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L’Osservatore
Romano
il Settimanale
Città del Vaticano, giovedì 2 marzo 2017
anno LXX, numero 9 (3.882)
Ecumenismo
in cammino
In allegato il numero di marzo del mensile «donne chiesa mondo»
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#editoriale
2
Papa Francesco incensa l’icona
di Cristo Salvatore all’interno
della All Saints’ Church
«È
vero, il rapporto tra cattolici e anglicani oggi è
buono, ci vogliamo bene come fratelli!». Con
questa dichiarazione di fraterna e autentica vicinanza ecumenica, Francesco ha iniziato a rispondere alle domande nella parrocchia anglicana di Roma. Avendo definito il dialogo tra
cristiani di diverse confessioni come un cammino in sé, ha utilizzato una figura che
descrive con realismo questo percorso comune:
«Due passi avanti, mezzo passo indietro».
L’importante per Papa Bergoglio è non fermarsi mai e confidare nel kairòs, il tempo
favorevole del Signore: «Ma camminiamo insieme, andiamo insieme. Per il momento va
bene così. Ogni giorno ha la propria preoccupazione» ha detto citando la parola evangelica.
Nelle risposte ai fedeli anglicani il Pontefice
ha fatto due riferimenti alla sua esperienza a
Buenos Aires. Ne riporto qui uno. La Bibbia
della Riforma giunse in Argentina nel 1825 a
Ricchezze
delle Chiese
giovani
di MARCELO FIGUEROA
opera del missionario anglicano John
Armstrong, che tra l’altro iniziò la sua missione pastorale nella cattedrale anglicana di Buenos Aires, a pochi metri da quella cattolica.
Armstrong diede anche avvio alla missione
permanente della Sociedad Bíblica Británica y
Extranjera, antesignana della Sociedad Bíblica
Argentina.
Gli anglicani inviarono i loro missionari nel
poverissimo nord dell’Argentina, dove abitava-
no diverse etnie indigene, tra cui i toba, i wichi, i chorote. La missione pastorale fu accompagnata dalla traduzione della Bibbia nelle
lingue dei popoli indigeni. Il cardinale Bergoglio conosceva bene quella missione dove la
Bibbia e la pastorale aborigena erano ponti
molto forti del dialogo ecumenico tra anglicani e cattolici.
È in tale contesto che Francesco cita il vescovo Gregory Venables, suo fratello e amico:
un’amicizia che chi scrive conosceva e condivideva, insieme alla missione ecumenica di traduzione e diffusione dei testi biblici. Venables
è stato vicepresidente della Sociedad Bíblica
Argentina e chi scrive, in quegli stessi anni, direttore istituzionale. Il Papa lo ha ricordato
con queste parole: «Io ero molto amico degli
anglicani a Buenos Aires, perché il retro della
parrocchia della Merced era comunicante con
la cattedrale anglicana. Ero molto amico del
vescovo Gregory Venables, molto amico. Ma
c’è un’altra esperienza: nel nord dell’Argentina
ci sono le missioni anglicane con gli aborigeni
e le missioni cattoliche con gli aborigeni, e il
vescovo anglicano e il vescovo cattolico di là
lavorano insieme, e insegnano».
Poco dopo è tornato su quella esperienza
sottolineando come questa facilità del
cammino ecumenico approfondisca la loro comunione e allo stesso tempo le loro identità
confessionali: «È più facile l’ecumenismo lì, è
più facile, cosa che non vuol dire più
superficiale, no, non è superficiale. Loro non
negoziano la fede e l’identità. Quell’aborigeno
ti dice nel nord Argentina: “Io sono
anglicano”. Ma non c’è il vescovo, non c’è il
pastore, non c’è il reverendo… “Io voglio lodare Dio la domenica e vado alla cattedrale
cattolica” e viceversa. Sono ricchezze delle
Chiese giovani».
Francesco ha superato qualsiasi conflitto che
possa nascere nel cercare di privilegiare l’ecumenismo del dialogo teologico rispetto a quello orientato alla carità e a gesti concreti di misericordia in comune. Per questo si è anche riferito alla sua esperienza a partire dalle «Chiese giovani». L’ha espressa così: «Credo che
questa sia una ricchezza che le nostre Chiese
giovani possono portare all’Europa e alle
Chiese che hanno una grande tradizione. E loro danno a noi la solidità di una tradizione
molto, molto curata e molto pensata… è forse
più solido nella ricerca teologica l’ecumenismo
in una Chiesa più matura, più invecchiata nella ricerca, nello studio della storia, della teologia, della liturgia, come è la Chiesa in Europa.
E credo che a noi farebbe bene, ad ambedue
le Chiese: da qui, dall’Europa, inviare alcuni
seminaristi a fare esperienze pastorali nelle
Chiese giovani, si impara tanto».
Il Papa ha definito il dialogo ecumenico anche come un viaggio. Senza dubbio a livello
personale, da quelle proficue esperienze anglicano-cattoliche a Buenos Aires fino a questa
storica visita alla chiesa anglicana di All Saints, in molti ci siamo visti inclusi, come osservatori commossi, nel suo volo ecumenico.
L’OSSERVATORE ROMANO
Unicuique suum
Non praevalebunt
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il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#internazionale
J
La testimonianza
di una famiglia
di profughi siriani
da Misurata
FRANCESCA
MANNO CCHI
asmine è una bambina siriana di dieci anni, ha
grandi occhi scuri e un sorriso appena accennato. Non ha voglia di parlare Jasmine, perché
le parole più difficili che ha da dire sono annegate nel mare libico. Insieme a suo fratello.
Quando il barcone su cui cercavano di attraversare il Mediterraneo è naufragato, a quindici miglia dalle coste di Sabratha. Jasmine ha
grandi occhi scuri, tristissimi.
Oggi vive alla periferia di Misurata con sua
madre, suo padre e il fratello che le resta, Bilal
di quattro anni. Nel 2014 la famiglia di Jasmine è scappata da Damasco. «Ovunque andassimo la morte ci seguiva. Abbiamo vagato in
Siria, in cerca di un posto sicuro — dice suo
padre — ma un posto sicuro non c’era. Perciò
ho deciso che era arrivato il momento di provare ad arrivare in Europa».
Ibrahim a Damasco era un muratore «povero, ma ho sempre fatto vivere la mia famiglia
dignitosamente». Era povero e «quando sei
povero non puoi scegliere nemmeno come
scappare, devi scappare spendendo il meno
possibile. E noi eravamo cinque». I fratelli di
sua moglie avevano vissuto per un periodo a
Bengasi, a est della Libia, avevano i nomi di
chi avrebbe potuto aiutarli. Ibrahim racconta
di aver contattato dei siriani per la prima parte
del viaggio, e «poi quel gruppo di libici, che
promettevano un posto su un barcone, dei
giubbotti di salvataggio e di farci arrivare in
Europa in sicurezza». Ibrahim scappava dalla
guerra e avrebbe solo voluto poter dire ai suoi
tre figli: vi prometto che potrete studiare, vi
prometto che vi aiuterò a realizzare i vostri sogni. Però queste parole Ibrahim non poteva
dirle. Oggi Ibrahim lavora come carpentiere in
un cantiere edile a Misurata. Guadagna circa
700 dinari al mese. Che al cambio ufficiale sarebbero circa 600 euro, ma oggi il dinaro è
carta straccia e al mercato nero 700 dinari valgono circa 150 euro.
La mattina Ibrahim esce di casa quando
fuori è ancora buio, deve camminare chilometri per arrivare al cantiere, perché l’unica automobile che era riuscito a comprare dopo qual-
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che mese di lavoro si è rotta e lui non ha i soldi per aggiustarla. Quando la mente ritorna ai
ricordi del passato, Ibrahim dice: a volte penso che sarebbe meglio morire che continuare a
vivere così. Lo dice mentre è seduto su uno
sgabello di fronte all’entrata di casa sua, una
stanza, un bagno e qualche pentola a terra.
Una casa troppo fredda per affrontare le
temperature insolitamente rigide dell’inverno
libico.
Anja, sua moglie, ha trentotto anni. Ne
dimostra almeno dieci di più. Ha il viso segnato dal dolore. I movimenti lenti e impacciati del suo corpo raccontano più delle sue
parole quanto grande debba essere stato il suo
lutto. Quello che ha vissuto negli ultimi due
anni è uno strazio che in casa è diventato un
tabù. Parlarne è impossibile, tanto meno elaborarlo.
«Quando siamo arrivati in Libia io ho sperato con tutte le mie forze che fosse l’ultima
Un traffico
senza pietà
tappa della nostra fuga, prima dell’Italia» afferma la donna. Anja racconta che i trafficanti
che hanno pagato li hanno tenuti per quindici
giorni in una casa di cemento vicino al mare.
Chiusi a chiave senza potere uscire. «Dicevano
che dovevamo aspettare il tempo buono, ma il
tempo era buono e la nostra stanza continuava
a riempirsi di persone. Abbiamo capito con il
passare dei giorni che non aspettavano il tempo buono, aspettavano di raggruppare il nu-
Migranti saltati in acqua
da un barcone
al largo
delle coste della Libia (Ap)
il Settimanale
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#internazionale
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mero maggiore di persone, per guadagnare di
più».
In quei quindici lunghissimi giorni il cibo
arrivava a stento, così come l’acqua. I trafficanti passavano loro un po’ di formaggio e del
pane dalle grate delle poche finestre presenti.
Anja ricorda l’aria irrespirabile, la lotta con gli
altri per ottenere un po’ di cibo. La privazione
del cibo per garantirlo ai suoi tre bambini che
continuavano a chiederle: Perché siamo qui?
piccolo mio». Sapendo di mentire. Anja cercava un appoggio. Qualcuno, qualcosa che la
sostenesse. «A momenti vedevo delle sfere, mi
attaccavo, poi capivo che erano teste, che erano cadaveri». Dopo ore e ore in mare e un disperato tentativo di aiuto a un gommone che
non si è fermato a raccogliere né i morti né i
vivi, Anja è stata recuperata dalla guardia costiera libica. Condotta a riva con suo figlio,
Bilal. Cercando quello che restava della sua famiglia.
«Poi una notte sono venuti a prelevarci, a
gruppi di venti, forse trenta persone. Ci hanno
fatto arrivare a riva e ci hanno portato sul barcone con dei gommoni. Quando ho visto il
mare, il buio, ho sentito il rumore delle onde
che si infrangevano sulla sabbia, ho guardato
mio marito e gli ho detto: Ripensiamoci, non
andiamo. Ho paura».
Aveva così paura Anja che ha cominciato a
strillare, ma uno dei trafficanti l’ha trascinata
sul gommone con i suoi figli. Quando sono
arrivati sul barcone che avrebbe dovuto portarli in Europa, Anja ha assistito all’ennesima
lotta degli ultimi del mondo. «Noi siriani eravano sopra, all’aria, potevamo pagare un poco
di più e ci hanno munito di giubbotti di salvataggio. Poi, sottocoperta c’erano centinaia di
ragazzi e ragazze e bambini e bambine di colore. Stipati, non respiravano».
Anja racconta che poco dopo la partenza, in
piena notte, il barcone ha cominciato a imbarcare acqua, che l’allarme è arrivato proprio dai
più sfortunati stipati sotto. «Hanno cominciato a gridare, a urlare allo scafista che stavamo
imbarcando acqua, che rischiavamo di affondare e morire tutti. Ma lo scafista faceva finta
di non sentire. Ha provato a tirare dritto».
In quel momento si consuma la tragedia. Lo
scafista usa il suo telefono satellitare per chiamare a riva, i suoi complici raggiungono il
barcone, caricano l’uomo per portarlo indietro,
lasciando centinaia di persone in mare a cercare di sopravvivere tra le onde. Anja fatica a riportare alla mente quei momenti. Deglutisce,
guarda a terra, maneggia nervosamente il suo
telefono, le foto di suo figlio, del figlio che ha
perduto sono solo lì. Poi trova coraggio e prosegue. «Mi sono gettata in acqua tenendo
stretto il mio figlio più piccolo. Non ricordo
niente. Non ho pensato a niente. Pregavo solo
di sopravvivere, pregavo che sopravvivessimo
tutti».
Anja è rimasta abbracciata a Bilal tutta la
notte, un’intera notte in acqua a lottare tra la
vita e la morte. Bilal le chiedeva quando
avrebbero riposato, lei gli rispondeva: «Presto
Poi lo svenimento e l’ospedale. Tre giorni di
flebo e paura. E le domande: dove sono i miei
figli?
«“Dopo Anja, domani Anja, non preoccuparti Anja”, continuavano a ripetermi tutti, e
nessuno mi ha risposto per tre giorni. Finché
non mi hanno mostrato la fotografia del corpo
di mio figlio. Morto». Anja non vede il mare
da allora, convive con il suo dolore, con il senso di colpa per aver portato i suoi figli su quel
barcone. Per sollevarsi dal peso della responsabilità si è convinta che suo figlio sia stato ucciso da un altro migrante che voleva sottrargli il
giubbotto di salvataggio per salvarsi. «C’era
una ferita sul suo volto — dice la donna per
giustificare i suoi pensieri — me l’hanno ucciso».
