Søren Kierkegaard DIARIO edizione ridotta a cura di Cornelio Fabro

Download Report

Transcript Søren Kierkegaard DIARIO edizione ridotta a cura di Cornelio Fabro

Fin dall’inizio degli studi universitari il giovane Søren si distingue per il suo
fervido ingegno e il suo carattere eccentrico. Il profitto accademico non
eccellente, i contrasti con la famiglia che lo accusa di spendere troppi soldi, i
rimproveri del padre desideroso di vedere il “figliol prodigo” sostenere
l’onorevole esame di teologia lascerebbero pensare a una persona dissoluta e
incostante. Ma la sua vita disordinata è solo la maschera di profondi conflitti
interiori, una lotta perennemente alimentata dal grande paradosso della verità
cristiana. La storia personale di Kierkegaard che emerge dalle pagine del suo
Diario rivela tutte le più sottili articolazioni della sua filosofia, e insieme l’anima di
un uomo per cui la vita e il pensiero furono la stessa cosa.
Di Søren Kierkegaard (Copenaghen, 1813-1855) BUR ha pubblicato: Diario del
seduttore, Don Giovanni, Prefazioni, La ripetizione, Stadi sul cammino della vita,
Sul concetto di ironia, Sul matrimonio e Timore e tremore.
Cornelio Fabro (1911-1995), sacerdote, grande studioso e traduttore di
Kierkegaard, ha insegnato filosofia a Roma, Milano e Perugia.
Søren Kierkegaard
DIARIO
edizione ridotta a cura di Cornelio Fabro
CLASSICI DEL PENSIERO
Proprietà letteraria riservata
© 1962 by Editrice Morcelliana, Brescia
© 1975 Rizzoli Editore, Milano
© 2000 RCS Libri S.p.A., Milano
eISBN 978-88-58-64934-3
Prima edizione digitale 2013
In copertina: ritratto di Søren Kierkegaard © Corbis/Contrasto
Progetto grafico Mucca Design
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
INTRODUZIONE
Pensatore dialettico spesso inafferrabile ed insieme poeta luminoso, scrittore
scintillante ed a volte malato di ermetismo, epigono hegeliano eppure accanito
avversario del sistema, cristiano di aperture sorprendenti ed accusatore numero
uno della Cristianità borghese...: Søren Kierkegaard si muove con padronanza
sconcertante attraverso le tensioni opposte dell’esistenza a tutti i livelli della vita
dello spirito. La sua opera attraversa a ritmo vertiginoso tutte le più disparate
situazioni dell’esistenza, scuote e muove dal profondo la vita in tutti i suoi stadi:
estetico, etico, religioso... come forse soltanto Dante nella storia spirituale
dell’Occidente. Ai tre regni danteschi dell’Oltretomba, corrispondono i tre spazi
kierkegaardiani della libertà, da cui quei regni dipendono: la disperazione
estetica, l’impegno etico e l’aspirazione religiosa — con la differenza ovviamente
che mentre quei tre regni dell’Oltretomba sono ormai fissati nell’immobilità della
libertà compiuta, i tre stadi kierkegaardiani si battagliano nelle tensioni
dell’esistenza nel tempo per il traguardo dell’eternità.
Uomo moderno, più di quant’altri mai, sa avvertire con coscienza profetica e
con occhio infallibile i «segni dei tempi» della caduta dell’Occidente ch’egli
intravvede, come risvolto negativo, nell’avanzare dei nuovi idoli della scienza e
della democrazia, distruttrici della trascendenza e della libertà, l’anticamera
dell’inferno. A cavallo fra il razionalismo illuministico ed il dominante
romanticismo antropologico , sceglie l’isolamento nell’unica categoria del
«Singolo»: qui, nuovo Amleto, ha intravisto la possibilità del nulla che sottende la
vita e la libertà, con un’intensità di concentrazione interiore e complessità
dialettica che non ha riscontri nella storia spirituale dell’Occidente: neppure in
Seneca, Agostino, Abelardo, Tommaso, Caterina da Siena, Pascal, Vico, Newman,
Nietzsche, Dostoevskij... per indicare solo alcuni sommi fra i grandi. Questa
complessità e ricchezza di temi e problemi ha reso la sua opera pressoché
inaccessibile, nelle sue autentiche istanze, quasi per un secolo e chissà se l’esigua
e isolata schiera degli autentici kierkegaardiani riuscirà a dissipare la foschia che
la Kierkegaard-Renaissance di ogni colore, protestante e laica, si ostina a
mantenere attorno a lui.
1
Anzitutto le linee maestre della sua biografia quali risultano dal Diario. Nasce a
Copenaghen il 5 maggio 1813 «... in quello sciagurato anno finanziario che tante
altre banconote ha messo in circolazione. E la mia esistenza potrebbe benissimo
paragonarsi a una di esse» (768) . Fu educato da suo padre ch’era un «vegliardo»
(1777) in un modo «troppo ideale» (765) e per questa educazione «troppo
severa» (1332) ed «esagerata» (875) egli non ebbe mai la gioia di essere bambino
e fu infelice fin dalla nascita (993), perché fu educato nel Cristianesimo fin da
bambino (2919). Egli vide in quest’educazione in un Cristianesimo rigido che «non
rendeva mai contento colui che ad esso... si aggrappava giorno e notte», il più
grande pericolo e la crisi più profonda della sua religiosità (1126). Eppure a suo
2
padre egli — umanamente parlando — deve tutto (1452). Ma quel ch’era un vago
presentimento di sofferenza nell’infanzia, divenne l’orientamento di tutta la vita
quando nella prima gioventù accadde il «gran terremoto, il terribile sconquasso
che d’improvviso m’impose un nuovo principio d’interpretazione infallibile di tutti
i fenomeni» cioè il sospetto che su suo padre gravasse la maledizione di Dio e per
castigo divino la famiglia (la «famiglia enigmatica»: 733) dovesse scomparire per
sempre (505). Il padre, trasferendo nel figlio la propria malinconia, si era rivelato
sotto l’incubo di una «disperazione silenziosa» (788): così che il figlio è tormentato
dalla doppia impressione, della vita pia e austera del padre e del «retroscena» di
cui il figlio — a causa di alcune parole sfuggite al padre — intravvede l’orrore
senza avere il coraggio di andare più a fondo (821). La devozione al padre —
quando questi morì (8 agosto 1838: 262) — lo fece reus voti (6°4); egli sostenne
l’esame di teologia per il grado di Magister artium che il vecchio aveva tanto
desiderato. Il suo rapporto al padre è adombrato dal racconto biblico del
patriarca Abramo che riceve da Dio l’ordine di sacrificare il «figlio della
promessa» Isacco: Abramo deve sacrificare il figlio per obbedire a Dio e quindi in
ossequio alla sua religiosità, nel conflitto totale dell’esistenza: «colui che riuscirà a
spiegare quell’enigma» dichiara Kierkegaard «avrà spiegato anche la mia vita»
(699). Il conflitto consiste nell’imporre la cosa più dura (il «sacrificio» ch’esige il
Cristianesimo) sotto l’aspetto della cosa meno dura (la religione e la beatitudine
eterna). La formula di tale conflitto, che esprime l’essenza della fede e pietà
cristiana, è «timore e tremore» (2606); è stato suo padre a renderlo infelice,
eppure era il migliore dei padri (1178). Kierkegaard, giunto alla sua piena
maturità spirituale, ha interpretato con arte suprema il suo rapporto al padre e al
fratello in una elaborazione poetica della parabola evangelica del «figlio prodigo»
(2094) in cui vedeva raffigurato se stesso.
