clicca qui - Parrocchia di Rossano Veneto

Download Report

Transcript clicca qui - Parrocchia di Rossano Veneto

II DOMENICA DI QUARESIMA - TEMPO A
1Sei
giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in
disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le
sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che
conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: "Signore, è bello per noi essere
qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia". 5Egli stava ancora
parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che
diceva: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
Ascoltatelo". 6All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande
timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: "Alzatevi e non temete". 8Alzando gli occhi non
videro nessuno, se non Gesù solo. 9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: "Non
parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti". Mt
17,1-9
Nel contesto della Quaresima, le letture di questa seconda domenica di Quaresima, hanno
lo scopo di incoraggiare il nostro impegno di vita cristiana, in vista del rinnovo delle
promesse battesimali che faremo nella solenne veglia pasquale. Gesù battezzato per la
missione salvatrice, superate le tentazioni che ci sono state presentate la scorsa domenica,
atte ad attraversargli la strada, è trasfigurato ed è confermato dalla nube luminosa dello
Spirito e dalla voce del Padre in vista del sacrificio pasquale di morte e risurrezione. La
Trasfigurazione è un evento importante; trattato a fondo dai Padri della Chiesa, è il
caposaldo della spiritualità tanto cara alle chiese orientali.
Diciamo subito che il racconto della trasfigurazione, a motivo del forte simbolismo che lo
permea e della cornice apocalittica e teofanica, entro cui il racconto è costruito e si muove,
nonché per l'assenza di riferimenti storici e geografici, non sembra che sia storicamente
accaduto, ma sia soltanto una costruzione degli evangelisti, che in qualche modo hanno
parafrasato il racconto della salita al monte Sinai di Mosè (Es 24,12-15) o quanto meno si
sono rifatti allo schema dei racconti teofanici. Del resto, se fosse realmente accaduto, come
spiegare il tradimento di Pietro dopo una simile esperienza con il trascendente; o come
spiegare le incertezze e i dubbi che attanagliavano i discepoli circa la divinità di Gesù e
che li accompagneranno fino alle ultime battute del vangelo (Mt 28,17).
L’evangelista Matteo presenta la risposta di Gesù alle tentazioni nel deserto. La terza,
l’ultima tentazione nel deserto, era stata quando il diavolo aveva portato Gesù su un
1
monte alto – il monte alto indica la condizione divina – offrendogli tutti i regni e la gloria
del mondo; il tentatore invita Gesù a conquistare la condizione divina, ottenendo il potere
per dominare.
Per comprendere questa tentazione bisogna ricordare che, all’epoca, tutti quelli che
detenevano si consideravano di condizione divina, come il faraone che era un Dio,
l’imperatore romano che era figlio di un Dio, quindi il diavolo offre a Gesù la condizione
divina attraverso il potere. Bene, l’episodio della trasfigurazione è la risposta di Gesù a
questa tentazione.
“Sei giorni dopo”. L’indicazione è preziosa. Il numero sei nel linguaggio biblico indica
l'imperfezione, ciò che non è completo e che pertanto deve essere completato. Il sei, infatti,
è dato dal sette, che simboleggia la perfezione e il completamento, meno uno. Ai sei giorni,
dunque, per essere completi e perfetti manca ancora un giorno, il settimo, che è quello
proprio in cui avviene la trasfigurazione; quindi, soltanto, con la trasfigurazione il
cammino catechetico e rivelativo, iniziato al v.16,21 e metaforicamente simboleggiato nei
sei giorni, troverà la sua pienezza. Come dire che non è sufficiente credere nel
messianismo, anche se accettato nella sua cornice di sofferenza, ma per la salvezza è
necessario anche credere e accogliere la figliolanza divina di Gesù e, quindi, la sua stessa
divinità. Soltanto in tal modo il credente si qualificherà come vero credente e potrà, così,
accedere alla salvezza. La dichiarazione di Pietro, infatti, verteva non solo sul messianismo
di Gesù, ma anche sulla sua figliolanza divina.
Il numero sei, però, richiama anche due importanti avvenimenti: la creazione dell’uomo
nel libro della Genesi e la manifestazione della Gloria di Dio sul monte Sinai.
L’evangelista Matteo, già citando un semplice numero, vuole dimostrare che, in Gesù, si
manifesta la pienezza della creazione e, con essa, la gloria di Dio.
