria di sistema e norma antielusiva;
Elusione fiscale e abuso del diritto - Prospettive di riforma
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Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
Principi generali dell’onere della prova
nel processo tributario
• L’Ufficio nel processo tributario assume la veste di attore sostanziale sul
quale via di principio grava l’onere di provare il fatto costitutivo della sua
pretesa tributaria;
• La parte contribuente nel processo tributario assume invece la veste di
convenuto sostanziale il quale solo dopo che l’Ufficio ha offerto prova
della propria pretesa, deve provare la verificazione di fatti modificativi,
estintivi od impeditivi della pretesa dell’ufficio;
• Principio generale in tema di onere della prova applicabile anche al
processo tributario, derivato dall’art. 2697 del c.c.: «chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è
modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»;
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Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
Principi generali dell’onere della prova nel
processo tributario
• Obbligo di motivazione dell’atto impositivo a pena di nullità:
la motivazione consiste nella descrizione della pretesa erariale, non deve convincere il
contribuente della pretesa ma fornirgli l’iter logico-giuridico seguito dall’Ufficio,
cosicchè egli possa esercitare, in riferimento a tale iter, il suo diritto di difesa. Infatti il
difetto di motivazione di un atto emesso dall’amministrazione finanziaria rende nullo
l’atto medesimo. La motivazione deve essere espressamente indicata nell’atto
impositivo, non essendo consentito all’Ufficio di modificare, integrare o rettificare
anche parzialmente la detta motivazione in corso di giudizio.
La motivazione è fondamentale anche per le questioni di diritto, e deve riportare, in
modo sufficientemente preciso, il ragionamento giuridico su cui si fonda l’accertamento
stesso; non basta infatti indicare nell’avviso di accertamento una lista di articoli di legge
senza dare alcuna spiegazione ma la motivazione deve riportare anche il ragionamento
giuridico svolto dall’Ufficio. Questa conclusione, è confermata anche dall’art. 7 dello
statuto del contribuente (legge 212/2000), secondo cui l’atto impositivo deve essere
motivato indicando le «ragioni giuridiche», che hanno determinato la decisione
dell’amministrazione. In caso contrario verrebbe vanificato il diritto di difesa, perché il
contribuente sarebbe costretto ad «immaginare» l’interpretazione adottata dall’Ufficio,
per procedere successivamente ad esporla e confutarla.
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Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
Principi generali dell’onere della prova nel
processo tributario
• Differenza tra motivazione ed onere della prova:
La prova a differenza della motivazione ha la funzione di dimostrazione della
fondatezza dei fatti presupposto della pretesa impositiva. A differenza
dell’obbligo di motivazione, può essere allegata anche in corso di giudizio.
Si potrebbe anche affermare che mentre la motivazione dell’atto è rivolta
prevalentemente alla parte contribuente per l’esercizio del proprio diritto di
difesa, la prova è prevalentemente rivolta al giudice affinchè possa maturare
il proprio convincimento nella decisione da assumere.
Su un piano logico, la motivazione sussiste quando tutti i passaggi logicogiuridici sono comprensibili esaminando l’atto impositivo, in modo tale che il
contribuente si possa regolare e capire in quale misura le argomentazioni
dell’Ufficio rispondono alla realtà.
La prova sussiste invece quando tutti questi passaggi sono invece dimostrati
in modo convincente. I due profili possono quindi senz’altro non coincidere,
poiché può esservi un passaggio asserito, descritto, spiegato ma non
dimostrato. Possono quindi configurarsi accertamenti motivati ma
successivamente annullati perché non accompagnati da sufficienti riscontri
probatori in sede contenziosa.
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Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
L’onere della prova nel transfer pricing:
Chi deve provare cosa e come?
Rassegna di giurisprudenza tributaria italiana di merito e
legittimità:
• Sentenza cassazione civile sezione V n. 11226 del 16/05/2007 «Caso Ford
Italia»; «Onere della prova grava sull’amministrazione finanziaria –
Mancata dimostrazione dell’elusività».
• Sentenza cassazione civile sezione V n. 11949 del 13/07/2012 «Onere
della prova sul contribuente per inerenza costi da transazione in T.P.».
• Sentenza cassazione civile sezione V n. 10739 del 08/05/2013 «Onere
della prova sul contribuente basata sul principio di vicinanza della prova».
• CTR Lombardia sentenze n. 83 e 84 Sez. XI del 06/05/2013 «Onere della
prova sul contribuente basata sul principio di vicinanza della prova».