Anja non sostiene il peso del suo dolore.
Non riesce a spiegarsi come sia possibile lasciare centinaia di persone a morire. Non riesce a perdonare se stessa per aver dovuto compiere la scelta che nessuna madre dovrebbe
mai fare: prendere con sé un figlio per cercare
di salvarlo e lasciare un altro figlio a se stesso
sperando che si salvi da solo.
A sinistra: il cadavere
di un ragazzo su una spiaggia
vicino la città di Zawiya
in Libia (Reuters)
Sopra: rifugiate siriane con i loro
bambini (Afp)
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#ilpunto
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di LUCIANO
VIOLANTE
I
l suicidio assistito di Dj Fabo ha riaperto in
Italia discussioni e polemiche. È inevitabile il
coinvolgimento emotivo ed è necessario il rispetto. Morire con dignità, prima che una norma giuridica è un fondamentale principio morale, che va rispettato indipendentemente dalla
presenza di una legge. Sulla sedazione profonda e sul testamento biologico non dovrebbero
esserci dubbi. Così come nel respingere le tesi,
per fortuna minoritarie, di chi ritiene che sussista il dovere dell’accanimento terapeutico.
Ma è difficile pensare che si possa giungere a
soluzioni giuste e condivise, che vadano anche
oltre i punti oggi comunemente accettati, senza una discussione culturale sui diritti e sulla
morte.
Si è parlato di diritto a morire. La parola
“diritti” è oggi usata non solo per indicare situazioni disciplinate da leggi, costituzioni e
trattati, ma anche per indicare aspirazioni che
non sono ancora previste come diritti ma che
potrebbero diventarlo sulla base di una scelta
di valore di un singolo interprete. Nella impostazione tradizionale i diritti sono garantiti
dallo stato e dall’unità politica della nazione.
In quella oggi prevalente, sono i giudici che,
anche in assenza di una legge, trasformano le
aspirazioni in diritti, sulla base di principi generali tratti dall’ordinamento, da carte internazionali, da decisioni di magistrature di altri
paesi. Inesauribile espansione dei diritti e inesauribile espansione dei giudici vanno di pari
passo, e sono considerate uno sviluppo della
democrazia perché proprio l’intervento del
giudice garantisce un diritto che altrimenti il
cittadino non potrebbe esercitare.
Ma non è possibile trasformare ogni aspirazione in diritto. Non esiste una inesauribile
Le aspirazioni
non sono diritti
cassaforte dei diritti dalla quale estrarre tutto
quello che ci fa comodo, quando ci fa comodo. Ogni diritto comporta l’intrusione nella
sfera vitale altrui e va bilanciato con i valori
dell’ordinamento e con i diritti di colui al quale quella sfera vitale appartiene. Questa visione, inoltre, trascura il ruolo dei doveri indispensabili per la tenuta di quel contesto civile,
senza i quali i diritti diventano armi che ciascun cittadino, isolato dagli altri, punta contro
il concorrente per soddisfare un proprio individuale interesse. Senza diritti non c’è democrazia. Ma una società senza doveri resta in
balia di egoismi individuali e conflitti istituzionali, priva dei valori della solidarietà e
dell’unità politica, capisaldi di qualunque forma convivenza democratica. Al diritto di morire dovrebbe corrispondere infatti il dovere di
dare la morte. È evidente la difficoltà di configurare un dovere di questo genere, con i prevedibili conflitti determinati dalla obiezione di
coscienza.
Il diritto inoltre non può invadere ogni
aspetto delle nostre vite; rischieremmo un processo di ossificazione degli spazi vitali e delle
relazioni umane. È necessario pertanto difendere spazi governati non dal diritto ma dalla
comprensione, dall’etica, dal rispetto. Il morente non va lasciato solo con i suoi diritti, i
suoi medici e i suoi infermieri. Va sostenuto
da una cultura e da una pratica della solidarietà tra esseri umani che supera qualunque frontiera giuridica. La società non può sbarazzarsi
della morte delegando i giuristi a occuparsene
e liberando noi dai doveri di solidarietà.
Carl Wijmark, scrittore svedese, pubblicò
nel 1978 un breve racconto, La morte moderna,
nel quale descrive un convegno organizzato
dal governo svedese nel corso del quale, per
fronteggiare l’aumento delle spese sanitarie
dovute all’invecchiamento della popolazione e
all’allungamento della vita, si decide di rendere desiderabile la morte per gli anziani: «Deve
tornare a essere naturale morire, quando il periodo attivo è passato. Dobbiamo risolvere il
problema con gli anziani non contro di loro».
Il romanzo non lo dice; ma il messaggio sarebbe stato rivolto agli anziani poveri perché
quelli ricchi avrebbero potuto curarsi senza
gravare sulla spesa pubblica. È una eventualità
da non trascurare quando i valori umani scompaiono dall’orizzonte.
Gustav Klimt
«Morte e vita» (1915)
il Settimanale
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#cultura
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O
gni giorno decine di migliaia di giovani ragazzi italiani si svegliano e cominciano la loro
quotidiana ricerca di un impiego. Soprattutto
in Italia trovare lavoro è diventato sempre più
complesso: occorre passare interi pomeriggi su
internet a inviare curriculum, a scorrere siti
con centinaia di annunci, a telefonare, cercando di non cadere nella trappola degli stage
non retribuiti.
Se si chiede a un esperto, vi dirà che il primo posto da visitare sono i siti delle agenzie
per il lavoro, in seconda battuta ci sono i social network: Linkedin domina, ma anche Facebook comincia a essere un luogo di ricerca,
anche perché, si sa, in Italia le connection
contano moltissimo.
Ma se c’è un luogo al mondo che pare aver
ideato un sistema apparentemente infallibile
per la ricerca di lavoro, questo è il Giappone.
Infallibile perché nonostante un’economia che
non cresce da anni, la percentuale di disoccupazione è ferma al di sotto del 5 per cento.
Spesso è infatti proprio la mancanza di un
sistema organizzato a determinare una clamorosa perdita di tempo per chi, invece, avrebbe
veramente bisogno di un reddito per entrare
così finalmente a far parte di quel club ambitissimo, e ormai sempre più ristretto, di coloro
che possono dirsi indipendenti.
I turisti stranieri per le strade di Tokyo si
domandano che cosa fanno quei giovani uomini e donne che vedono indossare uniformi nere, ma che non sembrano avere la cronica stanchezza dei salaryman (i classici impiegati) e
non sono evidentemente uomini d’affari. La risposta: si tratta di studenti universitari giapponesi che vanno a caccia di posti di lavoro.
Ed è a marzo che solitamente milioni di
giovani giapponesi — dai 19 ai 22 anni di età —
si ritrovano a passare dai banchi dell’università
direttamente a quelli dei colloqui di lavoro. Le
aziende, per non ostacolare gli studi, spostano
le attività di reclutamento a marzo, quando
Cercare lavoro
in Giappone
da Tokyo
CRISTIAN
MARTINI GRIMALDI
l’anno universitario termina per poi riprendere
a inizio aprile.
Lo shūkatsu — l’abbreviazione di shūshoku
katsudō (attività di ricerca di lavoro) — indica
un determinato periodo di tempo dedicato alla
ricerca di lavoro o le attività a esso collegate
(ci sono decine di materiali di studio su come
meglio poter prepararsi a questo periodo di
intensi colloqui) con modalità molto diverse
da quelle dei paesi occidentali, dove solitamente si spediscono quanti più curriculum
possibili sperando che qualcuno risponda positivamente o che almeno qualcuno semplicemente risponda, visto che non c’è peggior frustrazione per un disoccupato di veder ignorati
tutti i propri sforzi.
Lo shūkatsu non è altro che un reclutamento
simultaneo di laureandi (dunque studenti a
tutti gli effetti). La maggior parte degli studenti infatti passano direttamente dall’università al lavoro vero e proprio, ovvero passano
dall’essere daigaksei (studenti) a shakaijin, letteralmente «persone che sono dentro la società», a ribadire il fondamentale concetto che
solo il lavoro può conferire un ruolo all’interno della società, e dunque contribuire a formare un’identità, in ultimo a dare un senso alla
propria esistenza, perché senza quello non siamo nessuno. Se vi sembra un pensiero estremo, allora consiglio di rileggere l’ormai tristemente famosa lettera del trentenne friulano
suicida perché stanco di una vita da precario.
Vi sono vari siti web di supporto allo
shūkatsu, che consentono la ricerca di varie
aziende in maniera efficiente e razionale. Ma
dopo questa prima fase online si passa immediatamente alla fase face-to-face.
Il successo
di un metodo
il Settimanale
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#cultura
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Esistono infatti dei veri e proprio meeting
dove vengono invitate migliaia di aziende, ed
è qui che gli studenti possono verificare di
persona quelle che rispondono ai propri interessi. Una sorta di Salone del Libro dove al
posto dei gazebo dei vari editori ci sono migliaia di società, rappresentate da due o più
persone, e divise per sezioni: marketing, finanza, ingegneria, ecc.
Ma un laureando cosa deve fare per arrivare
a ottenere l’agognato posto di lavoro?
Per cominciare, dopo aver valutato le aziende di suo interesse, deve riempire un modulo
quinta elementare. E se la cosa può far sorridere pensando che tutti saprebbero rispondere
automaticamente a domande pensate per ragazzi di dodici anni di età, chiedetevi quanti
ventenni italiani saprebbero rispondere alla seguente domanda: «Quali sono i sinonimi e i
contrari della parola “potenziale”?». Oppure,
qual è il significato della parola “deflazione”.
Sono domande fatte per fissare un limite
minimo di nozioni di cultura generale, che
qualunque ragazzo dovrebbe possedere a prescindere dal lavoro che andrà a svolgere, se intende inserirsi nella società cosiddetta adulta,
online dove scrivere le proprie informazioni
personali, i corsi di studio scelti durante il periodo universitario, elencare le attività di volontariato svolte, ed eventualmente attività di
impresa create, quelle per intenderci che ora
va di moda chiamare start up. Poi i vari lavori
part-time svolti e che in Giappone tutti fanno:
anche i figli di miliardari alla fine dei loro studi avranno sperimentato quei lavoretti di dodici o sedici ore a settimana, pagati meno di dieci euro l’ora, perché in Giappone si è sempre
sotto pressione, a prescindere da quanto è cospicuo il conto in banca di mamma e papà:
«la vita non è una passeggiata» è il principio
che anche i più fortunati devono capire fin da
subito.
Questa fase è detta anche pre-entry, da non
confondere con la presentazione del proprio
curriculum. Solo dopo questa fase infatti si
può accedere alla fase entry, ovvero l’invio del
proprio curriculum.
In poche parole, solo dopo aver verificato
che esiste un reale interesse da parte del laureando di lavorare per quell’azienda, il datore
di lavoro concederà la possibilità di presentare
il curriculum che in realtà è qualcosa di ben diverso da come lo immaginiamo noi.
Per cominciare, se si intende lavorare per
una grande compagnia, occorre scrivere una
lettera rigorosamente su carta, dunque scritta a
mano! (sì, ancora nel 2017 i giapponesi, ovvero
gli inventori dei videogame portatili, della
playstation e dei robot di compagnia scrivono
i propri curricula a mano e su carta), dove il
candidato racconterà del proprio operato durante gli anni universitari, rivelerà i propri
punti di forza e di debolezza, così come una
varietà di altri dettagli personali.
A quel punto il candidato potrà verificare
online se ha passato questa seconda fase, e
dunque se potrà accedere alla prima vera selezione che, in modo particolare per le grandi
aziende, si svolge come un vero e proprio esame di scuola: ci sono domande di cultura generale, matematica, scienza, biologia, che fanno parte — o dovrebbero far parte — del bagaglio culturale di qualunque laureando. Infatti
sono domande che equivalgono all’esame di
ma soprattutto a stabilire se tanti anni di studio sono effettivamente serviti a qualcosa.
Ci sono poi gli esami di lingua giapponese,
e la verifica delle capacità di esprimersi formalmente, ovvero di saper usare quel linguaggio che non fa parte dell’abituale texting da
smartphone e twitting da social network. E qui
viene in mente il recente appello di seicento
docenti italiani, tra cui linguisti, storici, filosofi, matematici, che hanno scritto al presidente
della Repubblica denunciando che in Italia gli
studenti non sanno l’italiano («bisogna ripartire dai fondamentali, grammatica ortografia,
comprensione del testo» si legge nell’appello).
