Marzo 2017 - Diocesi Velletri

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Transcript Marzo 2017 - Diocesi Velletri

Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 14, n. 3(139) - Marzo 2017
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Ecclesia in cammino
- La Quaresima vera Via della Luce,
+ Vincenzo Apicella
p. 3
- Discorso di Papa Francesco in occasione
degli auguri del corpo diplomatico
accreditato presso la Santa Sede,
S. Fioramonti
p. 4
- Alla vita sulla terra,
Sara Gilotta
p. 6
- Il vento, artefice di vele gonfie,
Antonio Bennato
p. 7
- Quattro nodi per ripensare la formazione
dei preti,
Gilberto Borghi
p. 8
- Se a Sanremo spunta una benedizione,
Chiata Gatti
p. 9
- Ciò che è mancato a Vasto (e non solo lì)
Paola Springhetti
p.10
Direttore Responsabile
- Messaggio del Santo Padre Francesco
per la Quaresima 2017
- È tempo di Quaresima: tempo per la
Parola e per l’altro,
don Andrea Pacchiarotti
- La parola di Dio nella liturgia quaresimale,
don Carlo Fatuzzo
- Nella Trasfigurazione l’invito ad ascoltare
Gesù,
Luigi Musacchio
Mons. Angelo Mancini
p. 22
Collaboratori
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
p. 24
Mihaela Lupu
p. 25
Proprietà
p. 26
Registrazione del Tribunale di Velletri
Diocesi di Velletri-Segni
n. 9/2004 del 23.04.2004
Stampa: Quadrifoglio S.r.l.
- Proclamati nella Sala Stampa della Santa Sede
i vincitori del Premio internazionale “Economia e
società” promosso dalla Fondazione Centesimus
Annus - Pro Pontifice,
Costantino Coros
p. 11
- Anche gli adolescenti cercano aiuto,
Giulia Di Summa
- Generare processi e non occupare spazi.
Il nuovo regolamento per l’idoneità dell’IRC
un mezzo importante ma non sufficiente,
Nicolino Tartaglione
p. 21
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
p.12
- Calendario dei Santi d’Europa / 3.
17 Marzo, S. Patrizio (385-461), Vescovo di
Armagh, Apostolo e Patrono dell’Irlanda,
Stanislao Fioramonti
p. 14
- Il Presbitero, Maestro della Parola,
don Carlo Fatuzzo
p. 16
- Ama la terra come te stesso,
Sara Bianchini
p. 17
- Un viaggio missionario in Cina,
negli anni 1743-49 / 6,
Tonino Parmeggiani
p. 18
Albano Laziale (RM)
- Una Chiesa locale sinodale / 2:
La comunionalità alla base della sinodalità,
don Antonio Galati
p. 27
- Colleferro domenica 29 gennaio:
“La marcia della Pace” dell’Azione Cattolica,
Giovanni Zicarelli
p. 28
- Parrocchia Regina Pacis di Velletri,
5 febbraio: Nicola Tullio Sorrentino istituito
Ministro Straordinario della Comunione,
a cura della redazione
p. 30
- Artena ricorda il 6 Marzo 1939. Il martirio
di P. Ginepro Cocchi, Sara Calì
p. 31
- Velletri, presso il Seminario di Don Orione.
Incontri con la Parola Che Da’ Vita,
Marco Scifoni
p. 32
Redazione
Corso della Repubblica 343
00049 VELLETRI RM
06.9630051 fax 96100596
[email protected]
A questo numero hanno collaborato inoltre:
S.E. mons. Vincenzo Apicella, don Antonio Galati, don
don Carlo Fatuzzo, don Andrea Pacchiarotti, Costantino
Coros, Sara Gilotta, Paola Springhetti, Sara Bianchini,
Giovanni Zicarelli, Luigi Musacchio, Antonio Bennato, Sara
Calì, Gilberto Borghi, Chiara Gatti, Giulia Di Summa, Nicolino
Tartaglione, Marco Scifoni, Alessandro Ippolitui
Consultabile online in formato pdf sul sito:
www.diocesivelletrisegni.it
DISTRIBUZIONE GRATUITA
- Il sacro intorno a noi / 33. Da Maranola
di Formia (LT) a San Michele e al Redentore,
Stanislao Fioramonti
p. 34
- Diario di una ricerca. Fatti e protagonisti,
Alessandro Ippoliti
p. 36
- L’ ”Annunciazione” del Beato Angelico,
Luigi Musacchio
p. 39
- Nomine e Decreti vescovili
p. 37
Il contenuto di articoli, servizi foto e loghi nonché quello voluto da chi vi compare rispecchia esclusivamente il pensiero degli
artefici e non vincola mai in nessun modo Ecclesìa in Cammino, la direzione e la redazione.