“Gesù prese con sé Pietro”, il discepolo viene presentato con il suo soprannome negativo,
che significa “l’ostinato, il testardo”, “Giacomo e Giovanni”. Sono i tre discepoli difficili,
sono quelli che lo tentano al potere. Quando Gesù annunzierà che a Gerusalemme sarà
messo a morte, saranno Giacomo e Giovanni che gli chiederanno di condividere con loro i
posti più importanti. Ebbene, Gesù prende con sé Pietro, il quale, nell’episodio precedente,
era stato oggetto della più violenta denuncia, del più violento epiteto rivolto da Gesù a un
suo discepolo. Gesù l’aveva chiamato “satana”. “Vattene satana!” Le stesse parole con le
quali Gesù aveva respinto la tentazione nel deserto. Ma a Pietro dà una possibilità:
2
“Vattene satana, torna a metterti dietro di me”, perché Pietro voleva lui indicare la via di
Gesù, e soprattutto Pietro rifiutava l’idea di morte di Gesù, perché per Pietro la morte era
la fine di tutto. E’ interessantissimo l’uso attento dei vocaboli che fa Matteo; nonostante
l’ottusità dei tre discepoli, Gesù ne ha bisogno per annunciare il Regno, e allora, oggi
diremmo, “gioca con le carte che ha”! L’unica soluzione che Gesù ha è di continuare a
educare i tre riottosi discepoli. Per questo egli li prende con sé e impartisce loro un
particolare insegnamento, fondato su di una teofania, cioè una “manifestazione”
particolarmente forte. Il verbo “παραλαμβάνει paralambánei” infatti, oltre che prendere
con sé, significa anche prendere sotto la propria autorità, formare, educare. Il rapporto,
dunque, che s’instaura tra Gesù e i tre è squisitamente catechetico e nel contempo imprime
all'intero racconto il senso di una catechesi, finalizzata a far crescere nella conoscenza del
mistero di Gesù e del progetto del Padre. È significativo, infatti, come l'autore sottolinei
che il gruppetto non salì sul monte, ma è Gesù che “li fa salire”, un'espressione che indica
l'azione propria del maestro nei confronti dei propri discepoli, fatti crescere nella
conoscenza dal proprio maestro. La tipologia di questa conoscenza è indicata dal termine
monte, definito “elevato”, che nell'immaginario degli antichi era considerato la dimora
della divinità. Si tratta, dunque, di un crescere nella conoscenza di Dio, un avvicinarsi al
suo mistero, che si disvelerà, nella potenza del suo fulgore, in Gesù.
Ebbene, Gesù prende con sé i tre discepoli e, dice il testo, “li condusse in disparte”. Ormai
conosciamo che l'espressione “κατ’ ἰδίαν kat’idian” “in disparte” - termine tecnico adoperato
dagli evangelisti che troviamo più volte non solo in Matteo, ma anche negli altri autori del Vangelo
– indica sempre incomprensione, ostilità o, addirittura, opposizione a Gesù. La connotazione è
quindi sempre negativa. Siamo allora avvisati: l’episodio avrà un esito negativo!
“Su un alto monte” (εἰς ὄρος ὑψηλὸν eis oros hypsēlon). Il monte, essendo il luogo della
Terra più vicino al cielo, indica la condizione divina. Il satana, nelle tentazioni, aveva
offerto a Gesù la condizione divina proprio su un alto monte … ma come? Mediante
l’accumulo del potere. Gesù, adesso, dimostrerà che la condizione divina non si ottiene
attraverso il potere ma attraverso il dono di sè.
“E fu trasfigurato davanti a loro”. La trasfigurazione è espressa con un verbo al passivo
μετεμορφώθη metemorphōthē (metamorfosi)
che nel
linguaggio biblico esprime
l'intervento di Dio. All'origine della trasfigurazione di Gesù ci sta, dunque, il Padre; così
3
come il Padre, con la potenza dello Spirito, è la fonte primaria della risurrezione di Gesù
(Rm 1,3-4), che qui in qualche modo viene richiamata. Il verbo usato per indicare la
trasfigurazione è molto significativo perché se da un lato dice un cambiamento delle forme
umane, tali da lasciar trasparire da esse il fulgore della luce divina, dall'altro dice come sia
necessario, per percepire la divinità di Gesù, andare oltre queste forme umane attraverso
una fede ferma e invincibile. Il verbo, infatti, è composto dalla particella avverbiale μετά
meta, che tra i vari significati racchiude anche il senso di ciò che viene dopo o che va oltre;
e il verbo μορφόω morphoó che significa dare forma, rappresentare, figurare. Sul monte,
l'azione creatrice di Dio viene portata a compimento in Gesù, operando in lui una
trasformazione luminosa: "E fu trasfigurato davanti a loro; e splendette il suo volto come il sole e
le sue vesti divennero bianche come la luce" (Mt 17,2). Gesù, "irradiazione della gloria di Dio"
(Eb 1,3), emana la stessa luminosità del sole, al quale Dio era paragonato (Sai 84,12), e le
sue vesti abbaglianti indicano la pienezza della gloria divina (Mt 28,3).
