Schede di Sociologia del lavoro
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Transcript Schede di Sociologia del lavoro
Lez. 1 - Introduzione
Forze di lavoro o
popolazione attiva
(= offerta)
Occupati: chi svolge un
lavoro al fine di trarne
guadagno **
In cerca di lavoro: chi
non avendo un lavoro lo
cerca attivamente
(almeno un’azione di
ricerca negli ultimi 30
gg)
Dipendenti (lavoro salariato)
Indipendenti (in proprio)
** gli occupati possono
essere considerati una
misura indiretta della
domanda proveniente dal
mercato del lavoro
-> in cerca di lavoro
= offerta – occupati
= offerta - domanda
Disoccupati in senso stretto
(avevano un lavoro e lo hanno perso)
In cerca di prima occupazione
Altre persone in cerca di occupazione
(si definiscono in cerca di lavoro solo in seconda istanza)
Persone in età
lavorativa
• Studenti
• Casalinghe
• Ritirati dal lavoro e
inabili in età lavorativa
Popolazione non attiva
o non forze di lavoro
Persone in età non
lavorativa
• Minori < 15 anni
• Anziani > 64 (70)
Indicatori / Indici (possono essere generali, oppure specifici per area geografica, genere, classi di età e/o livelli di istruzione
FORZE DI LAVORO / POPOLAZIONE X 100 = TASSO DI ATTIVITÀ (LORDO SE TOTALE POPOLAZIONE, NETTO SE SOLO POPOLAZIONE IN ETÀ LAVORATIVA)
OCCUPATI / POPOLAZIONE X 100 = TASSO DI OCCUPAZIONE (LORDO SE TOTALE POPOLAZIONE, NETTO SE SOLO POPOLAZIONE IN ETÀ LAVORATIVA)
POPOLAZIONE / OCCUPATI = NUMERO DI PERSONE “A CARICO” DI CIASCUN OCCUPATO
IN CERCA DI LAVORO / FORZE DI LAVORO X 100 = TASSO DI DISOCCUPAZIONE
Le fonti utilizzate: Indagine ISTAT sulle forze di lavoro (indagine campionaria, frequenza trimestrale) + Censimenti ISTAT + Dati uffici di collocamento (ora centri per
l’impiego) + dati EUROSTAT (rielaborazione dati dei diversi istituti statistici nazionali) e studi OCSE per i confronti europei
Lez. 2
Chi cerca lavoro?
In Italia a confronto con altri Paesi europei:
• limitata differenza tassi di disoccupazione totale (Italia 1-2 punti perc. oltre media UE, compresa nella fascia dal 7 al 11%d dove stanno 9
paesi su 14)
• forte penalizzazione
• donne (TDF 13%; TDM 7,3%)
• giovani (TD 15-29 18,2%; 30-55 4,5%)
• bassa penalizzazione di
• maschi
• adulti
• disoccupati in senso stretto
• forte presenza tra i disoccupati di persone senza esperienza di lavoro
• in cerca di primo lavoro 41,1%
• disoccupati in senso stretto 36,4%
• altri in cerca di lavoro 22,5%
TASSO DI DISOCCUPAZIONE F – TASSO DI DISOCCUPAZIONE M / TASSO DI DISOCCUPAZIONE TOTALE: INDICE DI DISCRIMINAZIONE PER GENERE (OPPURE PER ETA’)
Sia l’uno che l’altro indice di discriminazione non correlati né con tasso di disoccupazione né con tasso di attività della classe sociale considerata,
mentre si evidenzia chiara correlazione negativa con tasso di occupazione (definita “capacità del paese di creare occupazione”
Donne più colpite dalla disoccupazione in quasi tutti i paesi europei
(eccezione UK, Irlanda e Svezia)
ma mentre la differenza in alcuni paesi è poco più di un punto percentuale
diventa abissale in Spagna e Italia
Prevalgono persone in cerca prima
occupazione
(eccezione Spagna per abnorme diffusione
lavori temporanei)
Composizione disoccupazione per genere e per età
(impatto tasso di attività)
+ Giovani
+ Donne
Uguale
+ Uomini
Modelli d’impatto della disoccupazione per età
• modello italiano: altissima disoccupazione giovanile, disoccupazione
adulta e anziana molto bassa
• modello tedesco: rischio di disoccupazione quasi uguale ad ogni età
(ma nelle classi giovanili effetto del sistema educativo dual system)
• modello britannico-francese: elevata disoccupazione giovanile,
media disoccupazione adulta, medio-alta disoccupazione anziana
Italia, Spagna, Grecia
+ Adulti
Francia, Olanda
Prevalgono disoccupati in senso stretto
+ Anziani
Danimarca
Belgio, Portogallo, Finlandia
Gran Bretagna, Irlanda
Svezia, Austria, Germania
•Tutte le caratteristiche della situazione italiana sono molto attenuate al centro nord (TO 15-64 = 60%) e molto accentuate nel mezzogiorno (TO = 42%)
•TD femminile supera quello maschile di 5-6 punti perc al centro nord vs di 12-14 nel mezzogiorno
•Per i maschi TD 15-24 supera quello degli adulti 30-59 di 12 punti perc nel centro nord vs di 40 nel mezzogiorno; per le femmine di 17 nel centro nord vs di 43 nel
mezzogiorno
• Conseguenze: nel centro nord situazione di discriminazione moderata che d’altra parte consente pieno impiego ai maschi adulti (TD sempre inferiore al 2%,
situazione unica in Europa); nel mezzogiorno TD giovani maschi 50%, giovani donne oltre 60% e anche TD maschi adulti salito dal 2% di prima del 1980 all’8-10% degli
anni 90
• Negli anno 90 le differenze si sono accentuate, ovvero l tasso di discriminazione verso i giovani nel centro-nord è andato fortemente a diminuire per l’effetto
combinato del calo demografico (riduzione del bacino) e della diffusione di lavori instabili (i giovani da in cerca di primo impiego si trasformano in disoccupati)
Lez. 3
Disoccupazione,
famiglia e
welfare state
Composizione della disoccupazione per posizione in famiglia
• modello Italia, Spagna e Grecia: disoccupazione colpisce soprattutto figli, e relativamente poco capifamiglia maschi (che sono la maggioranza)
• modello Gran Bretagna e Germania: disoccupazione colpisce tutti in ugual misura
• modello Francia, Belgio, Austria e Olanda: disoccupazione colpisce in misura maggiore donne single capifamiglia
Giovani in cerca di prima occupazione
• nei paesi dell’Europa meridionale sono molti, per la
maggior parte vivono ancora in famiglia, e pochi
corrono il rischio di vivere in una famiglia senza
reddito
• nei paesi dell’Europa centro-settentrionale: sono
pochi, per la maggior parte sono usciti dalla famiglia e
sono spesso single, ovvero vivono in famiglia senza
reddito
Donne adulte in cerca di lavoro
• nei paesi dell’Europa meridionale sono poche, ed è
poco probabile che vivano in famiglia senza reddito
perché è poco probabile che siano capifamiglia (es
vivano sole dopo un divorzio)
• nei paesi dell’Europa centro-settentrionale: sono di
più e sono spesso capifamiglia (anche con figli a
carico), ovvero vivono in famiglia senza reddito
Welfare state in Europa:
• principio assicurativo: indennizza il lavoratore dal danno
provocato dalla perdita di lavoro: indennità proporzionata alla
retribuzione percepita e a termine
• principio assistenziale: sussidio legato allo stato di bisogno,
senza scadenza – non presente in Italia e Grecia
Italia: scarsa protezione complessiva frutto però di situazioni
molto diversificate, ovvero solito casino:
• regime generale: solo 6 mesi (9 per 50 anni +) con 40%
ultima retribuzione
• ma per chi perde lavoro da grandi/medie imprese: indennità
di mobilità 80% a scalare da 12 a 36 mesi secondo l’età,
mobilità lunga 55 anni +
• indennità lavoratori stagionali (un vero e proprio sussidio di
disoccupazione senza averne il nome)
Uomini adulti e anziani in cerca di lavoro
• ovunque vivono perlopiù in famiglie dove
non entra alcun reddito da lavoro (ovvero
sono capifamiglia)
Indice sintetico di “generosità” tiene conto di:
• grado di rimpiazzamento (rapporto tra indennità e retribuzione percepita) e durata
• grado di copertura: % di persone in cerca di lavoro che percepiscono un’indennità
Situazione critica
Alta
protezione
Media
protezione
Scarsa
protezione
Alte indennità per quasi
tutti coloro che cercano
un lavoro
Paesi Nordici e Belgio
Media indennità a quasi
tutti
Germania
Basse indennità a metà
Francia, Gran Bretagna
Disoccupazione né
familistica, né assistita
Basse indennità a pochi
Europa Meridionale
Disoccupazione
familistica
Disoccupazione assistita
•Obiettivi indennità di disoccupazione: impedire povertà, aiutare una ricerca mirata del lavoro, ridurre resistenze al cambiamento
• Possibili effetti perversi accettati a livello micro: indennità più generose -> più disoccupazione di lungo periodo; tuttavia l’indennità non corrode la motivazione al
lavoro, si ha invece un più oculato processo di ricerca
• Controversi a livello macro: relazione tra generosità indennità e tasso di disoccupazione potrebbe essere un risultato indiretto del fatto che indennità incoraggia la
permanenza tra la popolazione attiva di donne e anziani, che altrimenti abbandonerebbero la ricerca di lavoro; tuttavia nei paesi ad indennità generose problema
sentito, quindi ad esse si accompagnano misure di reinserimento al lavoro
Modello familistico italiano:
• scarse occasioni di occupazione + scarse risorse pubbliche per sostenere
le persone senza lavoro
• evitare conflitti sociali + risparmiare sui costi per sostenere la
disoccupazione
• occupazione concentrata su capifamiglia -> almeno 1 reddito da
lavoro per famiglia
• disoccupazione concentrata su giovani e donne -> possono fondare
identità sociale altrimenti, possono essere mantenuti da capifamiglia
Effetti positivi
• pace sociale
• risparmi sui costi della disoccupazione
Effetti negativi
• ritardata uscita dei giovani dalla famiglia
• troppi compiti sulla famiglia
• riduzione natalità
Modello entra in crisi quando:
• aumentano capifamiglia disoccupati
• occupazioni instabili interessano maschi 40enni (potenziali capifamiglia)
• unità della famiglia si frantuma
Lez. 4
La
disoccupazione
giovanile
In Italia:
• scarsa presenza “disoccupati puri”
• elevata protezione dell’occupazione
potrebbero autorizzare una spiegazione della disoccupazione giovanile in chiave di insider che sbarrano l’accesso al lavoro agli outsiders
Tuttavia altro fenomeno tipicamente italiano è:
• elevata probabilità che gli occupati si separino dal loro lavoro trovandone rapidamente un altro (senza transitare cioè dalla condizione di
disoccupazione come avviene in altri paesi europei), ovvero elevata mobilità job-to-job: fenomeno dovuto a prevalenza dell’occupazione presso la
media/piccola azienda, dove la mobilità è elevata, vuoi per caratteristiche strutturali delle aziende (elevato tasso di chiusure e nuove aperture e
protezione dell’occupazione minima), vuoi per ricerca continua di migliori opportunità da parte degli occupati, sia per senso di precarietà della
propria posizione, sia per scarse possibilità di carriera interne (ancora fenomeno dovuto a dimensioni ridotte delle aziende)