Forse se anche in Italia, prima di accedere a
qualunque tipo di professione, fosse obbligatorio un esame di questo tipo, magari gli studenti si sentirebbero più motivati nel far uso
del congiuntivo piuttosto che di una corretta
punteggiatura.
Dopo questa prova scritta ci saranno i colloqui, il tutto può durare dai 30 giorni fino ai
sei mesi a seconda delle aziende. Si tratta di
una vera e propria sfida tra migliaia di “concorrenti”, che richiede molti sacrifici e rinunce,
ma se si hanno le carte in regola si viene quasi
sempre premiati, anche perché questo tipo di
sistema, rigidamente strutturato, con regole
fisse a determinare il migliore candidato possibile per l’assunzione, riduce di molto la possibilità che si infiltrino i soliti raccomandati.
Ma gli occidentali hanno sempre guardato
con un certo sussiego il modello giapponese,
criticato per essere troppo rigido e incapace di
far emergere i talenti, un sistema che ridurrebbe sì l’incompetenza, ma solo a costo di un
generale appiattimento verso il basso, o come
diceva più sbrigativamente il generale MacArthur, il vero restauratore del Giappone postbellico, «i giapponesi somigliano a dei ragazzini di dodici anni».
Eppure qui i ragazzini di dodici anni sanno
già esprimersi con un linguaggio formale, keigo,
quello utilizzato nei rapporti di lavoro tra adulti per intenderci, quando i nostri neolaureati, a
detta dei loro stessi docenti, nelle tesi di laurea
commettono errori da terza elementare.
Studenti universitari
durante un salone del lavoro
nella capitale giapponese
il Settimanale
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#catalogo
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di DARIO
FERTILIO
U
Perché il rito
sta alla liturgia
come il ritmo
all’architettura
n bel giorno del 1986, l’archistar Mario Botta
sta completando un progetto destinato a lasciare il segno nella sua carriera intellettuale e
artistica. Ha ricostruito dalle rovine la piccola
chiesa secentesca di Mogno, nella Valle Maggia del Canton Ticino, spazzata via da una
frana alta trenta metri. Ne ha costruita un’altra
nello stesso luogo, ma in forma ellittica e con
mura possenti, in modo da resistere a un nuovo sommovimento della montagna.
È a quel punto che lo psicologo e teorico
dell’arte Rudolf Arnheim, studiando il suo lavoro nel dettaglio, gli fa notare qualcosa di
sorprendente. I dodici archi dell’abside richiamano per la loro disposizione, in modo fortemente simbolico, le figure dei dodici apostoli.
E soprattutto la testa del Cristo crocifisso sopra all’abside corrisponde esattamente alla
perpendicolare dell’asse del cerchio di copertura. Erano coincidenze geometriche di cui
l’architetto svizzero non aveva avuto alcuna
coscienza razionale. Ma erano là, sotto gli occhi suoi e di tutti. Eppure, come ricorda Botta
in Abitare (Christian Marinotti Edizioni, pagine 183, euro 22), il crocifisso era stato trasportato in chiesa alla fine dei lavori, e appeso senza alcunché di intenzionale, solo fra mille raccomandazioni agli operai che lo mettevano in
posizione — «no, un po’ più in alto, no, un
po’ più in basso» — e certo senza cercare quella particolare collocazione rispetto al cielo.
In una simile corrispondenza con l’invisibile
si manifesta insomma un enigma artistico,
quanto meno nell’universo creativo di Mario
Botta. Al punto da fargli confessare — vera
provocazione nel contesto mondano delle
odierne archistar — che «l’architettura in generale porta sempre con sé un’idea del sacro».
Non necessariamente in senso religioso o liturgico, ma in quanto atto primordiale che consiste nel posare una pietra sulla terra: gesto che
cambia una condizione di natura in una di
spirito, «in un valore, in un bisogno di bellezza, di durata, di infinito».
È solo all’interno di questa cornice esistenziale che assume un significato il vocabolario
artistico di Botta: anzitutto la ricerca della luce, che attraverso l’apertura nel soffitto della
chiesa di Mogno allude all’infinito del cosmo;
poi la forza della gravità, che scaricando i pesi
al suolo lega l’opera alla madre terra; e ancora
il vuoto generatore di emozioni, attese, interpretazioni; poi lo stesso contesto ambientale
che diventa componente strutturale dell’opera;
ancora, l’immagine della soglia da varcare, con
il suo il forte coinvolgimento emotivo; in
generale, il gioco delle proporzioni e l’andamento ritmico degli elementi costruttivi. E
poiché le corrispondenze non hanno mai fine,
ecco presentarsi all’appello della sua ispirazione il matematico e teologo ortodosso Pavel
Florenskij, con la sua definizione di rito religioso «sintesi delle arti», in quanto coinvolge
nelle sue procedure e nei suoi canoni l’architettura, la pittura, il teatro, la letteratura, il
canto. Al punto da spingere Botta a conclude-
Interno della chiesa
realizzata da Mario Botta
a Magno nel Canton Ticino
(foto Enrico Cano)
Corrispondenze
invisibili
re che «il rito sta alla liturgia come il ritmo
all’architettura».
Lontano per formazione e disposizione naturale dal misticismo artistico, Mario Botta
traduce queste intuizioni spirituali in opere
concrete, a volte imponenti e massicce, sempre
funzionali sia alla committenza che alla natura
del luogo in cui vengono edificate. Ma, di
fronte alle corrispondenze invisibili, anche lui
qualche volta deve inchinarsi al mistero.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#cultura
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nate quindi l’incubo di Selena quando i medici diagnosticarono all’istante l’incurabile iperacusia: non solo sentiva tutto con una
precisione stereofonica, ma percepiva anche
con un’incisiva acutezza i più impercettibili
dettagli dell’ambiente sonoro circostante.
In un primo momento, fu necessario prepararle un’incubatrice con le pareti imbottite, affinché potesse dormire il sonno silenzioso di
cui aveva bisogno tanto quanto del latte. Fortunatamente, la madre di Selena — come credere che sia una pura coincidenza? — era una
poetessa, se qualcuno oggi ancora conosce il
significato di questa parola: aveva lasciato che
la vita sigillasse le sue labbra sulla fonte che,
limpida, faceva udire la propria voce nella sua
intimità più profonda. La mamma instillò
quindi nella sua piccola il latte vergine del sogno. A occhi chiusi, teneva Selena sul suo seno, immobile, e tutte e due, tremanti, lasciavano i loro respiri mescolarsi sulle loro labbra,
carezza infinita del fior di carne.
Nel frattempo i medici dubitavano sempre
più della capacità di Selena di sopravvivere senza danni nel mondo attuale, dove
negli ultimi cinquant’anni il livello fonico è aumentato in modo siderale e
le ultime banchise di silenzio si
stanno ormai fondendo ben al di
là della soglia critica. Di fronte
all’endemia di sordità galoppante da cui nessun paese
è più indenne, molte
persone si curano
mettendosi
nelle
orecchie dei tappi, bianchi o
neri, collegati
T
di VÉRONIQUE DUFIEF
utti gli uomini vanno fieri del fatto che uno di
loro abbia camminato sulla luna. La conquista
dello spazio — pur essendo uno dei sogni
umani più antichi — nutre più il loro amore di
gloria che il loro desiderio d’infinito. Quasi
nessuno si chiede che aspetto abbia la faccia
nascosta dell’astro lunare, e neanche il telescopio più potente può renderla visibile a un osservatore che guarda le galassie dalla terra.
Quasi tutti nutrono una certa curiosità per ciò
che nessuno può vedere. Ma, quando l’ignoto
assume una forma modesta o familiare, perde
così tanto il suo prestigio da diventare semplicemente parte della scena. Il rovescio della luna è un grande mistero perché chiunque può
vederne il dritto? Per avere il desiderio di passare dall’altra parte dello specchio — perché la
luna è uno specchio, vero? — occorre una
mente sognatrice, silenziosa.
Alla sua nascita Selena non lanciò il grido
che normalmente permette ai neonati di riempire d’aria i loro polmoni. Emise solo un sospiro che, nella luce azzurrina della sala parto,
segnò il passaggio di un respiro lontano, come
quello che si ode, venuto da altrove, sulla neve
delle montagne eterne.
Apparve subito evidente che reagiva con
una sensibilità fuori dal comune a tutti i rumori che giungevano ai suoi timpani. Immagi-
Storia
di una donna
da un filo che a sua volta si collega a una piccola scatola che emette dei suoni che chiamano “musica”. È un rimedio paradossale contro
l’inquinamento sonoro perché si cura il rumore
Dall’altra parte
della luna
con il rumore!... Ma la gente si sente meno infelice quando crede di poter scegliere il frastuono con cui saturare le proprie orecchie.
Malgrado l’alta tecnicità della loro arte, i
medici si dichiararono nuovamente impotenti
dinanzi al caso inedito costituito dal male di
Selena, ma la giovane madre decise con convinzione di passare oltre la rinuncia degli
esperti. Aveva già un’idea del luogo che avreb-
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#cultura
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be potuto offrire a Selena per sostituire l’incubatrice insonorizzata, dove d’altronde sua figlia non avrebbe potuto soggiornare in eterno.
Fu così che Selena si esercitò fin dalla più tenera età a passare dall’altra parte dello specchio lunare, e non appena raggiunse l’età per
navigare sola, la giovane astronauta ebbe tutto
lo spazio per andare e venire tra la loro minuscola casa terrena e la faccia nascosta della luna perché era lì che Selena ormai stava per
ascoltare il rumore del mondo.
D all’altra parte della luna, la violenta cacofonia degli uomini non poteva minimamente
scalfirla. Decantata, passata al setaccio del
Lontano, per l’udito palpitante della bambina
sussisteva solo il rumore sperduto, salmodiato
quasi all’unisono dal coro scordato della moltitudine. Selena tendeva l’orecchio. Percepiva
l’indicibile smarrimento di quei miliardi di esseri minuscoli che si agitavano in ogni direzione come elettroni e che producevano continuamente rumore sotto la sconcertante minaccia
della loro vacuità interiore.
Che ne fanno del baratro di cui sentono in
loro l’indistinta presenza? Lo spiano a rispettosa distanza come una segreta, come se bastasse un minimo passo falso per far aprire
l’abisso in cui Hugo fa precipitare Satana per
oltre quattromila anni. Allora si muovono in
ogni direzione come se l’incessante movimento
fosse capace di far dimenticare loro che hanno
paura, che hanno sete, che sono pieni di desiderio, come se fosse definitivamente fuori dalla loro portata la realtà che solo l’infinito può
colmare in loro quel buco di apocalisse. La fine del mondo non è una catastrofe che mostrerebbe le sue fauci di iena all’orizzonte dei
tempi. È il pericolo, dentro di noi, oggi, di vivere o di morire.
Dunque Selena apprese, pian piano, ad
ascoltare. Partoriva la vita ascoltandola. L’embrione di tutte le vite passate, presenti e future, che, prima di venire alla luce, attende che
nessuno di noi manchi all’appuntamento, si
era annidato proprio nella cavità del suo orecchio, alla rovescia, come un punto interrogativo di cui nessuno avrebbe potuto decifrare
l’enigma. Come la gigantessa immaginata da
Rabelais, Selena era di quelle donne che partoriscono dall’orecchio. Si nutriva con gratitudine della romanza senza parole che il suo essere, lasciato al terreno incolto dell’istinto, le
sussurrava trattenendole il respiro. Raggomitolata nell’opalescente alone lunare, era lontana
mille miglia da tutto ciò che ciarla, borbotta,
blatera frasi a vuoto. Le bastava prestare atten-
zione al canto del sangue nelle sue arterie per
entrare in sintonia con il cosmo intero. Non
aveva nulla di meglio da fare che prestare
orecchio a quanti non ne hanno o stonano
tragicamente nel concerto discordante del
mondo.
Fatto strano, non è il mugghio delle guerre,
degli omicidi e neppure del terrore di cui gli
uomini hanno il segreto a ferire maggiormente
l’orecchio di Selena. Non è neppure il baccano
di macchine, aerei, treni, automobili, fabbriche, dispositivi di sorta, con i quali i facoltosi
del mondo manifestano la loro rumorosa onnipotenza, come se la loro egemonia si misurasse in decibel imposti al resto del pianeta né
più né meno di uno stupro sonoro.
No, a fare soffrire Selena fino al midollo è
l’ultrasuono dei pensieri umani, quelle impalcature fantasmatiche perpetuamente ricostruite, ogni giorno, come una torre di fiammiferi
sul collo di una bottiglia, per tutti quelli che
credono che la vita sia un bolide da pilotare, il
più performante possibile, per arrivare per primi nel luogo che si chiama Nessuna-parte, Utopia, come dicevano i greci.
