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IL WELFARE IN ITALIA
Introduzione
Dopo qualche anno dall’inizio della crisi, le Acli riaprono un confronto sul welfare in
una fase molto difficile per il Paese. Le incertezze e i problemi descrivono un
processo di forte arretramento rispetto alla piena realizzazione dei diritti sociali e di
cittadinanza.
Per la nostra esperienza associativa internazionale, non sfuggono all’analisi sui
modelli di welfare possibili le responsabilità politiche europee che difettano di una
visione d’insieme e stentano a trovare il passo di una programmazione di medio e
lungo periodo. Avvertiamo oggi di essere lontani dalla realizzazione di un sistema di
welfare europeo che assicuri ai cittadini dell’Unione standard di protezione sociale
omogenei.
Rimane forte la nostra convinzione che occorrono politiche e investimenti strutturali
senza i quali aumenteranno distanza e disuguaglianza tra i diversi Paesi e all’interno
degli stessi. In questo scenario, si rafforza la nostra visione che solo attraverso una
nuova idea di welfare, non più riparativo, ma generativo, promozionale e di futuro,
quindi calibrato sulla domanda di sviluppo e di bisogno sociale, scongiureremo
ulteriori fratture tra le generazioni.
Già dal dopoguerra le Acli, attraverso uno spirito di forte radicalità evangelica, si sono
confrontate con il fenomeno della povertà. Allo stesso tempo l’hanno combattuta con
la consapevolezza che essa logora le società e pregiudica la qualità della democrazia
e della dignità umana. Per questo riteniamo utile ricordare, e anche rivalutare, quel
principio personalista che orienta per intero la nostra Costituzione.
Se è vero che nel tempo molte cose sono cambiate, è necessario per le Acli
ritornare a dare piena dignità alla parola welfare per liberarla dalle mille incrostazioni
che in questi ultimi anni l’hanno assimilata ad una pesante zavorra, scarsamente
sostenibile all’interno delle politiche e della cultura del nostro paese. Per questo è
urgente ricostruire un pensiero di welfare in grado di assumere il benessere sociale
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come nuovo paradigma della complessità del vivere, in grado di generare relazioni,
fiducia, legami tra le persone e le comunità. Tramite un’altra chiave interpretativa il
welfare può divenire luogo generativo e di condivisione di una nuova cittadinanza che
si costruisce attorno alla salvaguardia dei beni comuni di cui tutti devono sentirsi
responsabili e protagonisti.
Evidentemente crediamo che il discorso sul welfare e sui diritti, sulla libertà e sulla
giustizia sociale, non sia altra cosa rispetto alla difesa della Costituzione italiana che,
senza demagogia, vorremmo liberare dall’idea di essere un simulacro senza vita; un
insieme di principi che non trovano forma e sostanza nell’esistenza delle donne e
degli uomini. La riteniamo invece ancora oggi il lascito più importante per le nuove e
le future generazioni, ma avvertiamo l’urgenza di non derogare ulteriormente alla
sostanza di alcuni suoi presupposti.
Come molti analisti affermano, l’Italia è stata investita dalla più grande crisi
economica del dopoguerra, che ha determinato una situazione di insostenibilità dei
debiti sovrani e una conseguente quanto poco lungimirante austerity. Tutto ciò ha
finito per mettere in discussione le spese dello Stato e rischia di intaccare i diritti di
cittadinanza soggettivi. Pur non negando il valore della stabilità economica, occorre
riflettere sul fatto che il rispetto dei diritti sociali, politici e civili costituisce il pilastro
su cui poggia (o dovrebbe poggiare) la nostra società, che a partire dalla
Costituzione, individua nella dignità umana la cifra del vivere civile. Ciò a prescindere
da quanto questo costi o da quanto impegno comporti da parte di tutti, cittadini e
istituzioni.
Occorre allora pensare ad una ristrutturazione del nostro modello di welfare,
stabilendo a priori una soglia condivisa del benessere sociale sotto la quale ogni
cittadino non sia costretto a vivere: la “quantità” minima di benessere di cui ogni
cittadino dovrebbe godere.