Al di là, quindi, delle forme umane di Gesù c'è l'apparire della gloria di Dio. Tutta la scena
è un continuo rimando all’Antico Testamento. Cogliamo solo qualche esempio:
* il Volto come il sole (cfr. Sal 35(36),10; Ap 1,14; 10,1);
*le vesti bianche come la luce (Sal 103(104),2);
*è il Figlio dell’uomo nella sua gloria (Dan 7,9).
La veste bianca richiama la resurrezione di cui la trasfigurazione è un’anticipazione (cfr.
Mt 28,3; e versioni sinottiche). Lo splendore di cui la persona di Gesù è circondata
richiama lo splendore sul volto di Mose dopo la rivelazione sul monte Sinai (cfr. Es 34,2935), a motivo del quale Mose dovette coprirsi la faccia con un velo.
Matteo è l’unico che parla del “volto sfolgorante come la luce del sole” di Gesù. Come
mai? L'autore è un ebreo e sta parlando alla sua comunità di giudeocristiani, che ben
conoscono le Scritture e il loro linguaggio, per cui quando il volto splende di luce, questo
volto è quello proprio di Dio. Ma sa anche come Mosè, dopo quaranta giorni e quaranta
notti, in cui egli parlò faccia a faccia con Dio (Es 33,11; Dt 34,10), la pelle del suo volto
divenne raggiante (Es 34,28-29). Due, dunque, sono le sottolineature: il volto splendente di
Gesù è quello proprio di Dio. Il suo volto sfolgora perché lui è Dio; lo dice la luce del suo
volto. Infatti, egli sta faccia a faccia con Dio, è un suo pari e in lui si riflette la luce divina,
che lo avvolge e lo permea nella sua pienezza. Come non sentire in questo la profondità
4
della teologia giovannea, che vede il Verbo del Padre, avvolto nello splendore della sua
gloria, farsi carne e in lui la contempla (Gv 1,1-2.14); un Verbo ripieno di luce divina, anzi
egli stesso è luce divina, che si emana sugli uomini illuminandoli nelle loro tenebre (Gv
1,4-5). Verbo di luce divina, una parola che negli scritti giovannei ricorre 37 volte e indica
la natura stessa di Dio. In questo contesto, non va mai dimenticato il fine che sta
perseguendo Matteo: affermare, ma soprattutto convincere i suoi della divinità dell'uomo
Gesù.
Ebbene, Gesù conduce costoro sul monte, luogo dove Dio dimora (Salmo 68,17), e mostra
che la condizione divina non si ottiene attraverso il potere, ma con il dono totale di sé. Ai
tre discepoli Gesù indica qual è la condizione dell'uomo che, per comunicare vita agli altri
uomini, è passato attraverso la morte: questa non annienta la persona, ma la trasforma,
consentendo all'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,26), di
raggiungere il suo massimo splendore.
Accanto a Gesù, appaiono ai discepoli i due personaggi che secondo la tradizione popolare
non erano morti, ma erano stati rapiti in cielo: Mosè, sul quale, secondo Giuseppe Flavio,
scese una nube ed egli scomparve in una valle" (Ant. IV, 8,48), ed Elia, che "salì nel turbine
verso il cielo" (2 Re 2,11). Mosè ed Elia rappresentano le promesse del regno di Dio,
manifestate attraverso la Legge e i Profeti, che Gesù ha assicurato di voler portare al loro
massimo compimento (Mt 5,17). Il Legislatore e il Profeta, coloro che in passato hanno
parlato con Dio sul Sinai (Es 33,17; 1 Re 19,9-13), ora conversano con Gesù, il "Dio con noi"
(Mt 1,23). Essi non si rivolgono ai discepoli, ma dialogano col Cristo: alla comunità
cristiana la Legge e i Profeti non hanno nulla da dire se non attraverso Gesù.
