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L'età di Augusto
La situazione dopo la morte di Cesare
I congiurati, dopo l'uccisione di Cesare, speravano che la loro azione venisse
accolta favorevolmente e che il popolo li considerasse difensori della libertà.
L'esercito invece rimase fedele ai suoi comandanti, in particolare a Marco
Antonio, console in carica.
Antonio era nato nell'82. Nipote di Cesare, dal 54 gli fu a fianco in Gallia,
seguendolo poi nel passaggio del Rubicone e nella battaglia di Farsalo del 48.
Antonio tentò dunque di accreditarsi come il successore di Cesare, proponendo al
senato un accordo: egli avrebbe controllato l'esercito e non avrebbe aperto
inchieste sulla morte di Cesare, se in cambio i provvedimenti presi da
quest'ultimo fossero restati completamente in vigore.
L'accordo venne ratificato nella seduta del senato del 17 marzo e l'assemblea si
impegnò a rispettare le volontà espresse da Cesare nel suo testamento.
Il giorno successivo, all'apertura del documento, si scoprì però che Cesare aveva
nominato come suo erede non Antonio, bensì il pronipote Gaio Ottavio,
diciannovenne, nato da una figlia di sua sorella Giulia e da lui adottato.
Ottaviano
Il 23 settembre del 63 il senato, riunito da Cicerone, teneva
una seduta di cui la congiura di Catilina era l'argomento
principale.
La discussione incalzava, quando sul tardi arrivò tutto
affannato un giovane senatore, Caio Ottavio. Il suo
ritardo, disse per scusarsi, era motivato da una causa
legittima: gli era nato, quel giorno stesso, un figlio.
Ottavio, Ottaviano, Augusto.
Il suo nome alla nascita era Gaio Ottavio Turino (il
cognomen, che la famiglia non aveva mai avuto, gli
venne attribuito in ricordo di una vittoria militare
riportata nella città di Turi dal padre); era figlio per
l'appunto di Gaio Ottavio, ricco uomo d'affari che, per
primo nella sua famiglia, la gens Octavia (ricca famiglia
di Velletri), aveva ottenuto cariche pubbliche ed un posto
in senato. La madre di Ottavio era Azia, figlia della
sorella di Cesare, Giulia, e di Marco Azio Balbo.
Nel 45 fu adottato come figlio dal prozio e, secondo la
consuetudine, assunse il nome del padre adottivo,
aggiungendovi la denominazione della famiglia di
provenienza: divenne quindi Gaio Giulio Cesare
Ottaviano, nome che assunse ufficialmente nel 43.
Poco prima di venire assassinato, Cesare lo aveva nominato
magister equitum in seconda, accanto a Lepido, in vista
della grande spedizione d'Oriente che stava preparando
contro i Parti, inviandolo appena diciottenne ad
Apollonia a sorvegliare i preparativi per la futura guerra.
È qui che Ottavio fu informato della morte del prozio.
Le tensioni a Roma
Nel frattempo il clima a Roma tornava a farsi difficile.
Il popolo aveva appreso che Cesare aveva lasciato per testamento 300 sesterzi a ogni
proletario e a ciascuno dei suoi veterani. Durante i funerali, il 20 marzo, la folla chiese
la testa di Bruto e Cassio: le loro case vennero incendiate e, in generale, i congiurati
dovettero lasciare Roma.
Nel maggio del 44 Ottavio tornò a Roma dall'Epiro, fermamente deciso a far rispettare le
volontà testamentarie di Cesare. Poiché Antonio rifiutò di consegnargli i beni del padre,
Ottavio impegnò gran parte del suo patrimonio personale per poter distribuire alla plebe
e ai soldati le somme destinate loro da Cesare.
Accresciuta la propria popolarità presso la plebe, con astuzia e senso politico Ottavio cercò
il consenso del senato, trovando ad esempio in Cicerone un sostenitore; anche il senato,
dal canto suo, cercava l'alleanza di Ottavio: egli poteva essere l'uomo da contrapporre ad
Antonio e, data la sua giovane età, un politico tutto sommato controllabile.
La sconfitta di Antonio
Antonio, percependo in Ottavio un temibile avversario, non voleva allontanarsi troppo da
Roma alla fine del consolato (gli era stato infatti prospettato il proconsolato in
Macedonia): fece dunque approvare una legge speciale che consentiva la permuta delle
province (lex de permutatione provinciarum), in seguito alla quale si prese la Gallia
Cisalpina di Decimo Bruto, assegnando a questi la Macedonia.
Contro i suoi metodi si scagliò allora Cicerone, che pronunciò in proposito le celebri
Filippiche, così chiamate perché la loro veemenza ricordava le orazioni pronunciate da
Demostene contro Filippo II di Macedonia.
Poiché dunque Decimo Bruto si rifiutò di sottostare alle sue imposizioni, Antonio marciò
con l'esercito verso la Gallia Cisalpina, pensando di occuparla con la forza.
Il senato, dopo averlo dichiarato nemico della patria, inviò il suo esercito ad affrontare
Antonio: le truppe consolari trovarono l'appoggio dei veterani di Cesare arruolati da
Ottavio.