Disoccupati puri da meno di un anno / Occupati anno precedente = Indice probabilità perdita lavoro e entrata in disoccupazione
Indice correlato positivamente con tasso di disoccupazione del paese
Tuttavia Italia in posizione anomala (indice più basso di quanto farebbe prevedere il tasso di disoccupazione). Situazione spiegabile poiché l’indice ignora
sia chi ritrova rapidamente un lavoro (situazione italiana), sia chi non ne ricerca più un altro ovvero entra a far parte della popolazione non attiva
Indice protezione dell’occupazione Ocse:
• pone l’Italia tra i paesi ad alta protezione, insieme a Germania e Spagna
• seguono Svezia, Belgio, Olanda
• Gran Bretagna e USA hanno l’indice più basso
Tuttavia l’indice è viziato dall’impossibilità di tener conto dell’ambito di applicazione delle norme (es piccole imprese sono di diritto o di fatto escluse),
della loro reale applicazione , dell’esistenza vuoi di flessibilità (es lavoro nero, occupazione formalmente indipendente), vuoi di rigidità informali
Da notare che indice non ha alcuna relazione con la percezione soggettiva di insicurezza da parte dei lavoratori (percezione lavoratori italiani su livelli
analoghi a quelli di paesi con basso indice di protezione dell’occupazione)
Di fatto alta protezione dell’occupazione frena mobilità nel pubblico impiego e nelle (poche) aziende medio-grandi, ma non impedisce la mobilità nelle
(molte) piccole imprese
Nessun “salto” evidente alla fatidica soglia dei 15 dipendenti (che peraltro può essere –come ben sappiamo- elusa), ma fenomeno graduale -> cause
strutturali
• Ipotesi 1: a maggior protezione dell’occupazione fa riscontro un più alto tasso di disoccupazione (comportamenti opportunistici): non confermata
internazionalmente dai numeri
• Ipotesi 2: a maggior protezione dell’occupazione fa riscontro minore disoccupazione maschi adulti e maggiore disoccupazione donne e giovani: confermata
dai numeri nel confronto internazionale, tuttavia non sufficiente come spiegazione della situazione italiana per le ragioni dette
• Ipotesi 3 (spiegazione proposta): convergenza tra domanda di lavoro, offerta e effetti societali, ovvero scelte implicite della società:
• domanda: competenza professionale e socializzazione al lavoro organizzato e subordinato tipiche degli adulti preferite a maggiore
istruzione e “entusiasmo” dei giovani in quanto economia italiana poco innovativa; a conferma: sono i settori più innovativi che assumono
più giovani; da fine anni 90, con l’accelerazione del mutamento tecnologico e organizzativo almeno al centro-nord i giovani hanno
cominciato ad essere preferiti agli adulti; i paesi più innovativi danno più attenzione alle relazioni tra scuola e sistema produttivo
• offerta: quando il sostegno alla disoccupazione è scarso gli adulti, che vivono soli o hanno carichi familiari, sono molto più pressati a
ritrovare un lavoro in fretta rispetto ai giovani, che invece vivono in famiglia e possono attendere più a lungo la loro prima occupazione; a
riprova: a livello europeo relazione positiva tra TD giovanile e % di convivenza dei giovani in famiglia e relazione negativa tra squilibrio tra
disoccupati giovani e adulti e generosità sostegni alla disoccupazione (inoltre negli adulti può essere minore il problema di declassamento
rispetto ad aspettative collegate a titolo di studio?);
• scelte implicite della società: quando l’occupazione è scarsa e sono scarsi i sostegni pubblici ai disoccupati, vi è consenso nel favorire chi
si ritiene abbia più bisogno di lavorare -> privilegio dei capifamiglia sostenuto da sindacati e opinione pubblica. Implicitamente si dà più
importanza ai problemi economici degli adulti rispetto ai problemi psicologici dei giovani
Lez. 5 e 6
Miti e realtà della
disoccupazione
intellettuale
Ipotesi che la disoccupazione giovanile sia anche intellettuale deve essere “pulita” del fatto che le nuove generazioni sono, di default, più istruite
delle precedenti
Per parlare in modo specifico di disoccupazione intellettuale per i giovani occorre dimostrare che la più elevata scolarità costituisce una difficoltà
aggiuntiva alla ricerca di un’occupazione
Questo, se dimostrato, contrasterebbe con due delle più accreditate teorie sul ruolo dell’istruzione nel mercato del lavoro:
• teoria del capitale umano: lo sviluppo economico richiede maggiore istruzione, quindi i più istruiti corrono meno il rischio di restare senza lavoro;
se disoccupazione giovanile è intellettuale, allora vi è un eccesso di giovani istruiti rispetto alla domanda
• teoria della concorrenza tra i diversi livelli di istruzione: se vi è un eccesso di giovani istruiti, questi comunque corrono meno il rischio di
rimanere disoccupati poiché andranno a “spiazzare” i meno istruiti -> se disoccupazione giovanile è intellettuale, allora giovani istruiti non
“spiazzano” i meno istruiti, ovvero rimangono disoccupati ma non competono con loro
Di fatto la situazione italiana contrasta nettamente con seconda teoria, ovvero tendenzialmente non si verifica il fenomeno dello spiazzamento in quanto
vi è una forte resistenza a rinunciare alle aspettative legate al titolo di studio conseguito; questo perché un posto inferiore è percepito non solo come
dequalificazione professionale ma anche come declassamento sociale, di nuovo per effetto della convergenza di fattori culturali, strutturali e sociali:
• culturali: divisione netta tra lavoro manuale e intellettuale
• strutturali: scarsa mobilità di carriera sul lavoro fa sì che ogni occupazione sembri (e spesso effettivamente sia) “per sempre”
• sociali: la famiglia spesso lega al fatto che il figlio riesca a trovare il “posto buono” le proprie aspettative di mobilità sociale, ed è quindi ben disposta
(oltre che in grado, essendo tendenzialmente il capofamiglia occupato) a sostenere il giovane nell’attesa
A questo si è aggiunto un fenomeno congiunturale (che è andato attenuandosi quando è rallentato il ritmo di crescita dei livelli di istruzione) di
sfasamento tra aspettative della domanda e dell’offerta: da un lato il progressivo slittamento verso l’alto dei livelli di istruzione richiesti per le stesse
posizioni, dall’altro famiglie che continuavano a ragionare con gli equilibri della generazione precedente
Rispetto alla prima teoria, invece, considerando il tempo necessario per trovare la prima occupazione (TD a 5 anni dall’uscita dal sistema formativo), la
situazione italiana è più complessa, sia perché è cambiata nel tempo, sia perché la media nazionale nasconde fortissimi divari nord-sud:
• nel tempo: fine anni 70 disoccupazione intellettuale, con netto svantaggio per i diplomati, ma laureati in posizione migliore; anni 80: diplomati e
licenza media sullo stesso livello, ancora vantaggio relativo per i laureati; da metà anni 90 diplomati di nuovo in svantaggio, laureati con vantaggio
inferiore -> nel periodi di crisi ricompare la disoccupazione intellettuale
• per aree geografiche: mentre nel centro nord la disoccupazione non si è mai caratterizzata, neppure negli anni 70, come intellettuale, e attualmente si
assiste ad una convergenza verso il basso dei tassi di disoccupazione con i più istruiti in posizione migliore, nel mezzogiorno i diplomati sono da fine anni
70 in netto svantaggio e solo ultimamente si è ridotta, mentre i laureati sono in posizione di vantaggio: di fatto nel mezzogiorno vi è tendenza allo
spiazzamento dei diplomati da parte dei laureati, mentre non vi è quella allo spiazzamento dei meno istruiti da parte dei diplomati per effetto della
frontiera tra lavoro manuale e lavoro intellettuale
A totale Italia e considerando invece un periodo più lungo (tra i 5 e i 10 anni dall’uscita dal sistema formativo), il TD dei diplomati si riduce molto più di
quello dei meno istruiti -> i diplomati sono alla fine “costretti” a spiazzare i meno istruiti nelle occupazioni manuali
A confronto con altri paesi europei:
• all’entrata nel mercato del lavoro il vantaggio comparativo dei più istruiti in Italia è il più basso, è ridotto in Spagna, mentre è alto in Germania, Gran
Bretagna e (soprattutto) in Francia; questo non per effetto di una maggiore presenza di istruiti per fascia d’età (che anzi in Italia è inferiore rispetto
Germania, Francia, UK), ma per effetto del diverso modo in cui è articolata la domanda di lavoro
• lo stesso divario permane confrontando il vantaggio offerto dall’istruzione nel rimanere occupati: anche in Italia tra i 30 e i 59 anni il TD degli istruiti
è sempre minore di quello dei meno istruiti, tuttavia la differenza è minore che negli altri Paesi europei
• in Italia le probabilità di raggiungere una professione intellettuale sono distribuite in modo molto diseguale rispetto al titolo di studio, mentre lo sono
in modo molto poco diseguale in Spagna e Grecia, con UK e Francia in posizione intermedia
• quindi: mentre in Italia i più istruiti sono meno avvantaggiati dall’istruzione in sé, lo sono indirettamente poiché vi sono più alte probabilità che
accedano a posizioni intellettuali ad alta qualificazione, che sono le meno esposte alla disoccupazione
• tuttavia per quei pochi che da posizioni intellettuali entrano in disoccupazione questa dura più a lungo, vuoi perché il comportamento di ricerca è più
selettivo, vuoi perché la disoccupazione può avere un maggiore impatto psicologico -> scoraggiamento
I
+ 8,5%
- 12%
UE
5%
13%
Lez. 7
La lunga attesa del
“posto”
•Lavoro minorile non scomparso in Italia: stima 400/500.000 minori lavorano, soprattutto d’estate durante le vacanze, sia nelle regioni povere
del mezzogiorno che in quelle ricche del nord-est, soprattutto aiutando genitori e parenti -> questo aiuta la riproduzione da un lato della microimpresa familiare, dall’altro della subcultura del lavoro minorile.
•Motivi alla base sono da un lato la povertà, ma anche la convinzione che la scuola non serva e le spinte sociali al consumismo
•Lavoro degli studenti (superiori e università), ovvero “lavoretti”, più diffuso al centro-nord che al sud, dove maggiore è la concorrenza (per gli stessi
lavoretti, vedi sotto) di chi è in cerca del primo lavoro.
•Più diffuso tra studenti istituti tecnici che non licei (status sociale?) e tra studenti facoltà umanistiche che non scientifiche (tempo?)