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In copertina:
Cieco nato,
Andrè Mironov.
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Vincenzo Apicella, vescovo
N
ella Quaresima di questo Anno liturgico torniamo a ricevere la
grazia di essere accompagnati dalle Letture bibliche domenicali del Ciclo A, specificamente scelte per scandire il cammino dei catecumeni che si preparano a celebrare la loro Iniziazione cristiana nella Notte di Pasqua e per condurre noi battezzati a riscoprire
l’inestimabile ricchezza e grandezza del Mistero che si va compiendo
nella nostra vita. Guidati dallo Spirito battesimale, come Cristo, affrontiamo la tentazione, come Cristo, confermati dallo stesso Spirito nella
Cresima, come Cristo nella Trasfigurazione, possiamo diventare veri adoratori del Padre, in Spirito e Verità, camminare nella Luce, che è Cristo
stesso, ottenere la Resurrezione e la Vita che sconfigge la morte, in Cristo
Crocefisso e Risorto.
La Quaresima diventa, in questo modo, un tempo non soltanto penitenziale, ma una vera Via della Luce, in cui risuonano le parole dell’apostolo Paolo: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore.
Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste
in ogni bontà, giustizia e verità...Per questo sta scritto: Svegliati, o tu
che dormi, dèstati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef.8s.14).
Per tale motivo nella Chiesa apostolica il Battesimo era anche chiamato
“Illuminazione” ed i battezzati venivano detti “Illuminati”, come attesta
la Lettera agli Ebrei (Eb.6,4 e 10,32). Ma cosa significa concretamente tutto questo per la nostra vita personale ed ecclesiale? Quali possono essere gli effetti della luce, che compie nel nostro spirito una azione analoga a quella che sperimentiamo a livello fisico?
Il primo compito della luce è quello di permetterci di camminare senza
inciampare, sapendo dove andiamo e mantenendo la direzione, con la
luce possiamo discernere la via giusta e più sicura da percorrere e non
essere preda del disorientamento, minaccia frequente anche per la nostra
vita interiore. E’ lo stesso Gesù ad avvertirci: “Non sono forse dodici le
ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa, perché vede
la luce di questo mondo; ma se invece cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce” (Gv.11,9s). Poco prima aveva detto: “Io sono la
luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà
la luce della vita” (Gv.8,12) e, poco prima della Passione, dirà: “Ancora
per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa
dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce” (Gv.12,35s).
Giungono quanto mai necessarie tali parole in questo preciso momento anche della nostra vita diocesana, in cui siamo stati chiamati ad interrogarci sugli orientamenti da dare alla comunità ecclesiale e alla sua
attività pastorale, in vista della conclusione del Convegno diocesano,
prevista per il 20 ed il 21 aprile prossimi: entro la fine di marzo dovrebbero pervenire le riflessioni emerse nei vari Consigli parrocchiali, nelle
Associazioni e nei Movimenti in merito alla traccia consegnata nel mese
di gennaio. Risuonano nel nostro cuore l’avvertimento e l’invito che lo
Spirito del Risorto, nel Libro dell’Apocalisse, rivolge alla chiesa di Laodicea:
“Conosco le tue opere: tu non sei né freddo, né caldo. Magari tu fossi
freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo,
sto per vomitarti dalla mia bocca…Ti consiglio di comprare da me…
collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista” (Ap.3,15s.18c).
L’altra funzione che la luce svolge nella nostra vita è quella di permetterci di riconoscere le persone, di vedere il loro volto, di scoprirne i lineamenti e anche le necessità e i bisogni, poiché il nostro non è un cammino solitario, ma si realizza sempre insieme ai fratelli.
A tale proposito è illuminante fermarsi a considerare il Messaggio che
Papa Francesco ha inviato a tutta la Chiesa per questa Quaresima, in
cui si sofferma sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Lc.16,1931). Il dramma del ricco consiste proprio nel non saper vedere nel povero Lazzaro che un importuno scocciatore, un disturbo alla sua spensierata
esistenza: “Per l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze non esiste
altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non
entrano nel suo sguardo. Il frutto dell’attaccamento al denaro è dunque
una sorta di cecità: il ricco non vede il povero affamato, piagato e prostrato nella sua umiliazione”, scrive il Papa.