Lo scontro ebbe luogo a Modena nell'aprile del 43: Antonio ebbe la peggio e si rifugiò nella
Gallia Narbonese presso Lepido.
Ottavio marcia su Roma
Il senato si illuse allora di essere tornato arbitro della
situazione e, temendo Ottavio, le cui truppe erano state le
vere vincitrici a Modena, si oppose alla sua candidatura nel
frattempo posta per il consolato: era troppo giovane e non
aveva ancora rivestito magistrature regolari.
Ottavio per tutta risposta, varcato il Rubicone, marciò su
Roma con le sue legioni.
Fattosi eleggere console nei comizi, uno dei suoi primi atti fu
l'istituzione di un tribunale che giudicasse i cesaricidi;
assunse poi definitivamente il nome di Ottaviano.
Il secondo triumvirato
L'ostilità del senato portò Ottaviano a riavvicinarsi ad Antonio, che nel frattempo aveva
raccolto attorno a sé un grande esercito. Inoltre si profilava lo scontro con i cesaricidi:
Bruto e Cassio si erano riorganizzati in Oriente e Sesto Pompeo, figlio di Pompeo
Magno, teneva sotto controllo con la sua potente flotta la Sicilia, cui presto avrebbe
aggiunto Sardegna e Corsica.
L'incontro fra Ottaviano e Antonio, organizzato da Lepido, avvenne nei pressi di Bologna e
il risultato fu un triumvirato (ricordato come il secondo, dopo quello fra Cesare, Pompeo
e Crasso), della durata di 5 anni, che si attribuiva il compito di dare una nuova struttura
allo stato (triumviratus rei publicae constituendae). Ottaviano, Antonio e Lepido,
inoltre, avrebbero portato fino in fondo la lotta contro gli assassini di Cesare.
La lex Titia legalizzò la magistratura, autorizzando i tre a legiferare, nominare magistrati e
senatori, concludere trattati di pace, dichiarare guerra, giudicare reati, distribuire terre,
coniare monete.
I triumviri, infine, si distribuirono le province occidentali: Lepido ebbe Gallia Narbonese e
Spagna, Antonio Gallia Cisalpina e Transalpina, Ottaviano Africa e Sicilia.
A differenza del primo triumvirato, che era stato solamente un accordo privato, l'intesa fra
Ottaviano, Antonio e Lepido era stata ratificata: era dunque una magistratura a tutti gli
effetti, per quanto straordinaria.
Filippi
Per dimostrare pubblicamente la loro fedeltà alla memoria di Cesare, ma soprattutto
allo scopo di aumentare le proprie ricchezze, in vista anche dello scontro con i
cesaricidi, i triumviri stilarono delle liste di proscrizione (sul modello di quelle di
Silla) degli avversari da eliminare e di cui intascare i beni.
Si scatenò allora una caccia spietata ai proscritti: tra le vittime ci fu pure Cicerone, cui
Antonio non aveva perdonato le ancor fresche Filippiche. Ottaviano, sostenuto
dall'oratore nei suoi esordi politici, non fece nulla per salvarlo.
Il passo successivo fu lo scontro con Bruto e Cassio: mentre Lepido rimase a Roma a
controllare la situazione, Antonio e Ottaviano partirono per l'Oriente. Lo scontro si
ebbe a Filippi, in Tracia, nell'ottobre del 42: Antonio riuscì a prevalere sulle truppe
di Cassio, che si uccise, mentre Bruto inizialmente respinse Ottaviano; Antonio poi
sconfisse anche Bruto, che a sua volta si tolse la vita.
Alcuni superstiti del loro esercito fuggirono in Spagna e si unirono a Sesto Pompeo, che
con le sue azioni piratesche minacciava il vettovagliamento della capitale, ma non
era in grado di combattere non avendo truppe di terra.
La guerra di Perugia
Dopo Filippi la rivalità fra Ottaviano e Antonio si riaccese.
I triumviri avevano licenziato gran parte dell'esercito, stabilendo che a ciascun veterano
fosse assegnato un appezzamento di terra. Mentre Antonio a questo scopo riscuoteva
tributi in Oriente, Ottaviano si era assunto l'incarico di procurare le terre requisendole
agli italici: i veterani da sistemare, però, erano circa 170.000 e di conseguenza parecchie
terre dovevano essere espropriate. Tra coloro che si videro privati dei possedimenti ci fu
anche la famiglia di Virgilio.
Della delicata situazione pensarono di approfittare Fulvia e Lucio Antonio (moglie e fratello
di Antonio) che, sobillando gli espropriati, organizzarono una rivolta ai danni di
Ottaviano.
Anche se Antonio non aveva dato segno di voler sostenere i suoi famigliari, Ottaviano tentò
in tutti i modi di evitare la guerra, senza però riuscirci. A Roma si diceva che Fulvia
volesse a tutti i costi lo scontro per costringere Antonio a tornare dall'Egitto, dove era
caduto vittima del fascino di Cleopatra.
Ottaviano dunque affrontò gli avversari a Perugia e li sconfisse: Lucio ebbe salva la vita e fu
inviato legato in Spagna; Fulvia partì per la Grecia, dove morì poco tempo dopo.
