Lezione Donati

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Epica
Arianna Donati
L’ENEIDE LIBRO III
Sono una figura che risale alla mitologia classica, in particolare quella greca.
Hanno avuto una lunga evoluzione di cui sono state oggetto: dapprima erano spiriti divini
legati al vento che, durante le burrasche, entravano in azione rapendo i naufraghi.
Poi, via via, si sono trasformate in divinità infernali che rapiscono le anime dei morenti e
vengono raffigurate come uccelli dagli artigli aguzzi col volto di donna.
La parola arpia deriva dal greco arpazo, ovvero "rapisco". Ciò che comunque ricorre è la loro
malvagità.
Erano in numero di tre e avevano nomi che rivelano la loro natura:
Aello che significa "Burrasca“(portatrice di tempesta),
Ocipite "Vola svelta“ (rapido volo) e
Celeno, che aveva la facoltà di predire il futuro,"Oscurità“(oscura come il cielo per un
temporale).
La leggenda nella quale nasce la figura dell’Arpia è quella del re Fineo, che soffriva una fame
perenne per punizione degli dei, al quale le Arpie rubavano tutto il cibo e quello che non
potevano rubare, lo insozzavano con i loro escrementi. Esse stavano per essere uccise, ma Iride
lo vietò, ottenendo dalle Arpie che da quel momento in poi lasciassero Fineo tranquillo.
Esse allora andarono a nascondersi in una caverna di Creta.
Generalmente però si
diceva che abitassero
nelle isole Strofadi, dove
le trova Enea secondo il
racconto di Virgilio.
Le Arpie sono citate nell'Odissea di Omero (libro XX) e sono identificate come
venti portatori di tempeste marine, rapitrici che travolgono le navi.
In una preghiera ad Artemide, Penelope ne parla come di procelle (tempeste) e
ricorda che rapirono delle fanciulle per consegnarle alle Erinni .
“ ….. O mi rapisca il turbine, e trasporti
per l’aria, e nelle rapide correnti …..”
" ...ecco che le fanciulle le Arpie rapirono in aria,
e in balia delle Erinni odiose le diedero.“
La visione di Dante delle Arpie è tutta
ispirata all'Eneide. Esse vivono e
nidificano, infatti, nella selva dei suicidi,
nella quale si trovano le persone che
avendo deciso di porre fine alla vita, dono
offertogli da Dio, nell'inferno dantesco,
sono condannate a sopportare la
condizione innaturale e abbruttita della
vita di uomini-albero. Questa condizione
Virgilio l’aveva invece riservata a Polidoro,
per non aver ricevuto degna sepoltura
dopo essere stato ucciso.
Anche la descrizione delle Arpie è molto
simile a quella dell'Eneide.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto l'gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani..."
(Inf . XIII, 13-15)
L'Ariosto, scrittore italiano del 1500, ne fa una descrizione molto simile,
però, per lui, le arpie erano sette e simboleggiavano i sette peccati mortali:
superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia.
"...Erano sette in una schera, e tutte
Volto di donne avean pallide e smorte,
Per lunga fame attenuate e asciutte
Orribili a veder più che la morte:
L'alaccie grandi avean deformi e brutte,
le man rapaci, e l'ugne incurve e torte;
Grande e fetido il ventre, e lunga coda
Come di serpe che s'aggira e snoda
(Orlando Furioso, XXXIII , 120)
Tratto da ENEIDE (libro III, vv 239-334)
Il mare era profondo, un’infinita distesa
senza nessuna terra, soltanto cielo e mare,
quando sopra il mio capo si formò un nembo azzurro,
un nembo che oscurò il mare, scatenò
tempesta, inverno e notte. All’improvviso i venti
sconvolgono l’oceano, immensi cavalloni
si levano, siamo dispersi, sbattuti dal gorgo qua e là.
I nembi coprirono il giorno, un’umida notte
ci tolse la vista del cielo; migliaia di fulmini
squarciarono le nubi. Vaghiamo fuori rotta
per onde ignote, scurissime. Lo stesso Palinuro
grida di non distinguere il giorno dalla notte
e di non ricordare la strada fra le onde.