•Interpretabile da un lato come corollario dell’espansione della scuola di massa, dall’altro come indicatore di minore investimento nella scuola che non
garantisce più di per sé un lavoro sicuro
•Lavoretti dei giovani in cerca di prima occupazione più diffusi al nord, dove vi sono maggiori opportunità nei servizi
•Prevalgono attività a bassa qualificazione (anche se al centro nord vi sono anche più opportunità di livello più elevato, e oltretutto regolari) -> per la
maggioranza i lavoretti hanno poco o nessun valore di addestramento professionale
•Inoltre al centro nord spesso buona contiguità tra lavoretti e “lavoro per la vita”: i primi permettono di accedere alla rete di relazioni sociali che
faciliterà la ricerca del secondo; al contrario al sud netta cesura tra lavoretti dequalificati e il più delle volte non regolari (canali di accesso: legami
familiari e di vicinato) e settore pubblico garantito che rappresenta spesso l’unica opportunità o quasi di un buon lavoro (canali: sistema clientelare);
peraltro la centralità dell’orientamento al pubblico svaluta socialmente anche le (poche) attività private regolari e meno precarie
• Vi è “schizofrenia” nei diversi comportamenti di ricerca messi in atto per i lavoretti e per il “lavoro per la vita”: per i primi “va bene tutto”, in quanto
non coinvolgono l’identità sociale della persone e sono vissuti strumentalmente, anche e soprattutto come modo per prolungare la ricerca del secondo,
che invece si vuole coerente con le aspettative suscitate dal livello di istruzione
•Ma ancor più che non sui lavoretti, l’attesa del “buon posto” si regge sul sostegno economico e sulle aspettative di mobilità sociale della famiglia
(dove la condizione socio-economica della famiglia stessa rappresenta doppiamente un vantaggio/svantaggio: da un lato maggiori risorse economiche
consentono tempi di attesa più lunghi, dall’altro migliori relazioni sociali favoriscono l’accesso al buon posto – e ovviamente viceversa)
•La scarsa mobilità di carriera che contraddistingue il lavoro in Italia rende il comportamento d’attesa dei giovani e delle loro famiglie tutt’altro che
irrazionale a consuntivo (accentando un lavoro purchessia, il rischio di rimanere disoccupati o comunque intrappolati in posti di lavoro scadenti e a
basso reddito è effettivo), anche se a livello individuale la scelta non è frutto di questo ragionamento ma del voler evitare il declassamento sociale (in
Italia l’associazione di specifici status sociali ai diversi tipi di lavoro è particolarmente forte)
•Il fatto che in Italia i disoccupati siano in maggioranza giovani che vivono in famiglia, da un lato, e dall’altro che anche i disoccupati adulti vivano
soprattutto al sud dove sono più intense le relazioni sociali, fa sì che in Italia ancora più che negli altri paesi trovi poco riscontro concreto lo stereotipo del
disoccupato “solo e emarginato”
• Tuttavia le reti di relazioni tendono ad essere spesso con persone in situazione di disoccupazione analoga: quindi sono poco utili per l’uscita dalla
disoccupazione
• Le reti di relazioni possono invece spesso essere il collegamento con il lavoro nero (si va dalla cosiddetta “economia informale” alle attività illegali o
criminali tout court) che al sud accompagna spesso e volentieri la disoccupazione: si tratta quasi sempre di attività dequalificate che non offrono sbocchi
occupazionali stabili, e che quindi non rallentano la ricerca del “buon posto” (quindi non sono “disoccupati puri”, ma neanche “falsi disoccupati”)
•A differenza che in passato, attualmente la disoccupazione tende a separarsi dalla povertà: poveri sono soprattutto i vecchi, le casalinghe, i minori, mentre
disoccupati sono soprattutto i giovani e (in misura minore in Italia) gli adulti. Questo fenomeno in Italia è più accentuato al nord che al sud (al sud sono in
condizioni di maggiore povertà rispetto al nord non solo i disoccupati, ma anche gli occupati…), ed è comune a tutti i paesi europei, sia pure per cause
diverse: assistenza pubblica (sussidi di disoccupazione) nei paesi dell’Europa settentrionale, assistenza familiare in quelli dell’Europa meridionale
•“Risolto” il problema economico, rimane fortissimo in Italia quello sociale: generazioni di giovani che ritardano l’inizio della formazione di un’identità
professionale (e personale) attraverso il lavoro -> conseguenze psicologiche e sul ciclo di vita (sposarsi e fare figli)
Lez. 8 Come si cerca e si trova lavoro
I diversi metodi di ricerca
Organizzati
Non
Organizzati
Formali moderni
Formali tradizionali
Agenzie private
Uffici di
collocamento
Invio domande di
assunzione
Concorsi pubblici
Inserzioni sui giornali
(fare, leggere)
Informali
Segnalazioni amici e
conoscenti
Visita a potenziali
datori di lavoro
I modelli europei
Ricerca formale e
organizzata
Ricerca formale e
informale
Ricerca informale
e organizzata
Inserzioni giornali e
agenzie di collocamento,
poche relazioni personali
Inserzioni giornali e
relazioni personali
Relazioni personali
e uffici pubblici di
collocamento
Germania e UK
Francia e Belgio
Italia, Spagna,
Grecia
Graduatoria di efficacia (come si è trovato lavoro)
1.
Collocamento
2.
Inserzioni, visite o domande di assunzione
3.
Concorso pubblico
4.
Reti di relazioni
5.
Subentro attività proprio familiare
In Italia:
•Numero di metodi utilizzati è maggiore per i più istruiti e al centro-nord
dove vi sono più occasioni di lavoro
•Le donne usano più i metodi formali (sia moderni che tradizionali) e meno
quelli informali (reti sociali meno efficienti) – vero in tutta Europa
Rispetto al passato vengono usati:
•meno i concorsi pubblici (in parte problema statistico, comunque record
europeo: in altri paesi il fenomeno è trascurabile), il collocamento
pubblico, invio domande e visite (ma problema statistico)
•più le inserzioni sui giornali, agenzie private
•in misura uguale le segnalazioni di parenti e amici
I più istruiti / chi ha perso un lavoro impiegatizio o nei servizi usano:
• meno segnalazioni amici e conoscenti – vero in tutta Europa
• più inserzioni giornali – vero in tutta Europa, domande di assunzione e
soprattutto al sud concorsi pubblici (nel sud la metà di diplomati e laureati
partecipa a concorsi)
• in misura uguale collocamento
I giovani in cerca di prima occupazione usano:
• più concorsi pubblici e inserzioni giornali
I disoccupati usano:
• più visite a datore di lavoro e collocamento
I disoccupati di lunghissimo periodo (oltre 24 mesi) usano:
• meno segnalazioni, inserzioni giornali, invio domande di assunzione e
visite a datori di lavoro
• più collocamento e soprattutto concorsi
A parità di livello di istruzione
• per il primo lavoro contano di più le relazioni personali e, tra i laureati, i contatti diretti con le imprese
• per i successivi lavori contano di più i concorsi pubblici e, tra i meno istruiti, l’avvio di attività in proprio
Esiti contraddittori circa relazione tra intensità della ricerca (numero di azioni messe in atto in un dato tempo) e probabilità di trovare il lavoro
Reti di relazioni personali, ovvero capitale sociale (capacità dell’individuo di mobilitare relazioni con persone che per il loro status siano in grado di fornire aiuto nella
ricerca del buon lavoro) – Dibattito tra maggiore efficacia legami deboli o legami forti
• teoria che i legami deboli sono i più importanti perché mettono in contatto “mondi” diversi (critica: sarebbero vantaggiosi solo per persone di status sociale basso) e
perché sono più che sufficienti a far passare il basso di livello di informazione necessaria perché domanda e offerta si incontrino (critica: le imprese chiedono garanzie di
affidabilità per tutti e per medio-alte qualificazioni anche di inserimento in particolari ambienti sociali)
• legami deboli di fatto prevalgono in USA e nord-Europa; legami forti (familiari) in Italia, Grecia e paesi asiatici
Lez. 9 Donne al
lavoro I
• Le donne che erano state espulse dal lavoro durante l’industrializzazione fordista, coincidente anche con l’inurbamento, a partire dagli
anni 60-70 ritornano al lavoro: è il fenomeno più importante degli ultimi 40-50 anni
• La crescita è forte negli anni 70, rallenta negli anni 80 e si stabilizza negli anni 90 un po’in tutti i paesi, Italia compresa
• L’Italia, che partiva da tassi di attività femminile comunque inferiori, mantiene le distanze sia dal gruppo di testa (peasi nordici) sia da
quello intermedio (Francia e Germania)
• Le differenze tra paesi nel tasso di attività totale femminile dipendono da quelle nella partecipazione al lavoro delle donne tra i 25 e i 50
anni, le età dei carichi familiari, e hanno connessioni con gli assetti culturali, sociali ed economici propri di ogni paese
In Europa si sono delineati 3 diversi modelli di partecipazione femminile al
lavoro:
• il modello a campana, o maschile, tipico dei paesi nordici: partecipazione in
età giovanile che prosegue senza flessioni
• il modello a M di Francia e Germania: partecipazione in età giovanile, uscita dal
lavoro per maternità e figli piccoli, poi ritorno
• il modello a L rovesciata dell’Europa meridionale: partecipazione solo in età
giovanile, poi uscita senza ritorno
Attualmente tutti i pesi tendono a convergere verso il modello a campana:
l’aumento della partecipazione si concentra nella classe d’età dai 25 ai 50 anni, i
cui tassi di attività aumentano molto
• In Italia la situazione è in netta evoluzione: le differenze rispetto all’Europa
sono ormai molto ridotte per le 20-30eeni, mentre rimangono forti per 40-50 enni
• Negli anni 80 gli aumenti della partecipazione al lavoro hanno riguardato
soprattutto le 25-30, che sono poi evidentemente rimaste dato che negli anni 90
gli aumenti riguardano le 40enni
• Forti differenza territoriali tra centro nord, dove la figura della casalinga è
praticamente scomparsa fra le giovani e si registra una fortissima crescita del
tasso di attività tra le adulte, e sud dove il tasso di attività è cresciuto più
lentamente, la figura della casalinga è ancora rilevante,e soprattutto molta della
partecipazione al lavoro delle 20-30eeni si è tradotta in vana ricerca, pur senza
sortire effetti di scoraggiamento
• Le spiegazioni della crescente partecipazione al lavoro delle donne adulte
stanno, in molti paesi tranne l’Italia, nei mutamenti delle caratteristiche della
domanda di lavoro attraverso l’introduzione del part time
• In Europa esistono due vie al part time: quella scandinava, dove il part time
coincide prevalentemente con il pubblico impiego ed è concepito per far lavorare
le donne in attività stabili e non disagiate; e quello britannico, dove il part time
è prevalentemente privato e concepito per assicurarsi basso costo del lavoro e
flessibilità
• In entrambi i casi la maggiore diffusione del part time coincide con la maggiore
occupazione femminile, anche e soprattutto considerando la fascia 25-40 anni
dove è maggiore il carico del lavoro familiare
• In tutti i paesi tranne gli USA e l’Italia negli ultimi 30 anni il part time è
cresciuto più del tempo pieno, ed in tutti tranne che in Italia è stato
determinante per la crescita dell’occupazione femminile
• In Italia invece per tutti gli anni 70 e 80 l’occupazione femminile è cresciuta
senza che crescesse la quota di part time
• solo nel 1993 la quota di par time comincia a crescere: passa dall’11% al 18%
nel 2001 (comunque una percentuale molto bassa), e dal 1995 quasi la metà della
nuova occupazione femminile è a tempo parziale
• questo fa sì che confrontando l’occupazione femminile in Italia con quella negli
altri paesi europei in termini di occupazione a tempo pieno equivalente,le
differenze si riducano molto; in particolare le donne adulte che lavorano in
Lombardia e Emilia Romagna sono fra le più “indaffarate” in tutta Europa
• Ovunque il part time è soprattutto diffuso nel commercio, nel settore
alberghiero e ristoranti e nei servizi
• Tende ad essere più presente nei lavori manuali non qualificati e addetti alle
vendite
• in Italia, essendo il part time meno diffuso, le differenze non sono ancora
accentuate: questo significa che vi è ancora spazio di crescita del part time in
queste attività
• Nonostante la sua dequalificazione, la scelta del part time tende ad essere più volontaria e meno obbligata a mano a mano che aumenta la sua diffusione
•L’apparente paradosso è spiegato con la presenza di due categorie molto diverse di donne lavoratrici: da un lato le avanguardie istruite che vivono il lavoro come
realizzazione primaria, sono orientate al full time e vivono l’eventuale part time come ripiego (sono queste le donne che hanno generato al crescita del tasso di
attività femminile in Italia senza part time); e dall’altro le grateful slaves meno istruite, che rimangono orientate principalmente alla famiglia e vivono il part time
come un’opportunità di poter conciliare con la famiglia comunque un lavoro -> questo fa sì che il part time dequalificato si sia diffuso senza provocare tensioni sociali
• Questa spiegazione in termini di “categorie di donne” è criticata da coloro che vedono le loro scelte come frutto di condizionamenti culturali e comunque
“obbligate” dalla carenza di servizi sociali
Lez. 9 Donne al
lavoro II
In Italia, in assenza di part time e servizi sociali per l’infanzia, e in presenza di una permanente sperequazione nella ripartizione del
lavoro domestico fra i partner, le donne riescono a conciliare la loro crescente partecipazione al lavoro retribuito con gli impegni familiari
grazie a:
• ricorso a collaborazioni domestiche (circa il 7% delle famiglie italiane ha una colf almeno a ore)
• ricorso a reti di aiuto familiare: usate da oltre il 60% delle famiglie con bambini
• riduzione della fertilità: da 2,4 figli per donna nel 1970 a 1,1 alla fine degli anni 90
• In tutti i paesi è evidente una relazione negativa tra numero di
figli e tasso di attività; in Italia la relazione è anche non