Avete mai incontrato un essere umano silenzioso? Sta lì, tranquillo. Tace, non per timidezza o incapacità di parlare in modo appropriato. No, tace perché è l’unico modo di
ascoltare e di capire con fedeltà ciò che sta per
accadere, senza tradire la goffaggine del volto
che si fa avanti, completamente offuscato nella
confusione oscura dei suoi desideri. L’uomo
silenzioso sta lì, è tutto orecchie, non è che un
sì. Non fa altro che accogliere dentro di sé la
vibrazione di un cuore contro il suo: il vostro.
Tutto il suo essere soggiace all’attrazione del
vostro essere e lascia che il pudore faccia il
proprio lavoro: quello di non contribuire al rumore del mondo, anche se tutti emettono il loro assordante cicaleccio.
Un digiuno di parole non si vede, non si
sente. Eppure a volte gli esseri affaccendati,
quali noi siamo, percepiscono confusamente
una fenditura nell’eccesso, nella sovrabbondanza che è la grande povertà dell’universo in
cui crediamo di vivere. Questo altro mondo
intravisto furtivamente attraverso la rete incredibilmente densa che copre ormai il nostro
pianeta con la sua fibra sempre più tentacolare, risveglia in noi la bruma di una reminiscenza. Quel non so che, intangibile, ci riconduce
per un istante a noi stessi. Basta fare questa
esperienza fugace di tanto in tanto, pur se con
una coscienza nebulosa, per non morire ancora, non subito.
I silenziosi della terra sono una legione.
Non fanno rumore, ed è così che vincono la
guerra, tutti gli scontri nella retroguardia, tutte
le crociate perdute prima. La moltitudine di
coloro ai quali è stata confiscata la parola è la
grande Amazzonia di questo mutismo invisibile che è il solo a poter irrigare le anime con la
linfa di cui in effetti hanno estremamente bisogno per non deperire. Astuto chi riesce a individuare i silenziosi senza essere della loro razza, quelli che vivono soltanto nella profondità
dell’essere a mille miglia dalle apparenze. Impercettibile, solo il loro anonimato è capace di
fare tacere l’immondizia assordante che sommerge le anime, i cuori, fino a quel profondo
dell’essere in cui avremmo tanto bisogno
d’incontrarci gli uni gli altri, senza dire una
parola.
Nessuno vede la faccia nascosta né della luna né della terra. Basta che una voce, una sola, accolga l’inaudibile perché sia misteriosamente salvaguardata l’unica sopravvivenza che
conta: quella del respiro che, sulla vetta delle
montagne, terrestri o lunari, sussurra semplicemente che va dove vuole, senza che nessuno
sappia niente di lui, neanche il suo nome.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
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#dialoghi
11
di ZOUHIR
LOUASSINI
A
lla fine è tutta una questione di narrazioni e di
visibilità. In tempi dove la menzogna si fa
chiamare post-verità, riportare vicende di quotidiana normalità è meno attraente di racconti
imbottiti di disastri e lacrime. Quella che vi
voglio raccontare qui è una di quelle storie che
non interessano i media occidentali, un episodio che probabilmente non fa audience: la storia dello sceicco Nazih Metwalli, l’imam della
moschea Nour al-islam di Shobra, in Egitto, e
il suo gesto “clamoroso” di difendere il suo
amore per gli amici copti.
Metwali racconta al portale internet
elwatannews.com che, mentre era al funerale
del suo amico copto Munir Kamel, gli si è avvicinato un familiare di Kamel domandandogli
di leggere versetti del Corano in memoria del
defunto. «All’inizio — dice l’imam — sono rimasto stupito. Questa cosa non è mai successa
Buone notizie
prima a Shobra. Dopo ho accettato perché ero
convinto che fosse il miglior modo per rispondere a chi cerca di diffondere odio tra le due
comunità in Egitto».
Così Metwalli, per dieci minuti (il video si
può vedere su YouTube), ha letto versetti della
Sura di Maryam. Lo sceicco ha intuito che se
c’è un personaggio che unisce veramente musulmani e i cristiani, è proprio quello di Maria.
Certo, la versione musulmana è molto diversa
da quella cristiana e a volte può sembrare anche confusa; però quello che è constatabile
con chiarezza, leggendo il testo coranico, è
che Maria rimane un personaggio venerato e
stimato per tutti i musulmani. E questo è un
fatto, non un’interpretazione.
Maryam è il nome tradizionalmente dato al
19° capitolo (sura) del Corano. Esso dispone
di 98 versi ed è stato proclamato durante il
periodo meccano, ovvero durante la fase iniziale della storia di Maometto, prima che lasciasse la Mecca. Le sure del meccano trattano
generalmente il rispetto nei confronti di Dio,
la fede, la spiritualità e le credenze islamiche.
Da sottolineare che Maryam-Maria è l’unico
nome femminile citato dal Corano e, in una
società tribale come quella araba del settimo
secolo, nella quale è il padre il riferimento per
i figli, il Corano parla di Gesù trattandolo come «figlio di Maria».
In un altro capitolo del Corano leggiamo:
«E quando gli angeli dissero a Maria: “O Maria! In verità Dio ti ha prescelta e ti ha purificata e ti ha eletta su tutte le donne del creato”» (III, 42)
Ovvio che tra i cristiani chi si aspetta una
lettura identica a quella definita dal concilio di
Efeso, per esempio, ne rimarrà deluso. Vedere
però nella Madonna un’icona del dialogo tra
le due religioni può servire per aprirsi gli uni
agli altri. La scelta dell’imam Nazih Metwalli
ha indicato, in un modo spontaneo, che è possibile individuare elementi che uniscono invece
di passare il tempo a cercare solo quello che
divide.
Un’ultima osservazione. Ha richiamato la
mia attenzione la quantità di volte in cui
l’imam ha ripetuto che nessuno ha disapprovato il suo gesto, né i musulmani né i cristiani
presenti al funerale. Era meravigliato per la risposta positiva della gente, come se seminare
amore e fratellanza sia diventato una rarità che
stupisce. Le grida dell’odio dominante nel
mondo attuale “spaventano” chi cerca di continuare a difendere ponti che uniscono gli esseri
umani. Strano! No?
L’imam egiziano
Nazih Metwalli
Il video
su youtube
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#copertina
12/13
S
torica visita di Francesco alla chiesa anglicana
di All Saints, a Roma, dove il Pontefice si è
recato domenica pomeriggio, 26 febbraio, partecipando alla liturgia ecumenica e rispondendo poi alle domande di tre fedeli anglicani. Di
seguito pubblichiamo il testo del colloquio.
to io. Se io conoscessi il contesto nel quale è
stata detta quella espressione, forse direi altrimenti, ma è questo che mi viene da dire.
La chiesa All Saints iniziò con un gruppo di
fedeli britannici, ma è ormai una congregazione
internazionale con gente proveniente da diversi
paesi. In alcune regioni dell’Africa, dell’Asia o del
Pacifico, i rapporti ecumenici tra le Chiese sono
migliori e più creativi che qui in Europa. Cosa
possiamo imparare dall’esempio delle Chiese del
sud del mondo?
Durante le nostre liturgie, molte persone entrano nella nostra chiesa e si meravigliano perché
«sembra proprio una chiesa cattolica!». Molti
cattolici hanno sentito parlare del re Enrico VIII,
ma sono ignari delle tradizioni anglicane e del
progresso ecumenico di questo mezzo secolo. Cosa
vorrebbe dire loro circa il rapporto tra cattolici e
anglicani oggi?
Il Papa ribadisce
che il dialogo
teologico
non si fa
in laboratorio
ma camminando
insieme
E aiutandosi
gli uni con gli
altri nel servizio
della carità
È vero, il rapporto tra cattolici e anglicani
oggi è buono, ci vogliamo bene come fratelli!
È vero che nella storia ci sono cose brutte
dappertutto, e “strappare un pezzo” dalla storia e portarlo come se fosse un’“icona” dei
[nostri] rapporti non è giusto. Un fatto storico
deve essere letto nell’ermeneutica di quel momento, non con un’altra ermeneutica. E i rapporti di oggi sono buoni, ho detto. E sono andati oltre, dalla visita del primate Michael
Ramsey, e ancora di più... Ma anche nei santi,
noi abbiamo una comune tradizione dei santi
che il vostro parroco ha voluto sottolineare. E
mai, mai le due Chiese, le due tradizioni hanno rinnegato i santi, i cristiani che hanno vissuto la testimonianza cristiana fino a quel
punto. E questo è importante. Ma ci sono stati anche rapporti di fratellanza in tempi brutti,
in tempi difficili, dov’erano tanto mischiati il
potere politico, economico, religioso, dove
c’era quella regola “cuius regio eius religio” ma
anche in quei tempi c’erano alcuni rapporti...
Io ho conosciuto in Argentina un vecchio
gesuita, anziano, io ero giovane lui era anziano, padre Guillermo Furlong Cardiff, nato
nella città di Rosario, di famiglia inglese; e lui
da ragazzino è stato chierichetto — lui è cattolico, di famiglia inglese cattolica — lui è stato
chierichetto a Rosario nei funerali della regina
Vittoria, nella chiesa anglicana. Anche a quei
tempi c’era questo rapporto. E i rapporti fra
cattolici e anglicani sono rapporti — non so se
storicamente si può dire così, ma è una figura
che ci aiuterà a pensare — due passi avanti,
mezzo passo indietro, due passi avanti, mezzo
passo indietro... È così. Sono umani. E dobbiamo continuare in questo.
C’è un’altra cosa che ha mantenuto forte il
collegamento tra le nostre tradizioni religiose:
ci sono i monaci, i monasteri. E i monaci, sia
cattolici sia anglicani, sono una grande forza
spirituale delle nostre tradizioni.
E i rapporti, come vorrei dirvi, sono migliorati ancora di più, e a me piace, questo è buono. “Ma non facciamo tutte le cose uguali...”.
Ma camminiamo insieme, andiamo insieme.
Per il momento va bene così. Ogni giorno ha
la propria preoccupazione. Non so, questo mi
viene da dirti. Grazie.
Il suo predecessore, Papa Benedetto XVI, ha
messo in guardia circa il rischio, nel dialogo ecumenico, di dare la priorità alla collaborazione
Ecumenismo della pace
per il Sud Sudan
Rooma Mehra, «Preghiera per la pace»
dell’azione sociale anziché seguire il cammino più
esigente dell’accordo teologico. A quanto pare, lei
sembra preferire il contrario, cioè «camminare e
lavorare» insieme per raggiungere la meta
dell’unità dei cristiani. Vero?
Io non conosco il contesto nel quale il Papa
Benedetto ha detto questo, non conosco e per
questo è un po’ difficile per me, mi mette in
imbarazzo per rispondere... Ha voluto dire
questo o no... Forse può essere stato in un colloquio con i teologi... Ma non sono sicuro.
Ambedue le cose sono importanti. Questo certamente. Quale delle due ha la priorità?... E
dall’altra parte c’è la famosa battuta del patriarca Atenagora — che è vera, perché io ho
fatto la domanda al patriarca Bartolomeo e mi
ha detto: “Questo è vero” —, quando ha detto
al beato Papa Paolo VI: “Noi facciamo l’unità
fra noi, e tutti i teologi li mettiamo in un’isola
perché pensino!”. Era uno scherzo, ma ero,
storicamente vero, perché io dubitavo ma il
patriarca Bartolomeo mi ha detto che è vero.
Ma qual è il nocciolo di questo, perché credo
che quello che ha detto Papa Benedetto è vero: si deve cercare il dialogo teologico per cercare anche le radici..., sui Sacramenti..., su
tante cose su cui ancora non siamo d’accordo... Ma questo non si può fare in laboratorio:
si deve fare camminando, lungo la via. Noi
siamo in cammino e in cammino facciamo anche queste discussioni. I teologi le fanno. Ma
nel frattempo noi ci aiutiamo, noi, l’uno con
l’altro, nelle nostre necessità, nella nostra vita,
anche spiritualmente ci aiutiamo. Per esempio
nel gemellaggio c’era il fatto di studiare insieme la Scrittura, e ci aiutiamo nel servizio della
carità, nel servizio dei poveri, negli ospedali,
nelle guerre... È tanto importante, è tanto importante questo. Non si può fare il dialogo
ecumenico fermi. No. Il dialogo ecumenico si
fa in cammino, perché il dialogo ecumenico è
un cammino, e le cose teologiche si discutono
in cammino. Credo che con questo non tradisco la mente di Papa Benedetto, neppure la
realtà del dialogo ecumenico. Così la interpre-
Grazie. È vero. Le Chiese giovani hanno
una vitalità diversa, perché sono giovani. E
cercano un modo di esprimersi diversamente.