Verso la guerra civile
Nel 40 Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono a Brindisi e strinsero un nuovo patto per la spartizione
delle province: ad Antonio toccò l'Oriente, ad Ottaviano l'Occidente, a Lepido l'Africa. L'Italia era
territorio neutro.
Nel 39, poi, per mettere fine alla resistenza di Sesto Pompeo, i triumviri gli accordarono per 5 anni il
governo di Sicilia, Corsica, Sardegna e Acaia; in cambio Pompeo prometteva di liberare il
Mediterraneo dai pirati (accordo di Misene).
Furono inoltre conclusi due matrimoni che avrebbero dovuto stabilizzare le alleanze: Antonio sposò
Ottavia, sorella di Ottaviano, e Ottaviano (che aveva lasciato la prima moglie Clodia, figlia del
famoso tribuno) sposò Scribonia, parente alla lontana di Pompeo.
A conferma dell'avvenuta pacificazione, Ottaviano e Antonio passarono assieme trionfalmente per le vie
di Roma.
Tornato in Egitto, Antonio si stabilì ad Alessandria e strinse sempre più i suoi legami con Cleopatra:
cominciò ben presto a comportarsi come se le province d'Oriente fossero un suo regno e invece che
preparare la spedizione contro i Parti si impegnò a organizzare l'Oriente in una sorta di federazione di
monarchie, ponendovi a capo proprio Cleopatra.
Mentre dunque Antonio perdeva progressivamente l'appoggio dell'opinione pubblica, Ottaviano si
costruiva l'immagine del difensore di Roma e dei suoi ideali.
Anzitutto nella battaglia navale di Nauloco, in Sicilia, egli sconfisse definitivamente Sesto Pompeo: era il
36, lo stesso anno in cui Antonio subiva una pesante sconfitta per mano dei Parti. In secondo luogo,
per cancellare ogni traccia di rapporto con Antonio, ripudiò Scribonia e sposò la giovane Livia (che
era già sposata con Tiberio Nerone, da cui aveva avuto un figlio, Tiberio, il futuro imperatore).
Sempre nel 36, infine, si sbarazzò anche di Lepido, che aveva tentato la rivolta armata, ma era subito
stato abbandonato dal suo esercito. Privato del governo dell'africa, fino alla morte (12) fu solo
pontefice massimo.
La vittoria di Ottaviano
Il passo successivo di Ottaviano fu lo scontro con Antonio, il cui disegno di instaurare a
Roma una monarchia orientale di tipo ellenistico era ormai chiaro e non certo
apprezzato.
Ottaviano dunque, essendo venuto in possesso del testamento di Antonio, ne diede lettura
pubblica in senato: Antonio aveva disposto che le province d'Oriente andassero alla sua
morte ai due figli avuti da Cleopatra, in eredità. Il senato a questo punto non esitò a
dichiararlo nemico della patria e incaricò Ottaviano di muovere guerra contro di lui.
Ufficialmente però la guerra venne dichiarata a Cleopatra, accusata di essersi appropriata
della parte orientale dell'impero. Dal punto di vista formale non era una guerra civile:
Ottaviano difendeva Roma dal dispotismo orientale.
Nella primavera del 31 Ottaviano si portò con la flotta in Epiro, presso il promontorio di
Azio, per bloccare l'uscita alle navi di Antonio. Questi, il 2 settembre, tentò di farsi largo
ma venne duramente sconfitto: prima ancora che la battaglia finisse, con un sessantina
di navi Cleopatra e Antonio fuggirono.
L'anno seguente il loro esercito di terra fu sconfitto ad Alessandria. Nella confusione della
battaglia, si sparse la notizia che Cleopatra era morta; credendovi, Antonio si tolse la
vita. La regina a sua volta si suicidò, anche per non cadere in mano nemica.
Ottaviano signore di Roma
Nel 29 si celebrò il trionfo di Ottaviano: egli fece chiudere le porte del tempio del dio Giano,
rito che simboleggiava la fine della guerra e l'inizio di un'era di pace (la pax augusta).
Guerre, lotte civili e proscrizioni avevano caratterizzato gli ultimi decenni di vita della
repubblica e avevano prostrato i romani; ogni famiglia aveva avuto i suoi morti e
praticamente tutti avevano subito le conseguenze economiche della crisi politica.
Il desiderio di pace e stabilità era tale che i romani erano ormai disposti anche a farsi
governare da una sola persona: Ottaviano appariva come colui che poteva restituire a
Roma tranquillità e benessere.
Occorre in ogni caso sottolineare che i tempi per un governo di tipo assoluto erano maturi.
Nella Roma delle origini la politica si faceva nelle assemblee: questa era la libertà dei
cittadini, questa era la democrazia; tuttavia, dopo 5 secoli, le assemblee non erano
assolutamente più in grado di gestire uno stato così vasto e complesso. Era necessario un
nuovo sistema politico: Roma non poteva più essere una repubblica aristocratica.
Ottaviano tuttavia, se voleva concentrare il potere nelle sue mani, doveva fare i conti con
l'attaccamento dei romani ai valori repubblicani: i romani volevano essere cittadini, non
sudditi. Egli dunque agì in modo da governare come un sovrano, senza mai dichiararsi
tale, e ciò gli garantì il potere assoluto per più di 40 anni.