In Gesù, quindi, si manifestano gli effetti della risurrezione; la morte non distrugge la
vita, ma è ciò che le permette di fiorire in una forma nuova, piena, completa e definitiva.
Una forma che nell’esistenza terrena non è possibile raggiungere. Mosè ed Elia
rappresentano anche tutto il genere umano (i morti e i vivi) radunato con Gesù
trasfigurato. Adesso i due parlano con Gesù; l’argomento di tale colloquio non è indicato,
certo ha come contenuto la realizzazione della Promessa antica, ma sotto il «segno»
terribile della Croce (esplicitato da Lc 9,31: l’esodo che Cristo deve fare a Gerusalemme).
Mosè ed Elia sono i due personaggi che, nell’Antico Testamento, hanno parlato con Dio e
adesso parlano con Gesù. Non hanno nulla da dire ai discepoli. Non viene detto che Gesù
parla con loro, ma che loro parlano con Gesù; sono loro che convergono verso Gesù e non
5
viceversa. Non vi è, dunque, un interscambio dialogico. La scena è carica di simbolismo e
di significati. Matteo l'ha inserita per far comprendere ai duri della sua comunità il
significato nuovo della figura di Gesù rispetto ai personaggi simbolo dell'A.T. e come essa
sia stata in qualche modo preannunciata da loro.
Gesù, quindi, non è un'aggiunta a Mosè e a Elia, non è un loro prolungamento, ma il loro
punto di convergenza. Essi costituiscono, per un certo verso, due attributi propri di Gesù e
ne definiscono il senso della sua missione e del suo essere: come Mosè, Gesù è stato
prescelto dal Padre (Mt 3,17) e inviato a Israele e all'intera umanità per liberarla dalla
schiavitù del peccato e ricondurla in seno al Padre.
Entra in scena “ὁ Πέτρος – il Pietro”. L’articolo determinativo richiama l’atteggiamento
ostinato di questo discepolo, che non tanto prese la parola, bensì “reagì”. Ancora una volta
Simone svolge il suo ruolo del satana nei confronti di Gesù. Il discepolo seguita a essere
pietra d'inciampo al Cristo, e il suo agire continua a essere "secondo gli uomini" e non
"secondo Dio" (Mt 16,23).
La proposta di Pietro a Gesù va situata nel clima di attesa della manifestazione del Messia,
suscitato dalla festa più popolare d'Israele, quella delle Capanne (ebr.
‫ סֻכּוֹת‬Sukkot)1,
chiamata semplicemente "la festa" (1 Re 8,2). Durante la festa gli Ebrei dimoravano per
sette giorni in capanne, in ricordo della liberazione dall'Egitto (Lv 23,42-43) e in 'attesa
della vittoria finale del "Signore degli eserciti" sugli altri popoli (Zc 14,16-19).
Con l'invito a fare tre capanne, Pietro sta proponendo o a Gesù di manifestarsi come il
Messia nazionalistico, appoggiato dalla Legge e dai Profeti. Egli non colloca Gesù al centro
dei tre personaggi: il posto più importante è occupato da Mosè ("una per te, una per Mosè
e una per Elia").
Per Pietro, Gesù deve collocarsi sulle orme di Mosè non sostituirlo: il Messia desiderato è
colui che si conforma alla Legge emanata da Mosè, facendola osservare con lo stesso zelo
violento di Elia (1 Re 18,20-40). Per Pietro, Mosè ed Elia sono sempre importanti e validi:
non ha compreso la novità proposta dal Cristo e cerca di mettere il vino nuovo di Gesù nei
vecchi otri della tradizione.
1
La festa di Sukot ricorda la vita del popolo di Israele nel deserto durante il loro viaggio verso la terra promessa,
la terra di Israele. Durante il loro pellegrinaggio nel deserto essi vivevano in capanne (sukot). La Torah ordina agli ebrei
di utilizzare, per la celebrazione della festa, quattro specie di vegetali: il lulav (un ramo di palma), l'etrog (un cedro),
tre rami di mirto e due rami di salice. Il cedro viene impugnato separatamente dai rami che invece sono legati assieme
con la canapa.