La Quaresima è anche il tempo del digiuno e il venerdì dopo le Ceneri
ascoltiamo questo passo del profeta Isaia: “Non digiunate più come fate
oggi, così da fare udire in alto i vostro chiasso. E’ forse questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto… Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del
giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire chi è nudo, senza distogliere gli occhi dalla
tua gente? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto.” (Is.58,4-8).
La luce avrebbe fatto capire al povero ricco che Lazzaro era il più grande dono che il Signore gli aveva inviato, quello che avrebbe potuto salvargli la vita, se solo fosse stato più lungimirante e furbo.
Ma come permettere alla luce di entrare nella nostra oscurità e trasformare
anche noi in suoi figli: la strada la indica Abramo, alla fine della parabola: “Hanno Mosé e i Profeti” (v.29), la Parola di Dio, che è Cristo stesso nella Scrittura dei due Testamenti, è la via della luce, per questo la
Quaresima è anche il tempo privilegiato per l’ascolto della Parola: “Lampada
per i miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino” (Ps.118,105).
Nell’immagine: Battesimo dei neofiti,
Masaccio, Cappella Brancacci, Firenze, 1425-1426.
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sintesi a cura di Stanislao Fioramonti
“Cari Ambasciatori,
un secolo fa il mondo si trovava nel pieno del primo conflitto mondiale.
Una inutile strage in cui nuove tecniche di combattimento disseminavano
morte e causavano immani sofferenze alla popolazione civile inerme. Nel
1917 il volto del conflitto cambiò profondamente, acquisendo una fisionomia
sempre più mondiale mentre si affacciavano all’orizzonte quei regimi totalitari che per lungo tempo sarebbero stati causa di laceranti divisioni. Cent’anni
dopo, se per molti la pace sembra, in qualche modo, un bene scontato,
quasi un diritto acquisito a cui non si presta più molta attenzione, per troppi essa è ancora soltanto un lontano miraggio. Milioni di persone vivono
tuttora al centro di conflitti insensati. Anche in luoghi un tempo considerati sicuri, si avverte un senso generale di paura. Siamo frequentemente
sopraffatti da immagini di morte, dal dolore di innocenti che implorano aiuto e consolazione, dal lutto di chi piange una persona cara a causa dell’odio e della violenza, dal dramma dei profughi che sfuggono alla guerra
o dei migranti che periscono tragicamente.
Vorrei perciò dedicare l’incontro odierno al tema della sicurezza e della
pace, poiché nel clima di generale apprensione per il presente e d’incertezza e di angoscia per l’avvenire ritengo importante rivolgere una parola di speranza, che indichi anche una prospettiva di cammino.
Sappiamo come non siano mancate violenze religiosamente motivate, a
partire proprio dall’Europa, dove le storiche divisioni fra i cristiani sono durate troppo a lungo. Nel mio recente viaggio in Svezia ho inteso richiamare
l’urgente bisogno di sanare le ferite del passato e camminare insieme verso mete comuni. Alla base di tale cammino non può che esservi il dialogo autentico fra le diverse confessioni religiose. È un dialogo possibile e
necessario, come ho cercato di testimoniare nell’incontro avvenuto a Cuba
con il Patriarca Cirillo di Mosca, come pure nel corso dei viaggi apostolici in Armenia, Georgia e Azerbaigian, dove ho percepito la giusta aspirazione di quelle popolazioni a ricomporre i conflitti che da anni pregiudicano la concordia e la pace.
In pari tempo è opportuno non dimenticare le molteplici opere, religiosamente ispirate, che concorrono, talvolta anche con il sacrificio dei martiri, all’edificazione del bene comune, attraverso l’educazione e l’assistenza, soprattutto nelle regioni più disagiate e nei teatri di conflitto. Purtroppo
siamo consapevoli di come ancor oggi l’esperienza religiosa, anziché apri-
re agli altri, possa talvolta essere usata a pretesto di chiusure, emarginazioni e violenze. Mi riferisco al terrorismo di matrice fondamentalista, che
ha mietuto anche lo scorso anno numerose vittime in tutto il mondo: in
Afghanistan, Bangladesh, Belgio, Burkina Faso, Egitto, Francia, Germania,
Giordania, Iraq, Nigeria, Pakistan, Stati Uniti d’America, Tunisia e Turchia.