Augusto
Nel 28 Ottaviano assunse la carica di princeps senatus, grazie alla quale aveva
il diritto di votare per primo in assemblea, influenzando così il voto degli
altri.
Nel 27 si fece eleggere console (il suo collega però aveva poteri minori: era
detto infatti minor).
Inoltre si fece attribuire il titolo di Augustus ("degno di venerazione"), che
divenne per lui anche cognomen.
Il termine rimanda al verbo augēre ("accrescere"; ne deriva anche
auctoritas): Ottaviano si presenta come colui che ha accresciuto i domini
di Roma e restituito autorità al senato. La parola ha però soprattutto
valore sacrale (è legata a termini come augur e augurium): Ottaviano è il
salvatore di Roma, colui che assicura il destino della città nel rispetto della
tradizione politica e religiosa. Oltretutto la divinizzazione di Cesare, da
cui è stato adottato, lo rende Divi filius ("figlio di un dio").
Il senato decretò il conferimento di questo titolo (dopo aver scartato quello di
Romolo, troppo legato alla monarchia) consacrando uno scudo d'oro con
incise le qualità che si riconoscevano ad Augusto: iustitia, pietas,
clementia, virtus.
La nuova costituzione
Nel 23 Augusto lasciò la carica di console (che aveva tenuto ininterrottamente dal 31) e si fece
conferire i poteri della tribunicia potestas e dell'imperium proconsulare: grazie a ciò egli di
fatto poteva decidere la politica a Roma e nelle province.
Lo schema augusteo si fondava dunque essenzialmente su due presupposti: il rispetto della legalità
repubblicana e l'accentramento dei poteri. Attraverso l'espediente di esercitare le funzioni
connesse con una magistratura senza rivestire la magistratura stessa, poteva accumulare poteri
di per sé inconciliabili nel sistema repubblicano. Al vertice dello stato si insediava così un
uomo solo, con poteri indefiniti, che passava come un primus inter pares, un princeps. Questo
fu il principato di Augusto.
Oltre a garantirsi ogni potere mantenendo un quadro politico formalmente repubblicano, Augusto si
preoccupò di collocare nel nuovo sistema le antiche istituzioni. In effetti, la funzione
legislativa di comizi e senato non venne abolita, ma diventò mera ratifica delle decisioni di
Augusto. Anche i magistrati continuarono a essere eletti nelle assemblee, anche se venivano
scelti all'interno di una rosa di nomi suggeriti.
Il numero dei senatori, in particolare, venne ridotto; la maggior parte, poi, era costituita da uomini
di stretta fiducia di Augusto, che se ne garantì l'appoggio riservando loro le cariche più
prestigiose, quali il governatorato delle province e il comando delle legioni.
Solo le magistrature minori (edilità e questura), che avevano una natura più amministrativa che
politica, mantennero le loro funzioni.
Il dibattito critico sul principato di Augusto
La forma di governo cui Augusto diede vita viene dunque definita principato: la
natura giuridica del principato (che conteneva in sé i germi di quello che poi
sarebbe stato l'impero) è però oggetto di molte discussioni.
Alcuni storici ritengono che il principato fosse una sorta di città-stato: la
costituzione augustea infatti continuava a prevedere l'esistenza delle
magistratura, dei comizi e del senato, gli organi tipici della città-stato.
Altri pensano che Augusto abbia dato vita a una monarchia assoluta: la
permanenza in vita delle vecchie istituzioni era in effetti del tutto formale. Ciò
che realmente caratterizzava il principato era la concentrazione dei poteri nelle
mani di una sola persona: la magistratura del princeps non era stata aggiunta
alle altre cariche, ma le aveva sostituite.
Secondo il giudizio dello storico tedesco Theodor Mommsen (1817-1903), invece,
il principato sarebbe stato una diarchia: un governo nel quale la sovranità era
esercitata da due organi, il princeps e il senato, al quale erano state attribuite
nuove competenze. Il senato passò infatti a emanare norme di legge, ad
eleggere magistrati e a giudicare questioni criminali. Al controllo del senato
vennero inoltre affidate alcune province (dette provinciae populi).
La riorganizzazione amministrativa: Roma
All'epoca di Augusto Roma aveva circa mezzo milione di abitanti: un numero così elevato poneva grossi
problemi organizzativi. Augusto così introdusse a Roma nuovi organi di governo e decentrò le
funzioni amministrative, mantenendone il potere decisionale e di controllo.
Le nuove cariche vennero affidate a funzionari di sua fiducia, che egli poteva revocare in qualsiasi
momento. Augusto usò per i suoi scopi la classe degli equites: anche per diminuirne l'influenza
politica, attribuì loro principalmente funzioni amministrative, allettandoli con alti stipendi.
I nuovi organi di governo erano i prefetti.
Il praefectus urbis era preposto all'amministrazione di Roma, dove aveva il compito di garantire l'ordine
pubblico. Poiché Augusto lo nominava solo quando si allontanava dalla città, la carica divenne
stabile a partire da Tiberio, che normalmente risiedeva fuori Roma. Era l'unico prefetto di rango
senatorio.