6
Il v.4 denuncia un errore di prospettiva in cui la comunità matteana e il
giudeocristianesimo in genere erano caduti: ritenere Gesù un grande personaggio, un
profeta di spicco, un messia di rilievo, ma che non si discostava dai suoi predecessori
veterotestamentari, significati in Mosè ed Elia, anzi a questi si doveva legare. Torna,
dunque, nuovamente il problema della divinità e della figliolanza divina di Gesù
disconosciute e dell'incapacità di cogliere la novità del mistero che albergava nella sua
persona.
Pietro, infatti, ha davanti a sé Gesù, Mosè ed Elia, tutti tre alla pari, e, senza distinzione
alcuna, propone loro tre tende, una per ciascuno di loro. Sono tre tende anonime, identiche
tra loro alle quali essi sono associati. Non c'è distinzione tra i tre. Questo è il dramma di un
culto che è rimasto solo “religione”, ma non si è mai evoluta in autentica adesione d’amore
che si chiama fede!
Mentre Pietro sta ancora parlando, Dio interrompe bruscamente il suo intervento: "Questi
è il Figlio mio, il prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Lui ascoltate!" (Mt 17,5).
Ed ecco una voce. Il messaggio della voce è identico a quello in occasione del battesimo di
Gesù in Mt 3,17. E una combinazione di allusioni al Messia («il Figlio mio», vedi Sal 2,7), al
«prediletto» (Isacco; vedi Gen 22,2) e al servo di Dio (Is 42,1; 44,2). L’aggiunta matteana
«Ascoltatelo» potrebbe essere un’allusione al «profeta come Mose» di Dt 18,15 («a lui
darete ascolto»). L’espressione più completa di quello che dice la voce è dunque di Matteo:
«Ed ecco una voce che diceva : "Questi è il mio Figlio, il monogenito (o agapetòs), nel
quale mi sono compiaciuto . Ascoltatelo!”.
L'ordine imperativo, dato da Dio stesso, non ammette eccezioni e si richiama a quanto
promesso dal Signore a Mosè: "Yahvé tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli,
un profeta pari a me; a lui darete ascolto" (Dt 18,15). L'unico che i discepoli devono ascoltare è
Gesù, il solo a riflettere pienamente la volontà divina, in quanto Figlio di Dio.
Mosè ed Elia non sono stati che servi del loro Dio (Dt 34,5; 1 Re 18,36) e hanno trasmesso
un'alleanza tra dei servi e il loro Signore. Gesù è il Figlio di Dio e la sua alleanza è tra dei
figli e il loro Padre.
"All'udire ciò i discepoli caddero sulla loro faccia e s'impaurirono molto" (Mt 17,6) "Cadere sulla
faccia" è, nel linguaggio dell'Antico Testamento, segno di disfatta (1Samuele 17,49). I
discepoli si sentono sconfitti, in quanto sentono infrangersi i sogni di restaurazione della
7
Legge di Mosè mediante l'impeto veemente di Ella, e hanno paura, in quanto riconoscono
di essere in presenza di una manifestazione divina e quindi di dover morire (Is 6,5).
Nonostante Gesù avesse ripetutamente parlato loro di Dio quale un Padre, essi continuano
a pensare secondo le categorie della tradizione religiosa che incutevano la paura di Dio
("Nessun uomo può vedermi e restare vivo", Es 33,20).
"Ma Gesù si avvicinò, e toccatili, disse: Alzatevi e non abbiate paura" (Mt 17,7). Il gesto di Gesù,
lo stesso da lui adoperato per restituire salute agli infermi e vita ai morti (Mt 8,115), dà
loro la forza di sollevare gli occhi, e vedono “Gesù solo”. Che delusione per loro!
Mosè ed Elia sono stati eliminati dalla scena: colui che devono ascoltare è Gesù e non
Mosè ed è il Cristo che devono seguire, senza sperare nel ritorno di Elia (Mt 17,10).
Gli occhi dei discepoli, che ora si sono aperti, torneranno a chiudersi nel Getsemani, dove
Gesù ripeterà l'invito "alzatevi" ai tre discepoli, i quali, anziché essere solidali col loro
maestro, si sono addormentati (Mt 26,40-46).
L’immaturità dei discepoli è rimasta monolitica. A Gesù non resta altro che raccomandare
di non dire nulla a nessuno per non seminare confusione, Solo dopo la Pentecoste,
diverranno veri Apostoli della Parola e del Cristo Risorto… ma la strada è ancora lunga.
Padre Umberto Andreetto
8