Oggi, purtroppo, ogni settore del welfare italiano (sanità, previdenza, assistenza ecc.)
mostra segni di cedimento rispetto ai quali occorre dare nuove risposte che
considerino anche forme secondarie e integrative di welfare come, ad esempio, quello
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aziendale. Tuttavia, a motivo della nostra esperienza e specificità di associazione
diffusa in tutto il territorio, in questo documento di indirizzo politico concentreremo
l’attenzione sul welfare sociale, ossia quello la cui responsabilità ricade quasi
totalmente sui comuni, regolato principalmente dalla legge quadro per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali (Legge 328/2000). A nostro avviso
è proprio da qui, in ambito comunale, che si dovrebbe ricominciare per ristrutturare il
modello di welfare italiano. Ripartire dal territorio, dalla prossimità e dalle relazioni, in
breve dalla comunità, ci permetterà di implementare percorsi inclusivi, in grado di
offrire le stesse opportunità a tutti i cittadini italiani, a prescindere dal luogo di
residenza. Sostenere la necessità di rafforzare il welfare sociale equivale a ridurre le
disuguaglianze e, conseguentemente, a rafforzare la coesione sociale.
Attualmente il nostro sistema di welfare sociale sta vivendo una fase problematica. A
distanza di 17 anni dalla promulgazione della legge quadro, alcuni nodi devono
ancora essere sciolti. Più precisamente, fatte salve alcune esperienze isolate, la
municipalità e la sussidiarietà ancora non trovano una forma compiuta. Dobbiamo a
tutt’oggi realizzare un sistema di Comuni e di comunità. Tuttavia, alcuni cambiamenti
avvenuti negli ultimi mesi sembrano andare nella direzione da noi auspicata: la
sussidiarietà potrebbe ritrovare nuovo slancio dalla riforma del Terzo Settore da
poco avviata. Grazie ad essa la società civile organizzata potrebbe trovare un nuovo
protagonismo e offrire il suo prezioso contributo per il buon funzionamento della
macchina del ben-essere. Il ruolo delle organizzazioni del Terzo Settore è strategico:
attraverso le loro reti territoriali potrebbero connettere il centro con le periferie, far
circolare le informazioni in modo coerente, monitorare i livelli essenziali, individuare i
soggetti portatori di diritti non evasi, co-progettare insieme agli Enti Locali le misure
ad hoc, stabilendo con e per i cittadini piani di welfare personalizzati.
Il welfare sociale in affanno
La società italiana, fino all’emergere della crisi del 2008, si prestava ad una lettura
semplificata per la quale, con buona approssimazione, si confermava la distanza tra
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due tipi di società: quella dei garantiti (da un lavoro stabile, da un reddito dignitoso, da
una casa) e quella cosiddetta del rischio (lavoratori precari o flessibili con contratti di
lavoro con poche garanzie).
In quel modello che fino a qualche tempo fa definivamo duale, nel quale è intanto
cresciuta la forbice delle differenze tra persone garantite e a rischio, si è
sedimentato un terzo tipo di società, oggi conosciuta come “società degli esclusi”
(neet, disoccupati, persone espulse dal mercato del lavoro, incapienti ecc.).
Nuove povertà si aggiungono in maniera trasversale a vecchie povertà, mettendo a
rischio il principio stesso di cittadinanza.
Mentre la politica non ha ancora fornito una risposta convincente e strutturale al
fenomeno della disoccupazione e al flusso di nuova emigrazione italiana all’estero, la
grave crisi del lavoro, che erode anche il capitale delle competenze professionali ed i
saperi acquisiti tra percorsi scolastici e universitari, richiama fortemente in causa il
ruolo della leva formativa come diritto da esigere lungo l’intero arco della vita.
Inoltre, a differenza del passato, le normali fasi dell’esistenza come nascere,
crescere, fare famiglia, lavorare, andare in pensione si manifestano, da persona a
persona, in forme e durate differenti.
Si affermano nella letteratura sociale termini come povertà culturale, povertà
educativa, povertà alimentare, in un clima in cui sembra minata alla base persino la
tenuta dei legami sociali di quelle comunità nelle quali i processi di mutuo aiuto e le
reti familiari e sociali erano storicamente più robuste.
A fronte di ciò non si registrano cambiamenti significativi del sistema di assistenza sociale.
Ci chiediamo se esso sia abbastanza flessibile, duttile, capace di adattarsi a questi
cambiamenti, di prevederli e anticiparli. Perché vivere una vita flessibile in un sistema rigido
comporta dei rischi inediti per i cittadini. In futuro potremmo trovarci di fronte ad una
sostanziale asimmetria tra il corso di vita e il tradizionale sistema del welfare.