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Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
Sentenza Cassazione civile sez. V n. 11226 del 16/05/2007 –
Caso Ford Italia – Normativa di riferimento: ex art. 76 c. 5
(ora 110 c. 7) del Tuir n. 917/86 – normativa antielusiva
Sentenza che rigetta il ricorso dell’amministrazione finanziaria perchè, i giudici della suprema
corte, ritenendo la normativa sul transfer pricing di natura antielusiva, pongono a carico
dell’amministrazione finanziaria l’onere della prova che la condotta della parte contribuente,
era ispirata da finalità elusive dirette alla riduzione della base imponibile mediante
trasferimento di utili in Paesi a più bassa fiscalità.
Abstract sentenza «pro-contribuente»
Con la sentenza n. 11226 del 27 marzo 2007 la Corte di Cassazione è tornata ad esaminare la concreta
applicazione della disciplina del transfer pricing, ribadendo ancora una volta che l'onere della prova nelle
controversie aventi ad oggetto la determinazione dei prezzi di trasferimento grava sull'Amministrazione
finanziaria che intende operare le conseguenti rettifiche al reddito del contribuente.
La società Ford Italia S.p.A., appartenente al gruppo americano Ford, operava in Italia come distributricevenditrice di veicoli acquistati dalle proprie consociate europee e prodotti negli stabilimenti localizzati in
Germania, Spagna e Regno Unito.
A seguito di una verifica fiscale compiuta dal Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza relativa agli
anni 1987 - 1992 il II l ufficio Imposte Dirette di Roma emanava avviso di accertamento con riferimento al
periodo di imposta 1991, con il quale procedeva a riprendere a tassazione presunte sovrafatturazioni di
autovetture acquistate da società estere del Gruppo e spese per prestazioni di servizi infragruppo.
L'Ufficio procedeva inoltre a rilevare che la società italiana era parte di un accordo con la casa madre
americana il quale prevedeva che alcuni servizi di utilità generale per il Gruppo fossero affidati alla società
Ford Europe – s.p.a. che li rifatturava alle società europee in ragione di un progetto di sviluppo annuale.
Alcune delle prestazioni contemplate dall'accordo (quali ad esempio, la pubblicità, l'allestimento degli
autosaloni, i programmi sportivi, le locandine ecc.), otre ad essere fatturate dalla Ford Europe s.p.a., erano
fatturate anche dalle altre società europee, quali la società italiana, determinando in tal modo una duplicazione
dei costi.
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A seguito della sentenza della Commissione Tributaria Regionale favorevole al contribuente, l'Amministrazione
finanziaria proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che non vi fosse alcuna prova documentale atta a
supportare l'applicazione di una riserva di garanzia nella determinazione transfer pricing: infatti, secondo
l'Amministrazione non essendo stata richiesta da parte della società italiana la riduzione del prezzo in funzione
degli oneri sostenuti i costi di acquisto rimanevano contabilizzati all'iniziale super valore sproporzionato rispetto
a quello effettivo della merce con conseguente riduzione degli utili della Ford Italia S.p.A. a favore delle società
estere.
Nell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società Ford Italia – s.p.a. l’Ufficio procedeva a
riprendere a tassazione le presunte sovrafatturazioni di autoveicoli acquistati da società estere del Gruppo.
La Corte di Cassazione ha ribadito che lo scopo della disciplina contenuta nell’art. 76, co. 5, del TUIR per
tempo vigente è quello di evitare che all'interno del gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite
applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli a tassazione in Italia a favore di
tassazioni
estere
inferiori.
Pertanto, considerata la ratio della norma, l'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto dimostrare che le
operazioni poste in essere dalla società italiana rispondevano al fine precipuo di trasferire materia imponibile
all‘estero. Secondo i Giudici di legittimità, l'Ufficio ha fondato le proprie controdeduzioni esclusivamente
sull'assenza di un contratto scritto e di una clausola di recupero delle spese di manutenzione e riparazione
sostenute dalla Ford Italia s.p.a. in luogo delle consociate estere. L'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto
accertare, in primo luogo, se la fiscalità in Italia fosse all'epoca superiore rispetto a quella dei Paesi di residenza
delle consociate estere. Quantificate le differenze di pressione fiscale, l'Amministrazione avrebbe dovuto
procedere alla valutazione dei valori di scambio per procedere alla determinazione del valore normale delle
transazioni oggetto di analisi. Tale analisi doveva essere condotta "verificando, in concreto, se i corrispettivi
pagati dalla stessa alle proprie consociate estere fossero effettivamente superiori a tale valore con indagine
estesa alla sufficienza del margine di utile ricavato per coprire le spese di riparazione in garanzia.
In conclusione, la Suprema Corte ha rilevato come «la ripresa a tassazione operata sul rilievo della illegittima
deduzione di imponibile non risulta essere transitata da questi passaggi obbligati, in realtà l’ufficio essendosi
limitato a fare riferimento alle particolari condizioni contrattuali esistenti tra le parti in tema di esclusione
della garanzia per i vizi di fabbricazione dei veicoli e da tanto deducendo la sovrafatturazione dei veicoli
acquistati dalla società italiana».