Il tormento però della sua pena più intima è il «pungolo o spina nella carne» che
lo ha «segregato» come san Paolo fin dalla prima infanzia (336) e il cui segreto
egli ha voluto portare con sé nella tomba (704): egli pensò nel 1848 che il «tempo
della sua penitenza fosse finito» (1435), ma la sua «penosa miseria» (1985) tornò
presto a farsi sentire come una «palla di piombo sulle ali» (2335). È un «dolore
infelice e penoso che è il limite della sua personalità», che lo agita ogni tanto,
specialmente dopo qualche sforzo (2600). Fin dall’infanzia egli sta gemendo sotto
questo pungolo al quale si è aggiunta la coscienza di colpa e di peccato per cui
egli si è sentito «eterogeneo» (2123) ed ha compreso l’eterogeneità di questa
sofferenza come il suo rapporto a Dio (2773), la sua «primitività» (1885). In punto
di morte confessa che il «pungolo nella carne» l’ha accompagnato per tutta la vita
come san Paolo.
Alla sofferenza del pungolo andava congiunta una profonda «malinconia» che il
vecchio padre gli scaricò addosso quando era ancor bambino e lo spinse a
condurre una vita di «puro spirito» (1178). Questa malinconia ha per molti anni
lavorato a far sì ch’egli non potesse dare del «tu» a se stesso perché lo immergeva
in un «mondo di fantasia» (1086): la sua origine è nel rapporto al padre, così che
vedendosi privato di un «avvenire felice» e in preda ad una «disperazione
silenziosa» si aggrappò unicamente alla «vita intellettuale dell’uomo» (506). Fu la
malinconia che lo fece diventare scrittore (824): egli si buttò allo scrivere — come
Sheherazade a raccontar fiabe — per non morire (571) e creò i vari Pseudonimi.
Persuaso che l’amar Dio e l’essere amati da Dio è soffrire, egli vive nella «cabina
isolata» della sua malinconia (2766). La crisi col «Corsaro» fu effetto di malinconia
e costituì il punto di volta della sua concezione del Cristianesimo (953, 954).
Questa malinconia gli procurò delle scosse tremende, come alla morte del padre,
e gli rimase congenita nell’anima come una «dote di dolore» (1451) e tuttavia egli
si sentiva felice in questa malinconia (1449). La causa teologica, per così dire, è da
vedere nell’osservazione fattagli dal padre, che vi sono «certi peccati da cui un
uomo non può essere salvato se non per una assistenza divina straordinaria»
(1452). Kierkegaard si rimprovera — sembra — una colpa trascorsa giovanile e un
grave rimorso (690, 735), ma forse è un’allucinazione (cfr. 3231). E fu ancora il
padre che, vedendolo così malinconico, un giorno gli disse: «Cerca di amare
davvero Gesù Cristo!» (1450). I Diari giovanili sono dominati dalla malinconia,
rivelata dall’instabilità psichica e causata dall’esaurimento dello spirito che tocca i
confini della pazzia fino al meditato tentativo di suicidio (218). Più tardi, nel 1848,
scriverà: «Se la malinconia mi ha in qualche modo portato fuori strada, dev’essere
per avermi fatto considerare come colpa ciò ch’era forse una sofferenza infelice,
uno scrupolo» (1672: si tratta del «pungolo»?). Impressioni di malinconia
costellano tutto il Diario ed effetto di questa malinconia era il presentimento di
dover morire come Cristo a 33 anni (1134).
La crisi esteriore — per così dire — della sua malinconia è stata la rottura del
fidanzamento con Regina. Kierkegaard più si allontana nel tempo e meglio vuol
vedere e dichiarare a se stesso il movimento interiore che l’ha portato a quella
decisione: al lirismo di fantasie accorate e di scontrosità ribelli dei Diari
contemporanei, seguono analisi apologetiche e perfino qualche accenno di
rimorso come la dichiarazione del 17 maggio 1843: «Se avessi avuto la fede, sarei
rimasto con Regina» (715). Negli ultimi anni Kierkegaard, che non aveva mai
potuto dimenticare Regina, progetta una forma di legame spirituale con lei, da cui
non si era nell’intimo mai staccato, e allo scopo scrive una lettera a suo marito
Schlegel e cerca — ma invano — d’incontrarsi col padre, il Consigliere di Stato
(1547).
Datosi all’attività letteraria per sfuggire al risucchio della malinconia e delle
accennate disavventure inciampa nella gazzarra di scherni del «Corsaro»,
azionata dal giudeo Goldschmidt ma sostenuta con la compiacenza della cricca
letteraria di Heiberg e con l’indifferenza del clero e dello stesso Mynster. Il
conflitto col «pubblico», aizzato dalla stampa, lo mise in rotta anche col vescovo
Mynster, il «pastore di suo padre», che non soltanto non lo difende ma osa
mettere sullo stesso piano lui, la vittima, e il giudeo amorale Goldschmidt, il suo
persecutore.
Benché «esile e fragile» nel corpo (1455), egli è forte di spirito (2268), è la
«testa più forte» in Copenaghen (708), il più grande scrittore (1486), un genio
(1789). Ma non è soltanto un «poeta» (2123): invece di cercare la compiacenza
dei contemporanei egli dedicò tutta la sua attività letteraria all’edificazione
religiosa (677) e comprese come sua missione quella d’interiorizzare gli ideali
cristiani (2600): il suo compito è operare l’«arresto» di una diffusione
menzognera del Cristianesimo della «Chiesa di Stato» (2285). Come «scrittore
religioso» (1789), vuole scrivere «a gloria. di Dio» (1522), malgrado i
«maltrattamenti» che l’invidia del «paesino» gli procura, ma che alla fine gli
gioveranno (1666). La vocazione allo scrivere nacque dalla sua infelicità in amore
(1447) e Regina è la prima destinataria dei suoi scritti (1391) e non il pubblico.
Egli è uno «scrittore per scrittori» (1104), uno «scrittore dialettico» (1465), uno
«scrittore essenziale» (1796), che vuol «servire alla causa del Cristianesimo»
(2133), benché in principio fosse stato hegeliano (2373): non intende però
introdurre il pietismo (2397). A differenza di Schopenhauer (2890), egli scrive per
la «sua educazione» e come «correttivo» per l’ordine stabilito, ma usando sempre
la «comunicazione indiretta» che per lui è istintiva, anche se Mynster critica la
sua produzione letteraria come «un gioco sacrilego con le cose sante» (2400). Egli
si è limitato a proporre come «poeta» gli ideali in veste d’incognito (2515), per
preparare la via al vero «straordinario».
Kierkegaard dice di essere soltanto un «poeta» (1260) che deve smascherare le
illusioni con la sofferenza e la dedizione di un «amante infelice» (2280), lottando
contro la tentazione di voler diventare «interessante» e accusandosi di aver voluto
esaltare se stesso specialmente nel Diario (1892) e di non essere ancora
veramente «spirito» (2246). La categoria della sua attività letteraria è di essere
«senza autorità» (2258), perché gli manca «il volontario» (2022). Egli è un
«penitente» (1391): non è un «santo» (1793) anche se ha pensato di essere un
«riformatore in piccolo» (1260). Nello scrivere usa la più intensa applicazione,
benché sia legato dai limiti della lingua di una piccola nazione, sa di essere un
«dono di Dio» per il suo popolo (961) e che «sarà letto in avvenire» (1177).