Sono gesti vili, che usano i bambini per uccidere, come in Nigeria; prendono di mira chi prega, come nella Cattedrale copta del Cairo, chi viaggia o lavora, come a Bruxelles, chi passeggia per le vie della città, come
a Nizza e a Berlino, o chi festeggia l’arrivo del nuovo anno, come a Istanbul.
Si tratta di una follia omicida che abusa del nome di Dio per disseminare
morte, nel tentativo di affermare una volontà di dominio e di potere. Faccio
perciò appello a tutte le autorità religiose perché siano unite nel ribadire
con forza che non si può mai uccidere nel nome di Dio.
Il terrorismo fondamentalista è frutto di una grave miseria spirituale, alla
quale è sovente connessa anche una notevole povertà sociale. Esso potrà
essere pienamente sconfitto solo con il comune contributo dei leader religiosi e di quelli politici. Ai primi spetta il compito di trasmettere quei valori religiosi che non ammettono contrapposizione fra il timore di Dio e l’amore per il prossimo. Ai secondi spetta garantire nello spazio pubblico il
diritto alla libertà religiosa, riconoscendo il contributo positivo e costruttivo che essa esercita nell’edificazione della società civile. A chi governa
compete inoltre la responsabilità di evitare che si formino le condizioni che
divengono terreno fertile per il dilagare dei fondamentalismi. Ciò richiede
adeguate politiche sociali volte a combattere la povertà, che non possono prescindere da una sincera valorizzazione della famiglia, come luogo
privilegiato della maturazione umana, e da cospicui investimenti in ambito educativo e culturale.
La pace è una “virtù attiva”, che richiede l’impegno e la collaborazione di
ogni singola persona e dell’intero corpo sociale nel suo insieme. Come
osservava il Concilio Vaticano II, «la pace è un edificio da costruirsi continuamente», tutelando il bene delle persone, rispettandone la dignità. Edificarla
richiede anzitutto di rinunciare alla violenza nel rivendicare i propri diritti.
Proprio a tale principio ho voluto dedicare il Messaggio per la Giornata Mondiale
della Pace 2017, intitolato: «La nonviolenza: stile di una politica per la pace»,
per richiamare anzitutto come la nonviolenza sia uno stile politico, basato sul primato del diritto e della dignità di ogni persona.
Edificare la pace esige anche che «si eliminino le cause di discordiache
fomentano le guerre», a cominciare dalle ingiustizie. Infatti esiste un intimo legame fra giustizia e pace. «Ma - osservava san Giovanni Paolo II continua nella pag. accanto
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poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai
limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo
senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati». Queste parole, oggi più che mai attuali,
hanno incontrato la disponibilità di alcuni Capi di Stato o di Governo ad
accogliere il mio invito a compiere un gesto di clemenza verso i carcerati. A loro, come pure a quanti si adoperano per creare condizioni di vita
dignitose per i detenuti e favorire il loro reinserimento nella società, desidero esprimere la mia particolare riconoscenza e gratitudine.
Sono convinto che per molti il Giubileo straordinario della Misericordia sia
stata un’occasione particolarmente propizia anche per scoprire la «grande e positiva incidenza della misericordia come valore sociale». Ciascuno
può così contribuire a dare vita ad «una cultura della misericordia, basata sulla riscoperta dell’incontro con gli altri: una cultura in cui nessuno guarda all’altro con indifferenza né gira lo sguardo quando vede la sofferenza
dei fratelli». Solo così si potranno costruire società aperte e accoglienti
verso gli stranieri e, nello stesso tempo, sicure e in pace al loro interno.
Ciò è tanto più necessario nel tempo presente, in cui proseguono senza
sosta in diverse parti del mondo ingenti flussi migratori. Penso ai numerosi profughi e rifugiati in alcune zone dell’Africa, nel Sudest asiatico e a
quanti fuggono dalle zone di conflitto in Medio Oriente.
Occorre un impegno comune nei confronti di migranti, profughi e rifugiati, che consenta di dare loro un’accoglienza dignitosa. Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene
comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione. Soprattutto non si
può ridurre la drammatica crisi attuale a un semplice conteggio numerico. I migranti sono persone, con nomi, storie, famiglie e non potrà mai esserci vera pace finché esisterà anche un solo essere umano violato nella propria identità personale e ridotto a una mera cifra statistica o a oggetto di
interesse economico.