progressiva, ovvero basta un solo figlio provocare una brusca
caduta (tranne che per le laureate)
• L’esperienza scandinava dimostra che, pur trattandosi di
politiche costose (lunghi congedi parentali, servizi sociali, ecc) ,
è possibile conciliare alta fertilità e alto tasso di occupazione
femminile
• D’altra parte esiste una relazione negativa tra il “familismo”
proprio dei paesi dell’Europa meridionale e numero di figli: vuoi
perché il familismo frena le nascite fuori dal matrimonio, vuoi
perché ritarda l’uscita dalla famiglia e quindi l’età del
matrimonio, vuoi infine perché il welfare familista carica la
famiglia di troppi compiti, provocando così maggiore inattività
fra le donne, quindi minor reddito che infine si traduce in
numero minore di figli
• Relazione positiva tra livello di istruzione e partecipazione al lavoro femminile
• In Italia l’aumento dell’offerta di lavoro femminile si deve, più che a comportamenti diversi
di generazioni successive a parità di livello di studio, a cambiamenti della composizione della
popolazione femminile per livello di istruzione: sono aumentate laureate e diplomate, e
queste non solo lavorano di più, ma rimangono sul mercato del lavoro più a lungo
• Due le spiegazioni a questa relazione: da un lato la teoria economicista del capitale umano
(istruzione come investimento che deve rendere), dall’altra quella sociologica dell’istruzione
come veicolo di emancipazione e acquisizione di nuovi modelli sociali
• L’istruzione, consentendo l’accesso ad occupazioni più qualificate e retribuite, favorisce
anche indirettamente un maggiore attaccamento a tali occupazioni
• La crescita dell’istruzione delle donne è stata favorita da numerosi fattori concomitanti: le
famiglie hanno meno figli fra i quali ripartire i costi d’istruzione, l’istruzione rappresenta
sempre di più una chiave di mobilità sociale (attraverso il lavoro qualificato, ma anche
attraverso il più tradizionale matrimonio che però oramai perlopiù avviene tra persone di pari
livello di istruzione), le ragazze “ripagano” maggiormente la famiglia delle spese di istruzione
perché a scuola hanno mediamente più successo
• La crescita dell’occupazione femminile si concentra nei servizi (anche in Italia
oltre il 40% degli occupati sono donne)
• In particolare è rilevante la presenza femminile nel commercio, turismo e
ristorazione, nel credito e assicurazioni, nei servizi alla persona pubblici (sanità,
istruzione, servizi sociali) e privati
• Dalla fine degli anni 90 è stata rilevante la crescita dell’occupazione femminile
anche nei servizi alle imprese, che presuppongono ulteriori livelli di qualificazione
• Il pubblico è da sempre il settore che meglio consente di conciliare lavoro e
impegni familiari, per le sue caratteristiche strutturali (tempo pieno corto) e non
(lassismo); tuttavia il settore pubblico conta solo per 1/3 dell’occupazione
femminile
• Il tipo di attività nelle quali si concentra l’occupazione femminile sono le
professioni impiegatizie intermedie (anche ad elevata specializzazione) e le
mansioni manuali non qualificate (addette alle vendite, ecc)
• La nuova domanda di lavoro si rivolge principalmente alle donne perché sono le
donne stesse che, uscendo di casa, creano le condizioni per l’esternalizzazione delle
funzioni che prima svolgevano al suo interno -> circolo virtuoso del lavoro femminile
che crea la propria domanda: in UE il 40% dell’occupazione femminile è nei servizi
alle famiglie (dove le donne sono quasi il 70%)
• Sempre a livello UE un altro 20% dell’occupazione femminile è nei servizi
commerciali (dove le donne sono il 40%): stereotipo di genere, la donna più attenta
alle esigenze del cliente
• Alla crescita dell’occupazione femminile si accompagna quindi una sua
evidente segregazione in attività “da donne”
• La segregazione è orizzontale (concentrazione in settori e occupazioni allo
stesso livello di prestigio sociale), misurata attraverso l’indice di
dissomiglianza (proporzione di donne che dovrebbero cambiare settore per
avere un’uguale distribuzione fra tutti)
• Ma è anche verticale: nel modello europeo le donne sono sottorappresentate nelle occupazioni con maggiori livelli di prestigio e
qualificazione (professioni dirigenziali e mansioni operaie qualificate) e
sovra-rappresentate nelle altre (impiegati esecutivi, addetti a vendite e
servizi, occupazioni elementari)
•Nel modello italiano e dell’Europa meridionale la segregazione verticale è
minore, proprio perché sono ancora poco diffusi i tipici lavori part time nella
distribuzione e nei servizi alle famiglie e prevalgono ancora fra le occupate
le avanguardie istruite e con un forte orientamento al lavoro
• Ma qui come là anche le avanguardie ad un certo punto si rompono le corna
sul soffitto di cristallo: entrate in azienda alla pari degli uomini, fanno poi
meno carriera; le spiegazioni stanno sia nella minore disponibilità ad alti
investimenti in tempo e mobilità geografica, sia nell’esclusione dalle reti
informali (old boys networks)
Lez. 11 Nord-Sud: due mercati
del lavoro a confronto
Nessun paese UE, inclusa la Germania riunificata, ha divari interni altrettanto forti
L’EVOLUZIONE
Da metà anni 50 a metà anni 70
Da metà anni 70 ai primi anni 90
Dal 92 al 95
Dal 96 al 2000-2001
Centro-Nord
Occupazione in leggero calo e disoccupazione
stabile (ovvero: la forza lavoro diminuisce in
misura proporzionale agli occupati)
Forte aumento dell’occupazione e della
disoccupazione (ovvero: ciclo economico
favorevole, ma la forza lavoro cresce più
che proporzionalmente rispetto agli
occupati)
La più grave crisi del
dopoguerra, con caduta
dell’occupazione e aumento
della disoccupazione
Forte ripresa dell’occupazione
e netta riduzione della
disoccupazione
Sud
Occupazione in netto calo, disoccupazione in
calo e poi stabile
Aumento debole dell’occupazione e
aumento fortissimo della disoccupazione:
nella seconda metà degli anni 80 il TD del
sud passa dall’essere il doppio all’essere il
triplo di quello del centro nord
Caduta dell’occupazione e
aumento della disoccupazione
Ripresa dell’occupazione e
leggera riduzione della
disoccupazione
Spiegazione e
ruolo dei
movimenti
migratori interni
Il massiccio esodo (negli anni 60 fino a ¾ delle
nuove leve emigrano) nel Sud fa diminuire sia
occupazione che disoccupazione
Nel centro nord gli emigrati sostituiscono coloro
che escono dal mercato del lavoro: le donne
(che rimangono a casa per crollo occupazione in
industrie tessili e agricoltura) e i giovani (che
rimangono a casa per studiare)
Ciclo economico favorevole che però al Sud,
in situazione di partenza disagiata, fa
sentire meno i suoi effetti; e soprattutto
per l’arresto dell’emigrazione – l’anno di
cesura è il 1974- il sud deve nuovamente
far fronte a tutta la propria crescente forza
di lavoro
Nel centro-nord le donne tornano sul
mercato del lavoro
Al sud crisi come al nord, ma
al sud data la situazione di
partenza sfavorita gli effetti
sono più forti, e la forbice con
il nord si amplia ancora
Al sud gli effetti del ciclo
economico favorevole sono
attutiti: la congiuntura
economica, in particolare
positiva, incide di più nelle
regioni a minore
disoccupazione. La forbice con
il nord accenna solo
lievemente a richiudersi
Tasso di Disoccupazione: il divario appare ancora più estremo considerando il solo nord rispetto al sud e i soli maschi: al nord per i
maschi pieno impiego (= TD “frizionale” intorno al 3-4%) da fine anni ’70 (tranne che durante crisi metà anni 80); al sud da fine anni
80 disoccupazione di massa per maschi (e situazione di esclusione per le donne)
Maschi + femmine: a fine anni 90 Lombardia, Emilia, e Veneto con un TD del 5% competono per il primato del minore TD UE;
Calabria e Sicilia con il 25% competono per il primato opposto
La caduta della mobilità come fenomeno sovra-nazionale:
• tendenza comune a quasi tutti i paesi avanzati
• in UE si verifica da fine anni 60, paradossalmente in
coincidenza con la scomparsa degli ostacoli normativi alla
mobilità: aspetti sociali ed economici contano di più
• la spiegazione è in termini di costi psicologici e culturali
che diventano crescenti una volta assicurata la
sopravvivenza
• attualmente la mobilità non riguarda più i meno istruiti
come negli anni 60, ma al contrario le élite culturali
(manager multinazionali e organismi internazionali,
professori e ricercatori università) per i quali la “patria”
finisce col coincidere con il proprio mondo professionale
Tasso di Occupazione: il divario è altrettanto
impressionante -> TO lordo è del 43% al Nord (ogni
occupato mantiene se stesso + 1 persona e un tot)
e del 28-29% al sud (ogni occupato mantiene se
stesso più quasi 3 persone)
La caduta della mobilità interna in Italia:
• mobilità si è fermata a metà anni 70, in lieve ripresa negli ultimissimi anni
• cresce la mobilità interna temporanea (pendolarismo squadre edili, lavoratori interinali, stagisti cooperazione interregionale) che però è accompagnata da organizzazione logistica
• i disoccupati del sud “disposti ad andare ovunque” oscillano tra il 30 e il 33% e sono concentrati tra i maschi, giovani,
celibi e istruiti
Spiegazioni:
• re-distribuzione del reddito operata dalla spesa pubblica consente comunque livelli di consumo superiori a quelli che
sarebbero consentiti dai livelli locali di produzione
• rete famiglia-parenti-amici fondamentale quanto il salario nel determinare tenore di vita
• politica della casa di proprietà riduce mobilità a causa degli elevati costi di transazione
• differenze salariali non sono tali da bilanciare le differenze dei poteri d’acquisto
• crisi grande imprese; le piccole non solo hanno minore visibilità (non si conoscono quelle che offrono lavoro) ma danno
anche minori garanzie di mantenere l’occupazione nel tempo
• vecchie catene migratorie (nord-ovest) inutili, perché le nuove aree di attrazione sono al nord-est
• solo quando non c’è davvero più futuro si perde la speranza -> da fine anni 90 al sud anche il tasso di disoccupazione dei
maschi adulti in forte crescita -> ripresa dei flussi
Lez. 12 Dall’industria al terziario
I diversi tipi di servizi
• A partire dagli anni 70 tutta la crescita dell’occupazione in Italia (e non solo) si deve al terziario
• I servizi rappresentano attualmente oltre il 63% dell’occupazione totale, ma questo non è certo un limite massimo (sono il 75%
negli USA); il Sud è anche più terziarizzato (67%), ma questo è un effetto perverso del bassissimo peso dell’occupazione nell’industria
• La dinamica per cui l’occupazione cresce prevalentemente dei servizi spiegata non solo in virtù dell’aumento di richiesta di servizi
nelle società avanzate, ma anche della loro minore competitività in termini di produttività del lavoro: mentre nell’industria la
produzione cresce con sempre meno lavoratori, nei servizi la crescita della produzione si accompagna alla crescita di occupazione
(ovvero i servizi sono labour intensive, perché per la loro natura vuoi necessitano di personale qualificato, vuoi riescono in misura
minore a tradurre l’introduzione di nuove tecnologie in aumento di produttività)
Servizi alle imprese: es pubblicità, legale,
finanziari, ecc
Servizi finali o per il consumo: es ristorazione, pulizia, educazione, assistenza sanitaria
Sono frutto della specializzazione
organizzativa di alcune funzioni necessarie
alle aziende produttive che vengono
esternalizzate; il loro sviluppo dipende quindi
dalla diversa tendenza a esternalizzare i
servizi dell’industria (ad es molto bassa in
Germania). Creano occupazione
tendenzialmente ad alta qualificazione
Anche in questo caso il loro sviluppo dipende dal bisogno/volontà/possibilità delle famiglie di esternalizzare servizi
invece che autoprodurli (self service). In pratica si sviluppano all’aumentare del tasso di occupazione delle donne e,
sviluppandosi, creano essi stessi la domanda di lavoro tipicamente femminile. Creano occupazione con qualificazione da
medio-bassa a medio-alta e che si presta particolarmente al part time
Possono essere privati, ovvero venduti sul mercato
-> possibilità d’accesso legata al potere
d’acquisto delle famiglie
I diversi modelli per i servizi finali, ovvero i diversi percorsi di terziarizzazione
della società
Svezia e paesi
nordici: welfare
economy
USA (e UK): market
economy
Italia (ma anche Francia e
Germania): self service
economy
Forte pressione
fiscale
Bassa pressione
fiscale
Pressione fiscale medio-alta
Diffusi servizi
pubblici
Diffusi servizi privati
a basso costo
Più sussidi che servizi pubblici
Diffuso self service
Elevata occupazione
femminile
Elevata occupazione
femminile
Scarsa occupazione femminile
• Obiettivo UE per il 2010 è raggiungere un tasso di occupazione netto del 70%
(attualmente 63,3%, Italia 53,5%) e del 60% per le donne (attualmente 54,4%,
Italia 38,3%), obiettivo da raggiungere attraverso l’ulteriore sviluppo dei servizi
• Questo significa adottare un modello di società in cui tutti, comprese le donne,
trovano nel lavoro una possibilità di autorealizzazione, e i servizi finali vengono
esternalizzati -> circolo virtuoso innescato dal lavoro femminile
• Occorre però trovare una soluzione alla “malattia dei costi” propria dei servizi
(creano occupazione perché sono a bassa e costante produttività, ma proprio per
questo il loro costo aumenta), problema che si può affrontare in 2 modi
alternativi estremi e tutte le possibili vie di mezzo: pagando meno chi ci lavora
(working poors modello USA), oppure ripartendo il maggior costo attraverso il
sistema fiscale (vuoi servizi pubblici, vuoi fiscalizzazione oneri sociali per i
lavoratori a basso reddito)
Oppure forniti da strutture pubbliche, ovvero non destinabili alla
vendita -> possibilità d’accesso per tutti, finanziati attraverso il
prelievo fiscale
Contrariamente all’opinione diffusa, in Italia i dipendenti del settore pubblico NON
rappresentano una quota particolarmente elevata dell’occupazione totale.
