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Quelli che non ce la fanno
/ 27.02.2017
di Luciana Caglio
Questa volta, a Lugano, una voce ricorrente, da leggenda metropolitana, ha trovato conferma. Spillo
– per l’anagrafe Mauro Lazzaroni, 50 anni – era morto davvero. E ha fatto notizia, in modo insolito ed
inatteso. Allo scomparso è spettato, infatti, uno spontaneo cordoglio popolare che rappresentava una
sorta di riscatto postumo. Quest’allampanato vagabondo, capelli lunghi e colorati e abiti stravaganti,
a suo modo ricercati, apparteneva, addirittura simbolicamente, alla categoria dei marginali. Termine
multiuso che definisce fisionomie e comportamenti diversi: ribelle, balordo, scansafatiche, comunque
al di fuori della regolarità.
Anche Mauro, che ciondolava nelle nostre strade, si muoveva su questo filo fragile, in bilico fra
legalità e illegalità. Proprio nella sua Lugano doveva, con il passar del tempo, diventare un testimone
storico, figlio della generazione che, negli anni 70, aveva animato la scena della droga locale. Un
fenomeno assolutamente nuovo alle nostre latitudini, che ci coglieva impreparati anche sul piano dei
rapporti umani. Erano quelli di via al Forte, nei cui confronti l’opinione pubblica, oltre alla
riprovazione, sviluppò una forma di tolleranza, forza dell’abitudine. E persino quasi simpatia. Il
gruppetto dello slargo dinnanzi al Maghetti era di fatto entrato nel paesaggio umano cittadino. Tanto
più che sia Spillo, che Pietro il Rosso, non erano degli spaesati bensì erano dei nostri, figli di famiglie
del posto, dove avevano frequentato le scuole e avviato tirocini professionali. Ragazzi sballati, ma
non violenti, cresciuti a figure pittoresche, quasi macchiette, insediate nel folclore locale. Dalla loro
storia personale emerge anche la storia della nostra evoluzione economica, politica e, soprattutto
sociale. Nel fallimento di Spillo e compagni si riflette una società, in particolare una socialità,
pubblica e privata, alle prese con un guaio spesso sfuggente.
Che non è di oggi. Questi tossici, nullafacenti, che chiedono un franchetto negli autosili e
all’ingresso dei supermercati, hanno degli antenati. E qui la memoria degli anziani aiuta. Se Parigi
aveva i suoi pittoreschi clochards sotto i ponti della Senna, il centro di Lugano aveva i suoi abbonati
al sussidio pubblico, spesso barcollanti, per abuso alcolico. Qualcuno veniva recuperato e adibito alla
vendita delle cartelle della tombola di Carnevale o, d’estate, alla vendita di cappelli
pseudomessicani, apprezzati dai turisti svizzero-tedeschi. Ma oltre non si andava. Forse il completo
recupero e il conseguente reinserimento nella normale quotidianità rimane un obiettivo
irraggiungibile. L’avvento delle nuove tecnologie ha accentuato il disagio dei più deboli e la difficoltà
a stare al passo coi tempi. Gli sconfitti, insomma, esistono sempre sul terreno di battaglia, sotto
l’urto delle aggressive esigenze contemporanee. Ed è naturale cercare di capirli e aiutarli,
avvicinandosi alla loro realtà, senza però cadere nella trappola delle esaltazioni a posteriori,
suggerite dal politically correct.
C’è da chiedersi fino a che punto la sconfitta sia subita o voluta. E se il non farcela fosse una scelta?
Citando il ’68, punto di riferimento obbligato, i contestatori si facevano avanti con proposte, sia pure
discutibili, che avevano però un peso e un contenuto ideologico. Nulla di paragonabile, invece, la
categoria degli emarginati con cui ci troviamo alle prese ora, dai tratti persino folcloristi. Attenti,
insomma, alla retorica che circonda gli «anti». Nei giorni scorsi, su alcuni nostri media, c’è chi ha
ceduto alla tentazione dell’agiografia. Deformando la fisionomia e i contenuti del personaggio,
attribuendogli meriti e valori che non gli appartenevano ma che neppure l’opinione popolare gli
richiedeva: mentre la gente lo accettava così com’era, stupisce veder promuovere Spillo ad eroe del
controcorrente, addirittura portatore di cultura e creatività. «Ma mi faccia il piacere», direbbe Totò.