Il problema migratorio non può lasciare alcuni Paesi indifferenti, mentre
altri sostengono l’onere umanitario, non di rado con notevoli sforzi e pesanti disagi, di far fronte a un’emergenza che non sembra aver fine. Tutti dovrebbero sentirsi costruttori e concorrenti al bene comune internazionale, anche
attraverso gesti concreti di umanità, che costituiscono fattori essenziali di
quella pace e di quello sviluppo che intere nazioni e milioni di persone attendono ancora. Sono perciò grato ai tanti Paesi che con generosità accolgono quanti sono nel bisogno, a partire dai diversi Stati europei, specialmente l’Italia, la Germania, la Grecia e la Svezia.
Mi rimarrà sempre impresso il viaggio che ho compiuto nell’isola di Lesvos,
insieme ai miei fratelli il Patriarca Bartolomeo e l’Arcivescovo Ieronymos,
dove ho visto e toccato con mano la drammatica situazione dei campi profughi, ma anche l’umanità e lo spirito di servizio delle molte persone impegnate per assisterli. Né bisogna dimenticare l’accoglienza offerta da altri
Paesi europei e del Medio Oriente, quali il Libano, la Giordania, la Turchia,
come pure l’impegno di diversi Paesi dell’Africa e dell’Asia. Anche nel corso del mio viaggio in Messico, dove ho potuto sperimentare la gioia del
popolo messicano, mi sono sentito vicino alle migliaia di migranti dell’America
Centrale, che patiscono terribili ingiustizie e pericoli nel tentativo di poter
avere un futuro migliore, vittime di estorsione e oggetto di quel deprecabile commercio - orribile forma di schiavitù moderna - che è la tratta delle persone.
Nella sua Enciclica Populorum progressio, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario, il beato Paolo VI ricordava come «Il cammino
della pace passa attraverso lo sviluppo» che le autorità pubbliche hanno
l’onere di incoraggiare e favorire, creando le condizioni per una più equa
distribuzione delle risorse e stimolando le opportunità di lavoro soprattutto per i più giovani. Nel mondo ci sono ancora troppe persone, specialmente bambini, che soffrono per endemiche povertà e vivono in condizioni
di insicurezza alimentare - anzi di fame -, mentre le risorse naturali sono
fatte oggetto dell’avido sfruttamento di pochi ed enormi quantità di cibo
vengono sprecate ogni giorno. I bambini e i giovani sono il futuro, sono
coloro per i quali si lavora e si costruisce. Non possono venire egoisticamente trascurati e dimenticati.
Per tale ragione, come ho richiamato recentemente in una lettera inviata
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a tutti i Vescovi, ritengo prioritaria la difesa dei bambini, la cui innocenza
è spesso spezzata sotto il peso dello sfruttamento, del lavoro clandestino e schiavo, della prostituzione o degli abusi degli adulti, dei banditi e
dei mercanti di morte.
Nel corso del mio viaggio in Polonia, in occasione della Giornata Mondiale
della Gioventù, ho avuto modo di incontrare migliaia di giovani, pieni di
entusiasmo e di gioia di vivere. Di tanti altri ho però visto il dolore e la sofferenza. Penso ai ragazzi e alle ragazze che subiscono le conseguenze
dell’atroce conflitto in Siria, privati delle gioie dell’infanzia e della giovinezza:
dalla possibilità di giocare liberamente all’opportunità di andare a scuola.
A loro e a tutto il caro popolo siriano va il mio costante pensiero, mentre
faccio appello alla comunità internazionale perché si adoperi per un negoziato serio, che metta per sempre la parola fine al conflitto, che sta provocando una vera e propria sciagura umanitaria. Ciò esige anche che ci
si adoperi per debellare il deprecabile commercio delle armi e la continua
rincorsa a produrre e diffondere armamenti sempre più sofisticati.
Notevole sconcerto destano gli esperimenti condotti nella penisola coreana, che destabilizzano l’intera regione e pongono interrogativi all’intera comunità internazionale circa il rischio di una nuova corsa alle armi nucleari.