Così erriamo sul mare tre giorni, un’avventura,
senza vedere una stella la notte. Il quarto giorno
finalmente ci parve di scorgere una terra
levarsi alta sul mare, e scopriamo dei monti
in lontananza e un fumo che si torce nell’aria.
Calate in fretta le vele ci buttiamo sui remi;
i marinai a tutta forza fendono l’acqua azzurra.
Ad accoglierci, salvi dal mare, sono i lidi
delle isole Strofadi: così chiamate con nome
greco. Sorgono in mezzo al grande Jonio, vi abitano
la feroce Celeno e le altre Arpie, da quando
dovettero lasciare la casa di Fineo,
per paura, e le antiche loro mense. Non c’è
mostro più brutto di loro, nessun flagello divino
più crudele di loro uscì mai dallo Stige.
Sono uccelli col viso di fanciulla, dal ventre
scaricano in continuazione luridissime feci,
hanno mani uncinate, faccia pallida sempre
per la fame ….
Nella prima parte Virgilio descrive la terribile tempesta che
i marinai sono costretti ad affrontare per tre interminabili
giorni. L’equipaggio è disperso fra migliaia di fulmini e
onde giganti, ed in balia della furia del mare è ormai
scoraggiato e sfinito.
(Nella prima parte si accentua lo smarrimento interiore e
l’inquietudine che opprime l’equipaggio e l’atmosfera che viene
creata anticipa quasi che possa accadere qualcosa di sinistro.)
Il quarto giorno però scorgono la terra ed approdano su una
costa che dicono di essere le isole Strofadi, dove la leggenda
vi fa dimorare le Arpie.
(Infatti arrivano sulla scena le Arpie mostri meravigliosi, che
suscitano disgusto e ribrezzo.)
Queste sono mostri immondi dal corpo d’uccello e viso di
fanciulla che abitano queste terre da quando vennero
cacciate dalla casa di Fineo. Non c’è mostro più brutto di
loro, hanno mani uncinate, scaricano in continuazione
luridissime feci ed hanno un’insaziabile fame.
Appena entrati nel porto, ecco, vediamo qua e là
nei campi begli armenti di bovi e un gregge di capre
disperso nell’erba alta, senza nessun guardiano.
Corriamo loro addosso col ferro, ed invochiamo
gli Dei e lo stesso Giove, offrendo una parte di preda
ai Celesti; imbandiamo le mense sul lido ricurvo
e allegri banchettiamo con quella splendida carne.
Ma all’improvviso calando con volo orrendo dai monti
arrivano le Arpie, scuotono in aria le ali con enorme
fracasso, portano via le vivande,
insozzano ogni cosa col loro immondo contatto;
poi fuggono, resta nell’aria la loro voce selvaggia
in mezzo alle nuvole grevi di odore nauseabondo.
Per la seconda volta prepariamo le mense
e riaccendiamo il foco sugli altari, scegliendo
una gola profonda sotto una concava rupe,
chiusa tutto all’intorno dagli alberi più ombrosi;
e una seconda volta, da un’altra parte del cielo
e da chissà mai quali nascondigli la turba
schiamazzante, volando sulla preda, la strazia
con gli unghioni, la infetta con la lurida bocca.
Allora grido ai compagni di prendere le armi
per ingaggiare battaglia con quella razza feroce.
Così fanno e nascondono nell’erba alta le spade
e gli scudi. Ed appena le Arpie, piombando giù
fragorose dal cielo, fecero rimbombare
tutto il lido ricurvo, il trombettiere Miseno,
che stava di vedetta in un posto elevato
diede uno squillo di tromba. I compagni le assalgono
e impegnano uno strano combattimento: ferire
col ferro affilato quei brutti uccelli di mare.
I marinai stanchi ed affamati decidono di imbandire una
mensa cacciando alcuni capi di bestiame che hanno visto
pascolare senza guardiano. Così dopo averne offerto una
parte agli Dei si preparano per il banchetto.
All’improvviso però appaiono in cielo le Arpie che con
grande fracasso e frusciare di ali scendono sulla mensa e
portano via le vivande insozzando tutto intorno con il loro
contatto.
La mensa viene preparata una seconda volta, ma
l’incursione si ripete.