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In altre parole, l’Italia contemporanea è un paese fortemente diseguale, sia in senso
verticale (tra le classi sociali), sia in senso orizzontale (nel territorio nazionale). Un
Paese dove il disagio anche grave attraversa le classi sociali ed è in grado di
attecchire perfino negli strati tradizionalmente più tutelati (la classe media, per
esempio). Secondo i più recenti dati Istat, il tasso di povertà in Italia è da anni
superiore alla media europea. Negli ultimi lustri, la forbice tra Italia ed Europa si è
divaricata ed il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda quasi una persona su
tre. La forma più violenta di povertà, quella assoluta, ha raggiunto un livello
preoccupante (per una trattazione più approfondita si rimanda ai dati dell’Istituto di
Statistica Nazionale consultabili su www.istat.it). Ai fini del nostro ragionamento, basti
pensare che la situazione è talmente grave che, in Italia, per aumentare il rischio di
deprivazione ed esclusione sociale è sufficiente avere uno o più figli minori a carico o
vivere in un nucleo in cui il membro di riferimento sia un operaio (www.istat.it). La
crisi ha anche esacerbato un altro problema di cui si parla poco, quello abitativo.
Neanche il lavoro, infatti, riesce più ad essere un antidoto all’esclusione sociale. I
lavoratori poveri, in particolare quelli della terza settimana, sono un fenomeno
piuttosto diffuso nel nostro Paese. Allo stesso modo il sistema formativo non
garantisce più la protezione dai rischi evidenziati. Negli ultimi monitoraggi, la
Commissione Europea ha richiamato l’Italia sulla necessità di modernizzare i
sistemi educativi, considerati non sufficientemente adeguati a rispondere ai
cambiamenti in atto.
Nel novero dei problemi che il welfare del futuro dovrà risolvere, non mancheranno
quelli relativi alla condizione dei giovani di origine straniera, ai quali spesso è impedito
l’accesso ai servizi più elementari, perché non in possesso della cittadinanza italiana.
Il nostro Paese è interessato, inoltre, da un processo di progressivo invecchiamento
e la speranza di vita alla nascita è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Un fatto
questo senza dubbio positivo ma che, a causa del calo delle nascite, è destinato a far
aumentare la pressione sui servizi sociali, in particolar modo su quelli territoriali.
Alcuni esempi basteranno a far intuire la portata del problema: a fronte di una
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crescita della disabilità e delle cronicizzazioni, l’assistenza socio sanitaria e quella
socio assistenziale risultano essere in continuo calo rispetto alle effettive necessità
(www.disabilitaincifre.it).
I problemi principali del welfare italiano
Se da un punto di vista delle effettive tutele il nostro sistema appare in difficoltà,
altrettanto preoccupanti ci sembrano le questioni legate all’efficienza dello stesso. In
effetti, il nostro modello si presenta in modo non uniforme, poiché registra delle
diversità notevoli passando da una Regione all’altra e a volte da Comune a Comune.
Anche i problemi sociali presentano delle concentrazioni e non sono distribuiti
uniformemente. La povertà ne è un esempio evidente. Molto suggestiva da questo
punto di vista è l’interpretazione del fenomeno fornitaci dall’Istituto di ricerca delle
Acli (Iref). Nel rapporto del 2017 si legge: “Un bambino che nasce oggi a Sud del 42°
parallelo del territorio nazionale ha un rischio superiore del 300 % di vivere in
povertà rispetto ad un coetaneo che nasce a Nord di questa linea immaginaria”.
Spostando lo sguardo sul piano delle risorse, appare chiaro quanto, anche da questa
prospettiva, la geografia del welfare italiano risulti scomposta. In questo settore, i
Comuni italiani hanno speso nel 2012 quasi 7 miliardi di euro, circa 117 Euro pro
capite, media che registra differenze locali tali da mettere in discussione l’effettiva
uguaglianza tra i cittadini (www.istat.it). Probabilmente queste discrepanze risentono
del modo con cui vengono assegnate le risorse che, dal centro (Stato), vengono
distribuite in periferia (Regioni e Comuni). Oggi la ripartizione delle stesse viene
elaborata prevalentemente in funzione delle variabili demografiche, che però non
garantiscono di fatto un’efficace distribuzione dei finanziamenti.
A complicare il quadro, talvolta, interviene anche uno scarso coordinamento tra i
livelli istituzionali (Comuni, Regioni, Stato centrale e altri Enti erogatori), che può
favorire la duplicazione delle misure e, più in generale, rendere il sistema più caotico.