Intende come sua missione di essere la «spia della Cristianità» (1499), il
«poliziotto» contro la mistificazione del Cristianesimo (2882): mentre in gioventù
voleva diventare «funzionario di polizia» (1176). Ha avuto il compito più difficile
(2884); sua eterogeneità e genialità (2954). Ama l’uomo comune e di tre cose
ringrazia Dio (3231).
Kierkegaard dice di essere un’individualità essenzialmente religiosa e della sua
religiosità è testimonio continuo il Diario. Vanno segnalati in particolare: a) alcune
esperienze spirituali più caratteristiche (ad es. «la Folla sputò su Cristo»: 1793;
l’«esperienza» doppia della Pasqua 1847: 1390, 1392); b) Il progetto di
«diventare pastore» per espiare i propri peccati (901; 2802 che dà le varie fasi
del progetto), ma anche per «respirare con maggiore soavità» nella vita tranquilla
(953). Ma il progetto è abbandonato per il timore «di inciampare» un’altra volta
come per il fidanzamento (1008), ed anche per il timore di essere attaccato «per
una colpa che porto con me» (901). Il progetto ritorna nella Pasqua del 1848
(1391), ma è ancora abbandonato perché egli è un «penitente» (1790): alla fine
della vita ringrazia il Signore di non averlo effettuato per non diventare alla
stregua degli altri pastori (3231). c) Le preghiere sparse nelle Opere e nei
Discorsi edificanti ed anche in tutto il Diario. d) La sua pratica della preghiera
quotidiana, la venerazione per la Beata Vergine e i Santi e la concezione stessa
dell’esistenza come essere «davanti a Dio» (1482, 1654).
La produzione letteraria di Kierkegaard si può raccogliere in tre gruppi:
a ) Le Opere pseudonime; sono le più conosciute ed hanno formato la sua
riputazione. Esse sono o del tutto pseudonime, come le prime, con Victor Eremita,
Johannes de Silentio, Constantin Constantius, Nicolaus Notabene, Vigilius
Haufniensis, Frater Taciturnus, Hilarius Bogbinder ed altri secondari; od hanno
per autore lo pseudonimo e per editore lo stesso Kierkegaard, come per le
Briciole e la Postilla di Jo. Climacus e per La malattia mortale e L’esercizio del
Cristianesimo di Anticlimacus.
b ) Le Opere segnate e pubblicate col suo nome. Il gruppo è rappresentato
soprattutto dalle copiose Collezioni dei Discorsi edificanti che accompagnano tutta
la produzione pseudonima dall’inizio alla fine, con notevoli fenomeni
d’interferenze di dottrina e di forma che ancora non sono stati abbastanza
studiati.
c ) Le «Carte» (Papirer), di cui la parte più interessante è data dal Journal o
Diario: gruppo lasciato naturalmente inedito.
Ora bisogna tenere presente che il gruppo a) costituisce — assieme ad alcuni
articoli polemici di giornali — quella che Kierkegaard chiama la «comunicazione
indiretta»; mentre i gruppi b) e c) formano la «comunicazione diretta».
Appartengono pure alla comunicazione diretta un’aggiunta della Postilla e tre
saggi critico-espositivi: Il punto di vista della mia attività di scrittore (1848), Per
un esame di se stessi, raccomandato ai contemporanei (1851), Giudica da te
stesso (1851-52); il primo e il terzo sono stati pubblicati postumi dal fratello
Pietro. Da aggiungere un saggio giovanile di critica a Andersen, la tesi magistrale
sull’Ironia e i 10 fascicoli del Momento di cui il 10° rimase inedito sul suo tavolo,
pronto per la stampa, quando un attacco di paralisi il 2 ottobre 1855 lo abbatteva
al suolo per portarlo al sepolcro l’11 novembre.
La divisione, anche se piuttosto sommaria, è indispensabile perché essa ha —
dietro le indicazioni di Kierkegaard stesso — valore di principio. La differenza
essenziale fra i tre gruppi è press’a poco questa. Nel gruppo a) i vari pseudonimi
— scelti ad hoc — esprimono possibilità varie di esistenza, in una sfera di idealità
pura estetica, etica, religiosa. Non danno quindi mai direttamente il pensiero e la
vita reale del vero autore Kierkegaard, benché svolgano anche pensieri realmente
suoi e siano sostanziati da fatti espressi o sottintesi della sua vita personale.
Rispetto agli Pseudonimi, egli dice spesso di comportarsi da semplice «lettore».
Cioè, le possibilità di esistenza ivi esposte idealizzano e isolano l’uno e l’altro
aspetto di quella vita che tumultuava e lottava in lui per cercare una «evasione»: o
per tirarlo in basso o per portarlo in alto, così che dovunque in quei libri egli viene
a trovarsi sempre «fuori di sé». La Pseudonomia è quindi un gioco che però
Kierkegaard ha fatto ed ha preso molto sul serio e sul quale gli interpreti sono
passati o senza accorgersene affatto o con troppa leggerezza .
Nel gruppo b) e c) è Kierkegaard che direttamente parla e parla anzitutto a se
stesso «davanti a Dio». Dedicati in gran parte alla memoria del padre, i Discorsi
cercano «quel singolo», il «suo lettore» che almeno per i primi anni era la exfidanzata Regina Olsen.
3
Il Diario, che egli scrisse per sé, è molto discontinuo come compilazione e come
contenuto. Ma indubbiamente esso rivela il suo animo come nessun altro suo
scritto, se non sempre per la perfezione dello stile, certamente per l’intimità e
sincerità, per una profondità di analisi dell’uomo interiore ed una commozione di
stile che l’avvicinano alle Confessioni di sant’Agostino. Il Diario soprattutto coglie
allo stato nascente i pensieri che hanno poi riempito i due gruppi precedenti, e
solo perciò può fornire la chiave e il punto di raccordo per le due direzioni.
La sostanza di siffatta gigantesca produzione, che ne è insieme lo stimolo sempre
presente, sono i «casi» stessi della sua vita. Infatti in Kierkegaard come in nessun
altro scrittore, neppure in Rilke o Kafka (che s’ispira del resto direttamente a
Kierkegaard!), vita e pensiero così come l’immagine e l’idea s’intrecciano e
vibrano di una tensione infinita che mai si placa se non sulla soglia della morte:
nell’ultimo testo proprio del Diario il 25 settembre 1855. Infatti la biografia di
Kierkegaard rifluisce e s’immedesima quasi col suo pensiero, ma nel modo più
impensato e strano: la tenue trama dei fatti singoli si articola progressivamente
nella logica dei princìpi che formano la sua rivoluzione spirituale. Suo padre
Michael Pedersen, come si è detto, educò il piccolo Søren in un modo «troppo
ideale» portandolo con sé alle adunanze religiose della «comunità dei fratelli» ed
esercitandone la mente ai più ardui problemi del Cristianesimo. Sappiamo tuttavia
che, dopo un’infanzia che passò quasi inosservata fra i colleghi di scuola , fin
dall’inizio dei suoi studi universitari Søren cominciò a distinguersi per l’ingegno
fervido e il carattere eccentrico. Da una parte i contrasti col padre che spesso
rimproverava il figlio per i continui sperperi che salivano a somme rispettabili,
mentre il profitto scolastico era in rapida discesa col più grande sconforto del
padre che aveva l’unica ambizione di vedere il suo «figlio prodigo» sostenere
l’onorevole «esame di teologia» (che Kierkegaard sosterrà soltanto due anni dopo
la morte del padre, nel 1840, difendendo la tesi sull’ironia). Dall’altra, sotto una
vita apparentemente disordinata, si nascondevano tremende lotte interiori che
avevano al centro il problema della Provvidenza e dell’Incarnazione e — in modo
complessivo — la validità del Cristianesimo per la salvezza dell’uomo dal peccato.