Il contributo del settore pubblico alla crescita dell’occupazione, dopo essere stato
rilevante negli anni 70, è rallentato negli anni 80 e dagli anni 90 è trascurabile
Italia 16%
… anche se vi sono le solite
differenze territoriali, che
sono però frutto più della
mancanza di alternative che
di squilibri rispetto ai bisogni
(popolazione)
Germania 16%
Francia 22%
UK 20%
Su occupazione
Su popolazione
Nord
12%
5,0%
Centro
18%
6,7%
Sud
23%
6,2%
• In Italia nonostante il processo di esternalizzazione dell’industria sia forte (per
la prevalenza delle piccole imprese) vi è scarsa occupazione nei servizi alle
imprese -> segno di scarsa innovazione tecnologica e organizzativa, anche se
dagli anni 90 il settore è in netta crescita
• Vi è invece una relativamente alta occupazione nei servizi finali tradizionali ai
privati, che a volte suppliscono all’inefficienza dei servi pubblici (es )
• Relativamente scarsa l’occupazione nel turismo, nella sanità e assistenza
sociale, nelle attività ricreative
• Rispetto alla via UE di ulteriore sviluppo dei servizi l’Italia parte da due
condizioni opposte: un Nord ricco sovra-industrializzato e sotto-terziarizzato, che
può (e deve per migliorare la qualità della vita delle famiglie) seguire la via UE; e
un Sud povero sotto-industrializzato dove la crescita occupazionale non può
avvenire solo attraverso i servizi
Lez. 13 La composizione
dell’occupazione - I
• Nella società avanzate al crescere del terziario si accompagna una terziarizzazione dell’industria, ovvero una presenza crescente di
mansioni non operaie ma impiegatizie
• La riduzione del lavoro manuale è un fenomeno generale che tocca tutti i settori: lavoro indipendente, (meno contadini e artigiani,
più liberi professionisti), trasporti, settore pubblico, commercio e turismo
• Peraltro nell’industria manifatturiera la crescita dell’utilizzo delle tecnologie avanzate provoca una sempre meno rigida distinzione
tra la figura dell’impiegato e quella dell’operaio, che sempre di meno è un lavoratore manuale e sempre più un tecnico specializzato
• La specificità che storicamente contraddistingue l’Italia è l’avvio ritardato
dell’industrializzazione
• I picchi sono stati agli inizi degli anni 70: massimo del livello dell’occupazione
nell’industria manifatturiera (1,2 m operai), più alta quota di lavoratori dipendenti,
massimo dell’occupazione nelle grandi industrie -> momento di massima espansione in
Italia della cosiddetta “classe operaia centrale” legata all’occupazione in grandi fabbriche
di modello fordista (serie) e taylorista (parcellizzazione e ripetitività); triangolo
industriale TO-MI-GE e alcuni poli del Sud
• da quel momento in poi inizia la deindustrializzazione ed il declino dell’occupazione
nell’industria, rallentata solo dalla cassa integrazione (formalmente i cassintegrati
rimangono occupati)
• A fine anni 90 gli operai che lavorano nelle grandi fabbriche rappresentano solo il 62%
degli occupati (erano il 76% a fine anni 70), mentre la loro quota rimane più alta al
decrescere delle dimensioni delle imprese (oltre 70% nelle medie, oltre 80% nelle piccole)
• I cambiamenti propri delle società avanzate sono stati tradizionalmente valutati in modo
opposto da un lato dagli economisti, che dall’analisi dei cambiamenti della struttura
occupazionale traevano la conclusione ottimista che aumentano i lavori qualificati non
industriali (limite: analizzare solo la struttura dell’occupazione dando per scontato che i
significati delle definizioni delle mansioni professionali non cambino), e dall’altro dai
sociologi del lavoro che dall’analisi dei casi singoli di aziende traevano la conclusione
pessimista di una tendenza verso la progressiva dequalificazione delle mansioni (limite:
l’analisi del caso singolo)
• Attualmente vi è accordo sulla visione del cambiamento come terziarizzazione, che però
molti ritengono proceda lungo due assi polarizzati
• Attualmente solo il 38% degli operai lavora nell’industria, un altro 14&
nell’edilizia e ben il 40% nel terziario: il processo di terziarizzazione
della società fa nascere la figura dell’operaio dei servizi, sorta di
“domestico e servitore” non più di una famiglia ma dell’intera società:
commesse, camerieri, portieri, estetiste, autisti, facchini, addetti alle
pulizie….
• Si tratta di lavori di infimo status sociale, per i quali non sono richieste
competenze professionali ma alte “competenze trasversali” (?) ovvero
coinvolgimento
• Potrebbe configurarsi un “ghetto di proletari dei servizi”, ma secondo
R. no perché accedono a queste professioni spesso “lavoratori in
transito”, che vivono il lavoro in modo strumentale e non legano ad esso
la definizione del proprio status sociale: giovani (i lavoretti), donne di
mezza età, immigrati
• Nell’analizzare l’evoluzione della composizione dell’occupazione in
Europa, occorre non dimenticare l’effetto globalizzazione, che fa sì che
sempre più nei paesi avanzati si concentrino le “teste” ad alta
professionalità, a fronte di “corpi” produttivi sparsi nel mondo; inoltre
recentemente sta verificandosi una delocalizzazione anche di servizi di
livello superiore (centri prenotazione -e di calcolo!- in India)
• Inoltre occorre non dimenticare mai l’importanza delle “basi”: settori
in forte crescita ma piccoli creano meno posti di lavoro di settori magari
stabili ma grandi
In base a classificazione ISCO dei livelli professionali (parametri: settore professionale / funzione svolta /
livello di responsabilità - autonomia):
PROFESSIONI INTELLETTUALI
ATT.TA’ NON MANUALI
DEQUALIFICATE
ATT.TA’ MANUALI
QUALIFICATE
ATT.TA’ MANUALI NON
QUALIFICATE
UK, Svezia, Olanda
e Belgio
Italia,
Francia
Germania
Quota altissima
Quota media
Quota alta
Quota alta
Quota
media
Quota alta
Quota alta
Quota bassa
Quota media
Quota
media
Spagna e
Portogallo
Quota bassa
Quota alta
Quota altissima
Composizione dell’occupazione per livello di
qualificazione professionale frutto della diversa
struttura produttiva:
• in Italia nel settore industriale (prevalenza piccola e
media impresa) è molto bassa la presenza di professioni
intellettuali
• la fascia centrale del lavoro manuale è poco istruita e
molto indipendente: i sistemi di piccole imprese si
fondano su operai specializzati e artigiani poco
scolarizzati, ma con grandi capacità di innovazione
adattiva e flessibilità
• al contrario in Germania il sistema di grandi imprese si
fonda su maestri operai formati nel sistema di
istruzione tecnica, e ingegneri e tecnici capaci di
innovazioni fondamentali
Lez. 14 La composizione
dell’occupazione - II
Anche la struttura dell’occupazione nei servizi privati finali (destinati al consumatore) riflette i diversi sistemi produttivi dei
paesi
COMMERCIO E TURISMO: in Europa centro-settentrionale, ma anche in Spagna, lo sviluppo delle grandi organizzazioni commerciali e alberghiere ha favorito la
diffusione di manager con compiti solo gestionali e di posti di lavoro professionale e tecnico molto qualificato
• Al contrario in Italia in questi settori prevale la piccola impresa su basi familiari (commercio al dettaglio, piccoli alberghi/pensioni a conduzione familiare) dove il
piccolo imprenditore continua a prestare attività di servizio ai clienti, e nell’occupazione dipendente rimane predominante la figura poco qualificata dell’addetto alle
vendite e ai servizi
SERVIZI PUBBLICI E SOCIALI: sono i servizi destinati alla “riproduzione biologica (sanità) e culturale (istruzione) della società”, per lo più pubblici, e sono i settori a più
alta intensità di lavoro intellettuale (anche se in essi statisticamente vengono inseriti anche i servizi domestici, e questo nei pochi paesi dove sono diffusi – Italia e
Spagna – provoca un abbassamento della penetrazione delle qualificazioni alte)
• Nella PA vera e propria l’Italia in termini di qualificazione professionale è in netto ritardo rispetto alla UE: oltre il 40% dei dipendenti sono impiegati esecutivi,
mentre altrove sono sempre meno del 30% (mentre il numero totale dei dipendenti è in linea con la media europea)
• Nella sanità invece la percentuale delle qualificazioni alte (medici) in Italia è molto più alta che negli altri pesi UE, ma come effetto perverso della carenza di figure
intermedie paramediche, mentre il totale degli occupati è piuttosto basso (solo il 5% dell’occupazione totale, è il doppio in Francia e UK)
• Solo nell’istruzione Italia in linea con altri paesi
TRASPORTI: Italia sempre fortemente arretrata, ma almeno qui la Spagna sta dietro
• Dalla seconda parte degli anni 90 in Italia la percentuale di professioni non manuali non qualificate è cresciuta più velocemente che negli altri paesi europei, segno
di una tendenza al recupero, mentre le occupazioni manuali sono scese (anche se più quelle qualificate che quelle non qualificate, e il bilancio non tiene conto del
netto aumento degli immigrati che sono probabilmente andati a sostituire molti italiani nelle aree meno qualificate)
• Ovvero la nuova occupazione che si è creata dal 1995 al 2000 (saldo positivo di un milione di posti di lavoro) è stata quasi tutta concentrata nell’area del lavoro non
manuale per lo più ad alta qualificazione: dirigenti e professionisti nei servizi alle imprese, nella distribuzione commerciale e nei servizi ai privati, nuove professioni
finanziarie, informatiche, risorse umane (cosa è successo dal 2000 in poi???)