Per esempio, una liturgia qui a Roma, o pensi
a Londra o a Parigi, non è la stessa che una liturgia nel tuo paese, dove la cerimonia liturgica, cattolica pure, si esprime con una gioia,
con la danza e tante forme diverse proprie di
quelle Chiese giovani. Le Chiese giovani hanno più creatività; e all’inizio anche qui in Europa era lo stesso: si cercava... Quando tu leggi, per esempio, nella Didaché, come si faceva
l’Eucaristia, l’incontro fra i cristiani, c’era una
grande creatività. Poi crescendo, crescendo la
Chiesa si è consolidata bene, è cresciuta a
un’età adulta. Ma le chiese giovani hanno più
vitalità e anche hanno il bisogno di collaborare, un bisogno forte. Per esempio io sto studiando, i miei collaboratori stanno studiando
la possibilità di un viaggio in Sud Sudan. Perché? Perché sono venuti i Vescovi, l’anglicano,
il presbiteriano e il cattolico, tre insieme a dirmi: “Per favore, venga in Sud Sudan, soltanto
una giornata, ma non venga solo, venga con
Justin Welby”, cioè con l’arcivescovo di Canterbury. Da loro, Chiesa giovane, è venuta
questa creatività. E stiamo pensando se si può
fare, se la situazione è troppo brutta laggiù...
Ma dobbiamo fare perché loro, i tre, insieme
vogliono la pace, e loro lavorano insieme per
la pace... C’è un aneddoto molto interessante.
Quando il Beato Paolo VI ha fatto la beatificazione dei martiri dell’Uganda — Chiesa giovane —, fra i martiri — erano catechisti, tutti, giovani — alcuni erano cattolici e altri anglicani, e
tutti sono stati martirizzati dallo stesso re, in
odio alla fede e perché loro non hanno voluto
seguire le proposte sporche del re. E Paolo VI
si è trovato in imbarazzo perché diceva: “Io
devo beatificare gli uni e gli altri, sono martiri
gli uni e gli altri”. Ma, in quel momento della
Chiesa Cattolica, non era tanto possibile fare
quella cosa. C’era appena stato il Concilio...
Ma quella Chiesa giovane oggi celebra gli uni
e gli altri insieme; anche Paolo VI nell’omelia,
nel discorso, nella Messa di beatificazione ha
voluto nominare i catechisti anglicani martiri
della fede allo stesso livello dei catechisti cattolici. Questo lo fa una Chiesa giovane. Le
Chiese giovani hanno coraggio, perché sono
giovani; come tutti i giovani hanno più coraggio di noi... non tanto giovani!
E poi, la mia esperienza. Io ero molto amico degli anglicani a Buenos Aires, perché la
parte di dietro della parrocchia della Merced
era comunicante con la cattedrale anglicana.
Ero molto amico del Vescovo Gregory Vena-
Non rassegnarsi
alle divisioni
Un invito a ringraziare
il Signore «perché tra
i cristiani è cresciuto
il desiderio di una maggiore
vicinanza, che si manifesta
nel pregare insieme e
nella comune testimonianza
al Vangelo, soprattutto
attraverso varie forme
di servizio», è stato rivolto
dal Pontefice ai fedeli che
hanno partecipato
alla liturgia ecumenica.
Mentre in passato cattolici e
anglicani «si guardavano
con sospetto e ostilità»,
adesso — ha detto Francesco
— «ci riconosciamo come
veramente siamo: fratelli e
sorelle in Cristo, mediante
il nostro comune
battesimo». Certo,
ha ammesso, «il progresso
nel cammino verso la piena
comunione può apparire
lento e incerto». Ma come
san Paolo — che «non
si rassegna alle divisioni»
nella comunità di Corinto —
così i cristiani sono chiamati
oggi a «percorrere quaggiù
tutte le possibili vie
di un cammino fraterno e
comune», praticando
l’umiltà e riconoscendosi
«mendicanti
di misericordia»
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#copertina
14
bles, molto amico. Ma c’è un’altra esperienza:
nel nord dell’Argentina ci sono le missioni anglicane con gli aborigeni e le missioni cattoliche con gli aborigeni, e il Vescovo anglicano e
il Vescovo cattolico di là lavorano insieme, e
insegnano. E quando la gente non può andare
la domenica alla celebrazione cattolica va a
quella anglicana, e gli anglicani vanno alla cattolica, perché non vogliono passare la domenica senza una celebrazione; e lavorano insieme.
E qui la Congregazione per la Dottrina della
Fede lo sa. E fanno la carità insieme. E i due i
Vescovi sono amici e le due comunità sono
amiche.
Credo che questa sia una ricchezza che le
nostre Chiese giovani possono portare all’Europa e alle Chiese che hanno una grande tradizione. E loro dare a noi la solidità di una
tradizione molto, molto curata e molto pensata. È più facile, è vero, l’ecumenismo nelle
Chiese giovani. È vero. Ma credo che — e ritorno alla seconda domanda — è forse più soli-
do nella ricerca teologica l’ecumenismo in una
Chiesa più matura, più invecchiata nella ricerca, nello studio della storia, della teologia, della liturgia, come è la Chiesa in Europa. E credo che a noi farebbe bene, ad ambedue le
Chiese: da qui, dall’Europa inviare alcuni seminaristi a fare esperienze pastorali nelle Chiese giovani, si impara tanto. Loro vengono, dalle chiese giovani, a studiare a Roma, almeno i
cattolici, lo sappiamo. Ma inviare loro a vedere, a imparare dalle Chiese giovani sarebbe
una grande ricchezza nel senso che Lei ha detto. È più facile l’ecumenismo lì, è più facile,
cosa che non vuol dire più superficiale, no,
non è superficiale. Loro non negoziano la fede
e l’identità. Quell’aborigeno ti dice nel nord
Argentina: “Io sono anglicano”. Ma non c’è il
vescovo, non c’è il pastore, non c’è il reverendo... “Io voglio lodare Dio la domenica e vado alla cattedrale cattolica”, e viceversa. Sono
ricchezze delle Chiese giovani. Non so, questo
mi viene da dirti.
Festa in famiglia
Si respira aria di Inghilterra quando si entra
nella chiesa anglicana di All Saints a Roma.
Bandiere dell’Union Jack, iscrizioni e targhe
commemorative in inglese, come quella che ricorda
la visita dell’arcivescovo Geoffrey Fisher a Giovanni
XXIII il 2 dicembre 1960 in Vaticano: il primo
incontro di un Papa con un primate anglicano
dai tempi della riforma. Una data storica, così come
storica resterà anche un’altra giornata che ha avuto
per protagonista un Pontefice: quella della visita
di Papa Francesco alla comunità parrocchiale,
svoltasi domenica pomeriggio 26 febbraio.
Un incontro che ha assunto i toni di una festa
in famiglia. Tanto più che è servito a commemorare
un momento importante per la comunità: il secondo
centenario della prima celebrazione liturgica per gli
anglicani a Roma, avvenuta nel 1816. Un
anniversario festeggiato con il Pontefice, che per la
prima volta ha incontrato i fedeli della parrocchia di
All Saints. Al suo arrivo il Pontefice ha benedetto
un’icona di Cristo Salvatore, collocata in fondo alla
navata destra. L’immagine, prodotta sul modello di
quella conservata nella basilica di San Giovanni in
Laterano, si caratterizza per i grandi occhi aperti
come espressione di misericordia. Ricorda il
giubileo appena trascorso e vuole essere un invito
alla fiducia in Cristo. Nelle intenzioni dell’artista,
Ian Knowles, direttore del Bethlehem Icon Centre,
il volto del Salvatore misericordioso è stato
riprodotto e interpretato secondo le antiche
tradizioni bizantine di arte liturgica, guardando
stilisticamente anche alla tradizione inglese. In
particolare, l’iconografia di Cristo è ispirata a una
miniatura di Matthew Paris, monaco benedettino
inglese del XIII secolo. Dopo la benedizione, il Papa
si è diretto verso il fonte dove sono state rinnovate
le promesse battesimali, alternativamente lette in
italiano dal Pontefice e in inglese dal vescovo
anglicano di Gibilterra in Europa, Robert Innes.
Poi i due si sono incamminati verso l’altare,
aspergendo i fedeli con l’acqua benedetta. Alla
lettura della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi,
è seguita l’omelia del Pontefice. Il canto Ave verum
corpus ha introdotto le intenzioni di preghiera dei
fedeli. È seguito lo scambio di pace tra Francesco e
i pastori anglicani, e quindi tra tutti i fedeli. Dopo
il Padre nostro, il Papa e due vescovi anglicani
hanno impartito la benedizione. Si è svolta, quindi,
la cerimonia del gemellaggio ufficiale tra la
parrocchia di All Saints e quella cattolica di
Ognissanti sulla via Appia nuova. Il Pontefice ha
poi risposto a tre domande che gli sono state
presentate da Margherita Argan, studentessa
all’università La Sapienza di Roma, dall’australiana
Jane Tucker, docente di inglese alla stessa
università, e dal diacono Ernest Okeke. (nicola gori)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#francesco
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Grido d’allarme
del Pontefice
sull’emergenza
idrica nel mondo
O
Per una ecologia
integrale
Bisogna «evitare che
la fornitura di acqua e
di igiene cada
nella discrezionalità
di gruppi di potere» e
lavorare perché «costituisca
un obbligo giuridicamente
vincolante». È uno
dei passaggi chiave
della dichiarazione finale
stilata al termine
del seminario sul diritto
umano all’acqua,
organizzato dal 23 al 24
febbraio in Vaticano dalla
Pontificia Accademia delle
scienze e conclusosi con
l’intervento del Papa. Nella
dichiarazione anche
l’appello a una «ecologia
integrale» che affronti il
problema nelle dimensioni:
«ambientale, economica,
sociale e culturale».
gni persona ha diritto all’accesso all’acqua potabile e sicura; è un diritto umano essenziale e
una delle questioni cruciali nel mondo attuale
(cfr. Enciclica Laudato si’, n. 30; Enciclica Caritas in veritate, n. 27). È doloroso quando nella legislazione di un paese o di un gruppo di
paesi non si considera l’acqua come un diritto
umano. E ancora più doloroso quando si revoca ciò che stava scritto e si nega questo diritto
umano.
È un problema che riguarda tutti e fa sì che
la nostra casa comune sopporti tanta miseria e
reclami soluzioni effettive, davvero capaci di
superare gli egoismi che impediscono l’attuazione di questo diritto vitale per tutti gli esseri
umani. È necessario attribuire all’acqua la centralità che merita nell’ambito delle politiche
pubbliche.
Il nostro diritto all’acqua è anche un dovere
con l’acqua. Dal diritto che abbiamo ad essa
deriva un obbligo che gli è collegato e non si
può separare. È imprescindibile annunciare
questo diritto umano essenziale e difenderlo —
come si sta facendo —, ma anche agire in modo concreto, assicurando un impegno politico
e giuridico con l’acqua. In tal senso, ogni Stato è chiamato a concretizzare, anche con strumenti giuridici, quanto indicato dalle Risoluzioni approvate dall’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite nel 2010 sul diritto umano
all’acqua potabile e all’igiene. D’altro canto,
ogni attore non statale deve assumersi le proprie responsabilità verso questo diritto.
Il diritto all’acqua è determinante per la sopravvivenza delle persone (cfr. Ibidem, n. 30) e
decide il futuro dell’umanità. È prioritario anche educare le prossime generazioni circa la
gravità di questa realtà. La formazione della
coscienza è un compito difficile; richiede convinzione e dedizione. Mi domando se, in mezzo a questa “terza guerra mondiale a pezzetti”
che stiamo vivendo, non stiamo andando verso
la grande guerra mondiale per l’acqua.
Le cifre che le Nazioni Unite rivelano sono
sconvolgenti e non ci possono lasciare indifferenti: mille bambini muoiono ogni giorno a
causa di malattie collegate all’acqua; milioni di
persone consumano acqua inquinata. Si tratta
di dati molto gravi; si deve frenare e invertire
questa situazione. Non è tardi, ma è urgente
prendere coscienza del bisogno di acqua e del
suo valore essenziale per il bene dell’umanità.
Il rispetto dell’acqua è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani (cfr. Ibidem, n. 30).
Se rispetteremo questo diritto come fondamentale, staremo ponendo le basi per proteggere gli altri diritti. Ma se violeremo questo
diritto essenziale, come potremo vegliare sugli
altri e lottare per loro!
In questo impegno di dare all’acqua il posto
che le corrisponde è necessaria una cultura della cura (cfr. Ibidem, n. 231) — sembra una cosa
poetica e, chiaro, la creazione è una “poiesis”,
questa cultura della cura che è creativa — e
inoltre promuovere una cultura dell’incontro, in
cui si uniscano in una causa comune tutte le
forze necessarie di scienziati e imprenditori,
Rifornimenti
a Mogadiscio (Ap)
Guerra mondiale
per l’acqua
governanti e politici. Occorre unire tutte le
nostre voci in una stessa causa; non saranno
più voci individuali o isolate, ma il grido del
fratello che reclama per mezzo di noi, è il grido della terra che chiede il rispetto e la condivisione responsabile di un bene, che è di tutti.