Così gli uomini decidono di passare alle armi.
Ma le impenetrabili piume, le schiene invulnerabili,
respingono ogni offesa: salve le Arpie s’involano
verso il cielo, lasciando la preda cincischiata
e coprendo ogni cosa con ripugnanti escrementi.
Solo Celeno, fermandosi su un’altissima rupe,
funesta profetessa ci gridò: “Discendenti
dell’eroe Laomedonte, vi preparate forse
– dopo aver ammazzato tanti bovi e giovenchi –
a dichiararci guerra? E volete scacciare
dal patrio regno le Arpie che nulla van fatto di male?
Imprimetevi in cuore quanto vi dico: io
la maggiore di tutte le Furie, vi rivelo
ciò che l’Onnipotente predisse ad Apollo, ed Apollo
predisse a me. Andate pure in Italia, in favore
di vento ci arriverete, potrete attingere il porto;
ma non cingerete di mura la città che vi è stata promessa
prima che una feroce fame – giusto castigo
per averci aggredito – non v’abbia costretto
a rodere coi denti perfino le mense”.
Poi levandosi a volo si rifugiò nel bosco.
Ci si agghiacciò a tutti il sangue per lo sgomento:
perdemmo ogni coraggio, e nessuno ormai più
vuole far guerra alle Arpie, ma anzi le invochiamo
con molti voti e preghiere, siano divinità
o solo uccelli schifosi, impetriamo pace a loro.
Il padre Anchise supplica dal lido a mani giunte
i grandi Numi, tra i riti sacrificali: “ O Dei
rendete vane tali minacce, allontanate
tanta sciagura e benigni salvate un popolo pio!”.
Quindi comanda di sciogliere la gomena dal lido
e mollare le sartie. Noto il vento del sud,
tende le vele; si corre sulle onde spumeggianti
dove il pilota e la brezza dirigono la rotta.
da Virgilio Eneide trad. C. Vivaldi
Ma le piume impenetrabili e le schiene invulnerabili, respingono
ogni colpo: le Arpie salve prendono il volo verso il cielo, lasciando
la preda rovinata sporcando ogni cosa con escrementi ripugnanti.
Solamente Celeno fermandosi su una rupe altissima, ci gridò la
funesta profetessa: “Discendenti dell’eroe Laomedonte, forse vi
preparate a dichiararci guerra, dopo aver ammazzato tanti buoi e
giovani vacche? E volete scacciare le Arpie dal patrio regno che
non vi hanno fatto nulla di male? Imprimetevi nel cuore quello
che vi dico: io, la più importante di tutte le Furie, vi rivelo ciò che
l’Onnipotente predisse ad Apollo, ed Apollo predisse a me.
Andate pure in Italia, ci arriverete con vento favorevole, potrete
accedere al porto, ma non cingerete di mura la città che vi è stata
promessa prima che una feroce fame, giusta punizione per averci
aggredito, vi abbia costretto a mordere coi denti perfino le mense
(focacce che si usano duranti i sacrifici ai Penati)”.
(La funesta profezia lasciò Enea e i compagni spaventati per il
futuro che li avrebbe attesi)
Per la sorpresa ci si agghiacciò a tutti il sangue, perdemmo ogni
coraggio, e nessuno ormai più vuol far guerra alle Arpie, ma anzi
le invochiamo con molti voti e preghiere, che siano divinità o solo
uccelli schifosi, chiediamo a loro la pace.
Il padre Anchise supplica a mani giunte dalla costa i grandi Numi
tra i riti sacrificali: “O dei, rendete inutili queste minacce,
allontanate questa sciagura e benigni salvate un popolo pio!”.
Quindi comanda di sciogliere la grossa fune dell’ormeggio dalla
costa e di mollare le sartie.
Noto, che il vento del sud tende le vele, si naviga sulle onde
spumeggianti dove il comandante e la brezza del vento dirigono la
rotta della nave.
(Gli uomini infine, pregando le Arpie di concedere loro la pace,
spaventati e demoralizzati si prepararono a prendere il mare,
mentre Anchise supplicava i grandi Numi di allontanare la
sciagura e rendere vane le minacce degli orribili mostri.)