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Sentenza Cassazione civile sez. V n. 11949 del 13/07/2012
normativa di riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86 –
Normativa antielusiva
Massima sentenza pro amministrazione:
La Cassazione conferma l’orientamento secondo cui la disciplina sui prezzi di trasferimento
avrebbe natura elusiva e ne fa discendere l’effetto che, nei casi di rettifica dei costi infragruppo,
sarebbe il contribuente a dover provare non solo la congruità ma anche l’inerenza dei prezzi.
Particolare attenzione è stata data dai supremi giudici al sospetto di elusività che può
accompagnare le rettifiche di fine anno sui prezzi fissati a preventivo, e sulla natura di mero
parere non vincolante attribuita ad uno studio di analisi fatto predisporre dal contribuente ad
una società di consulenza esterna: queste le circostanze di fatto del giudizio.
Il caso:
La vicenda origina dall’accertamento mosso a carico di una società italiana distributrice di prodotti software
per console e computer, controllata da società holding svizzera facente capo ad un gruppo americano.
La società, filiale unica per la commercializzazione in esclusiva di software in Italia, importava i prodotti dalla
consorella inglese (anch’essa controllata dalla holding svizzera) quale fornitore unico per l’Italia.
La condotta contestata era rappresentata dal fatto che nell’ultimo giorno dell’esercizio 2004 la società italiana
aveva ricevuto e contabilizzato la fattura di acquisto (per circa un milione di euro) emessa dalla consorella
inglese con causale “Price adjustement to product sold during FY 2003/2004”, ossia riferibile a rettifiche in
aumento dei prezzi applicati nell’esercizio in chiusura su alcuni prodotti software.
L’Amministrazione disconosceva i suddetti costi addebitati dalla consorella inglese con fattura di fine anno.
Riteneva tali maggiori costi finalizzati ad un artificioso spostamento di reddito nel gruppo. Pertanto, ne
contestava la violazione della disciplina sui prezzi di trasferimento di cui all’art. 110, comma 7, T.U.I.R.
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La società ricorreva alla Commissione Tributaria Provinciale che ne accoglieva l’impugnativa. Così
anche la Commissione Tributaria Regionale che ne confermava le conclusioni.
Resisteva l’Amministrazione chiedendo la cassazione della sentenza di secondo grado, deducendo, tra
gli altri, specifici motivi di ritenuta violazione o falsa applicazione dell’art. 110, comma 7, T.U.I.R. in
relazione all’art. 360, n. 3, codice procedura civile e di insufficiente motivazione su un fatto decisivo
della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.
In particolare, l’Ufficio riteneva trattarsi di un’evidente operazione elusiva, finalizzata al drenaggio
degli utili conseguiti dalla filiale italiana mediante l’abuso dello strumento costituito dai prezzi di
trasferimento all’interno del gruppo multinazionale.
In tal senso, a parere dell’Amministrazione, deponevano, invero, una serie di fattori:
• a) la data dell’operazione, effettuata l’ultimo giorno dell’esercizio fiscale, in concomitanza con la
disponibilità dei consuntivi sulla redditività della stessa società contribuente;
• b) la specie di operazione economica, tradottasi nella contabilizzazione di una fattura passiva per
rettifica in aumento del prezzo già praticato dalla società fornitrice, su vendite quantitativamente
rilevanti di prodotti software;
• c) lo scostamento del prezzo praticato da quello medio di acquisito degli stessi prodotti da parte
della società.
• Con tali argomentazioni l’Amministrazione insisteva doversi disconoscere i costi derivanti dalle
rettifiche di prezzo ed applicare i costi determinati col prezzo medio di vendita ex art. 9 T.U.I.R..
• I Giudici di merito annullavano l’accertamento motivando che:
• a) l’onere della prova in ordine al comportamento elusivo del contribuente incomberebbe a carico
dell’Amministrazione;
• b) tale onere non sarebbe stato, nella specie, adempiuto da parte dell’Agenzia delle Entrate, a fronte
degli elementi di prova forniti dalla contribuente sulla scorta di uno studio articolato, in proposito,
dalla società consulente;
• c) non sussisterebbe agli atti la dimostrazione di un intento elusivo della contribuente, e neppure
che quest’ultima abbia conseguito un effettivo beneficio fiscale dal comportamento contestato
dall’amministrazione.
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Sentenza Cassazione civile sez. V n. 10739 del 08/05/2013 - Normativa di
riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86, art. 2697 c.c.