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A fronte di questi squilibri, il modello italiano ha reagito in modo piuttosto creativo,
inventando soluzioni ibride, soprattutto al Sud, e creando reti informali di sostegno
sociale. Un modello che ha funzionato finora grazie a un mix di pubblico e soluzioni
“fai da te”, che contemplano lo “sfruttamento” delle risorse di cura, principalmente
femminili, ed economiche delle famiglie. Ma ciò, ovviamente, non potrà funzionare
all’infinito e alla lunga creerà dei problemi. Non è più rinviabile la realizzazione di un
modello equilibrato ed effettivamente universale, che recuperi la dimensione
territoriale, in cui a tutti i cittadini siano offerte le medesime opportunità e dove i
diritti siano equamente esigibili. Occorre intervenire rapidamente, ripensando in
modo intelligente e innovativo tutta la macchina del welfare italiano.
Come visto, il nostro modello presenta diverse criticità. La situazione, dunque, è
tutt’altro che semplice ed è difficile da risolvere in tempi brevi. Per questo sarà
necessario darci un metodo: non possiamo più intervenire in ordine sparso e in
funzione delle emergenze.
Come prima cosa occorre evitare di commettere l’errore di porre tutte queste
criticità sullo stesso piano; bisogna invece riconoscere che possono appartenere a
cluster/grappoli di problemi differenti. In particolare, possiamo individuare due
gruppi principali: problemi afferenti agli esiti e ai risultati del welfare e problemi
afferenti al buon funzionamento dello stesso. Dunque, se le criticità hanno natura
differente, anche le proposte per superarle dovrebbero avere impostazioni diverse:
proposte per migliorare gli effetti/risultati del welfare state, proposte per
migliorarne l’efficienza.
Proposte operative
Le proposte operative che riguardano i risultati del welfare sociale hanno a che fare
con la capacità, o l’incapacità, del sistema territoriale di includere i cittadini e di
rispondere correttamente ai loro problemi. Secondo le Acli, per far in modo che il
welfare sociale sia efficace, occorre rivitalizzare la capacità dei Comuni di rispondere
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correttamente ai problemi. Occorre rivisitare la legge 328/2000 e recuperare i
Piani di Zona (PdZ), strumenti di programmazione molto efficaci se implementati
correttamente. Prima dei PdZ, così come la stessa legge prevede, è opportuno
individuare i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (Leps), a partire da quello volto a
ridurre il problema della povertà in Italia.
L’azione sul territorio non può essere demandata soltanto ai Comuni; anche lo Stato
e le Regioni devono fare la loro parte. I Leps hanno infatti lo scopo di garantire su
tutto il territorio nazionale diritti civili e sociali inalienabili, come quelli legati
all’istruzione e alla formazione, alla salute e all’assistenza sociale. Si è
compiutamente cittadini quando questi diritti sono garantiti a tutti. Per questo è
opportuno allargare il perimetro della cittadinanza anche ai cittadini stranieri e ai
loro figli nati in Italia, così come recentemente sostenuto nel Position Paper delle Acli
sull’immigrazione (www.Acli.it). Più nel dettaglio:
RILANCIO DELLA LEGGE 328/2000
In un Paese come l’Italia, molto differente al proprio interno, far funzionare la
macchina del welfare state non è cosa semplice. Tuttavia alcuni strumenti sono stati
messi in campo in passato per rendere il sistema territoriale più efficace. Ci
riferiamo alla legge 328 del 2000, che ha fatto della programmazione locale (Piani di
Zona) un potenziale punto di forza e che ha dato prova di essere un ottimo
strumento di programmazione locale quando applicata correttamente. Le Acli
chiedono di rilanciare la legge adeguandola all’attuale contesto italiano.
INTRODUZIONE DEI LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI SOCIALI
La cittadinanza non può essere considerata piena senza un reale esercizio dei diritti
sociali. Sancire i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali restituirebbe ai cittadini
italiani la possibilità di esercitarli effettivamente. A tal fine, le Acli chiedono la loro
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individuazione/introduzione e l’implementazione di un sistema di monitoraggio
nazionale, in grado di garantire la corretta attuazione delle misure.