Il superamento di questa crisi sembra abbia il suo inizio precisamente con la
morte del padre (8 agosto 1838); il suo progresso si alimentò delle esperienze
successive e dei risultati avuti, com’egli stesso scrive, «alla scuola della
Provvidenza».
Il fatto più notevole di questa prima fase è quel che si può chiamare «lo
scandalo del Cristianesimo»: esso ebbe nella giovinezza di Kierkegaard — e lo
manterrà nella sua dottrina — il doppio significato negativo-positivo che comporta
la doppia dialettica di repulsione e di attrazione. Kierkegaard ha «provato» che il
Cristianesimo respinge la natura nelle sue brame immediate e uccide l’io, ma è
insieme l’unica «cura radi cale» della malattia mortale ch’è la disperazione a cui ci
condanna l’attaccamento alla finitezza e la suggestione delle sue forme umbratili.
Superata — nel suo momento essenziale — la «tentazione estetica», rimase la
«tentazione etico-religiosa» che a mio giudizio non fu mai (e non poteva esserlo
nell’orizzonte in cui Kierkegaard rimase) definitivamente superata. La dinamica di
4
questa crisi proviene da un complesso di situazioni convergenti che danno alla
vita e all’opera sua una fisionomia spirituale incomparabile, ma bisogna
riconoscere che il tutto resta in un alone d’indeterminatezza forse intenzionale, e
forse insormontabile per uno spirito come il suo che aveva chiesto troppo a se
stesso.
a) Anzitutto il rapporto al padre. Kierkegaard, vivendo accanto al vecchio
genitore, ne assorbiva le preoccupazioni intime avvertendone i più riposti sussulti.
A lui sembrò, da vaghi ma esistenti accenni che sfuggivano) al padre, che per sua
colpa, ovvero per un gran fallo da lui commesso, gravasse sulla famiglia intera una
divina maledizione che la condannava a scomparire dalla faccia della terra. I
frequenti lutti familiari ne erano per lui la ripetuta conferma. Oltre i celebri testi
del Diario sul «gran terremoto» , l’opera che scava più a fondo questa dimensione
enigmatica della psiche kierkegaardiana è il grande saggio autobiografico degli
Stadi sulla via della vita, specialmente negli episodi dei Due lebbrosi e del Sogno
di Salomone.
Il lebbroso Simone impreca alla sua esistenza d’isolamento e di disgustosa
sofferenza: ha trovato un unguento che fa scomparire i segni esterni della lebbra
ma che lascia alla malattia la piena virulenza dell’infezione così che «basta un alito
per comunicare la lebbra agli altri e farne apparire i terribili segni sul loro
corpo». Questa sarà la vendetta del lebbroso cacciato dalla durezza del cuore
umano a passare la miseranda vita al bando della società, vicino alle tombe.
Il giovane Salomone era stato educato dal profeta Nathan e cresceva con la più
alta idea del suo padre David, re saggio, potente e pio e intimo confidente di Dio.
Un giorno lo portano a far visita al padre: durante la notte lo svegliano profondi
sospiri e alti gemiti che vengono dalla stanza vicina dove dorme David. Preso dallo
spavento che qualcuno attenti alla vita del padre, s’accosta alla stanza e vede
David steso in terra che sussulta in gemiti di disperazione. Tornato al suo riposo
Salomone vede in sogno che David non è benedetto ma maledetto da Dio e che la
regale dignità è per lui il segno dell’ira di Dio e del suo castigo. Salomone portò
con sé per tutta la vita quest’impressione e divenne saggio e potente, mai però un
eroe o un uomo di preghiera. Nella sua impressione si era annidato un dubbio sul
significato stesso metafisico della Provvidenza: non v’è dubbio che in Kierkegaard
la situazione corrisponde al dubbio protestante della remissione dei peccati e
quindi rimanda all’ambiguità insanabile del problema della giustificazione della
teologia della Riforma. La dimensione teologica qui s’impone in modo inevitabile.
Essa si presenta in un piano più profondo e con ritmo ininterrotto nelle varie
elaborazioni del «sacrificio d’Isacco» a partire dallo stupendo saggio estetico di
Johannes de Silentio e dai testi del Diario che riprendono con variazioni nuove,
non tanto il tema biblico quanto l’ambiguità del proprio rapporto al padre e a Dio:
a queste composizioni Kierkegaard ha dato per titolo l’espressione scritturale
«timore e tremore». Abramo, il patriarca della fede, dopo aver ricevuto la più
esplicita promessa di benedizioni sulla sua stirpe nell’unico figlio Isacco, riceve
l’ordine di sacrificare Isacco sul Moria e già si appresta a compiere l’obbedienza:
ma l’Abramo kierkegaardiano, a differenza di quello biblico, si effonde in soliloqui
drammatici in cui ancora emerge l’ambiguità essenziale dove si arena l’interiorità
5
protestante nel determinare il rapporto a Dio nel Singolo. Suo padre, per salvarlo
dalla mondanità, l’aveva iniziato a un Cristianesimo disumano, sacrificandolo per
questa vita: Kierkegaard, a parte la crisi passeggera di dissipazione giovanile,
rimarrà sempre attaccato al Cristianesimo «come all’unico pozzo da cui si può
attingere acqua», ma deve confessare ch’esso è troppo ideale per noi uomini e
che non è possibile adeguare le sue esigenze.
b) Simile è l’atmosfera del rapporto a Regina , la fidanzata ch’egli lasciò dopo
un anno nel 1841. È indubbio che Kierkegaard nutriva per lei un vero affetto che
continuò a serbarle, forse ancor più intenso e ideale, dopo la rottura. In questo
punto il Diario è documento della più sottile psicologia di una coscienza che non
riusciva a porre alcun rapporto direttamente nella realtà, ma li trasferiva
anzitutto nella trascendenza. Regina non era per lui, perché «Dio doveva avere la
precedenza» ed egli non poteva concedersi alcun rapporto finito al finito. Si può
dire che tutta la produzione estetica svolge il «tema di Regina», specialmente la
Ripetizione ma anche Timore e tremore (cfr. l’episodio di Agnese e il Tritone dove
il Tritone, lungi dal portare a termine i suoi piani, è conquiso e salvato
dall’ingenuo candore di Agnese). Per Regina inoltre — e ciò appartiene alla
«dialettica doppia» propria di Kierkegaard — egli scrisse quasi tutta la sua vistosa
produzione di Discorsi edificanti, dedicati precisamente a «Quel lettore»:
sappiamo da sicura fonte che Regina li leggeva con vivo interesse e che mai
diminuì la sua stima per il grande scrittore. Le stravaganze estetiche della prima
parte di Aut-Aut (specialmente Il diario del seduttore) hanno messo in questo
punto molti interpreti su di una falsa pista: eppure il «rapporto a Regina» è stato
forse il dramma più profondo e delicato di Kierkegaard e che ha determinato —
assieme al «rapporto al padre» — il suo rapporto a Dio. Soprattutto il grande
«Rapporto», qui riportato (2804), presenta le riflessioni definitive.