Il praefectus annonae era incaricato di provvedere all'approvvigionamento della città e alle distribuzioni
gratuite di grano.
Il praefectus vigilum era il capo della polizia urbana, che si occupava anche di vigilanza notturna e degli
incendi.
Il praefectus praetorii era il capo della guardia personale del princeps (le 9 cohortes praetorianae, per un
totale di 9000 uomimi ca, detti praetoriani, selezionati tra i migliori giovani italici), al quale era
molto vicino, arrivando anche (ma solo dopo Augusto) a sostituirlo.
Roma venne divisa in 14 regioni (la XIV si trovava sulla destra del Tevere ed è l'odierna Trastevere) e in
265 quartieri, cui sovrintendevano edili e tribuni.
La riorganizzazione amministrativa: l'Italia
Con Augusto ricevette nuovo impulso anche l'urbanizzazione della penisola, soprattutto quando si
presentò il problema di sistemare decine di migliaia di veterani: nelle sue Res Gestae lo stesso
princeps asserisce di aver speso 600 milioni di sesterzi in acquisto di terre in Italia da distribuire.
Alcune città, già cospicue per numero di abitanti e sviluppo urbano, divennero così colonie (con
l'appellativo Augusta o Iulia Augusta) dopo l'insediamento di veterani: tra le altre Bononia,
Ariminum, Brixia; Augusta Taurinorum ebbe invece rinnovata la struttura urbana.
La sistemazione dei veterani portò anche alla fondazione di nuovi centri, come ad esempio Augusta
Praetoria (Aosta).
Con le nuove colonizzazioni si procedette a fissare i limiti dei territori dei municipi e delle colonie: se poi
la distribuzione di terreni era avvenuta in zone prive di centro urbano, si provvide a nuove
fondazioni.
Municipi e colonie in Italia erano all'epoca circa 300, per un totale di circa 6 milioni di abitanti.
Tra colonie e municipi ormai non c'erano differenze in merito alla condizione degli abitanti: tutti erano
cittadini romani di pieno diritto. Qualche minima diversità riguardava al massimo l'amministrazione
locale.
Augusto in ogni caso favorì l 'autonomia amministrativa: solo per ragioni statistiche legate ai censimenti e
agli arruolamenti procedette alla suddivisione dell'Italia in 11 regioni: Latium et Campania (I),
Apulia et Calabria (II), Lucania et Bruttii (III), Samnium (IV), Picenum (V), Umbria (VI), Etruria
(VII), Aemilia (VIII), Liguria (IX), Venetia e Histria (X), Transpadana (XI).
In tutta Italia i presidi militari erano scomparsi già con il 42: in caso di necessità si doveva ricorrere ai
pretoriani, unico corpo armato autorizzato nella penisola, o alle truppe occasionalmente di passaggio
durante le marce di spostamento verso le province.
La riorganizzazione amministrativa: le province (1)
Per quanto riguarda l'amministrazione periferica, l'innovazione più importante e introdotta
già nel 27 fu la divisione delle province in due categorie:
- provinciae populi
- provinciae Caesaris
Le province "del popolo" erano anche dette "senatorie" perché di competenza
amministrativa del senato (al quale non era invece concesso di interferire con il governo
delle altre province). Esse erano rette da un magistrato con imperium, il proconsole, di
rango consolare o pretorio. Al momento dell'entrata in carica egli emetteva un editto che
stabiliva le norme a cui i sudditi della provincia avrebbero dovuto attenersi. I proconsoli
avevano dunque poteri civili, amministrativi e militari: se però nel loro territorio
venivano a stanziarsi truppe, queste dipendevano da comandanti che rispondevano
direttamente al principe. A questi si affiancavano proquestori per l'amministrazione
finanziaria e procuratori imperiali, che si occupavano dell'amministrazione delle
proprietà del principe.
Le province "di Cesare" (province imperiali) erano poste sotto il diretto controllo di
Augusto. Erano quelle più difficili da governare, perché turbolente o di confine, e per
questo vedevano significativi stanziamenti militari. Erano rette da funzionari di rango
consolare o pretorio che, pur avendo ricoperto il consolato e avendo a tutti gli effetti
diritto alla carica di proconsole, erano considerati di rango inferiore ai governatori delle
provinciae populi, perché governavano per conto del principe e dipendevano
completamente dalla sua volontà, anche per quanto riguardava la durata della carica.
La riorganizzazione amministrativa: le province (2)
Faceva eccezione l'Egitto, che era governato da un prefetto di rango equestre (praefectus
Alexandreae et Aegypti), direttamente nominato dall'imperatore. Questa particolare
condizione fu dettata dal momento in cui il paese nilotico entrò a far parte dell'Impero,
momento (30 a.C.) che coincideva con l'apice della guerra civile fra Ottaviano e
Antonio. Le ricchezze del paese, che Ottaviano voleva assicurarsi, contribuirono a dare
all'Egitto questo originale e rivoluzionario statuto. L'Egitto, pur rimanendo sino a
Settimio Severo e all'istituzione della prefettura di Mesopotamia l'unica provincia
equestre con un guarnigionamento legionario, fu il prototipo delle future province
procuratorie nate con Claudio. L'Egitto fu sempre considerato dai Romani una
provincia, e non, come la storiografia ottocentesca voleva, un dominio privato di
Augusto. Quest'ultima teoria, detta della 'Personalunion', è oggi ormai definitivamente
superata.