INTRODUZIONE DEL REDDITO D’INCLUSIONE SOCIALE – PRIMO LIVELLO ESSENZIALE
DELLE PRESTAZIONI SOCIALI IN ITALIA
Nell’individuare gli strumenti che sostanziano i diritti sociali dei cittadini italiani,
le Acli chiedono di porre una particolare attenzione al tema della povertà
assoluta. È tempo di approvare una misura di contrasto alla povertà: non solo
perché il nostro è l’unico Stato europeo ancora privo di un provvedimento
nazionale universalistico a sostegno di chiunque si trovi in questa condizione, ma
anche perché per la prima volta in Italia sarebbe sancito un Livello Essenziale
delle Prestazioni in campo sociale. Da tempo, l’Alleanza contro la povertà in
Italia cerca di dare una risposta al ritardo con cui il Paese affronta il tema
dell’esclusione sociale, proponendo l’introduzione del Reddito d’Inclusione
Sociale (Reis), una misura universalistica che prevede sia un sostegno al
reddito, sia una serie di servizi alla persona finalizzati al reinserimento sociale
e/o lavorativo dei destinatari. Riconosciamo che un primo passo in avanti in
questa direzione è stato fatto con l’introduzione del SIA (Sostegno all’Inclusione
Attiva), purtuttavia riteniamo indispensabile l’adozione di una misura più
strutturata. In questo senso, anche il provvedimento contro la povertà varato
con la legge di Stabilità 2015 e il conseguente disegno di Legge che delega il
Governo a introdurre una nuova misura nazionale di contrasto alla povertà
assoluta, denominata Reddito d’Inclusione (Rei), presenta ancora significativi
margini di miglioramento. In particolare, per l’impostazione della misura,
attualmente all’esame del Senato, sarà necessario rafforzare il Fondo per la
lotta alla povertà, che deve articolarsi in due Fondi dedicati alle diverse
componenti dei livelli essenziali del Rei previsti dalla delega: i contributi
economici ed i servizi alla persona. Una terza fonte, Il Fondo Pon Inclusione – di
provenienza europea – dovrebbe essere aggiuntiva e dedicata a promuovere lo
sviluppo dei servizi nelle aree del Paese in maggiore ritardo.
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COSTRUZIONE DI UN SISTEMA FORMATIVO LUNGO TUTTO L’ARCO DELLA VITA
Nel disegnare un sistema di welfare che sia moderno, equo e sostenibile, le Acli non
possono esimersi dal richiamare l’urgenza di un serio e organico piano di rilancio
delle politiche formative nel nostro Paese. In particolare, la filiera dell’Istruzione e
Formazione Professionale (IeFP), erogata nelle regioni dalle agenzie accreditate, è
quanto ci sia di più vicino ai migliori sistemi di formazione iniziale europei ed è il
concreto terreno su cui sviluppare il sistema duale italiano. Questa però non è
un’offerta formativa presente in tutte le regioni italiane: occorre garantire il diritto di
accesso alla IeFP a tutti i ragazzi. L’infrastruttura della IeFP può essere la base per
ripensare e sviluppare anche la formazione degli adulti. Un solido sistema di
formazione professionale, in grado di rispondere ai fabbisogni delle persone per
l’intero arco della loro vita è, infatti, presupposto essenziale a garantire la vitalità di
una comunità, il suo progresso economico e culturale, la sua produttività e,
soprattutto, l’inclusione attiva di tutti i cittadini e la coesione sociale.
RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO DI CITTADINANZA ITALIANA
In Italia ci sono circa 5 milioni di stranieri, di cui 1 milione è cittadino italiano di fatto
ma non di diritto. Le Acli ritengono doveroso riconoscere ai bambini/ragazzi di
origine straniera nati in Italia la cittadinanza e di offrire ai migranti, residenti da più
di 5 anni nel nostro Paese, la possibilità di scegliere i propri rappresentanti nel
consiglio comunale di residenza. La proposta di legge sull’introduzione dello ius soli
è stata licenziata dalla Camera, ma da tempo aspetta di essere approvata dal
Senato. Seppure il testo in discussione non è quello auspicato dalle Acli, la sua
rapida approvazione consentirebbe a circa un milione di giovani di origine straniera
italiani di diventare italiani anche per legge. Per questo, le Acli chiedono di vararlo in
tempi brevi.
Nel secondo gruppo di proposte rientrano quelle che hanno a che fare con il corretto
funzionamento della macchina. In una parola, con l’efficienza del sistema.
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Si tratta di azioni volte sia a superare la sovrapposizione e la duplicazione degli
interventi realizzati dai differenti livelli istituzionali, sia a migliorare la qualità e la
quantità della spesa pubblica. Spesso, in mancanza di coordinamento, le differenti
istituzioni agiscono in modo sconnesso. Esse contribuiscono di fatto a creare un
welfare a macchia di leopardo, che cambia anche in modo molto evidente, passando
da un territorio all’altro. Ci sono così cittadini che hanno la possibilità di aderire a più
programmi (comunali, regionali, statali) contemporaneamente per lo stesso
problema e altri che, pur avendo un’identica necessità hanno, invece, un’offerta
differente.