6
c) Terzo e conclusivo, il rapporto a Mynster. Esso costituisce il «momento
dell’azione» ovvero il rapporto alla realtà e finitezza nella forma dell’«ordine
stabilito» rappresentato dal capo della Chiesa danese. Come rapporto e momento
intermediario che capovolse la situazione, si deve considerare l’episodio del
«Cossaro», il giornale umoristico diretto dall’ebreo Goldschmidt, ma che aveva la
sua anima nera nell’esteta amorale P.L. Moeller. Kierkegaard con la pubblicazione
delle opere estetiche aveva toccato il vertice della celebrità: ed ecco il «Corsaro»,
quasi per un anno intero, a metterlo in berlina con articoli e caricature e
goffaggini di discutibile gusto, ma non prive di una genialità gazzettiera che
facevano colpo sul pubblico. È vero che Kierkegaard riuscì in pochi mesi a
sbaragliare il «Corsaro» che cessò le pubblicazioni, dopo neanche un anno di vita;
ma quel sontuoso episodio di villania letteraria gli fece scoprire le categorie
fondamentali dell’esistenza inautentica (pubblico, massa, popolo... e per riflesso
negativo anche Stato e Chiesa!). Ed ecco il fattaccio. Nel 1849 Mynster, il
cappellano di suo padre, per il quale Kierkegaard aveva sempre avuto
venerazione e di cui leggeva assiduamente le prediche, si lascia sfuggire
un’espressione di benevolenza per l’ebreo Goldschmidt del «Corsaro» ed osa
perfino metterlo alla pari con lui — la «spia della Cristianità!» — che aveva con
assoluto disinteresse impegnato tutto per smascherare l’equivoco della
generazione contemporanea. La ribellione al vescovo pavido e opportunista si
prepara in silenzio e matura la dichiarazione di guerra all’«ordine stabilito» ch’è
già presente nell’Esercizio del Cristianesimo del 1850 e divamperà, dopo la morte
di Mynster, negli articoli e nei fascicoli del Momento del 1855.
Kierkegaard da giovane, nella sua curiosità insaziabile per le avventure dello
spirito, aveva studiato la psicologia del «Re dei ladri» e pensava di fare il
«funzionario» di polizia; nella maturità, mentre ferveva l’attività letteraria,
progettò di diventare «pastore di campagna» per piangere i propri peccati. Ma
tutti i piani sfumarono. Egli attribuisce questa sua incapacità di attaccarsi al finito,
con un rapporto visibile, al «pungolo nella carne» che sul letto di morte conferma
di aver avuto come san Paolo . Anche se Kierkegaard stesso ha diffidato ogni
curiosa esegesi su questo punto, non v’è dubbio che il «pungolo» può ben essere,
per così dire, il «riferimento esistenziale» di una ferita congenita nel suo essere
che aveva una palese manifestazione nel suo essere corporeo (probabilmente il
cosiddetto «male piccolo» o epilessia leggera) e nell’oscillazione perpetua del suo
spirito che battagliava invano per vincere la dialettica doppia di «attrazionerepulsione» del finito .
Ma solo la lettura diretta e attenta del Diario stesso può operare l’effettiva
sintonia della tematica molteplice e creare nel lettore la convergenza e sintonia
dialettica ai vari livelli della vita dello spirito. La lettura, senza dubbio
indispensabile quanto ardua, delle Opere pseudonime o «comunicazione
indiretta» secondo la terminologia di Kierkegaard, offre la trama dialettica del
cammino della fede come unico itinerario di salvezza nel risucchio delle forze
irrazionali della natura e della storia che mascherano e ignorano il problema della
morte ch’è invece sempre presente al cristiano Kierkegaard. Indispensabile è
anche la lettura degli scintillanti e commossi, ma ancora troppo trascurati,
Discorsi edificanti che costituiscono la cosiddetta «comunicazione diretta».
7
8
Il posto dei Discorsi edificanti, secondo una precisa indicazione del Diario, è al
centro di quella polemica antihegeliana che ha caratterizzato l’intera produzione
pseudonima fino ad Anticlimacus che annunzia e inizia la polemica contro la
Chiesa stabilita: il testo è sintomatico poiché appartiene all’epoca della redazione
della tesi sull’ironia quando Kierkegaard si considerava ancora uno «stolto
hegeliano» . In Kierkegaard c’è sorpresa e deplorazione ad un tempo: «È strano
quest’odio per l’“edificante” che fa capolino dappertutto in Hegel; ma lungi
dall’essere un narcotico che addormenta, l’edificante è l’amen dello spirito
temporale ed un aspetto della conoscenza che non è lecito trascurare» (512). Nel
«dappertutto» di Kierkegaard è sottintesa certamente l’interpretazione
complessiva che Hegel dà della sfera religiosa, e dello stesso Cristianesimo, come
stadio inferiore e propedeutico alla religione perché legato al dualismo
(intellettualistico!) di creatura e Creatore, di peccato e Santificatore, e perduto
nelle brume della rappresentazione mitica (creazione, peccato, redenzione...).
In questo drastico accenno iniziale di Kierkegaard ad Hegel si tratta allora del
9
primo scontro di fondo fra l’immanenza e la trascendenza
nella tensione fra
religione e filosofia, per l’ultima determinazione del senso dell’essere e del destino
dell’uomo.
Cos’è infatti l’edificante? si chiede espressamente lo stesso Kierkegaard . E
risponde: è ciò che mette spavento. L’edificante non è per il sano, ma per
l’ammalato, non per il forte ma per il debole: perciò al presunto sano e forte esso
deve mostrarsi anzitutto come ciò che mette spavento. L’ammalato capisce da sé
naturalmente di essere sotto il trattamento del medico; ma per un sano è ben
spaventoso lo scoprire di essere caduto nelle mani del medico che senz’altro lo
tratta da ammalato. Così con l’edificante che anzitutto è «ciò che mette
spavento»: per chi non è stritolato, esso è il principio stritolante. Dove manca ogni
principio di spavento e non c’è nessuno spavento, non c’è neppure nessun
principio di edificazione e non c’è nessuna edificazione. C’è una remissione dei
peccati, questo è il momento edificante: la cosa spaventosa è che esiste il peccato.
E la grandezza dello spavento nell’interiorità della coscienza del peccato sta in
rapporto alla grandezza dell’edificazione. Che ci sia una medicina per tutti i
dolori, la vittoria in tutte le lotte, la salvezza in ogni pericolo, questo è edificante;
la cosa spaventosa è che c’è dolore, lotta, pericolo e la grandezza di ciò che
spaventa e dello spavento corrisponde all’edificante e all’edificazione. Spavento
ed edificazione sono quindi i due poli di questa dialettica del sacro che anticipa,
ma con prospettiva capovolta, il tremendum dell’Otto come secondo momento del
Numinoso.
L’elemento dello «spavento» costituisce il momento negativo: ma non ci si deve
intimorire per lo spavento che impedisce l’edificazione, non si deve eliminarlo per
mollezza con la speranza di rendere l’edificazione più piacevole: poiché con lo
spavento l’edificazione se ne va. Ma dall’altra parte lo spavento è appunto
l’edificazione. L’edificante è così vittorioso che ciò che al primo sguardo potrebbe
sembrare il suo nemico, diventa il presupposto, il servo, l’amico. Se l’arte medica
supera vittoriosamente la difficoltà di trasformare il veleno in medicina, in un
modo ben più splendido lo spavento contenuto nell’edificante si trasforma in
edificazione. Tale è la situazione di ogni tema religioso e cristiano profondo: per
es. «l’uomo ha sempre torto davanti a Dio», «si soffre una volta sola» in contrasto
col principio del mondo: «si vive una volta sola, gòditi la vita!». E l’edificazione più
grande viene dalla realtà cristiana la quale porta con sé la consolazione più
grande che invece dal punto di vista mondano è causa di disperazione più della
più dura sofferenza terrena e della più grande disgrazia temporale. È qui appunto
che comincia l’edificazione cristiana che prende il nome dal Nostro Signore e
Salvatore.