«Onere della prova a carico del contribuente secondo il principio di
vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c.»
Massima sentenza pro amministrazione:
La disciplina italiana del "transfer pricing", come negli altri Paesi, prescinde dalla
dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. La disciplina in parola
rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva dell'elusione.
Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la
disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé. È pertanto
necessario, da parte dell'Amministrazione finanziaria, soltanto dimostrare l'esistenza
di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole
ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c., dimostrare che le
transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi
dell'art. 9, comma 3, del T.U.I.R., D.P.R. n. 917/1986. Ciò che, quindi, non esclude
altri mezzi di prova documentali.
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Abstract sentenza «pro-amministrazione»
L'Amministrazione finanziaria, nelle rettifiche da transfer price, non deve provare il maggior favore della
fiscalità del Paese in cui viene, per così dire, dirottato il reddito (o, specularmente, la più elevata fiscalità
nazionale), né l'anormalità dei prezzi di trasferimento intercompany.
Questa in estrema sintesi la statuizione contenuta nella sentenza in commento per quanto riguarda
l'accoglimento del motivo di ricorso relativo alla dedotta violazione dell'art. 76, comma 5, del T.U.I.R. (oggi
art. 110, comma 7) e, quanto all'IRAP, degli artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 446/1997.
In particolare, con riferimento ad una ripresa a tassazione avente ad oggetto sconti praticati da una società di
capitali residente in Italia a controllate non residenti, la Suprema Corte si esprime nel senso che «tra gli
elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui all'art. 76, comma 5, del D.P.R. n.
917/1986, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione.
È pertanto necessario, da parte dell'Amministrazione, soltanto dimostrare l'esistenza di transazioni tra imprese
collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697
c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi del
D.P.R. n. 917/1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi
di beni e servizi praticati "in condizioni di libera concorrenza" con riferimento, "in quanto possibile", a listini
e tariffe d'uso. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali ….. La CTR, quindi, non ha
correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall'Amministrazione la prova dell'elusione e
particolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di
transazione intergruppo».
Due distinti aspetti dunque risultano coinvolti dall'arresto in questione.
Il primo è il ruolo, se un ruolo esiste, della fiscalità del Paese del polo estero della transazione infragruppo ed
il secondo, l'articolazione dell'onere della prova con riferimento allo scostamento del corrispettivo pattuito dal
valore normale del bene o del servizio scambiato.
Su entrambi gli aspetti il decisum è favorevole all'Amministrazione giacché, come detto, la conclusione è che
la fiscalità del Paese nel quale il reddito viene dirottato è irrilevante nell'applicazione della norma domestica
sul transfer price e che non incombe sull'Amministrazione l'onere di provare lo scostamento tra corrispettivo
pattuito e valore normale del bene o del servizio scambiato dovendo la stessa solo dimostrare «l'esistenza di
transazioni tra imprese collegate».
Onde valutare la correttezza di una siffatta conclusione è evidentemente necessario ripercorrere i tratti
essenziali della disciplina in relazione alla quale si sono espressi i Giudici di legittimità.
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Oggetto ed onere della prova secondo la Corte di cassazione:
Nel sopra delineato quadro normativo e giurisprudenziale si inserisce, dunque, la sentenza in commento la quale,
come si è visto, si esprime nel senso che l'Amministrazione finanziaria non deve provare, quando agisce ai sensi
dell'art. 110, comma 7, del T.U.I.R., né il maggior favore della fiscalità estera rispetto a quella italiana, né la non
congruità del prezzo pattuito rispetto al valore normale del bene o del servizio scambiato, dovendo bensì provare
soltanto «l'esistenza di transazioni tra imprese collegate».
La prima parte della statuizione è senz'altro corretta.
Come si è visto, la norma in oggetto precede quelle relative all'indeducibilità dei costi originati da transazioni
effettuate con soggetti residenti o domiciliati in Paesi diversi da quelli cd. white list ed è costruita senza attribuire
alcuna rilevanza alla particolare localizzazione del polo estero della transazione di modo che la sostituzione del
valore normale al corrispettivo pattuito scatta quand'anche il predetto polo estero non sia localizzato in un
paradiso fiscale.
D'altronde correlare l'operatività della norma in discorso alla prova del maggior favore della fiscalità estera
rispetto a quella italiana renderebbe estremamente incerta la sua applicazione, sia per l'Amministrazione, che,
ancor prima, per il contribuente, al quale, come detto, è diretta in prima battuta e ciò in quanto le variabili che
condizionano la valutazione circa il suddetto maggior favore sono numerose.
