India e Oceano Indiano - Ministero della Difesa

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India e Oceano Indiano
Claudia Astarita
La grandezza e l’estrema varietà delle condizioni di crescita e sviluppo che contraddistinguono
l’India rendono molto difficile fare un bilancio esaustivo sugli effetti della globalizzazione nel paese.
La prima ondata di liberalizzazioni è partita nel 1991 e si è posta come unico obiettivo quello di
rilanciare la crescita nazionale e favorire così lo sviluppo, seguendo l’esempio della Cina dove gli
effetti positivi delle riforme economiche di fine anni ’70 erano già evidenti. Il maggiore beneficiario
di questi esperimenti di apertura ai mercati internazionali è stato il settore dei servizi. Negli anni,
New Delhi ha progressivamente abbandonato alcune pratiche protezioniste ed è riuscita a
promuovere la progressiva integrazione della nazione nell’economia globale.
Nonostante il paese abbia fatto enormi passi avanti sul piano dell’integrazione, l’India continua a
figurare nelle classifiche dei principali think tank del mondo che si occupano di economia come
una delle nazioni più chiuse e meno accessibili in assoluto.
I motivi per cui l’India si è sempre opposta a un’apertura rapida e profonda dei suoi mercati sono
due: la cronica arretratezza del settore secondario dovuta all’eredità di una legislazione che per
decenni ha scoraggiato uno sviluppo di piccole e medie imprese trainato da competitività ed
efficienza; e la reticenza con cui lo Stato ha accettato di aprire alcuni settori agli investimenti diretti
esteri, riducendo indirettamente l’afflusso di capitali in entrata. New Delhi ha sempre difeso la sua
scelta con l’idea secondo cui l’apertura totale sarebbe stata abbracciata in un secondo momento,
vale a dire dopo aver approvato quelle riforme in grado di rendere il paese più competitivo e, di
conseguenza, meno vulnerabile in un contesto globale.
Per tante ragioni diverse, però, questa linea di apertura lenta e graduale è stata più volte rivista e
bloccata, sempre per la paura che dalla globalizzazione l’India avesse tanto da perdere e troppo
poco da guadagnare. Dati alla mano, è impossibile negare gli effetti positivi che la globalizzazione
ha avuto anche in India. Il maggiore grado di integrazione con il resto del mondo e l’afflusso
costante di capitali, lavoro e tecnologie che questo ha comportato ha permesso all’India di
mantenere a lungo tassi di crescita molto elevati. La globalizzazione ha poi aperto nuovi mercati
per le esportazioni indiane, ha creato nuove opportunità di lavoro e un aumento netto dei salari sia
per le professionalità qualificate sia per quelle non qualificate. Tutto questo ha contribuito a ridurre
il tasso di povertà in India (che rimane comunque molto alto, perché almeno il 30 per cento della
popolazione vive in condizioni di indigenza) e ha portato una ventata di modernizzazione in tante
aree del paese. Infine, le esigenze delle aziende straniere hanno portato a un miglioramento netto
della rete infrastrutturale nazionale e dei servizi, in particolare per quel che riguarda sanità e
istruzione.
La globalizzazione ha anche creato in India nuovi problemi, tra cui inquinamento, tendenza
generalizzata delle aziende straniere a rimpatriare i profitti realizzati in India, anziché investirli di
nuovo nel paese, e inevitabile concorrenza per le compagnie locali. Infine, la globalizzazione ha
peggiorato tantissimo il livello della disuguaglianza interna che è forse il problema più grave e
urgente da risolvere per New Delhi.
Oggi, complici le difficoltà innescate dalla crisi economica internazionale che ha ridotto i flussi di
capitale in entrata e ha reso più competitivi tanti altri paesi in via di sviluppo, soprattutto nell’area
del Sudest asiatico, trasformandoli in valide alternative al Subcontinente, l’India rischia di ritrovarsi
senza risorse e, quindi, senza futuro in un mondo ancora più globalizzato.
La globalizzazione ha portato alla cristallizzazione di una società fortemente diseguale, in cui
convivono e si contrappongono oasi ultra-moderne e sacche di profondo sottosviluppo. L’economia
spiega come, quando un mercato si apre agli investimenti stranieri, solo i settori più competitivi
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riescano ad attrarre investimenti. E’ successo anche in India, dove la maggior parte dei capitali è
stata assorbita dal terziario, lasciando indietro industria e agricoltura.
Se è vero che dovrebbe essere lo Stato ad aiutare i comparti più svantaggiati a recuperare terreno,
è altrettanto vero che questo in India non è successo per tanti motivi diversi: incapacità di gestire
un paese così grande e vario, ostruzionismo interno, carenza di risorse, profondità e complessità
dei problemi e naturalmente tempo.
Non è questo il contesto adatto per valutare gli effetti della globalizzazione in India settore per
settore. Ciò che è importante mettere in evidenza è come dal 1990 al 2010, vale a dire nei venti
anni successivi all’implementazione delle prime riforme, il paese sia riuscito a mantenere un tasso
di crescita medio del 6,6 per cento, pari a poco meno del doppio di quello registrato nei decenni
precedenti. Oggi, però, complici da un lato la crisi globale e, di conseguenza, il ridotto afflusso di
capitali, dall’altro le distorsioni create dalla prima ondata di globalizzazione, New Delhi ha
decisamente bisogno di cambiare strategia economica se vuole continuare a beneficiare degli
effetti positivi dell’integrazione economica internazionale.
Narendra Modi ha certamente capito che l’India non ha ne’ le risorse ne’ le capacità per continuare
a proteggere alcuni settori della sua economia, pena la condanna degli stessi a una condizione di
arretratezza cronica. Il primo ministro indiano sta cercando in tutti i modi di creare un paese
trasparente e pro-business, ma si scontra con una realtà talmente complessa e varia da rendere
estremamente arduo il compito di creare opportunità per tutti.
La disuguaglianza in India è cresciuta tantissimo negli ultimi decenni ed è aumentata
essenzialmente perché i benefici della globalizzazione non hanno toccato in maniera uniforme
tutte le regioni del paese, tant’è che il 30 per cento degli indiani continua a vivere in condizioni di
estrema povertà. Se a questo si aggiunge che la popolazione continua a crescere (l’India è
destinata a diventare il paese più affollato del pianeta entro il 2028) e il tasso di migrazione dalle
campagne alle aree urbane è molto elevato, trovare un sistema per livellare la disuguaglianza sarà
fondamentale per permettere al Subcontinente di sopravvivere.
Senza il sostegno della globalizzazione l’India non riuscirà mai ad affrancarsi dalla sua condizione
di sottosviluppo. Tuttavia, senza una strategia in grado di gestire l’impatto e le conseguenze di
questa integrazione globale dei mercati il Subcontinente rischia di rimanerne travolto. Ultima
postilla: nel caso indiano, livellare la disuguaglianza non significa soltanto favorire la ridistribuzione
dei redditi, quanto creare opportunità reali per quell’enorme fetta di popolazione che resta ancora
esclusa non solo dal mercato del lavoro, ma anche dal sistema sanitario e di istruzione.
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