La produzione edificante doveva quindi in un certo senso fare da contrappeso
ed insieme da fuoco nell’ellisse della sua nuova dialettica di Climacus e
Anticlimacus, sia per l’affermazione della superiorità del momento religioso
(religione A) sia per la rottura che nella sfera dell’umano naturale operava lo
scandalo del messaggio cristiano (religione B). Questo compito, ch’è stato quasi
completamente obliato dalla Kierkegaard-Renaissance, è ciò che invece diventa
sempre più evidente nel Diario il quale esprime perciò la comunicazione diretta
10
11
12
nel senso più completo e scoperto, per quanto questo può riuscire possibile ad
uno spirito dialettico come Kierkegaard.
In danese il termine corrispondente di «diario» è Dagbøg (ted.: Tagebüch ). Le
carte sono state classificate dagli editori in tre sezioni indicate con A, B, C: i testi
propriamente pertinenti alla vita di Kierkegaard e costituenti propriamente il
Diario, ai quali attingiamo in questa edizione ridotta, appartengono alla sezione A
alla quale unicamente si dovrebbe applicare il termine «Journal» scelto da
Kierkegaard.
Kierkegaard lasciò scritto, e questo sembra non incoraggiare molto chi si
impegna a decifrare il suo enigma di uomopensatore-cristiano, ch’egli coltiva
quasi con amore e sgomento ad un tempo: «Dopo la mia morte non si troverà
nelle mie carte (e questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che in
verità ha riempito la mia vita. Non si troverà nei recessi della mia anima quel testo
che spiega tutto e spesso, di ciò che il mondo tiene per bagattelle, fa degli
avvenimenti di enorme importanza per me e che anch’io considero futili appena
tolgo quella nota segreta che ne è la chiave» (704). Eppure qualcosa doveva
essergli sfuggito se ogni tanto, come notano gli editori, egli ha creduto di
strappare alcuni fogli specialmente ove si parla del suo rapporto a Regina . Si
deve soprattutto agli studiosi scandinavi, ed ai danesi in particolare, la
valorizzazione del Diario come la fonte principale per la comprensione della sua
vita e del suo pensiero ovvero come l’unica chiave per ritrovare l’itinerario
affascinante e disperante ad un tempo della sua produzione pseudonima. Il Diario
infatti, che si apre nella primavera del 1834, sulla soglia dei ventun anni, e si
chiude il 25 settembre 1855, poche settimane prima della morte, traccia e segue
l’intero arco della sua vita. Esso è una galleria di pensieri e di personaggi, di temi
e problemi, di situazioni e progetti che poi prenderanno corpo e posto nelle opere
che la sua fervida penna in meno di un decennio riuscirà a pubblicare e che qui
nel Diario si presentano come in filigrana e allo stato nascente. In particolare,
dopo che Kierkegaard si congeda dal pubblico con i due saggi sconvolgenti di
Anticlimacus (La malattia mortale del 1848 e L’esercizio del Cristianesimo del
1850), i fogli del «Journal» s’infoltiscono sul suo tavolo; egli poi li raccoglie in
pacchi con le indicazioni: NB, NB , NB ... fino a NB , riportate nell’edizione
integrale danese.
Con la pubblicazione di L’esercizio del Cristianesimo (1850) Kierkegaard si
ritira dall’attività letteraria propriamente detta, limitandosi a brevi sortite di
Scritti edificanti fino alla ripresa della polemica aperta sui giornali e sul Momento
con Mynster e la Cristianità stabilita del 1854-1855. Questa polemica cova e si
dilata già tutta nei «Diari del silenzio» che si possono far iniziare con la Parte X
cioè nel 1849. Allora si può dire che veramente i problemi che avevano riempito di
virtuosismi letterari e dialettici le sue opere pseudonime, vengono riportati
sempre più al fondamento, sezionati nei loro elementi e ricomposti nella loro unità
profonda. Problemi come quelli della dialettica degli stadi d’esistenza e
soprattutto dei rapporti fra verità e storia, fra soggettività e libertà, fra ragione e
fede, fra volontario e imitazione (di Cristo), fra natura e grazia, fra il Nuovo
13
2
3
36 14
Testamento e la Cristianità stabilita... hanno nei testi del Diario chiarificazioni e
approfondimenti decisivi. Trascurarli e dare per di più la precedenza alla
produzione estetica, come ha fatto di frequente la Kierkegaard-Renaissance, è
precludersi la comprensione proprio di quella sfida che Kierkegaard ha lanciato al
dilettantismo speculativo e religioso del suo secolo.
Gli editori danesi delle Carte, prima H. P. Barfod e H. Gottsched, poi P.A.
Heiberg e V. Kuhr ed ora ultimo N. Thulstrup che hanno portato a termine
l’ardua e complessa impresa, hanno diritto alla riconoscenza di tutti gli studiosi
della crisi spirituale e culturale dell’Ottocento. Qui infatti, nelle Opere e nelle
Carte di Kierkegaard, si riflettono quasi tutti i temi e fermentano i principali
problemi di quel secolo che ha segnato una svolta irreversibile dello spirito
umano. Già il Barfod osservava: «Come la lunghezza delle strade era indicata
dalle pietre miliari, così nello sviluppo spirituale delle qualità ed energie vitali di
un popolo stanno in ogni età i cavalieri gagliardi dello spirito e dell’idea la cui
soluzione diventa l’espressione di una delle più energiche espressioni del
cammino della vita, la cui azione mette in tensione ben al di là di singoli uomini e
di particolari campi di singole generazioni. Il loro nome s’intreccia nei titoli delle
grandi sezioni della storia dello sviluppo umano; il più profondo contenuto della
loro personalità dà colore e forma alla coscienza spirituale dell’intera umanità...
una siffatta pietra miliare, un’indicazione vigorosa della via che la vita del nostro
popolo ha tracciato, è Søren Kierkegaard» . Un’affermazione che dovette
sorprendere molto e molti un secolo fa quando su di lui era sceso quasi l’oblio
nella sua stessa patria.
Il primo traduttore tedesco del Diario ed uno dei più profondi conoscitori di
Kierkegaard, che da lui sentì la spinta a passare al Cattolicesimo, osservava sulla
religiosità profonda del Diario che si riversa di riflesso su tutta la sua opera: «I
diari di Kierkegaard sono i diari di un grande orante. Più d’uno di coloro che
hanno ammirato l’ampiezza, la profondità e l’altezza del suo spirito, si è
scandalizzato della sua incomprensibile infantilità. Egli alle volte si comporta,
pensa, con la meticolosità di una vecchietta che prega Dio che le faccia riuscir
bene la focaccia che sta cuocendo e se riesce bene ne ringrazia Iddio. Nella realtà
si comporta così il nostro dialettico più inquietante, l’intelligenza più forte del suo
tempo... E quand’egli è riuscito a realizzare il suo progetto [noi oggi
comprendiamo ben più quanto fosse importante], allora egli cade in estasi di una
beata adorazione. Allora il cuore e la lingua si effondono in salmi, azioni di grazia
e di lodi. Kierkegaard era un grande orante che pregava senza posa» .