Le “nuove professioni” sono caratterizzate dalla presenza di “nuove competenze” trasversali ai diversi settori
• Competenze informatiche: attualmente 42% dei lavoratori italiani utilizzano abitualmente il computer (media UE 45%, in alcuni paesi si arriva al 70%)
• “Life skills” ovvero competenze che vanno oltre il semplice “know how” frutto di formazione e esperienza, e attengono invece alla vita personale del lavoratore:
competenze cognitive (identificare e risolvere problemi, guidare processi lavorativi non determinati), competenze comunicative e sociali (manipolare rapporti
interpersonali), competenze affettive (coinvolgersi negli obiettivi e assumersi responsabilità), capacità e volontà di adesione alle culture aziendali, e a quelle
professionali (proprie della propria “corporazione”) trasversali alle aziende: sono saperi impliciti o taciti che non si acquisiscono con un apprendimento formale, ma
sono frutto delle diverse reti di relazioni (familiari, amicali, sociali). Vero ma…ORRORE
• La fabbrica fordista e taylorista aveva sostituito al concetto di “mestiere” (abilità manuali e competenze tecniche-merceologiche acquisite tramite esperienza che
rappresentavo qualità proprie del lavoratore e che consentivano una facile mobilità interaziendale, anche se non intersettoriale) quello di “mansione” o “posto”
(insieme limitato di compiti secondo l’organizzazione di ogni impresa, rendevano difficile la mobilità interaziendale a favore di quella interna)
• La società attuale rompe il nesso tra attività e settori merceologici, facendo emergere figure professionali trasversali definite dalla funzione e dal livello
(fabbricazione, trattamento dati, vendite, ecc). Si attenuano quindi i confini aziendali e si affermano attività che non dipendono dall’organizzazione, ovvero possono
essere trasferite in qualsiasi organizzazione: aumentano i flussi di entrata-uscita dall’impresa, si sviluppano nuove forme di carriera che alternano periodi in azienda a
periodi di lavoro indipendente
• Le “nuove professioni” hanno caratteristiche che prescindono dalle organizzazioni, sono fondate su sapere “scientifico” e reputazione, richiedono autonomia e
discrezionalità, danno accesso a opportunità tramite sia curriculum formale che la cooptazione dei pari; le carriere diventano esterne alle imprese, si formano mercati
professionali: l’attaccamento alla professione sostituisce quello all’impresa
Lez. 15 Flessibilità del lavoro e
occupazioni instabili I:
i contratti atipici
Lavori non standard o atipici
definiti per differenza rispetto
alla classica configurazione del
lavoro subordinato affermatasi
fino agli anni 70, in quanto non
presentano almeno una delle
sue caratteristiche fondanti:
• subordinazione ad una sola
impresa
• contratto a tempo
indeterminato
• impegno a tempo pieno
• protezione contro il rischio di
perdere il lavoro
Il lavoro a domicilio è una forma
di lavoro atipico certamente non
nuova, ed è tutt’ora molto diffuso
su scala mondiale. Si caratterizza
per la retribuzione a pezzo e non
a tempo e può contare
sull’enorme riserva del lavoro
femminile. In Italia è in declino al
nord, ma in aumento al sud e tra
le donne immigrate
Distinzione tra due diversi tipi di flessibilità del lavoro:
• flessibilità numerica: in relazione con i vincoli che regolano licenziamenti e assunzioni, con la possibilità di assumere lavoratori a
tempo determinato e di sub-appaltare il lavoro ad altre imprese o a lavoratori in proprio (costi fissi-variabili, efficienza)
• flessibilità funzionale: in relazioni con la possibilità di spostare un lavoratore da un posto all’altro nell’impresa; presuppone, oltre
all’assenza di vincoli, anche condizioni di polivalenza professionale e coinvolgimento negli obiettivi aziendali (efficacia)
Le imprese possono perseguire entrambi gli obiettivi di flessibilità, dividendo la forza lavoro in due:
• un nucleo fisso di lavoratori “strategici”, sui quali fare affidamento per la flessibilità funzionale
• una fascia periferica a geometria variabile, che rende possibile la flessibilità numerica
(ma può anche accadere il contrario, ad esempio nei servizi alle imprese: il nucleo fisso è costituito dalle mansioni meno qualificate,
mentre i professionisti ruotano secondo esigenze, opportunità e disponibilità)
• L’alternativa tra flessibilità numerica e funzionale dipende dalla disponibilità di lavoratori con le competenze richieste, oltre che
dalla dimensione dell’impresa, dall’incertezza dei mercati e dalla complessità del lavoro: tipicamente al crescere di queste tre
caratteristiche, cresce il bisogno di flessibilità funzionale, al decrescere cresce il bisogno di quella numerica; la flessibilità numerica
porta con sé anche svantaggi (scarsa cooperazione e scambio tra lavoratori e impresa, scarsa motivazione per il lavoratore a investire
in capitale umano) che la rendono controproducente in produzioni ad alta intensità tecnologica o intellettuale
• Controversa la relazione tra flessibilità numerica e occupazione: se è vero che a livello micro un’impresa può essere invogliata ad
assumere dalla facilità di licenziare, è anche vero che a livello macro una maggior flessibilità può tradursi in più ampie oscillazioni
dell’occupazione per un maggior numero di lavoratori, ma non in maggiore occupazione in assoluto
• Accettato tuttavia che una maggiore flessibilità riduce il ricorso al lavoro nero
Le forme “moderne” di lavoro atipico sono tutte caratterizzate dal fatto che si tratta di lavoro temporaneo; possono essere:
• contratti a termine, con fini formativi (contratti di formazione lavoro e di apprendistato) e non
• lavoro stagionale
• lavoro interinale
Sono forme di lavoro in netta crescita, ma ancora minoritarie: in UE rappresentano il 13% dell’occupazione dipendente (ma in
Spagna situazione abnorme, rappresentano il 33%); in Italia rappresentano il 10% (raddoppio dall’inizio degli anni 90), ed hanno
avuto una crescita più elevata negli anni di crisi (92/93) e in quelli iniziali della ripresa, con tendenza alla stabilizzazione quando
la ripresa si è consolidata; la tendenza al ricorso al lavoro temporaneo sembra soprattutto connessa ai cicli economici, mentre
non mostra apprezzabili relazioni né con la rigidità di regolamentazione del lavoro temporaneo stesso, né con il grado di
protezione del lavoro permanente; controversa anche qui la relazione tra lavoro temporaneo e occupazione
•In tutta Europa, Italia compresa, il lavoro temporaneo si caratterizza soprattutto come la forma di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: attività irregolari,
contratti di apprendistato, di formazione lavoro e a termine sono le tappe di una lunga gavetta che alla fine sfocia (ma non prima dei 25 anni e in maggioranza oltre i
30) in assunzione a tempo indeterminato; questa porta alla formazione di un vasto precariato giovanile che provoca un’erosione dell’occupazione permanente
• la seconda categoria “tipica” sono le donne
• in genere il lavoro temporaneo è più diffuso tra i meno istruiti, tuttavia vi è una significativa quota di istruiti (giovani in transito) e alte professionalità (persone ad
alto capitale umano, in questo caso il lavoro temporaneo può essere volontario); alto rischio di “intrappolamento” dopo i 35 anni
• Il lavoro interinale si caratterizza oltre che per la temporaneità del rapporto, per il fatto che c’è dissociazione tra datore di lavoro (l’agenzia di lavoro interinale) e
impresa utilizzatrice
• in Italia introdotto dal 1986 con il pacchetto Treu, è ammesso di fatto per qualsiasi settore, con vincoli (dipendenti dai settori) di quota massima per impresa; le
imprese possono ricorrervi per più motivi, comprese le punte di attività, imprevedibili o meno; alle agenzie vengono posti vincoli di solidità e di investimento in
formazione, il che fa sì che in Italia si siano affermate le multinazionali; fenomeno di nicchia: in Italia rappresenta lo 0,3% dell’occupazione totale (media UE 1,5%),
anche se intorno ad esso ruota un numero ben maggiore di lavoratori (in Italia nel 2000 il 2% del lavoro dipendente)
• alle imprese assicura (con costi maggiori ma variabili) rapidità di reperimento e personale selezionato (più per affidabilità che per professionalità specifica); viene
utilizzato soprattutto da grandi imprese del nord (Lombardia) per mansioni operaie, impiegati esecutivi, figure tecniche (informatici)
• tra gli interinali il 60% sono giovani < 30 anni, gli immigrati il 15-20%, significativa presenza di donne quarantenni che ritornano al lavoro; laureati 5-7%, diplomati 3545%: la sua temporaneità permette anche a giovani istruiti di accettare lavori manuali (bacino sud); dal 14 al 25% degli interinali vengono assunti a scadenza; si
delineano le tre figure: chi transita, chi rimane intrappolato, e i professionisti dell’interinale
Lez. 16 Flessibilità del lavoro e
occupazioni instabili II:
il lavoro indipendente
•Da metà degli anni ’70 (avvio processo di deindustrializzazione) si arresta anche il calo del lavoro indipendente, che rinasce anche
dove era in via d’estinzione (es UK, dove attualmente vale il 7% del totale occupati), anche se negli anni 90 la ripresa si arresta
•Il fenomeno vale anche per l’Italia, che è il Paese che ha sempre mantenuto la più alta quota di lavoro indipendente extra-agricolo:
dal minimo storico del 22% a fine anni 70, si è risaliti al 28% rimasto costante per tutti gli anni 90
• Lavoro indipendente è realtà eterogenea: dagli imprenditori ai commercianti, dagli
artigiani ai consulenti, dai professionisti ai coadiuvanti
• I lavoratori indipendenti sono definiti dal fatto di poter organizzare la propria attività in
modo autonomo, senza vincoli imposti dall’organizzazione, e di sopportare il rischio
d’impresa o comunque stipulare contratti che hanno per oggetto non il proprio lavoro in sé
ma il suo risultato
•Una distinzione importante è quella tra lavoratori indipendenti che hanno alle dipendenze
dei salariati, e non (lavoratori in proprio); nei paesi dove il lavoro indipendente è più
diffuso la percentuale dei lavoratori in proprio è maggiore: l’Italia detiene il record. E sono
questo tipo di lavoratori indipendenti quelli che sono più ricresciuti a partire dagli anni 70
• Tutti i lavoratori indipendenti hanno tendenzialmente orari di lavoro più lunghi dei
dipendenti; si dividono invece per la distribuzione dei redditi, che è più polarizzata di
quella dei dipendenti: tutti lavorano molto, ma alcuni guadagnano anche poco
•Sono più direttamente esposti alle conseguenze dei cicli economici, ma anche qui
polarizzazione tra chi può limitarsi a ridurre i guadagni e chi è marginale, o comunque a
rischio perché mono-committente
• In tutti i paesi sono perlopiù di uomini, in età adulta o avanzata, capifamiglia, con
esperienza lavorative in piccole imprese: la quota degli indipendenti cresce con l’età
(Italia: 24% dell’occupazione per i ventenni, 63% per i sessantenni): ritardo nell’ingresso
dovuto alla necessità di aver cumulato esperienze e relazioni, ritardo nell’uscita dovuto
all’interesse per un lavoro gratificante o al bisogno
La diffusione del lavoro indipendente in Italia mostra un taglio ancora
tradizionale:
• riguarda oltre il 50% degli occupati nell’agricoltura e (differenza vs
altri paesi) nel commercio
• oltre il 40% nei servizi alle imprese e (differenza vs altri paesi) nel
turismo
• oltre il 30% (differenza vs altri paesi) nell’edilizia e nei servizi alle
persone
• non oltre il 17% nell’industria manifatturiera (comunque differenza vs
altri paesi), nei trasporti e nelle comunicazioni
Negli anni 90 vi sono stati profondi mutamenti:
• diminuzione dei coltivatori diretti, piccoli commercianti e artigiani,
• aumento dei professionisti nei servizi alle imprese e nel credito, degli
addetti ai servizi sociali e alla persone e del turismo
• ulteriore aumento degli “pseudoartigiani” nell’edilizia
I cambiamenti hanno interessato i giovani e il nord; questo fa sì che oggi
vi siano forti differenze per età per settore (artigiani e commercianti
sono più anziani, mentre tra i professionisti pesano i trentenni) e
altrettanto forti differenze territoriali (nuove attività indipendenti ad
alta qualificazione al nord, auto-impiego povero nel commercio e
nell’artigianato al sud)
•Le spiegazioni date alla diffusione del lavoro indipendente tendono a vederlo come alternativa forzata al lavoro dipendente che non si trova: sarebbe quindi tanto più
diffuso quanto maggiore è la difficoltà all’ingresso nel primo lavoro e quanto minore è il sostegno pubblico alla disoccupazione; l’Italia rappresenterebbe il caso
emblematico
•Tuttavia questa spiegazione contrasta con il fatto che, in concreto, in Italia la maggior parte di coloro che avviano lavoro indipendente non sono né giovani né
disoccupati, ma o provengono al contrario da un lavoro dipendente o ereditano un’attività indipendente
•Anche se non mancano situazioni marginali e forzose, soprattutto per i giovani, è più convincente per l’Italia la spiegazione del lavoro indipendente come canale di
mobilità sociale, soprattutto per i meno istruiti (vista la scarsa possibilità di carriera che invece contraddistingue il lavoro dipendente), dove alle attività tradizionali si
sono recentemente aggiunte le nuove opportunità nei servizi
L’AREA GRIGIA TRA INDIPENDENZA E SUBORDINAZIONE, ovvero le nuove forme di lavoro “indipendente” solo perché meno protetto