Non è un caso del resto che le stesse direttive OCSE in materia di prezzi di trasferimento affermino
espressamente che una rettifica di detti prezzi, effettuata sulla base del principio di libera concorrenza, potrebbe
giustificarsi anche nel caso in cui non ci sia da parte del contribuente alcun intento di minimizzare o evadere
l'imposta.
Quanto alla seconda parte della statuizione, ossia quella secondo cui l'Amministrazione non deve provare
l'anormalità del prezzo di trasferimento, ma solo «l'esistenza di transazioni tra imprese collegate», giacché,
«secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c.», spetta al contribuente «dimostrare
che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi del D.P.R. n. 917/1986,
art. 9, comma 3», parrebbe riferirsi, per come formulata, a tutte le rettifiche da transfer price relative al valore
normale quale che sia il componente di reddito (positivo o negativo) che viene in considerazione.
La relativa portata va, a ben vedere, circoscritta.
Se, infatti, in parte qua la statuizione vuol solo ribadire che la norma in oggetto riguarda la determinazione
dell'imponibile del soggetto residente, il quale ad essa deve uniformarsi in sede di adempimento spontaneo dando
a se stesso la prova che il corrispettivo pattuito non si discosta dal valore normale del bene o del servizio
scambiato, nulla quaestio giacché l'affermazione è astrattamente condivisibile.
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Le circostanze di fatto da cui dipende la determinazione del suddetto valore normale sono primariamente nel
dominio del contribuente o del gruppo cui lo stesso appartiene ed in questo senso si può dire che il
contribuente è più vicino alla prova di quanto non lo sia l'Amministrazione (peraltro in una fiscalità di massa
fondata sull'auto-liquidazione del tributo questa è la regola).
La statuizione non è invece condivisibile ove volta a legittimare rilievi di transfer price totalmente immotivati
o «esplorativi».
È evidente, infatti, come sia inconcepibile una rettifica da transfer price in cui l'Amministrazione finanziaria
si limiti a negare l'attendibilità del valore dichiarato dal contribuente senza addurre argomenti che militino
contro la congruità del valore medesimo e consentano di pervenire ad una quantificazione alternativa (più
favorevole per l'Erario).
Affermare dunque che l'Amministrazione finanziaria non deve provare lo scostamento tra corrispettivo
pattuito e valore normale può andar bene a condizione che si ammetta che incombe comunque
sull'Amministrazione l'onere di contestazione «specifica» ed «argomentata» relativamente all'anormalità del
corrispettivo pattuito ed alla quantificazione del valore normale alternativa rispetto al dichiarato.
Insomma, l'Amministrazione non si può limitare ad asserire passivamente la suddetta anormalità, ma deve
allegare elementi idonei a supportare logicamente la contestazione e ad invertire l'onere argomentativo
ribaltandolo sul contribuente.
Conclusione cui si perviene anche muovendo dalla considerazione che è onere degli uffici accertatori attivare
sul piano amministrativo una minima istruttoria diligente e che, a ben vedere, l'onere della previa
contestazione «specifica» ed «argomentata», per alcuni applicazione processuale del principio di buona fede,
può conciliarsi con la funzione esimente della tenuta della documentazione «idonea» di cui all'art. 1, comma
2-ter, del D.Lgs. n. 471/1997 ed al Provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate in data 29 settembre
2010.
Il discorso dovrebbe riguardare evidentemente anche le rettifiche fondate sull'art. 110, comma 7, del T.U.I.R.
relative ai costi, quantomeno una volta acclarata l'esistenza del costo (rectius: dell'operazione sottostante) e la
sua inerenza (aspetti questi ultimi in relazione ai quali viene comunque in considerazione l'onere di
contestazione «specifica» ed «argomentata» incombente sull'Amministrazione).
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Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
Sentenze CTR Lombardia n. 83 e 84 Sez. XI del 06/05/2013 - Normativa
di riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86, art. 2697 c.c.
«Onere della prova a carico del contribuente secondo il principio di
vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c.»
Massima sentenza pro amministrazione:
Principio di vicinanza della prova nel «transfer pricing»
Nelle sentenze nn. 83 e 84 del 2013, la Commissione tributaria regionale della
Lombardia statuisce che nel «transfer pricing» l’onere della prova va ripartito tra
Fisco e contribuente sulla base del principio processual civilistico di «vicinanza»,
cioè in relazione alla contiguità rispetto ai fatti da provare, cioè alle possibilità in
concreto di documentare e spiegare le scelte operate.
Il che significa che il Fisco resta l’attore sostanziale gravato dell’onere di provare
di avere accuratamente selezionato le operazioni confrontate, di avere analizzato
le funzioni svolte ed i rischi assunti dalle parti nelle transazioni coinvolte
dall’analisi, di avere verificato operazioni che insistono sullo stesso livello di
commercializzazione e mercati di riferimento. Il contribuente, invece, dato il suo
«vantaggio informativo», dovrà essere collaborativo e soprattutto dovrà produrre
documentazione rilevante per non avvalorare il lavoro dell’Ufficio.