In questa cultura dell’incontro, è imprescindibile l’azione di ogni Stato come garante
dell’accesso universale all’acqua sicura e di
qualità.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#francesco
16
Marc Chagall
«Il matrimonio» (1944)
S
ono lieto di incontrarvi al termine del corso di
formazione per i parroci, promosso dalla Rota
Romana, sul nuovo processo matrimoniale. È
una cosa buona che voi parroci, attraverso
queste iniziative di studio, possiate approfondire tale materia. Nella maggior parte dei casi
voi siete i primi interlocutori dei giovani che
desiderano formare una nuova famiglia e sposarsi nel Sacramento del matrimonio. E ancora
a voi si rivolgono per lo più quei coniugi che,
a causa di seri problemi nella loro relazione, si
trovano in crisi, hanno bisogno di ravvivare la
fede e riscoprire la grazia del Sacramento; e in
certi casi chiedono indicazioni per iniziare un
processo di nullità. Nessuno meglio di voi conosce ed è a contatto con la realtà del tessuto
sociale nel territorio, sperimentandone la complessità variegata: unioni celebrate in Cristo,
unioni di fatto, unioni civili, unioni fallite, famiglie e giovani felici e infelici. Di ogni persona e di ogni situazione voi siete chiamati ad
Per prepararsi
al matrimonio
essere compagni di viaggio per testimoniare e
sostenere.
Anzitutto sia vostra premura testimoniare la
grazia del Sacramento del matrimonio e il bene primordiale della famiglia, cellula vitale
della Chiesa e della società, mediante la proclamazione che il matrimonio tra un uomo e
una donna è segno dell’unione sponsale tra
Cristo e la Chiesa. Tale testimonianza la realizzate concretamente quando preparate i fi-
danzati al matrimonio, rendendoli consapevoli
del significato profondo del passo che stanno
per compiere, e quando accompagnate con
sollecitudine le giovani coppie, aiutandole a
vivere nelle luci e nelle ombre, nei momenti di
gioia e in quelli di fatica, la forza divina e la
bellezza del loro matrimonio. Ma io mi domando quanti di questi giovani che vengono
ai corsi prematrimoniali capiscano cosa significa “matrimonio”, il segno dell’unione di Cristo
e della Chiesa. “Sì, sì” — dicono di sì, ma capiscono questo? Hanno fede in questo? Sono
convinto che ci voglia un vero catecumenato
per il Sacramento del matrimonio, e non fare
la preparazione con due o tre riunioni e poi
andare avanti.
Non mancate di ricordare sempre agli sposi
cristiani che nel Sacramento del matrimonio
Dio, per così dire, si rispecchia in essi, imprimendo la sua immagine e il carattere incancellabile del suo amore. Il matrimonio, infatti, è
icona di Dio, creata per noi da Lui, che è comunione perfetta delle tre Persone del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo. L’amore di
Dio Uno e Trino e l’amore tra Cristo e la
Chiesa sua sposa siano il centro della catechesi
e della evangelizzazione matrimoniale: attraverso incontri personali o comunitari, programmati o spontanei, non stancatevi di mostrare a tutti, specialmente agli sposi, questo
“mistero grande” (cfr. Ef 5, 32).
Mentre offrite questa testimonianza, sia vostra cura anche sostenere quanti si sono resi
conto del fatto che la loro unione non è un
vero matrimonio sacramentale e vogliono uscire da questa situazione. In questa delicata e
necessaria opera fate in modo che i vostri fedeli vi riconoscano non tanto come esperti di
atti burocratici o di norme giuridiche, ma come fratelli che si pongono in un atteggiamento di ascolto e di comprensione.
Al tempo stesso, fatevi prossimi, con lo stile
proprio del Vangelo, nell’incontro e nell’accoglienza di quei giovani che preferiscono convivere senza sposarsi. Essi, sul piano spirituale e
morale, sono tra i poveri e i piccoli, verso i
quali la Chiesa, sulle orme del suo Maestro e
Signore, vuole essere madre che non abbandona ma che si avvicina e si prende cura. Anche
queste persone sono amate dal cuore di Cristo.
Abbiate verso di loro uno sguardo di tenerezza
e di compassione. Questa cura degli ultimi,
proprio perché emana dal Vangelo, è parte essenziale della vostra opera di promozione e difesa del Sacramento del matrimonio.
Parlando recentemente alla Rota Romana
ho raccomandato di attuare un vero catecumenato dei futuri nubendi, che includa tutte le
tappe del cammino sacramentale: i tempi della
preparazione al matrimonio, della sua celebrazione e degli anni immediatamente successivi.
A voi parroci, indispensabili collaboratori dei
Vescovi, è principalmente affidato tale catecumenato. Vi incoraggio ad attuarlo nonostante
le difficoltà che potrete incontrare. E credo
che la difficoltà più grande sia pensare o vivere il matrimonio come un fatto sociale — “noi
dobbiamo fare questo fatto sociale” — e non
come un vero sacramento, che richiede una
preparazione lunga, lunga.
Parroci
e pastorale
familiare
L’udienza con Papa
Francesco — svoltasi nella
mattina di sabato 25
febbraio — ha concluso i
lavori del corso di
formazione per i parroci sul
nuovo processo
matrimoniale, promosso
dalla Rota romana. A
inaugurarli era stato
mercoledì 22 il decano del
tribunale, sua Eccellenza
monsignor Pio Vito Pinto,
con un intervento dedicato
alla ratio ecclesiologica,
giuridica e pastorale delle
indicazioni scaturite dai due
sinodi dei vescovi dedicate
alla famiglia. Nella giornata
di giovedì 23 sono
intervenuti, tra gli altri, i
cardinali Christoph
Schönborn, arcivescovo di
Vienna, che ha parlato del
rapporto tra vescovi e
parroci nel discernimento e
nel servizio agli ultimi, e
Beniamino Stella, prefetto
della Congregazione
per il clero, che ha
approfondito il tema della
formazione dei parroci in
ordine alla pastorale
familiare.
Il Papa riafferma
la necessità
di un vero
catecumenato
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#7giorniconilpapa
17
Soltanto se vengono riconosciuti i diritti dei più deboli
una società può dire di essere fondata
sul diritto e sulla giustizia. La discriminazione
in base all’efficienza non è
meno deplorevole di quella compiuta in base alla razza
”
(alla comunità di Capodarco, 25 febbraio)
GIOVEDÌ 23
«Il dialogo fraterno e istituzionale tra ebrei e
cristiani è ormai consolidato ed efficace, attraverso un confronto continuo e collaborativo.
Questo vostro dono odierno si inserisce pienamente in tale dialogo, che non si esprime solo
attraverso le parole, ma anche nei gesti». Con
gratitudine il Papa si è rivolto al rabbino
Abraham Skorka e al gruppo editoriale che gli
hanno presentato una nuova edizione della
Torah. «In mezzo a tante parole umane che
purtroppo spingono alla divisione e alla competizione», ha fatto notare il Pontefice, le «parole divine di alleanza» contenute nella Torah
«aprono vie di bene da percorrere insieme».
Nello stesso giorno Francesco ha ricevuto dirigenti e giocatori della squadra di calcio spagnola del Villarreal CF e li ha esortati a «esercitare quei valori che nel calcio devono essere
palpabili: il cameratismo, l’impegno personale,
la bellezza del gioco e il gioco di squadra».
SABATO 25
L’udienza
alla comunità di Capodarco
Una società «che desse spazio solo alle persone pienamente funzionali» non sarebbe «degna dell’uomo». È quanto ha affermato Papa
Francesco nel discorso rivolto ai membri della
comunità di Capodarco, ricevuti nell’aula Paolo VI. Nell’esprimere riconoscenza a quanti
operano accanto alle persone che vivono in situazioni di disabilità e di disagio, il Pontefice
ha ricordato che «la qualità della vita all’interno di una società si misura, in buona parte,
dalla capacità di includere coloro che sono più
deboli e bisognosi, nel rispetto effettivo della
loro dignità». E questo grado di maturità, ha
spiegato, «si raggiunge quando tale inclusione
non è percepita come qualcosa di straordinario, ma di normale», perché «anche la persona
con disabilità e fragilità fisiche, psichiche o
morali, deve poter partecipare alla vita della
società ed essere aiutata ad attuare le sue potenzialità nelle varie dimensioni». Nella stessa
giornata si è svolta l’udienza alla delegazione
cattolica per la cooperazione, della Conferenza
episcopale francese, con un nuovo appello del
Papa a «percorrere le strade della fraternità» e
a «costruire ponti «in un mondo in cui si alzano ancora tanti muri per paura degli altri».
Un momento dell’incontro
con la comunità di Capodarco
In basso a sinistra: il rabbino
Skorka presenta al Papa
una nuova edizione della Torah
D OMENICA 26
Avere il coraggio di «fidarsi di Dio» piuttosto che riporre le proprie speranze negli «idoli» del denaro, del piacere e del potere: è l’invito rivolto dal Papa ai fedeli che hanno partecipato all’Angelus in piazza San Pietro. Commentando la pagina evangelica della liturgia
domenicale, Francesco ha ricordato che «Dio
non è un essere lontano e anonimo: è il nostro
rifugio, la sorgente della nostra serenità e della
nostra pace. È la roccia della nostra salvezza, a
cui possiamo aggrapparci nella certezza di non
cadere; chi si aggrappa a Dio non cade mai».
Al termine della preghiera mariana il Pontefice
ha parlato della giornata delle malattie rare —
che si celebrava martedì 28 — auspicando che
«i pazienti e le loro famiglie siano adeguatamente sostenuti nel non facile percorso, sia a
livello medico che legislativo».
Angelus
in piazza San Pietro
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#catechesi
18
Macha Chmakoff
«Esodo»
I
n questo giorno, Mercoledì delle Ceneri, entriamo nel Tempo liturgico della Quaresima. E
poiché stiamo svolgendo il ciclo di catechesi
sulla speranza cristiana, oggi vorrei presentarvi
la Quaresima come cammino di speranza.
In effetti, questa prospettiva è subito evidente se pensiamo che la Quaresima è stata
istituita nella Chiesa come tempo di preparazione alla Pasqua, e dunque tutto il senso di
questo periodo di quaranta giorni prende luce
dal mistero pasquale verso il quale è orientato.
Possiamo immaginare il Signore Risorto che ci
chiama ad uscire dalle nostre tenebre, e noi ci
mettiamo in cammino verso di Lui, che è la
Luce. E la Quaresima è un cammino verso
Gesù Risorto, è un periodo di penitenza, anche di mortificazione, ma non fine a sé stesso,
bensì finalizzato a farci risorgere con Cristo, a
rinnovare la nostra identità battesimale, cioè a
rinascere nuovamente “dall’alto”, dall’amore di
Dalla schiavitù
alla libertà
Dio (cfr. Gv 3, 3). Ecco perché la Quaresima
è, per sua natura, tempo di speranza.
Per comprendere meglio che cosa questo significhi, dobbiamo riferirci all’esperienza fondamentale dell’esodo degli Israeliti dall’Egitto,
raccontata dalla Bibbia nel libro che porta
questo nome: Esodo. Il punto di partenza è la
condizione di schiavitù in Egitto, l’oppressione, i lavori forzati. Ma il Signore non ha di-
menticato il suo popolo e la sua promessa:
chiama Mosè e, con braccio potente, fa uscire
gli israeliti dall’Egitto e li guida attraverso il
deserto verso la Terra della libertà. Durante
questo cammino dalla schiavitù alla libertà, il
Signore dà agli Israeliti la legge, per educarli
ad amare Lui, unico Signore, e ad amarsi tra
loro come fratelli. La Scrittura mostra che
l’esodo è lungo e travagliato: simbolicamente
dura 40 anni, cioè il tempo di vita di una generazione. Una generazione che, di fronte alle
prove del cammino, è sempre tentata di rimpiangere l’Egitto e di tornare indietro. Anche
tutti noi conosciamo la tentazione di tornare
indietro, tutti. Ma il Signore rimane fedele e
quella povera gente, guidata da Mosè, arriva
alla Terra promessa. Tutto questo cammino è
compiuto nella speranza: la speranza di raggiungere la Terra, e proprio in questo senso è
un “esodo”, un’uscita dalla schiavitù alla libertà. E questi 40 giorni sono anche per tutti noi
un’uscita dalla schiavitù, dal peccato, alla libertà, all’incontro con il Cristo Risorto. Ogni
passo, ogni fatica, ogni prova, ogni caduta e
ogni ripresa, tutto ha senso solo all’interno del
disegno di salvezza di Dio, che vuole per il
suo popolo la vita e non la morte, la gioia e
non il dolore.