Il principe dei kierkegaardiani inglesi ammoniva fin dal 1938 di non fidarsi della
lettura delle Opere di Kierkegaard nella traduzione tedesca curata o piuttosto
spesso strapazzata dallo Schrempf, sulla quale si formò il primo kierkegaardismo
deformante francese (J. Wahl) e italiano (F. Lombardi): diffidava anche, e di
conseguenza, la lettura della valanga di studi tedeschi, fondati in prevalenza su
quella versione, «come una completa perdita di tempo» (as a complete loss of
time). Ed aggiungeva, senza temere di andare contro corrente: «Riconosco ora
ch’era assurdo aspettarsi di conoscere S. Kierkegaard senza fare la conoscenza
con i diciotto [ora sono ventidue!] volumi del suo Diario e delle Carte che si
15
16
17
possono leggere soltanto in danese» . Anche il traduttore inglese del Diario
osserva: «Senza questo Diario la sua vita non sarebbe mai stata compresa ed il
suo valore di fonte [di studio] non è stato mai messo in dubbio» . A questo
proposito il recente traduttore tedesco ha osservato «... i Diari come un tutto
prendono oggi il compito della autocomprensione essenziale: in primo luogo come
lotta per una autocomprensione essenziale, poi come il mantenere determinate
impressioni e situazioni dell’anima per autodocumentazione» .
I Diari non sono perciò un masso erratico od un’isola a sé rispetto alla
produzione kierkegaardiana, ma contengono piuttosto la chiave del suo
messaggio all’umanità e alla Cristianità. Non a caso lo stesso Lowrie, di
confessione anglicana ora citato, osserva che «... Kierkegaard nel senso più ampio
del termine era un cristiano cattolico poiché nel senso migliore della parola egli
era un umanista» e (checché sia del problema in sé) «è un fatto che durante la sua
vita e durante il secolo seguente egli spinse molti ad entrare nella Chiesa
cattolica» .
18
19
20
21
Ed ora qualche indicazione circa la presente selezione o editio minor italica del
Diario. Essa è di carattere informativo e destinata al pubblico di buona cultura e
non agli specialisti di studi kierkegaardiani: per questi c’è l’edizione maggiore
pubblicata presso la Morcelliana di Brescia (I ed. 1948-1951 in tre volumi, con
3322 testi, II ed. di lusso del 1962, in 2 voll.). In vista del suo carattere informativo
si è preferito seguire nella disposizione dei testi non più l’ordine cronologico ma
quello tematico, articolato in tre parti: I. La crisi della vita; II. La crisi del
pensiero; III. La crisi della fede.
All’interno di ogni parte, al fine di poter avvertire un po’ la parabola ascendente
dello sviluppo, si è mantenuto il criterio cronologico: ogni testo è seguito dal
numero progressivo che tiene nella editio maior del 1962. Sono mantenute,
all’occasione, le brevi note poste dal traduttore a piè di pagina, ma sono state
omesse le note-commento poste in fondo ai volumi della editio maior. L’edizione
così ridotta non pretende di essere un’introduzione compiuta al dramma di una
vita e di un’opera eccezionale, come fu quella del grande danese, ma piuttosto è
offerta come un invito a passare all’edizione maggiore per immergersi in quella
dialettica della vita e della fede dove il mare, secondo l’espressione dello stesso
Kierkegaard, misura la profondità di 70.000 piedi! Anche così ridotto, tuttavia
esso è in grado di dissipare errori ed equivoci di interpretazioni aberranti da
parte del positivismo e dell’idealismo, assorbiti passivamente anche dalla cultura
filosofica italiana. Eppure ormai da un quarto di secolo il lettore italiano ha a sua
disposizione la più ampia e completa selezione del Diario ed ora anche il blocco
delle opere pseudonime più significative. La lettura articolata delle due serie di
scritti, del Diario e degli Pseudonimi , può avere non soltanto una convergenza
ed integrazione ch’era intesa dallo stesso Kierkegaard , ma può rivelare al
lettore attento sondaggi di misteriose evocazioni e balenamenti di nuovi approdi
ai quali affidare la propria speranza di salvezza dalla disperazione dell’esistenza.
22
23
NOTA BIBLIOGRAFICA
L’edizione danese integrale di P.A. Heiberg, V. Kuhr, E. Torsting e compiuta da N.
Thulstrup in 22 volumi (Copenaghen 1909-1970) si trova descritta, volume per
volume, nella trad. it. del Diario (Morcelliana, Brescia 1980 , vol. I, pp. 151-158). Il
ricorso all’edizione Barfod (Copenaghen 1869-1881) è sempre utile, soprattutto
per il ricco materiale informativo dell’Introduzione generale e delle note.
Un’ampia scelta dei testi del Diario è quella di Peter P. Rohde, Søren
Kierkegaards Dagbøger, in 4 voli., Copenaghen 1961 (i testi sono presi dalle
Carte A e sono riportati secondo l’ordine cronologico ma è omessa la numerazione
originale).
Per il contenuto biografico va ricordata la selezione: Om mig selv, Søren
Kierkegaard Breve og Optegnelser, Udvalg ved Ole Jacobsen og Rasmus Nielsen,
med Indlednig af N. H. Søe, Einar Munksgaards Forlag, Copenaghen s.d.
3
L’edizione che qui si presenta è il risultato di una selezione di carattere tematico e
non cronologico realizzata su:
S. Kierkegaard, Diario (1834-1855), trad. dal danese, intr., note e indici
sistematici a cura di Cornelio Fabro, I ed. (3 voli.), Morcelliana, Brescia 19481951; II ed. (2 voli.), ivi 1962. È attualmente in preparazione la III ed. portata a
5000 testi e progettata in 12 volumi, di cui 11 già usciti, il dodicesimo
comprenderà le Appendici e gli Indici complessivi.
Segnaliamo anche alcune tra le classiche traduzioni del Diario:
a) in tedesco:
S. Kierkegaard, Die Tagebücher, a cura di H. Gerdes, E. Diederichs Verlag,
Düsseldorf-Köln 1968. Utile e accurato è l’apparato degli Indici (nomi, argomenti
e corrispondenza con l’ed. danese).
S. Kierkegaard, Die Tagebücher, übersetzt und herausgegeben von Herman
Ulrich, Hochweg-Verlag, Berlin 1930. È traduzione pressoché integrale delle
Carte A con ampia selezione delle Carte C, limitata purtroppo agli anni 18341837. Precede una ricca raccolta di materiale documentario (preso in prevalenza
dal Barfod, Bd. I e dalle Memorie di H. Bröchner).
S.
Kierkegaard, Tagebücher, Ausgewählt und übersetzt von Elisabeth
Feuersenger, Methopen-Verlag, Wiesbaden 1949. È una scelta ristretta di testi, in
prevalenza dal Diario, che sono divisi per argomenti con la sola indicazione
dell’anno.
S. Kierkegaard, Existenz und Glaube, Aus Dokumente, Briefen und Tagebücher,
hrsg. von Liselotte Richter, Evangelische Verlaganstalt, Berlin 1956 .
2
b) in inglese:
S. Kierkegaard, The Journals (1834-1855), scelta e trad. di Alexander Dru, Oxford
University Press, Oxford 1938.
S. Kierkegaard Journals and Papers, edited and translated by Howard V. Hong
and Edna H. Hong, Indiana University Press, Bloomington and London 1967.
c) in francese:
S. Kierkegaard, Journal, Extraits, trad. Ferlov et Gateau, Gallimard, Paris, 5 voli.: I
(1834-1846), 1941; II (1846-1849),1954; III (1849-1850), 1955; IV (1850-1853),
1957; V (1854-1855), 1960.