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Dott. Nicola Strappaghetti – Commercialista – Revisore legale - ODCEC LUCCA
Sentenze CTR Lombardia n. 83 e 84 Sez. XI del 06/05/2013 - Normativa di
riferimento: art. 110 c. 7 del Tuir n. 917/86, art. 2697 c.c.
«Onere della prova a carico del contribuente secondo il principio di vicinanza
della prova di cui all’art. 2697 c.c.»
Segue massima
Il «transfer pricing» è materia di sistema, dove la natura dialettica del
giudizio di fatto emerge in tutta la sua rilevanza. Non vi possono essere
automatismi e l’onere probatorio va ripartito in relazione alla «vicinanza»
delle parti rispetto alle circostanze da provare. Nel «transfer pricing» è poi
cruciale dotarsi di adeguate forme di «compliance». Seguire le «best
practices» internazionali, ed oggi anche interne, non solo previene rischi
sanzionatori amministrativi (e si ritiene, a maggior ragione, anche penali), ma
aiuta altresì a difendere in termini generali la politica di «transfer pricing»
del gruppo, visto che documenta agli occhi del Fisco scelte ragionate e calate
su modelli di «business» che diventa assai difficile poi mettere in
discussione.
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Il transfer pricing: tra norma ordinaria di
sistema e norma antielusiva
Deve esser preliminarmente evidenziato come il cosiddetto transfer pricing
costituisca, dal lato economico, un'alterazione del principio della libera
concorrenza. E questo nel senso che transazioni tra Società appartenenti ad
uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che
non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il
fenomeno, quindi, da luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E,
pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con maggiore fiscalità.
Cosicchè, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di
ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a
eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing. Normative che
recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali,
contenuto nel Modello OCSE art. 9, comma 1, Convenzione del 1995.
Principio recepito anche in Italia, ex art. 110 c. 7 del Tuir 917/86. La
disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla
dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale.
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Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di
quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione,
non occorre dimostrare. E questo, appunto, perchè la disciplina di che trattasi
è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sè. Difatti, tra gli elementi
costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dal D.P.R. n.
917 del 1986, art. 110, comma 7, non si rinviene quello della maggiore
fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete che l’Amministrazione finanziaria
provi l’elusione.
La regola contenuta nel settimo comma dell'art. 110 del T.U.I.R., consistente
appunto, in presenza di determinate condizioni, nella sostituzione del
corrispettivo contrattuale pattuito con il valore normale del bene o del
servizio scambiato, attiene alla determinazione della base imponibile (va
ricordato, per inciso, che l'art. 110 riguarda le «Norme generali sulle
valutazioni»), ed è regola sostanziale e non sull'accertamento.
In questo senso è improprio ritenere la regola in questione rivolta alla sola
Amministrazione finanziaria. In realtà tale regola opera anzitutto in sede di
adempimento spontaneo ed è perciò rivolta, in un primo momento, al
contribuente il quale, ove il corrispettivo pattuito non sia allineato al valore
normale, deve provvedere ad eliminare tale disallineamento, nel caso lo
stesso possa produrre una diminuzione dell'imponibile italiano, mercé una
corrispondente variazione in aumento (tralasciando qui il caso della sua
applicazione al caso in cui la stessa comporti una diminuzione del reddito
italiano).
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Solo in un secondo momento, qualora il contribuente alla regola non si
conformi, detta regola coinvolge l'Amministrazione finanziaria .
Non si tratta di una presunzione, né, a maggior ragione, di presunzione
assoluta.
La norma di cui al settimo comma dell'art. 110 non si configura come
presunzione perché questa è articolata sulla base di un fatto noto dal quale si
deduce quello ignoto; diversamente, la suddetta norma sostituisce
all'ordinario criterio di determinazione dell'imponibile, basato sui
corrispettivi pattuiti, quello, radicalmente differente, del valore normale.
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Principi generali di evasione ed elusione fiscale ed abuso del
diritto:
Evasione fiscale:
►
►
comportamento in violazione della legge, di una specifica disposizione tributaria: metodo
illegale atto a ridurre o eliminare il prelievo fiscale e contributivo;
si verifica quando il contribuente si sottrae in tutto o in parte all’obbligo tributario,
mediante l’occultamento dell’imponibile o del presupposto del tributo;
e.g., mancata dichiarazione di una parte o di tutto il reddito imponibile (omessa
dichiarazione); incremento fittizio dei costi deducibili dai ricavi imponibili (simulazione
di passività fittizie);
Frode fiscale:
►
tipologia di evasione più sofisticata, che consiste in una serie di artifici e raggiri volti a
celare, con un’apparente veste di regolarità, fenomeni di evasione delle imposte
e.g., inserimento in contabilità di fatture d’acquisto false per ridurre l’imponibile;
Elusione fiscale:
►
►
comportamento del contribuente contrario all’ordinamento tributario nel suo complesso;
comportamento conforme alla lettera ma non alla ratio della disposizione tributaria;
è posta in essere mediante fatti e negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni
economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad
ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti (art. 37-bis del DPR
600/1973).