• franchising: controllo sulla gestione analogo a quello su filiali proprie, senza però sopportarne i rischi (Italia: 0,2% degli occupati, Francia e Olanda 1,5%)
• cooperative in sub-appalto: fenomeno italiano (5% del lavoro indipendente), di fatto il sostituto dell’interinale per lavori dequalificati (pulizie, manutenzione)
• collaborazioni coordinate e continuative (obsoleto!), che si aggiungono ai collaboratori occasionali (partita IVA o trattenuta): stimabili in 500-600.000, rappresentano
il 12/13% degli indipendenti in proprio e il 30% dei professionisti e tecnici; concentrati nelle aree a maggior sviluppo (il 25% solo in Lombardia) e nei servizi; prevalenza
di istruiti (17% laureati, 33% diplomati) e di occupazioni a buona o alta qualificazione (informatici, redattori, intervistatori, venditori, animatori, guide turistiche…);
perlopiù maschi e giovani, caratterizzati da grande eterogeneità dei guadagni (comunque per l’azienda rappresentano un costo minore del lavoro dipendente);
polarizzazione tra chi subisce la collaborazione (tappa della gavetta per il lavoro dipendente) e chi la vive come un utile passaggio verso un’attività professionale
Risicata maggioranza (55%) di giovani tutt’ora inizia a lavorare come dipendente a tempo determinato, ma il 30% inizia con contratti a termine e l’ultimo 15% come
indipendente; auspicabile un approdo sociale di sicurezza di mercato che si accompagna a posizioni instabili (interinali, collaborazioni) liberamente scelte; nell’attesa i
giovani continuano a vivere in famiglia e a rimandare l’entrata nell’adultità, sia pure socialmente “consolati” dalla retorica dei media sulla fine del posto fisso…
Lez. 17 Lavorare senza regole
Stime UE quota attività irregolari
nell’economia del paese (1998)
(oltre al lavoro non registrato comprendono
anche il reddito non tassato: fuori busta,
sottofatturazioni, doppio lavoro)
Grecia
29-35%
Italia
20-26%
Spagna
10-23%
UK, Francia, Germania
4-14%
Paesi scandinavi, Austria
2-9%
Le “altre
economie”
Economia informale
(familiare o comunitaria)
Economia irregolare o in nero
Economia
criminale
Oggetto
dell’attività
Lecito
Lecito
Illecito
Retribuzione del
lavoro
No, le attività sono inserite
in relazioni di reciprocità
Sì
Sì
No
• lavoratori dipendenti non registrati e/o
indipendenti senza autorizzazioni
• imprese fantasma (non solo il lavoratore, ma
anche l’azienda è sconosciuta alla pubblica
amministrazione
Sì
Violazione delle
norme che tutelano
il lavoro dipendente
e disciplinano
quello in proprio
Economia sommersa: economia monetaria non criminale che sfugge alle
rilevazioni statistiche (sommerso e irregolare possono non coincidere)
La diffusione del lavoro nero, pur venendo giustificata come inevitabile a fronte di una pressione fiscale
troppo alta, vista in ottica internazionale non appare correlata ad essa (economia irregolare poco diffusa
in paesi ad elevata pressione fiscale), quanto:
• alla struttura dell’occupazione del paese (vi sono settori che più di altri si prestano ad attività irregolari,
es l’agricoltura)
• al grado di coesione delle società, che se basso determina accettazione e se alto sanzione sociale
dell’irregolarità (50% degli italiani esprime comprensione per l’evasione fiscale)
• da controlli (in Italia rapporto ispettori/occupati è un settimo della media europea) e sanzioni (in Italia
multe, in Francia carcere)
In Italia come in altri paesi sono fattori di diffusione del lavoro nero le piccole dimensioni dell’impresa, la
bassa intensità di capitali e impianti, l’immaterialità della prestazione e la prossimità al consumatore
finale
A questi fattori tradizionali si aggiungono come elementi favorevoli tendenze invece molto recenti: la
crescita della domanda di servizi per le famiglie, l’esternalizzazione e diffusione del lavoro indipendente,
la diffusione delle tecnologie informatiche
• In Italia l’economia sommersa “vantava” una lunga
tradizione agricola, ma non è affatto scomparsa con la
modernizzazione: da retaggio dell’arretratezza è
diventata un tratto strutturale dell’economia italiana,
con solita, pesantissima accentuazione al sud
• Stima che i lavoratori irregolari siano circa 3 milioni,
pari al 14% degli occupati
• L’evoluzione della composizione del lavoro nero
rispecchia quella del lavoro regolare: forte crescita nei
servizi (attualmente oltre il 60% del totale), calo
nell’agricoltura (attualmente il 20%), stabilità
nell’industria (10-14%) e nelle costruzioni (6-15%)
• Le tipologie di lavoro nero variano a seconda del grado di imposizione da parte dell’impresa /consenso del
lavoratore, dello status del datore di lavoro (impresa o privato) e dello status del lavoratore (presenza o
assenza di copertura previdenziale)
• Spesso c’è convenienza reciproca (es doppio lavoro o lavoro dei pensionati), ma sempre sono presenti
saldi legami di complicità, poiché le relazioni informali sono essenziali affinché si incontrino domanda e
offerta; le relazioni di complicità si fondano anche su norme implicite che regolano la ripartizione dei
vantaggi monetari: le denunce avvengono quando gli arrangiamenti non sono rispettati; le relazioni
personali impediscono sia che il lavoratore faccia denuncia, sia che il datore di lavoro sfrutti troppo (le
regole saltano quando non vi è relazione personale -> sfruttamento immigrati)
• 60% delle posizioni irregolari è occupato da doppiolavoristi, ovvero quasi un terzo dei lavoratori italiani ha
una seconda attività, per circa la metà in agricoltura (in agricoltura su 100 occupati in via principale ve ne
sono 270 in via secondaria e mentre calano i primi, i secondi rimangono stabili)
• il secondo lavoro extra-agricolo si espande negli anni 80, ed è lavoro soprattutto terziario; la domanda
proviene perlopiù dalle famiglie (prevalgono infatti i secondi lavori indipendenti); per 1/3 il secondo lavoro
è di natura differente dal primo, per 1/3 è simile, per 1/3 si rifà a precedenti attività precarie
Le differenze territoriali
Centro Nord
Sud
Agricoltura
40%
83%
Industria
9%
37%
Servizi vendibili
7%
19%
Totale (senza PA)
9%
36%
I doppiolavoristi in Italia coincidono con il gruppo di
maggioranza degli occupati: maschi adulti e
capifamiglia. Il secondo lavoro è favorito da:
• scarsi vincoli (controlli) nel primo (es: dip. pubblici)
• adeguate risorse professionali e relazionali
• stimolo derivante da stato di deprivazione: ritenere di
guadagnare troppo poco rispetto al gruppo di
riferimento (di nuovo es: dip. pubblici)
• pressioni esercitate da esigenze di reddito familiare
Lez. 18 Gli immigrati in una
società terziaria e segmentata I
Quadro generale
I “quattro stadi” dell’immigrazione
1
Immigrati quasi tutti lavoratori maschi giovani, spesso “élite” nel paese di provenienza per livello di istruzione e
conoscenze e capacità di mettersi in gioco, ritorno a breve scadenza
2
Cresce l’età, diminuisce l’istruzione, si prolunga la permanenza e si riduce il turnover
3
Crescono i ricongiungimenti familiari, aumentano gli insediamenti stabili, cresce la domanda di servizi
4
Notevole dimensione di immigrati stabili, i figli spesso sono cittadini del paese ospitante, domanda di identità culturale
-> nascono le minoranze etniche
LA VECCHIA IMMIGRAZIONE IN EUROPA
• anni 60 e 70, industrializzazione dei paesi dell’Europa del centro nord attira milioni di lavoratori dalle campagne di quella meridionale e dal nord-africa (Italia unico
paese industriale senza lavoratori stranieri)
• immigrazione “a tempo e scopo definiti”
• da metà anni 70 la crisi economica dovuta allo shock petrolifero, l’emergere di conflittualità degli immigrati e l’uscita dal modello industriale ad alta intensità di
lavoro dequalificato concorrono a far sì che i paesi dell’Europa del centro nord chiudano le frontiere all’immigrazione
• la chiusura accelera il processo di maturazione del movimento migratorio, che in questi paesi si stabilizza al quarto stadio (rappresentano dal 4 all’8% della
popolazione, con inserimento nel mercato del lavoro che rimane tuttavia a livelli bassi)
LA NUOVA IMMIGRAZIONE
• I flussi migratori riprendono da metà degli anni ’80, ma questa volta diretti verso l’Europa meridionale, impreparata a diventare zona di immigrazione
• In Italia stima che immigrati siano oggi 1,5 milioni, pari al 2,7% della popolazione,
• L’immigrazione è in larga parte non autorizzata (inizialmente assenza di controlli, poi comunque facilità di ingressi); attualmente 1 milione circa regolarizzati;
ricongiungimenti significativi da metà degli anni 90
• Alta frammentazione dei paesi d’origine, parecchi immigrati non avevano legami precedenti con l’Italia; d’altra parte l’immigrazione richiede la costituzione di
“catene migratorie”: rapido sviluppo delle catene migratorie spiegato sia con la rivoluzione dei trasporti e telecomunicazioni, sia con l’elevato grado di istruzione di
molti emigranti
• la nuova immigrazioni si contraddistingue per essere anche spesso femminile: non più come in passato le donne solo come seconda ondata per i ricongiungimenti, ma
donne, perlopiù giovani e nubili ma anche sposate con figli, e spesso istruite, che emigrano come”capofamiglia”
• Nelle motivazioni all’emigrazione contano più l’attrazione per condizioni migliori
che non la fuga da condizioni disperate: a livello macro i paesi che generano
maggiore emigrazione non sono quelli con minire reddito pro-capite, a livello micro
emigra chi ha risorse materiali e culturali (le “élite” della prima fase)
• Per emigrare occorre avere risorse culturali (aspettative che si ritiene possano
essere soddisfatte in un paese sviluppato, capacità di rompere con la cultura
d’origine), risorse materiali (soprattutto in caso di immigrazioni non autorizzate),
e risorse caratteriali (capacità di reggere i rischi) -> un “sapere migratorio”
• L’immigrazione verso l’Italia e gli altri paesi dell’Europa meridionale è
favorita, oltre che dalla configurazione geografica (coste) che rende
materialmente più facile l’immigrazione non autorizzata, anche dall’effetto di
attrazione dell’economia sommersa: le catene migratorie trasmettono
l’informazione di un paese dove è facile trovare lavoro anche senza permesso di
soggiorno, perché si può lavorare in nero -> l’immigrazione non autorizzata non
si frena con i controlli alle frontiere, ma con quelli sul mercato del lavoro
interno
• Attualmente in Italia si è entrati nella fase di crescente inserimento degli immigrati nell’occupazione regolare; si stima che a fine anni 90 essi rappresentino oltre il 4%
dell’occupazione dipendente; la qualificazione professionale è in larghissima maggioranza (77%) quella di operai generici
Tre modelli territoriali di inserimento:
• modello industriale (nord-est e centro): piccole imprese manifatturiere (soprattutto metalmeccaniche) e edili + agricoltura stagionale e allevamento
• modello metropolitano (Milano e Roma): lavoro domestico nelle famiglie e servizi per la qualità della vita urbana (ristorazione, commercio)
• modello meridionale: da un lato lavoro domestico nelle città, dall’altro agricoltura perlopiù stagionale nelle aree rurali
Lez. 19 Gli immigrati in una società
terziaria e segmentata II Settori di
attività, evoluzione e prospettive
future
EDILIZIA
• tutte le regioni, anche quelle ad alta
disoccupazione
• percentuale degli irregolari alta, ancora
maggiore che tra gli italiani
• diffuso il “mercato delle braccia”
(caporalato), spesso con mediatori
immigrati
AGRICOLTURA
•Sud (agricoltura stagionale), ma anche
Nord (agricoltura stagionale e allevamento)
• immigrati richiesti per lavori stagionali
(agricoltura di raccolta), oppure stabili ma
gravosi (lavoro nelle serre e nelle aziende
zootecniche)
• nel sud speso irregolari, reclutati a
giornata da caporali anch’essi immigrati, e
pagati meno degli italiani (ricatto)
• al nord per lo più regolari, molti
immigrati tra gli addetti agli alpeggi e
mungitori (lavori per i quali gli italiani non
sono più disponibili)
• tra gli stagionali alcuni sono pendolari con
il paese d’origine, altri alternano con lavori
in edilizia o d vendita ambulante
LAVORO DOMESTICO (comprende l’assistenza agli anziani in
fase di espansione)
• aree metropolitane
• occupazione prevalentemente femminile anche se non solo
• immigrate provenienti soprattutto da Filippine, Sud
America e Est Europa, spesso con catene organizzate gestite
da associazioni cattoliche
• stima che oltre la metà delle immigrate che lavora come
colf lo faccia in nero
• le regolari rappresentano oggi oltre la metà delle colf
registrate, proporzione destinata a crescere poiché le
italiane sono anziane
• molto spesso (più delle italiane) a tempo pieno vivendo
presso le famiglie: convenienza in fase 1, consente di
risparmiare e quindi aumentare le rimesse a casa
• con il tempo (arrivo di marito e figli) tendenza a passare al
lavoro ad ore o altre attività, comunque sempre manuali e
tendenzialmente sotto-qualificate rispetto al titolo di
studio, che spesso è un diploma
VENDITA AMBULANTE
• i più visibili, ma ormai in drastico calo (non oltre il 10%) e
presenti in modo mirato: località turistiche, grandi città
• per molti è stata una scelta transitoria iniziale, oppure
rappresenta il complemento alla stagionalità in agricoltura
• per alcuni è diventata scelta professionale -> licenze
regolari
SERVIZI URBANI (I BAD JOBS)
• lavapiatti, benzinai, facchini, addetti alle pulizie..