Altre traduzioni delle opere di Kierkegaard a cura di Cornelio Fabro:
Briciole di filosofia – Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, 2
voll., Zanichelli, Bologna 1962.
Il concetto dell’angoscia – La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1968.
Il Vangelo delle sofferenze, Esperienze, Fossano 1971.
L’esercizio del Cristianesimo, Studium, Roma 1971.
Opere, Sansoni, Firenze 1972.
Dell’autorità e della rivelazione (Libro su Adler), Gregoriana, Padova 1976.
Il problema della fede, (antologia dalle opere), La Scuola, Brescia 1978.
Preghiere, Morcelliana, Brescia 1979 .
Scritti sulla comunicazione, I, Logos, Roma 1979; II, Logos, Roma 1982.
Pensieri che feriscono alle spalle, EMP, Padova 1982.
Timore e tremore - Aut-Aut (Diapsalmata), Rizzoli (BUR), Milano 1986.
5
Segnaliamo, infine, che è in corso di pubblicazione una nuova edizione degli scritti
di Kierkegaard (la prima storico-critica, disponibile anche in versione elettronica),
che comprenderà tutto ciò che il filosofo danese ha scritto in vita nonché tutte le
opere postume, gli abbozzi, le lettere e i fogli sparsi. Il progetto finale
comprenderà 55 volumi (28 volumi di testi e 27 volumi di apparati critici):
Søren Kierkegaard Skrifter, a cura di N.J. Cappelorn, J. Garff, J. Knudsen, J.
Kondrup, A. McKinnon, F. Hauberg Mortensen, Gads Korlag, Kobenhavn 1997-.
Per una bibliografia completa e aggiornata su Kierkegaard si veda:
F. Castagnino, Gli studi italiani su Kierkegaard 1906-1966, Edizione dell’Ateneo,
Roma 1972 (che comprende una sezione sulle traduzioni in lingua italiana degli
scritti di Kierkegaard e una sugli studi su Kierkegaard).
A. Cortese, Kierkegaard, in AA.VV., Questioni di storiografia filosofica, «Dalle
Origini all’Ottocento», a cura di V. Mathieu, 3 voll., La Scuola, Brescia 1974-1975,
voi. III, pp. 471-717 (che comprende una sezione sulla letteratura
kierkegaardiana in lingua italiana alle pp. 601-633).
S. Marini, Aggiornamento bibliografico sugli studi kierkegaardiani fino al 1986, in
«Nuovi Studi Kierkegaardiani», I (1989), pp. 81-97.
Kierkegaard deve la sua notorietà tra il pubblico italiano, non la sua fama ch’è
compito di studiosi, soprattutto al Diario del seduttore (1843) ed al Concetto
dell’angoscia (1844), due scritti pseudonimi i quali rimangono senza chiave fin
quando non sono inquadrati nella precisa tematica e dialettica della pseudonomia.
Per
il Concetto dell’angoscia, dato il suo carattere teoretico-teologico, è
indispensabile passare alla Malattia mortale (1848) che rielabora in forma
definitiva il problema dei fondamenti della libertà: invece ben pochi, forse a causa
della profondità stimolante delle sue analisi della corruzione intellettuale, l’hanno
finora accostata. Il Diario del seduttore aveva lo scopo preciso, come
espressamente nota il Diario, di farlo apparire agli occhi di Regina come una
«canaglia» per «respingerla», ossia per renderle meno amara la rottura del
fidanzamento (cfr. 2804). Il fatto stesso che lo pseudonimo è Victor Eremita deve
mettere i lettori (e i traduttori affrettati) sulla giusta pista. Per tutto questo l’unica
chiave resta il Diario (cfr. spec. IV A 128, 129 e l’intera collezione di note su AutAut trovate nell’esemplare di Kierkegaard: IV A 213-255. Inoltre: IV B 18-59). Per
quanto riguarda in particolare il Diario del seduttore, si veda specialmente la
massa di note: II B 46-118 che riguardano correzioni e varianti dell’ultima
redazione.
AVVERTENZA
†, ††, indicano aggiunte di K. a testo precedente
[...] indica un passo omesso nella traduzione italiana
I numeri rimandano alla numerazione progressiva della editio maior del Diario
pubblicata presso la Morcelliana, II ed. Brescia, 1962. Così le indicazioni: tr. it. t.
I, II, p.
Parte prima
LA CRISI DELLA VITA
PREMESSA
L’intreccio della vita di Kierkegaard, si proietta in tutta la sua produzione, non
solo nel Diario, ma anche negli scritti pseudonimi e nei Discorsi edificanti. Già i
Diapsalmata, che aprono la serie dei saggi estetici di Aut-Aut (1843), scintillano di
accenti velati o scoperti ai problemi e casi della sua vita privata che la sua
malinconia o spleen si dilettava — com’egli stesso confessa — a crogiolare e il suo
humor a risolvere o piuttosto a dissolvere. I protagonisti poi di Timore e tremore e
della Ripetizione non sono tanto Abramo e Giobbe e neppure soltanto suo padre,
ma è lui stesso nel suo «rapporto sacrificale» al Cristianesimo ossia nel destino di
vittima, della dedizione totale all’idea che questo esige. Il frammento
autobiografico, fortemente idealizzato e ad un tempo drasticamente rivelatore,
dal titolo Johannes Climacus ovvero de omnibus dubitandum (1842-43), che qui
riportiamo, è detto «un racconto» e narra con un virtuosismo esasperante la forza
di trascinamento che la dialettica delle idee aveva sul giovanetto alle prese con le
prime impressioni della vita. Gli Stadi sulla via della vita (1845) riprendono le file
di questa dialettica fissandola nei momenti cruciali e drammatici con efficaci e
sorprendenti richiami soprattutto al mondo biblico in spirituale continuità con gli
scritti precedenti: non a caso l’intera opera è composta in forma di un diario
ideale. Il potente intermezzo filosofico di Johannes Climacus (Briciole e Postilla)
esprime il suo impegno di chiarire, a soluzione e compimento della precedente
dialettica della vita, la dialettica della ragione in direzione della fede; così come
Anticlimacus (Malattia mortale; Esercizio del Cristianesimo) mostrerà l’impegno
radicale che il Cristianesimo esige da un cristiano coerente.
I momenti della vita, toccati in questa prima parte, mostrano l’humus dal quale
spuntano e nel quale s’intrecciano i temi del suo pensiero. Essi rivelano insieme, e
Kierkegaard stesso lo dice espressamente, il vero protagonista del suo aspirare, la
fonte dei suoi turbamenti e delle sue speranze, ch’è Dio: più precisamente l’uomo
e Dio, non però nel senso di un’antropologia orizzontale qual è oggi di moda —
con estrema confusione degli spiriti — ma come dialettica della libertà nella
tensione di finito-infinito e di tempo-eternità. Un testo del 1854 richiama
quest’intreccio di biografia trascendentale che non ha riscontro per il contrasto
ed il consenso ch’egli sa dare dall’alto del suo punto di osservazione:
Su me stesso
Una volta la mia situazione era questa. Ciò che mi gravava sulle spalle era quel
tormento ch’io posso chiamare il mio pungolo nella carne; tristezza, affanno
dell’anima quanto a mio padre: affanno nel cuore quanto alla ragazza amata e a
tutto ciò che vi si riferiva. Così pensavo che in confronto degli uomini in generale,
potevo dire di aver addosso un fardello piuttosto pesante. Frattanto trovai tanta
gioia spirituale nella mia attività, che anche quel peso che consiste nel dolore del
proprio peccato non mi faceva tuttavia chiamare la vita che menavo, una