La suddivisione amministrativa delle province (che subì modifiche nel corso del tempo)
aveva però anche valore fiscale e di conseguenza politico. I tributi riscossi nelle
provinciae Caesaris, infatti, non venivano versati nelle casse dello stato (aerarium),
come quelli delle altre province, ma finivano nella cassa personale di Augusto (fiscus):
in queste province dunque egli si proponeva come un monarca di tipo orientale.
In generale occorre dire che le province trovarono in Augusto colui che li poteva difendere
dalle esosità dei governatori e degli esattori locali.
La politica economica
La politica economica di Augusto fu di stampo prevalentemente liberista, nel senso che egli
si astenne dall'intervenire in modo massiccio in materia.
Indirettamente le attività economiche vennero favorite dalle condizioni di stabilità politica e
pace, nonché da una serie di iniziative utili allo sviluppo degli scambi commerciali,
quali la costruzione di un'imponente rete stradale e l'organizzazione di un efficiente
sistema postale.
In generale sotto Augusto tutto l'impero, che doveva contare circa 50 milioni di abitanti,
godette di un benessere diffuso.
Augusto si occupò invece seriamente di politica monetaria. L'organizzazione dello Stato era
ormai costosissima, visto soprattutto l'alto numero di funzionari pubblici e il fatto che
l'esercito era composto da professionisti che andavano regolarmente retribuiti.
Si rese dunque necessario coniare più moneta: Augusto introdusse allora un sistema doppio,
riservando a sé stesso la possibilità di battere moneta d'oro e d'argento e lasciando che il
senato battesse in rame. Fissò quindi precisi rapporti tra i valori delle diverse monete: la
certezza del cambio rendeva così più sicure e agevoli le transazioni commerciali.
La riforma di Augusto restò alla base del sistema monetario romano per circa tre secoli.
La riforma militare (1)
Negli anni che seguirono la battaglia di Azio la politica di Augusto fu volta più a garantire la
pace che a compiere nuove conquiste: egli continuò tuttavia a occuparsi dell'esercito con
grande attenzione, conscio del fatto che il consenso popolare di cui godeva non lo
autorizzava a prescindere dall'appoggio dei militari.
Diversi furono dunque i provvedimenti che Augusto prese relativamente all'esercito:
- prolungò il periodo di ferma militare (la ferma poteva durare fino a 20 anni per la fanteria e
10 per la cavalleria)
- ridusse le legioni a 25: ciascuna di esse era composta da 6.000 uomini ed era stanziata a
difesa delle frontiere
- incentivò il sistema, in uso già in età repubblicana, delle truppe ausiliarie, contingenti
forniti da altri stati in virtù di trattati di alleanza o reclutati come mercenari
- introdusse un reclutamento volontario regolare, che offriva ai soldati la possibilità di fare
carriera
- ripristinò la severità delle antiche pene militari e limitò la concessione di decorazioni
onorifiche
- introdusse l'uso di trasferire di frequente i generali, per evitare che questi stabilissero
legami troppo forti con le proprie truppe
- costruì una flotta militare permanente
La riforma militare (2)
Nonostante le legioni fossero spesso stanziate in zone disagiate, l'arruolamento era
vantaggioso per molti, ad esempio per i provinciali: arruolandosi essi acquistavano la
cittadinanza romana e quando lasciavano l'esercito ricevevano terra non lontano da dove
avevano prestato servizio.
La riforma militare di Augusto ebbe così conseguenze importantissime:
- l'ingresso dei provinciali nell'esercito, anche in virtù dell'acquisizione della cittadinanza,
diede il via al processso di sprovincializzazione di Roma e contemporaneamente gettò le
basi per la romanizzazione dell'Europa: i provinciali portavano infatti la propria cultura
ai romani e ne assumevano la loro
- spesso i provinciali conoscevano poco e male il latino, anche quello popolare, e parlavano
così i propri idiomi mischiandoli con la lingua di Roma: siamo agli albori dunque della
nascita delle lingue neolatine
- proprio la struttura su cui Roma aveva costruito la propria grandezza, l'esercito, si avviava
ad esserne significativo elemento di crisi: composto sempre meno da romani e sempre
più da provinciali, l'esercito diventerà una forza maggiormente legata alla voglia di
conquista e ai carismi dei diversi condottieri (e quindi nel complesso meno affidabile)
che non guidata e ispirata dall'amore per la patria e dalla lealtà alle antiche tradizioni.
La politica estera (1)
Nonostante Augusto non coltivasse progetti espansionistici particolarmente
ambiziosi, egli si trovò più di una volta a impegnare l'esercito sui confini:
a volte i suoi interventi furono vere e proprie campagne di conquista, che
portarono all'estensione del territorio di Roma.
Questa politica non era peraltro in contrasto con la sua pax: nella mentalità
romana la pace era infatti garantita solo dal dominio di Roma.
Tra il 20 e il 19 a.C. il generale Vipsanio Agrippa pacificò definitivamente la
Spagna, sconfiggendo le tribù del nord della penisola.