• spesso assunzioni a tempo parziale e ore rimanenti pagate
in nero
• anche quando regolari, rapporti precari e salari ai minimi
(piccole unità lavorative in cerca di flessibilità)
• Rapporto tra regolari e irregolari: dopo il succedersi delle sanatorie, le
tendenze di lungo periodo vedono crescere molto l’occupazione regolare,
ridursi moltissimo quella irregolare totale (immigrati senza permesso di
soggiorno), e crescere sia pure di poco l’occupazione irregolare degli immigrati
autorizzati; ovvero il lavoro nero degli immigrati diventa sempre più simile a
quello degli italiani, pur con alcuni fattori che lo favoriscono ancor di più:
• fattori di debolezza: bisogno di guadagnare, non poter aspettare non avendo
una rete familiare di sostegno
• fattori opportunismo: prospettiva di ritorno al paese d’origine a breve
scadenza
• fattori strutturali: il lavoro immigrato è più presente nei settori (agricoltura,
edilizia, lavoro domestico) ove prolifera il lavoro nero
INDUSTRIA MANIFATTURIERA
• nord-est e centro
• è il settore dove più spesso gli immigrati sono in regola
• per lo più imprese piccole e medie, pochi nelle microimprese (dipendenti
sono amici o familiari) e nelle grandi (dove per prestigio sociale i posti
appetibili anche per italiani)
• concentrati nelle mansioni fisicamente più gravose e che richiedono
disponibilità a turni e straordinari: anche qui questo può coincidere con
l’interesse dell’immigrato di prima fase, che non ha con sé la famiglia e in
compenso vuole massimizzare velocemente le rimesse
• sono però in aumento le richieste per mansioni che oltre ad essere
disagiate (il che le rende poco appetibili per gli italiani) richiedono anche
abilità e competenze professionali: nelle piccole imprese del veneto,
romagna e marche si sta iniziando a creare la figura dell’immigrato operaio
di riferimento nei posti cruciali, figura nel tempo destinata (se quanto
avvenuto con gli italiani si ripeterà) a mettersi in proprio
• alle imprese gli immigrati interessano non per la flessibilità ma la
contrario per la stabilità, ovvero per la capacità di reggere a lungo
condizioni di lavoro gravose
LAVORO INDIPENDENTE
• A lungo frenato dalla frammentazione dei gruppi etnici, dalla quasi
impossibilità di ottenere una licenza e dalla concorrenza data dalla forte
diffusione del lavoro in proprio tra gli italiani, è attualmente in crescita,
parallelamente alla crescita degli insediamenti etnici nelle grandi città
• terziario (ristorazione, piccolo commercio, pulizie) e artigianato
(panifici, laboratori di pelli, artigianato edile)
• no segregazione etnica, né per quanto riguarda risorse né per quanto
riguarda mercati di sbocco, tranne che per cinesi (che secondo R.
riproducono anche vecchi modelli italiani)
Nel complesso gli immigrati rafforzano i seguenti aspetti del mercato del lavoro italiano:
• contribuiscono a riprodurre l’economia sommersa
• contribuiscono a frenare la mobilità interna, in particolare sud -> nord
• consentono alle famiglie di accedere a servizi a basso costo in assenza di stato sociale
• consolidano la struttura occupazionale tradizionale svolgendo attività non più appetibili per gli italiani
Le previsioni di domanda di lavoro immigrato da parte dell’industria e servizi sono del 25% a livello
nazionale, con punte accentuatissime nel nord-est, nei servizi di pulizia e costruzioni (90% nelle piccole
imprese di costruzioni del veneto!) e per il personale non qualificato
Le situazioni di concorrenza con i lavoratori italiani sono limitate alle più disagiate regioni del sud, nel
complesso le più frequenti sono le situazioni di complementarietà, soprattutto nei servizi in espansione (es
turismo e divertimento) dove si combinano mansioni di alto e basso livello, e un’analisi comparativa OCSE
arriva a conclusioni simili anche a livello europeo
Con il consolidarsi della “fase 4” il prossimo passaggio sociale sarà la gestione dei problemi non più di
immigrazione ma di convivenza e integrazione di minoranze etniche
Lez. 20 Politiche del lavoro e servizi
per l’impiego
• In Italia la spesa per le politiche del
lavoro è pari all’1,8% del PIL, vs media UE
del 2,8% (più bassa solo in Grecia,
Portogallo e UK dopo interventi liberisti
degli anni 80); record massimo va
all’Olanda, che spende quasi il 10%
• L’Italia tradizionalmente spende molto
poco in politiche passive
• mentre il divario rispetto alla media UE
è più ridotto per la spesa in politiche
attive (che tuttavia per il ¾ consistono in
sgravi fiscali alle imprese per assumere
giovani e disoccupati, e non in spesa per
interventi mirati e innovativi)
• tuttavia nessun paese ha tutt’ora
realizzato un reale spostamento dai
sussidi alle politiche attive, che sono più
facili a dirsi che a realizzarsi
Sono definiti “politiche del lavoro” gli interventi che oltre ad incidere sul mercato del lavoro comportano una spesa pubblica
•distinzione tra politiche passive: sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro (indennità e sussidi)
•e politiche attive: azioni dirette a rendere più efficiente il funzionamento del mercato del lavoro
Le politiche attive:
• formazione per adeguare le caratteristiche professionali dei lavoratori alle esigenze delle aziende
• collocamento mirato per favorire l’incontro tra domanda e offerta
• incentivazione delle assunzioni
• promozione delle pari opportunità, per favorire l’accesso al lavoro a chi è svantaggiato
Gli interventi consistono:
• nel promuovere l’incontro tra domanda e offerta attraverso la diffusione gratuita di informazione al fine di diminuire i tempi di
disoccupazione e di copertura dei posti vacanti (ovvero aumentare l’occupazione) e ridurre gli svantaggi dei soggetti con minori risorse (dal
lato dei lavoratori ma anche da quello delle imprese, es le piccole)
• nel costituire un archivio dei lavoratori frutto di colloqui con consulenti esperti che sappiano ben delinearne le caratteristiche, e costituire
con uguale attenzione e professionalità un parallelo archivio delle posizioni vacanti, per poi arrivare a matching mirati
• nel dare informazione e orientamento professionale per permettere ai lavoratori di fare scelte più consapevoli e far emergere attitudine
personali adeguate alla situazione locale
• nel supportare il reinserimento dei disoccupati di lunga durata, dando loro motivazione e strumenti (curriculum, colloquio)
• nel promuovere la centralità dell’esperienza lavorativa anche attraverso i lavori socialmente utili come alternativa (o precondizione) ai
sussidi
• nel promuovere l’occupazione femminile in chiave sia di formazione e riqualificazione, sia di sostegno alla carriera all’interno delle aziende
• nel promuovere l’inserimento dei portatori di handicap attraverso selezione attitudinale e collocamento mirato
Le politiche attive mirano a tre obiettivi, spesso difficili da conciliare:
• ridurre la disoccupazione
• ridurre la spesa pubblica in sussidi di disoccupazione
• ridurre la povertà
Il problema nasce dal fatto che se riescono a trovare un buon lavoro ai disoccupati sono costose e quindi vanificano il risparmio in sussidi di disoccupazione, mentre se sono poco costose
inseriscono i disoccupati in lavori mal pagati, e quindi non rispondono al terzo obiettivo; Inoltre a monte vi è il prerequisito della crescita economica, che ne rappresenta la condizione
necessaria (anche se non sufficiente)
La UE dal 1998, quando si è data l’obiettivo del 70% di occupazione per il 2010, definisce annualmente delle linee guida per le politiche del lavoro dei singoli paesi; sono non vincolanti e
poggiano su 4 “pilastri”
• promuovere l’occupabilità delle persone, favorendo la formazione anche permanente, l’invecchiamento attivo, la mobilità, l’integrazione di disabili e immigrati
• sviluppare imprenditorialità e occupazione attraverso l’emersione del sommerso, l’economia sociale (sussidiata), lo sviluppo di nuovi servizi a persone e imprese
• incoraggiare la capacità di adattamento di imprese e lavoratori favorendo al concertazione della modernizzazione dell’organizzazione del lavoro
• rafforzare le pari opportunità tra uomini e donne (mainstreaming)
Per quanto riguarda l’Italia queste linee guida sono adeguate per il centro-nord (anche se non considerano l’attuale debolezza dei sussidi e la carenza di strutture che dovrebbero applicarle),
mentre non lo sono per il sud dove le politiche del lavoro rappresentano un intervento secondario rispetto a quelli indispensabili di politica economica e industriale
In Italia la riforma del 1997 dei servizi per l’impiego ha comportato un doppio salto mortale:
• si è passati dal totale accentramento che vigeva precedentemente al massimo decentramento a livello di regioni e province, il che ha comportato e comporta problemi di coordinamento
(conferenza stato-regioni)
• si è passati da una gestione passiva e burocratica ad una che deve essere promozionale e professionale, con problemi di quantità (10.000 addetti mentre dovrebbero essere minimo 23.000)
e qualità del personale
• i nuovi servizi hanno cominciato a funzionare solo dal 2001 anche nelle province più avanzate, con molti problemi che però sembrano avviati a soluzione
• tra i problemi tutt’ora da risolvere la perdurante mancanza del SIL (Sistema Informativo del Lavoro) centralizzato che fa sì che ogni regione gestisca in via autonoma il proprio archivio
• e il fatto che mentre la riforma prevedeva che, sul modello francese, anche i privati potessero fare collocamento, di fatto questi tendono a non farlo se non per le posizioni alte, perché
poco remunerativo – situazione simile in altri paesi
• questo sottolinea due ruoli essenziali che secondo R. non possono che essere coperti dal pubblico: fornire informazioni a tutti e sostenere i soggetti deboli