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Abuso del diritto:
►
La più rilevante disposizione antielusiva, i.e., art. 37-bis del DPR 600/1973, anche se, in
apparenza, può presentare una «struttura potenzialmente» idonea a dar vita ad un principio
generale antielusivo, è limitata alle sole operazioni richiamate dal terzo comma dell'art.
37-bis, al di fuori delle quali non si può parlare di elusione fiscale.
►
L'art. 37-bis definisce espressamente i caratteri che deve assumere il comportamento
elusivo per essere perseguibile, quali:
► da un lato l’effettuazione di atti, fatti e negozi diretti ad aggirare obblighi o divieti
previsti dall'ordinamento tributario e quindi ad ottenere riduzione d'imposta o rimborsi
indebiti;
► dall'altro lato l'assenza di valide ragioni economiche a sostegno dell'operazione.
►
Con la pronuncia della Corte di giustizia europea, sentenza «Halifax» n. C-255/02 del 21
febbraio 2006, l’attenzione su scala internazionale rivolta alla disposizione di cui all'art. 37bis del DPR 600/1973 si è ridotta in corrispondenza dell’introduzione del nuovo istituto non
«legalizzato» dell'abuso d2121el diritto.
►
Alla luce della recente giurisprudenza europea, anche quella italiana, in particolare con la
pronuncia della Cassazione Civile a Sezioni Unite (trattasi di 3 sentenze: n. 30055/08,
30056/08 e 30057/08 del 02 dicembre 2008, depositate il 23 dicembre 2008), ha esteso i
confini dell'elusione, introducendo un generale principio antielusivo che ha il suo
fondamento nell’abuso del diritto, nell'intento di estenderne l’applicabilità anche con
riferimento ai tributi non armonizzati (imposte dirette).
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►
La sentenza delle Sezioni Unite, anche se espressamente esclude che la fonte del generale
principio antielusivo debba ricercarsi nella giurisprudenza comunitaria, trova ragione in
virtù dei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione,
di cui all'art. 53 della Costituzione.
►
Il principio dell'abuso del diritto ha uno spettro di applicazione molto ampio; infatti l'abuso
evidenzia l'utilizzo «abnorme» dei propri poteri e/o diritti da parte di chi li destina/utilizza
per scopi diversi da quelli per i quali i poteri e/o i diritti stessi sono stati attribuiti/
esercitabili. Pertanto si pone in un rapporto di genere a specie rispetto all'elusione. Va
sottolineato che la nozione di abuso del diritto prescinde da ogni valutazione sulla natura
fittizia o fraudolenta dell'operazione posta in essere: ciò in quanto il presupposto di questa
fattispecie consiste nel compimento di operazioni conformi ai modelli previsti dalla legge
ma posti in essere esclusivamente o principalmente per il conseguimento di un indebito
risparmio d'imposta.
►
Ctr di Milano, sez. 44, sentenza del 20 marzo 2013, n. 43 - («D&G case») “L’abuso si
traduce in pratiche volte, mediante un uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna
specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei, ad ottenere un’agevolazione o un
risparmio d’imposta in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino
l’operazione e diverse dalla mera aspettativa di benefici. L’abuso è la causa, l’elusione è
l’effetto”.
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Elusione fiscale e abuso del diritto - Prospettive di
riforma
Con l’espressione “abuso del diritto” si intende un limite all’esercizio di un diritto
soggettivo, altrimenti potenzialmente illimitato. In tal caso il soggetto titolare del
diritto in questione, lo esercita in modo anormale, per fini che non sono compresi tra
quelli presenti nell’ordinamento giuridico.
Pertanto, i “negozi” messi in atto dal contribuente possono essere disconosciuti
dall’Amministrazione Finanziaria, nel caso in cui tali operazioni siano prive di valide
ragioni economiche.
La formula “valide ragioni economiche”, alla base dei negozi sopra indicati, è quindi
prevista dalla legge (art. 37 bis del D.P.R. 600/73), che ne delimita, tuttavia, gli ambiti
di applicazione. La norma in questione non contiene, pertanto, una clausola generale
che impedisca quei negozi essenzialmente volti ad ottenere un risparmio fiscale, in
quanto limita le difese antielusive del sistema ad alcune determinate operazioni sotto
l’aspetto fiscale.