La Pasqua di Gesù è il suo esodo, con il quale Egli ci ha aperto la via per giungere alla vita piena, eterna e beata. Per aprire questa via,
questo passaggio, Gesù ha dovuto spogliarsi
della sua gloria, umiliarsi, farsi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Aprirci la
strada alla vita eterna gli è costato tutto il suo
sangue, e grazie a Lui noi siamo salvati dalla
schiavitù del peccato. Ma questo non vuol dire che Lui ha fatto tutto e noi non dobbiamo
fare nulla, che Lui è passato attraverso la croce
e noi “andiamo in paradiso in carrozza”. Non
è così. La nostra salvezza è certamente dono
suo, ma, poiché è una storia d’amore, richiede
il nostro “sì” e la nostra partecipazione al suo
amore, come ci dimostra la nostra Madre Maria e dopo di lei tutti i santi.
La quaresima
come cammino
di speranza
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#catechesi
19
La Quaresima vive di questa dinamica: Cristo ci precede con il suo esodo, e noi attraversiamo il deserto grazie a Lui e dietro di Lui.
Lui è tentato per noi, e ha vinto il Tentatore
per noi, ma anche noi dobbiamo con Lui affrontare le tentazioni e superarle. Lui ci dona
l’acqua viva del suo Spirito, e a noi spetta attingere alla sua fonte e bere, nei Sacramenti,
nella preghiera, nell’adorazione; Lui è la luce
che vince le tenebre, e a noi è chiesto di alimentare la piccola fiamma che ci è stata affidata nel giorno del nostro Battesimo.
In questo senso la Quaresima è «segno sacramentale della nostra conversione» (Messale
Romano, Oraz. colletta I Dom. di Quar.); chi
fa la strada della Quaresima è sempre sulla
strada della conversione. La Quaresima è segno sacramentale del nostro cammino dalla
schiavitù alla libertà, sempre da rinnovare. Un
cammino certo impegnativo, come è giusto
che sia, perché l’amore è impegnativo, ma un
cammino pieno di speranza. Anzi, direi di più:
l’esodo quaresimale è il cammino in cui la speranza stessa si forma. La fatica di attraversare il
deserto — tutte le prove, le tentazioni, le
illusioni, i miraggi… —, tutto questo vale a
forgiare una speranza forte, salda, sul modello
di quella della Vergine Maria, che in mezzo
alle tenebre della passione e della morte del
suo Figlio continuò a credere e a sperare nella
sua risurrezione, nella vittoria dell’amore di
D io.
Col cuore aperto a questo orizzonte, entriamo oggi nella Quaresima. Sentendoci parte
del popolo santo di Dio, iniziamo con gioia
questo cammino di speranza.
Sfida globale
L’invito a vivere la quaresima come tempo
di «rinnovamento spirituale» è stato rivolto
dal Papa ai fedeli riuniti in piazza San Pietro
per l’udienza generale del 1° marzo, mercoledì
delle ceneri. Nel salutare i pellegrini
di lingua italiana al termine della catechesi,
Francesco ha suggerito in particolare due gesti
concreti: «la partecipazione alle celebrazioni
quaresimali e alle campagne di solidarietà che
molti organismi ecclesiali, in diverse parti
del mondo, promuovono per testimoniare
la vicinanza ai fratelli bisognosi».
E significativamente nelle stesse ore è stato reso
noto il messaggio papale in occasione dell’annuale
campagna di fraternità promossa dalla Conferenza
episcopale del Brasile, dedicata quest’anno
al tema «Fraternità: ecosistemi brasiliani e difesa
della vita» con riferimento al versetto della Genesi:
«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino
di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse».
Nel testo il Pontefice raccomanda alla Chiesa
di continuare a essere «una voce profetica
nel rispetto e nella cura verso l’ambiente
e i poveri», non solo richiamando «l’attenzione
sulle sfide e sui problemi ecologici», ma anche
indicando «le loro cause» e i «cammini
per il loro superamento». Si tratta, in sostanza,
di una «sfida globale» che chiama in causa «tutta
l’umanità». In questo senso
la campagna di fraternità «invita a contemplare,
ammirare, essere grati e rispettare la diversità
naturale che si manifesta nei diversi ecosistemi
del Brasile — un vero dono di Dio — attraverso la
promozione di rapporti che rispettino la vita
e la cultura dei popoli che in essi vivono».
È proprio questa «una delle sfide più grandi
in ogni parte della terra, anche perché il degrado
dell’ambiente è sempre accompagnato
da ingiustizie sociali».
Per il Papa, «i popoli originari di ogni ecosistema,
o che tradizionalmente vi vivono, ci offrono
un esempio chiaro di come la convivenza con il
creato può essere rispettosa, portatrice di pienezza
e di misericordia». Perciò è necessario «conoscere
e imparare da questi popoli e dai loro rapporti
con la natura». Solo in questo modo — assicura
Francesco — «sarà possibile trovare un modello
di sostenibilità che possa essere un’alternativa al
desiderio sfrenato di lucro che esaurisce le risorse
naturali e ferisce la dignità dei poveri».
Anche in un tweet postato in mattinata sull’account
@Pontifex il Papa ha ribadito il significato
della quaresima, sottolineando che si tratta
di «un nuovo inizio, una strada che conduce
a una meta sicura: la Pasqua di Risurrezione,
la vittoria di Cristo sulla morte».
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#santamarta
GIOVEDÌ 23
Non rimandare la conversione
René Magritte,
«Il pellegrino» (particolare)
In basso:
Christo Christov
«Il Buon Pastore»
(particolare)
Le omelie
del Pontefice
Lo «scandalo» di chi si professa cristiano e
poi mostra il suo vero volto con una vita che
cristiana non è per nulla; e la controtestimonianza di chi «sfrutta» e «distrugge» le vite
degli altri fingendo di essere un buon cattolico. Su questo si è incentrata la messa celebrata
a Santa Marta da Papa Francesco, il quale,
commentando le severe parole usate da Gesù
nel Vangelo, ha chiamato alla conversione i
protagonisti di certe «doppie vite».
L’omelia del Pontefice ha preso le mosse dal
salmo 1, nel quale si legge: «Beato l’uomo che
non entra nel consiglio dei malvagi, non resta
nella vita dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia. La sua legge medita giorno e notte». Più avanti, il salmo propone anche la «contrapposizione tra quelli che seguono la legge del Signore e quelli arroganti, malvagi». È la stessa contrapposizione che si ritrova nel vangelo del giorno (Marco, 9, 41-50).
Anche in quel brano «ci sono i buoni e ci sono i cattivi».
Un passo, ha fatto notare il Papa, in cui
«per quattro volte» ritorna la parola «scandalo». E nell’usarla il Signore «è stato molto forte», tant’è che dice: «Guai a scandalizzare uno
di questi piccoli. Guai!». A questo punto il
Pontefice si è chiesto: «Ma cosa è lo scandalo?». La risposta tocca la vita concreta di ogni
persona: «Lo scandalo è dire una cosa e farne
un’altra; è la doppia vita». Un esempio? «Io
sono molto cattolico, io vado sempre a messa,
appartengo a questa associazione e a un’altra;
ma la mia vita non è cristiana, non pago il
giusto ai miei dipendenti, sfrutto la gente, sono sporco negli affari, faccio riciclaggio del
denaro». Questa è una «doppia vita».
Parole chiare che riportano ognuno alla vita
di tutti giorni: «Quante volte abbiamo sentito», ha aggiunto Francesco, «nel quartiere e in
altre parti: “Ma per essere cattolico come quello, meglio essere ateo”. È quello, lo scandalo»,
che «distrugge», che «butta giù». E «questo
succede tutti i giorni: basta vedere il telegiornale o guardare i giornali. Sui giornali ci sono
tanti scandali, e anche c’è la grande pubblicità
degli scandali. E con gli scandali si distrugge».
Il problema, ha spiegato il Papa, nasce da
un atteggiamento che si ritrova ben descritto
proprio nella prima lettura del giorno (Siracide, 5, 1-10): «Non confidare nelle tue ricchezze, e non dire “basto a me stesso”». E ancora:
«Non seguire il tuo istinto e la tua forza, assecondando le passioni del tuo cuore». La doppia vita, cioè, «viene dal seguire le passioni del
cuore, i peccati capitali che sono le ferite del
peccato originale». Chi dà scandalo, ha detto
Francesco, segue queste passioni anche se le
nasconde. La Scrittura ammonisce queste persone che, pur riconoscendo il loro
errore, contano sul fatto che «il
Signore è paziente, si dimenticherà...». E invita tutti a «non rimandare la conversione».
20
Un invito ribadito dal Pontefice a ogni cristiano: «A ognuno di noi, farà bene, oggi,
pensare se c’è qualcosa di doppia vita in noi».
Un esame di coscienza che deve portare alla
conversione del cuore, a partire dalla consapevolezza che «lo scandalo distrugge».
VENERDÌ 24
Giustizia con misericordia
«Signore, che io sia giusto, ma giusto con
misericordia»: è la preghiera suggerita da Papa
Francesco per non cadere nell’«inganno ipocrita» della «casistica», nella «logica del “si
può” e “non si può”». Consapevoli che «in
Dio giustizia è misericordia e misericordia è
giustizia». Sono queste le linee essenziali della
meditazione proposta dal Pontefice.
Nel passo evangelico proposto dalla liturgia
Marco (10. 1-12) racconta che al Signore «si
avvicinano questi dottori della legge: è chiaro,
lo dice il Vangelo, per metterlo alla prova domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie». Ma «Gesù — ha
spiegato il Papa — non risponde se sia lecito o
non sia lecito; non entra nella loro logica casistica, perché loro pensavano soltanto alla fede
in termini di “si può” o “non si può”, fino a
dove “si può”, fino a dove “non si può”». Però
in «quella logica della casistica Gesù non ci
entra». Anzi, a loro «rivolge una domanda:
“Che cosa vi ha ordinato Mosè?”». In pratica
chiede «che cosa c’è nella vostra legge?”».
Nel rispondere a questa domanda di Gesù,
ha fatto presente Francesco, i dottori della legge «spiegano il permesso che ha dato Mosè
per ripudiare la moglie, e sono proprio loro a
cadere nel tranello, perché Gesù li qualifica
“duri di cuore”». E si rivolge loro così: «Per la
durezza del vostro cuore egli scrisse per voi
questa norma». E così Gesù «dice la verità,
senza casistica, senza permessi, la verità:
“D all’inizio della creazione, Dio li fece maschio e femmina”». E continua: «Per questo
l’uomo lascerà suo padre e sua madre» e «si
mette in cammino», e «si unirà a sua moglie e
i due diventeranno una carne sola».
Perciò «non sono più due, ma una sola carne». E questa, ha affermato il Papa, «non è né
casistica, né permesso: è la verità; Gesù dice
sempre la verità». Anche dopo, quando i discepoli «lo interrogarono di nuovo su questo
argomento», Gesù «è ancora molto chiaro:
“Chi ripudia la propria moglie e ne sposa
un’altra, commette adulterio verso di lei; e se
lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Dunque Gesù dice «la verità», ha affermato
il Pontefice. Egli «esce dalla logica casistica e
spiega le cose come sono state create, spiega la
verità». Dunque, «il cammino di Gesù, si vede
chiaro, è il cammino dalla casistica alla verità e
alla misericordia: Gesù lascia fuori la casistica». E «a quelli che volevano
metterlo alla prova, a quelli che
pensavano con questa logica del
“si può”, li qualifica — non qui,
ma in altro passo del Vangelo —
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#santamarta
21
ipocriti». Perché, ha insistito Francesco, «la
casistica è ipocrita, è un pensiero ipocrita: “si
può, non si può”». Un pensiero «che poi diventa più sottile, più diabolico: “Ma fino a chi
posso? Ma di qui a qui, non posso”». È «l’inganno della casistica». Invece «no: dalla casistica alla verità ma la verità è questa». E «Gesù non negozia la verità, mai: la dice tale e
quale è».
Ma non c’è «solo la verità», ha spiegato il
Papa. C’è «anche la misericordia, perché lui è
l’incarnazione della misericordia del Padre e
non può negare se stesso». E «non può negare
se stesso perché è la verità del Padre, e non
può negare se stesso perché è la misericordia
del Padre».
«Signore, che io sia giusto, ma giusto con
misericordia» è la preghiera suggerita da Francesco. Ma «non giusto, coperto dalla casistica». Invece la preghiera da fare al Signore è
La messa celebrata
a Santa Marta il 23 febbraio
Nella foto in alto:
Lyn Deutsch
«L’amore del Padre»
(particolare)
per essere «giusto nella misericordia, come sei
tu, giusto nella misericordia». E «poi uno di
mentalità casistica può domandare: che cosa è
più importante in Dio, giustizia o misericordia?». Ma questo «è un pensiero malato, che
cerca di uscire: cosa è più importante?». In
realtà «non sono due: è uno solo, una sola cosa. In Dio, giustizia è misericordia e misericordia è giustizia».