Nel 16 a.C. i due figliastri di Augusto, Tiberio e Druso, condussero con
successo una spedizione nel Norico, che divenne una nuova provincia: la
zona era importante, in quanto ricca di miniere d'oro e di ferro. Dell'anno
dopo sono la conquista di Rezia e Vindelicia. L'intento di queste
campagne era l'organizzazione delle Alpi, intesa a garantire sicurezza
all'Italia.
Dal 14 al 9 Agrippa prima e Tiberio poi occuparono la Pannonia: il confine di
Roma giunse al Danubio. Subito dopo toccò alla Mesia.
La politica estera (2)
I veri impegni di Augusto furono però i Germani e i Parti.
Druso nel 9 a.C. riuscì ad arrivare fino all'Elba, dove trovò la morte. Il comando in
Germania passò allora a Tiberio, che in puntate successive attraversò più volte il
territorio germanico, tuttavia senza mai sottometterlo realmente.
Il 6 d.C. segnò l'inizio del drammatico ripiegamento: le tribù germaniche, coese, diedero vita
a una grande rivolta e per la prima volta a Roma si ebbe paura; Augusto ebbe difficoltà
nelle leve militari e arrivò a minacciare di morte i renitenti.
Nel 9 i Germani guidati da Arminio tesero un'imboscata ai Romani nella foresta di
Teutoburgo e li annientarono; Quintilio Varo, il generale, per la sconfitta si uccise.
I territori al di là del Reno vennero perduti per sempre: la Germania non sarebbe mai stata
una provincia romana. Da allora Augusto rinunciò a estendere i confini dell'impero,
convintosi che le risorse di Roma potevano solo bastare a difenderlo, non ad ampliarlo.
Sul confine orientale i Parti rappresentavano da sempre un pericolo: Augusto preferì evitare
lo scontro armato e si impegnò in una complessa azione diplomatica, grazie alla quale
riuscì a sistemare sovrani-clienti sui troni di Tracia, Bosforo e Ponto; l'Armenia invece,
da tempo contesa fra Roma e Parti, finì con il rimanere nella sfera di influenza di questi
ultimi.
Principato e propaganda
Augusto si premurò con grande sollecitudine di curare la propaganda, per organizzare il consenso attorno
a sé e al suo operato.
A tal fine egli compose un'autobiografia (Res gestae divi Augusti) in cui presentava i successi della
propria attività di governo, ma soprattutto fece leva su artisti e letterati, che vennero mobilitati per
esaltare l'immagine vittoriosa e pacificatrice che Augusto voleva dare di sé.
L'intento principale era quello di diffondere l'ideologia del principato, proponendo all'intera società
romana valori comuni di cui Augusto si presentava come garante:
- l'universalità di Roma, il cui compito era assicurare la pace e diffondere la civiltà
- le antiche virtù dei padri, tra cui soprattutto il valore militare, l'attaccamento alla patria e alla famiglia, il
concepire la vita come officium, il rispetto delle leggi e la pietas
Augusto favorì dunque la cultura, facendo tra l'altro costruire a Roma due nuove biblioteche.
Egli tuttavia preferì non impegnarsi direttamente nella gestione del rapporto con gli intellettuali e lasciò il
compito all'amico Gaio Cilnio Mecenate, un ricchissimo cavaliere di stirpe etrusca che non volle
mai assumere incarichi politici, ma divenne di fatto un vero e proprio ministro della cultura.
Mecenate utilizzò le sue enormi ricchezze per creare attorno a sé un circolo di poeti e letterati favorevoli
al regime: il noto circolo di Mecenate. All'interno del gruppo vigeva una certa libertà intellettuale,
ma il clima di protezione di cui godevano gli artisti li induceva a indirizzare la propria opera
all'esaltazione di Augusto e del suo principato.
Fra i nomi più illustri del circolo si possono citare i poeti Publio Virgilio Marone e Quinto Orazio Flacco.
Augusto fece dunque dell'arte, e non solo della letteratura, uno strumento di potere (ars ut instrumentum
regni).
Urbs marmorea
Allo stesso scopo propagandistico mirarono quindi gli interventi architettonici e
urbanistici realizzati a Roma, che Ottaviano si vantò di aver lasciato in marmo
dopo averla ricevuta di mattoni e legno.
Augusto si impegnò nel restauro di antichi monumenti, nel completamento di opere
lasciate incompiute e nella costruzione di nuovi edifici.
In particolare venne costruito il Foro di Augusto, al cui centro fu innalzato il tempio di
Marte Ultore: il dio della guerra vi era venerato per aver favorito la vittoria di
Ottaviano sui cesaricidi.
Il monumento più significativo è però l'Ara Pacis Augustae, un altare che celebrava la
pace di cui godeva l'impero in quel periodo.
Augusto si preoccupò anche di ottenere il consenso della plebe, curando in particolare
l'approvvigionamento e la manutenzione degli acquedotti.
Inoltre provvide alla realizzazione di giochi e feste e alla distribuzione di cibo e denaro,
in parte attingendo al suo patrimonio personale.