Il Legislatore Italiano, fin dalla prima stesura del Codice Civile, ha preferito risolvere
tali situazioni di conflitto, disciplinando di volta in volta specifiche fattispecie, a
differenza di quanto è avvenuto in altri ordinamenti europei, che hanno scelto il
concetto generale (vd. ad esempio la legge generale fiscale tedesca – “…la legge
fiscale non può essere elusa attraverso l’abuso di forme giuridiche ammesse” – o
quella francese).
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In relazione a tale “vuoto legislativo” è intervenuta più volte la Suprema Corte, la
quale con alcune recenti pronunce (Cass. SS.UU., 23.12.2008 n. 30055, 30056, 30057
e sentenza 12 novembre 2010 n. 22994) ha affermato l’esistenza nel nostro
ordinamento di un generale principio antielusivo , in base al quale “non è lecito
utilizzare abusivamente, e cioè per un fine diverso da quello per il quale sono state
create, norme fiscali (latu sensu) di favore”, principio che trova il suo fondamento in
quello costituzionale relativo alla capacità contributiva. Tuttavia, il fatto che la
giurisprudenza abbia rinvenuto nella Costituzione un generale principio antielusivo
secondo il quale non è lecito utilizzare per un fine diverso da quello per il quale sono
state introdotte norme fiscali di favore, non può significare necessariamente che
costituisca un illecito penale. Illecito ed elusione sono concetti differenti, in quanto il
primo presuppone la violazione di una disposizione specifica dell’esercizio di un
diritto, mentre la violazione dello scopo per il quale il diritto viene riconosciuto si
configura come elusione.
In materia tributaria, la forte esigenza di contrastare i numerosi comportamenti
volontari, posti in essere al fine di ottenere un risparmio di imposta, ha spinto la
giurisprudenza a ricercare soluzioni in via interpretativa: si è fatto ricorso alla
fattispecie della simulazione, del negozio indiretto e della frode alla legge.
Il punto cruciale, oggetto di perplessità, riguarda la potenziale incertezza in cui si
verrebbero a trovare gli operatori economici nel porre in essere alcuni negozi giuridici
oltre ad operazioni di finanza straordinaria.
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Il vero pericolo consiste, per assurdo, nel fatto che tutte le norme dell’ordinamento
possono venire disapplicate se il giudice non ravvisa valide ragioni economiche
sottostanti. Contestare l’elusione è semplice: è necessario leggere le carte prodotte e
sostenere che il contribuente abbia ottenuto un risparmio fiscale indebito. Davanti ad
un comportamento mosso da ragioni di convenienza fiscale, contestare l’elusione è
automatico. Anche per la magistratura la strada dell’abuso del diritto è piuttosto
comoda, non essendo necessario approfondire norme estremamente tecniche e
complesse. Viene considerato il risultato e, qualora lo si consideri ingiusto, deve per
forza trattarsi di elusione / abuso del diritto.
Ed è proprio in conseguenza di quanto sopra affermato che viene richiesto un
intervento legislativo sull’abuso del diritto, in quanto non è sufficiente che l’Agenzia
delle Entrate sostenga che occorre usare saggezza e conoscenza nell’attività di
accertamento.
Pertanto, in relazione all’alea di fronte alla quale si trova il contribuente, oltre alle
prescrizioni contenute nelle pronunce della Suprema Corte, le Commissioni Tributarie
disciplinano di volta in volta i singoli casi.
L’utilizzo di tale strumento deve avvenire senza vessazioni per i contribuenti,
valorizzando sempre il confronto e il contraddittorio. Non può essere applicato ai casi
in cui i vantaggi fiscali siano espressamente previsti.
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Ad oggi, il contrasto generalizzato al fenomeno dell’abuso del diritto in materia di
imposte dirette può essere legittimamente attuato soltanto attraverso una modifica
legislativa che, eliminando dal corpo dell’art. 37 bis D.P.R. 600/73 il terzo comma,
trasformi la clausola antielusiva espressa da semi-generale a generale, rendendola
applicabile ad ogni prestazione avente natura tributaria, anche a carattere locale.
Negli ultimi tempi si è rafforzato l’orientamento della Suprema Corte secondo cui, in
sostanza, il contribuente avrebbe l’onere di correggere le lacune della legge: ovvero
tra due soluzioni, l’una più restrittiva l’altra meno, il contribuente avrebbe il dovere di
pagare di più, non potendo scegliere, tra le due operazioni, quella fiscalmente più
conveniente per sole ragioni di risparmio di imposta.
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