MARTEDÌ 28
Tutto e niente
«Contento, Señor, contento»: il volto sorridente
di un santo contemporaneo, il cileno Alberto
Hurtado, il quale anche nelle difficoltà e nelle
sofferenze assicura al Signore di essere «felice», si è contrapposto a quello «rattristato»
del «giovane ricco» evangelico nella meditazione di Papa Francesco. Sono i due modi di
rispondere al dono e alla proposta di vita che
Dio fa all’uomo e che il Pontefice ha sintetizzato con un’espressione: «Tutto e niente».
L’omelia ha preso le mosse dalla liturgia degli ultimi tre giorni prima della quaresima nella quale è presentato il «rapporto fra Dio e le
ricchezze». Nel vangelo di domenica, «il Signore è stato chiaro: non si può servire Dio e
le ricchezze». Lunedì, invece, «è stata proclamata la storia di quel giovane ricco, che voleva
seguire il Signore ma alla fine era tanto ricco
che ha scelto le ricchezze». Martedì la liturgia
ha continuato a proporre il brano di Marco
prendendo in esame la reazione di Pietro (10,
28-31), che dice a Gesù: «Va bene e noi?».
Sembra quasi, ha commentato, che Pietro con
la sua domanda — «Ecco, noi abbiamo lasciato
tutto e ti abbiamo seguito. Cosa tocca a noi?»
— presentasse «il conto al Signore», come in
una «negoziazione di affari».
In ogni caso, «la risposta di Gesù è chiara:
“Io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato
tutto senza ricevere tutto”». Non ci sono mezze misure: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto»,
«Riceverete tutto». C’è invece «quella misura
traboccante con la quale Dio dà i suoi doni:
“Riceverete tutto. Non c’è nessuno che abbia
lasciato casa o fratelli o sorelle o madri o padri
o figli o campi per causa mia e per causa del
Vangelo, che non riceva già ora in questo tempo cento volte tanto in case, fratelli, sorelle,
madri, campi, e la vita eterna nel tempo che
verrà”. Tutto».
Questa è la risposta, ha detto il Pontefice:
«Il Signore non sa dare meno di tutto. Quando lui dona qualcosa, dona se stesso, che è
tutto». Una risposta, però, dove emerge una
parola che «ci fa riflettere». Gesù infatti afferma che si «riceve già ora in questo tempo cento volte in case, fratelli insieme a persecuzioni». Quindi «tutto e niente». Ha spiegato il
Papa: «Tutto in croce, tutto in persecuzioni,
insieme alle persecuzioni». Perché si tratta di
«entrare in un altro modo di pensare, in un altro modo di agire». Infatti «Gesù dà se stesso
tutto, perché la pienezza, la pienezza di Dio è
una pienezza annientata in croce». Ecco quindi il «dono di Dio: la pienezza annientata».
Ma il Papa, seguendo la sua meditazione, è
andato oltre e si è chiesto: «Qual è il segno,
qual è il segnale che io vado avanti in questo
dare tutto e ricevere tutto?». La risposta, ha
detto, si trova nella prima lettura del giorno
(Siracide 35, 1-15), dove è scritto: «Glorifica il
Signore con occhio contento. In ogni offerta
mostra lieto il tuo volto, con gioia, consacra la
tua decima. Dà all’Altissimo secondo il dono
da lui ricevuto e con occhio contento secondo
la tua volontà». Quindi, la gioia. Ed è a questo punto che il Papa è ricorso a un esempio
tratto dalla vita della Chiesa contemporanea:
«Mi viene in mente — ha detto — una frase
piccolina di un santo, san Alberto Hurtado,
cileno. Lavorava sempre, difficoltà dietro difficoltà, dietro difficoltà... Lavorava per i poveri». È un santo che «è stato perseguitato» e ha
dovuto affrontare «tante sofferenze». Ma «lui
quando era proprio lì, annientato in croce» diceva: «Contento, Señor, contento,
“Felice, Signore, felice”». Che
sant’Alberto, ha concluso il Pontefice, «ci insegni ad andare su questa strada».
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#meditazione
22
di ENZO
BIANCHI
Gesù
trasfigurato
I
12 marzo
seconda domenica
di Quaresima
Matteo 17, 1-9
l cammino quaresimale è essenzialmente un
cammino pasquale, segnato dall’abbassamento
e dall’innalzamento di Gesù, il Figlio di Dio.
Per questo, se nella prima domenica di questo
tempo abbiamo contemplato Gesù messo alla
prova nel deserto in molti modi, fino alla tentazione di approfittare della sua qualità divina
per compiere la sua missione, oggi contempliamo Gesù trasfigurato, rivestito di quella gloria
che possedeva quale Figlio di Dio, ma che nascose, facendo epoché, mettendola “tra parentesi” nella sua condizione di uomo come noi.
I tre vangeli sinottici narrano questo evento
che segna una svolta nella missione di Gesù,
dopo la professione di fede di Pietro e la rivelazione da parte di Gesù di ciò che lo attendeva a Gerusalemme, come necessitas umana e
divina (cfr. Matteo 16, 13-28). Riportano un
racconto ormai “tradizionale” nella comunità
dei discepoli, con il quale si tenta di esprimere
l’indicibile: Gesù si è mostrato realmente e totalmente uomo in altra forma (metemorphóthe),
una forma gloriosa che trascende la forma della carne del Figlio di Maria. La domanda su
cosa sia veramente accaduto non ha molto
senso, se non per mettere in risalto che è avvenuta un’apocalisse, un alzare il velo che ha
permesso di scorgere l’invisibile. Cercheremo
dunque di ascoltare soprattutto il racconto di
Matteo; se infatti è vero che letterariamente
non differisce di molto dagli altri due, tuttavia
contiene alcuni tratti specifici: se Marco cerca
di testimoniarci un’epifania di Dio in Gesù
(cfr. Marco 9, 2-9), se Luca fornisce un’anticipazione della gloria della resurrezione (cfr. Luca 9, 28-36), Matteo vuole rivelarci come Dio
stesso confermi la fede proclamata da Pietro
(«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»:
Matteo 16, 16).
Matteo lega la trasfigurazione alle solenni
parole di Gesù ai discepoli: «Amen, io vi dico:
vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno» (Matteo 16, 28). Parole
certamente oscure, ma che risuonavano come
una promessa: alcuni tra i discepoli che lo
ascoltano, ancora durante la loro vita avrebbero visto il Figlio dell’uomo venire nella gloria
del suo regno! Queste parole introducono il
racconto della trasfigurazione, che appare come il loro compimento. Molte sono le allusioni all’Antico Testamento nel nostro racconto:
Gesù porta con sé sulla montagna tre compagni (cfr. Esodo 24, 1.9); riceve la rivelazione di
Dio dopo sei giorni (cfr. Esodo 24, 16); è trasfigurato in volto, raggiante di luce (cfr. Esodo
34, 29). La montagna della trasfigurazione non
è localizzata dai tre evangelisti, ma viene definita «un alto monte, in disparte». Dunque nel
luogo delle rivelazioni di Dio, là dove secondo
i profeti avviene la definitiva manifestazione di
Dio nel suo giorno, l’ultimo (cfr. Isaia 2, 2; 11,
9; Daniele 9, 16), dove Mosè (cfr. Esodo 24, 1218; 34, 4) ed Elia (primo libro dei Re 19, 8) sono saliti per incontrare il Signore, anche Gesù
sale, portando con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, tre discepoli spesso vicini a lui, coinvolti in modo particolare nella sua vita.
Davanti a loro Gesù «viene trasfigurato»
(sottinteso, da Dio; passivo divino) ed ecco
che «il suo volto diventa splendente come il
sole». Matteo richiama il sole, la luce, perché
quella novità di forma assunta da Gesù è qualcosa che non procede dalla sua condizione
umana. Se la pelle del volto di Mosè era diventata raggiante davanti alla gloria di Dio, il
volto di Gesù è splendente come il sole che illumina, ma nello stesso tempo non si fa vede-
Paulo Medina
«Trasfigurazione» (2016)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 marzo 2017
#meditazione
23
re, abbaglia. Ricorrendo al linguaggio paolino,
potremmo dire che «colui che era in forma di
Dio... e aveva preso la forma dell’uomo schiavo» (Filippesi 2, 6-7), qui rivela — per quanto è
umanamente possibile percepirla e vederla —
la sua forma, la sua condizione di Figlio di
D io.
In quella percezione di Gesù sotto “altro”
aspetto, si manifestano accanto a lui Mosè ed
Elia, che rappresentano rispettivamente la To-
che nessuno ha mai visto (cfr. Giovanni 1, 18),
rivela e nello stesso tempo nasconde: è la Shekinah, la Dimora di Dio, che mentre illumina
fa ombra, Presenza che si sperimenta ma che
resta sempre elusiva...
Infine, ecco uscire dalla Shekinah una voce,
che parla e rivela: «Questi è il mio Figlio,
l’amato (agapetós): in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo!». La voce di Dio è
già risuonata nell’ora del battesimo di Gesù al
rah e i Profeti, ma che soprattutto sono testimoni della venuta del Messia. Tutto ciò che
ha preceduto Cristo nella storia di salvezza, da
Abramo in poi, è accanto a Gesù per testimoniare che egli è il profeta atteso, il veniente
promesso. Con la loro presenza, Mosè ed Elia
attestano: «Ecco il Messia, il Cristo come
l’aveva confessato Pietro. Ecco il Servo, il Profeta amato da Dio che, come egli stesso ha annunciato, va verso la passione». Ciò che è narrato come una visione, è soprattutto un’esperienza possibile ai profeti nell’ordine della fede
e del dono del Signore, un’esperienza non derivante da «carne e sangue» (cfr. Giovanni 1,
13), ma una pura rivelazione del Padre (come
la confessione di Pietro; cfr. Matteo 16, 17). Per
questo tre volte si fa ricorso all’«ecco» (idoú;
nel testo originale compare, non tradotto in
italiano, anche al v. 5a), parola tipica della rivelazione apocalittica: per l’apparizione di
Mosè ed Elia, per il manifestarsi della nube
luminosa, per il risuonare di una voce.
Pietro vorrebbe restare in questa esperienza
di fede, vorrebbe farla diventare definitiva, come se la fine dei tempi e la venuta nella gloria
di Gesù fossero ormai realtà. A differenza di
Marco e di Luca, Matteo annota che Pietro sa
bene quello che dice: chiama Gesù «Kýrios, Signore», mostra nuovamente la sua fede e afferma che è una cosa bellissima quella che
stanno vivendo. Per questo vorrebbe fare tre
capanne, per Gesù, per Mosè e per Elia, in
modo che la storia si arresti nell’ora della manifestazione della gloria. Ma ecco apparire una
nube luminosa, che adombra quell’esperienza:
una nube che illumina e, nel contempo, fa
ombra (verbo episkiázo). Siamo di fronte all’indicibile, perché la Presenza di Dio, del Dio
Giordano (cfr. Matteo 3, 17): là Gesù era disceso nelle acque come un peccatore, per esservi
immerso da Giovanni, il Padre lo aveva rivelato come suo Figlio unico e amato, ed egli solo
aveva ascoltato questa proclamazione. Qui invece ascoltano anche i discepoli, che non possono non leggervi un “amen”, un sigillo posto
da Dio sulla confessione di Pietro. Inoltre, rispetto al battesimo vi è qui un’aggiunta decisiva: «Ascoltatelo!». La voce del Padre dice che
Gesù è suo Figlio (cfr. Salmo 2, 7), è l’Amato
(cfr. Genesi 22,2), è il Servo che Dio sostiene
in quanto Eletto, nel quale si compiace (cfr.
Isaia 42, 1), ma è anche il Profeta promesso da
Dio a Mosè, a cui deve andare l’ascolto (cfr.
Deuteronomio 18, 15).
Di fronte a tale apocalisse, «i discepoli cadono con la faccia a terra» in adorazione, confessione silenziosa di Gesù quale Figlio di
Dio, quale Kýrios, riconoscimento nel timore
di Dio della Shekinah davanti a loro. Ma Gesù
si avvicina, li tocca e dice loro: «Alzatevi e
non abbiate paura!». Li tocca con un gesto di
confidenza e di amore, quasi a risuscitarli, e li
invita alla postura escatologica dello stare in
piedi senza temere (cfr. Luca 21, 28): «Alzatevi, fate un gesto di resurrezione (eghérthete) e
mettete da parte ogni timore e paura!». I tre
discepoli «hanno visto, udito e contemplato»
(cfr. prima lettera di Giovanni 1, 1), ma sono
stati anche toccati da Gesù, da lui come risvegliati a una nuova conoscenza nella fede di
Gesù Cristo stesso. Sapranno seguire Gesù a
Gerusalemme, nella passione scandalosa,
nell’angoscia da lui vissuta nel giardino del
monte degli Ulivi? Ricorderanno questa esperienza o la dimenticheranno (cfr. Matteo 26,
36-46)?
Joan Miró
«Il sole rosso» (1967)