Per sintetizzare con sprezzo la condizione del popolo romano di età imperiale che, persi
i valori repubblicani, aspirava soltanto a cibo e giochi, più tardi il poeta satirico
Giovenale conierà l'espressione divenuta proverbiale panem et circenses.
L'Ara Pacis Augustae fu costruita tra il 13 e il 9 a.C. per celebrare la pace e la prosperità dell’impero di
Augusto. L’altare è circondato da un recinto marmoreo riccamente decorato con bassorilievi.
L’insieme monumentale, originariamente situato nel Campo Marzio, è stato ricostruito in tempi
recenti presso il Mausoleo di Augusto.
La moralizzazione dei costumi
La propaganda augustea sosteneva che i mali di Roma derivavano dall'abbandono delle antiche virtù e
dalla decadenza della famiglia.
I romani tendevano a sposarsi sempre meno, il numero delle nascite era in calo e l'adulterio era una pratica
molto diffusa.
Per risolvere la situazione, tra il 18 e il 9 a.C., Augusto promulgò una serie di leggi, che nell'insieme
vanno sotto il nome di leges Iuliae.
Augusto introdusse ad esempio l'obbligo di sposarsi per gli uomini e le donne che avevano fra 25 e 65
anni; pose forti limiti alle possibilità di lasciti per chi non aveva figli e alle eredità di chi non era
coniugato; stanziò premi in denaro per le famiglie numerose e favorì l'accesso alle cariche pubbliche
per i padri di famiglia; concesse maggiori libertà alla donne con più figli.
Inoltre, con la lex de adulteriis l'adulterio divenne un crimine punito con l'esilio e la confisca di metà del
patrimonio; in alcuni casi gli adulteri potevano anche essere uccisi. Chi per qualche motivo non
denunciava l'adulterio subito, veniva considerato colpevole a sua volta.
Le legge, pensata per tutelare la famiglia, finì col danneggiarla: le confische privavano i figli dell'eredità;
le famiglie erano in balia di ricattatori che minacciavano di denunciare adulteri presunti per estorcere
denaro.
Tra coloro che furono colpiti da questi provvedimenti vi fu anche Giulia, figlia di Augusto stesso e
Scribonia, che venne relegata dal padre a Ventotene. Ma in questo caso Augusto aveva voluto
probabilmente colpire Tiberio, suo figliastro e marito di Giulia: desiderando infatti allontanarlo dal
potere, lo aveva costretto a lasciare la figlia, facendo accusare lei di adulterio. Giulia morì in seguito
in esilio, mentre Tiberio fu reintegrato come successore di Augusto.
La lex de adulteriis in realtà venne poco applicata: la tradizione secondo la quale l'adulterio era da
considerarsi faccenda privata era forte e i romani non erano disposti ad accettare l'intrusione dello
stato nelle proprie vite. Lo stesso Augusto poi ebbe numerose relazioni extraconiugali.
Il recupero della religione tradizionale
Per Augusto (dal 12 a.C. pontifex maximus) era importante potersi presentare come
difensore della tradizione pure in ambito religioso.
Era opinione diffusa che i disastri delle guerre civili fossero stati causati anche dall'ira degli
dei per lo stato di trascuratezza in cui versavano i culti tradizionali: la pace che Augusto
era stato capace di garantire doveva accompagnarsi al recupero della pax deorum, lo
stato di armonia tra mondo umano e divino, che poteva essere garantito solo dal rispetto
delle pratiche cultuali.
Augusto allora rinnovò antichi culti caduti in disuso, guardando con sospetto alle credenze
orientali: le cerimonie in onore di Iside e Osiride ad esempio vennero vietate all'interno
della città di Roma. Inoltre il princeps si dedicò al restauro e alla ricostruzione di molti
edifici sacri.
La rinascita delle tradizioni religiose romane fu comunque orientata all'esaltazione del
principe: Augusto divenne membro di tutti i principali collegi sacerdotali e venne
considerato divi filius, in quanto figlio adottivo di Cesare.
Pur non giungendo mai a presentare sé stesso come un dio, Augusto favorì la diffusione del
culto del proprio genius (il suo spirito protettore) e del proprio numen (la forza divina
che si manifestava attraverso di lui). Nelle regioni orientali dell'impero, tuttavia,
cominciò a manifestarsi spontaneamente la tendenza alla divinizzazione del sovrano; in
Egitto poi Augusto si fregiava del titolo di faraone (cioè dio).
La morte di Augusto
Augusto morì a Nola il 19 agosto del 14 d.C.
Racconta Svetonio che sul letto di morte si guardò allo specchio e disse:
"Se la recita vi è piaciuta, allora applaudite".
Augusto aveva riorganizzato lo stato, aveva garantito a Roma la pace,
aveva dato alla città uno splendore senza pari, aveva introdotto una
forma politica (il principato) che avrebbe traghettato Roma verso un
nuovo destino: l'impero.
Alla sua morte, per suo volere, assunse la carica di princeps il figliastro
Tiberio, adottato nel 4 d.C. Tiberio aveva già dato buona prova delle
sue capacità militari combattendo contro le tribù germaniche. Un anno
prima di morire Augusto aveva depositato un testamento nel quale
designava Tiberio suo erede: anche se formalmente il principato non
era ereditario, il senato rispettò le volontà di Augusto.