Un indizio importante dell’inefficienza del sistema di welfare sociale lo possiamo
individuare nelle differenze territoriali dei livelli di spesa. In generale, sul lato del
finanziamento della spesa sociale, al Nord come al Sud, sarebbe opportuno
individuare criteri migliori per renderlo più equo; criteri più sensibili, che tengano
conto anche dell’effettiva qualità della vita. Infine, un contributo importante
all’efficientamento del sistema può essere apportato dal Terzo Settore. Più nel
dettaglio:
RIORDINO DELLE MISURE E ARMONIZZAZIONE
Il
welfare
italiano
è
caratterizzato
da
numerosi
livelli
di
responsabilità
(Centrale/Statale, Regionale e Comunale). La combinazione di questi livelli ha
determinato sistemi di welfare locali anche molto differenti tra loro, a volte caotici e
disorganizzati. Pertanto le Acli chiedono un riordino delle misure e la loro
armonizzazione.
COSTITUZIONE DI UN CASELLARIO DELLE PRESTAZIONI SOCIALI
Per favorire una corretta fruizione dei servizi assistenziali, le Acli chiedono di
realizzare un casellario delle prestazioni o sviluppare quello Inps già esistente che
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permette agli Enti locali e altri Enti pubblici di inserire le informazioni in un archivio
consultabile anche da altri soggetti, quali: Enti pubblici erogatori di prestazioni sociali
agevolate, di gestione e di controllo.
REDISTRIBUZIONE DELLE RISORSE ECONOMICHE
Per evitare sperequazioni, sarebbe opportuno utilizzare indicatori differenti da quelli
squisitamente demografici attualmente in uso. Ad esempio, potrebbero essere
considerati anche i dati Istat raccolti nel rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile
(Bes). Le Acli chiedono di cambiare i criteri di allocazione delle risorse economiche,
troppo incentrati su indicatori poco attenti alla dimensione qualitativa della vita.
RAFFORZAMENTO DEL RUOLO DEL TERZO SETTORE
Un moderno sistema di welfare, per essere efficiente, ha bisogno di reti capillari
presenti su tutto il territorio nazionale. Nella società civile italiana, queste reti sono
già esistenti e possono essere meglio integrate nell’architettura del welfare del
futuro. Si tratta di network costruiti dopo il secondo conflitto mondiale dalle
cosiddette organizzazioni di Terzo Settore. Le Acli ritengono necessario un rilancio
della collaborazione tra pubblico e privato sociale per rendere più efficiente il sistema
di welfare.
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Considerazioni finali
Se dovessimo rappresentare con un’immagine il welfare italiano, restituiremmo
una figura asimmetrica, poco chiara, difficilmente intelligibile. In effetti, come
l’analisi svolta in questo documento descrive, ci troviamo di fronte ad una
situazione fortemente diseguale e poco equilibrata, che va governata prima che
sia troppo tardi.
Occorre senza dubbio lavorare molto sul lato dell’efficienza, efficacia e della qualità
della spesa. Ma la chiave di volta, tuttavia, sta nell’individuazione e nel finanziamento
dei Livelli Essenziali. Questo è un passo necessario per rilanciare il modello di benessere che abbiamo in mente. Grazie ai Leps, si potrà effettivamente mettere in
pratica quanto previsto dalla legge quadro 328/2000, che comunque necessita di
essere aggiornata. Se ciò sarà fatto, siamo convinti che i risultati non tarderanno
ad arrivare. Solo così potremo realizzare un welfare integrato dove tutti i cittadini
possano avere risposte adeguate alle loro esigenze, attraverso una rete coerente e
ben organizzata di sostegno. Potremo implementare sistemi locali a cui tutti i
soggetti possano dare il proprio contributo: le istituzioni, il terzo settore e le
comunità. L’idea potrebbe essere quella di realizzare microsistemi della cura
interconnessi i cui tratti peculiari siano la prossimità, la relazione e la totale presa
in carico della persona.
In altre parole, abbiamo bisogno di trasformare l’attuale sistema di generazione di
benessere sociale in un sistema sostenibile e generativo, capace di creare comunità
di cittadini liberi e responsabili.
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