Anche per gli armamenti convenzionali, occorre rilevare che la facilità con
cui non di rado si può accedere al mercato delle armi, anche di piccolo
calibro, oltre ad aggravare la situazione nelle diverse aree di conflitto, produce un diffuso e generale sentimento di insicurezza e di paura, tanto più
pericoloso, quanto più si attraversano momenti di incertezza sociale e cambiamenti epocali come quello attuale.
Nemica della pace è l’ideologia che fa leva sui disagi sociali per fomentare il disprezzo e l’odio e che vede l’altro come un nemico da annientare. Purtroppo nuove forme ideologiche si affacciano continuamente all’orizzonte dell’umanità. Mascherandosi come portatrici di bene per il popolo, lasciano invece dietro di sé povertà, divisioni, tensioni sociali, sofferenza
e non di rado anche morte. La pace, invece, si conquista con la solidarietà. Da essa germoglia la volontà di dialogo e la collaborazione, che trova nella diplomazia uno strumento fondamentale.
Nella prospettiva della misericordia e della solidarietà si colloca l’impegno
convinto della Santa Sede e della Chiesa cattolica nello scongiurare i conflitti o nell’accompagnare processi di pace, di riconciliazione e di ricerca
di soluzioni negoziali agli stessi. Rincuora vedere che alcuni tentativi intrapresi incontrano la buona volontà di tante persone che si adoperano fattivamente per la pace. Penso agli sforzi compiuti nell’ultimo biennio per
riavvicinare Cuba e gli Stati Uniti. Penso anche allo sforzo intrapreso con
tenacia, seppure fra difficoltà, per terminare anni di conflitto in Colombia.
Tale approccio intende favorire la fiducia reciproca, sostenere cammini di
dialogo e sottolineare la necessità di gesti coraggiosi, che sono quanto
mai urgenti anche nel vicino Venezuela, dove le conseguenze della crisi
politica, sociale ed economica, stanno da tempo gravando sulla popolazione civile; o in altre parti del globo, a cominciare dal Medio Oriente, non
solo per porre fine al conflitto siriano, ma anche per favorire società pienamente riconciliate in Iraq e in Yemen.
La Santa Sede rinnova inoltre il suo pressante appello affinché riprenda
il dialogo fra Israeliani e Palestinesi, perché si giunga alla pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini internazionalmente riconosciuti. Israeliani
e Palestinesi hanno bisogno di pace. Tutto il Medio Oriente ha urgente
bisogno di pace! Parimenti auspico la piena attuazione degli accordi per
la pace in Libia, dove è quanto mai urgente ricomporre le divisioni di questi anni. Allo stesso modo incoraggio ogni sforzo per ripristinare la convivenza civile in Sudan, in Sud Sudan e nella Repubblica Centroafricana,
martoriate da persistenti scontri armati, massacri e devastazioni, come pure
in altre Nazioni del continente segnate da tensioni e instabilità politica e
sociale. In particolare, esprimo l’auspicio che il recente accordo firmato
nella Repubblica Democratica del Congo contribuisca a far sì che quanti
hanno responsabilità politiche si adoperino per favorire la riconciliazione
e il dialogo fra tutte le componenti della società civile. Il mio pensiero va
inoltre al Myanmar affinché si favorisca una pacifica coesistenza e, con
l’aiuto della comunità internazionale, non si manchi di assistere coloro che
ne hanno grave e urgente necessità. Anche in Europa, dove non mancano le tensioni, la disponibilità al dialogo è l’unica via per garantire la sicurezza e lo sviluppo del continente. Accolgo pertanto con favore le iniziative volte a favorire il processo di riunificazione di Cipro, mentre auspico
continua nella pag. 6
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S
Sara Gilotta
“Noi siamo in terra, ma ci potremo
un giorno librar esilmente piegare
nel seno divino come rose.
Dai muri nelle strade odorose sul bimbo
che le chiede senza voce”….
ono questi solo alcuni versi tratti dalla poesia “alla
vita” di Mario Luzi, il grande poeta che forse come nessun
altro nel secolo XX seppe esprimere l’esigenza religiosa che
albergava nel suo cuore e che riguardava non solo la sfera trascendente,
ma prima ancora quella immanente.
Ed è questa ricerca che lo condusse
a guardare alla storia per evidenziarne le sofferenze rappresentate soprattutto dal suo esercito di
poveri tutti eguali pur nelle loro “uniformi variabili” e dall’attesa talora
sentita come vana di Colui che aveva promesso “ancora un poco e di
nuovo mi vedrete”. Perché è l’attesa del divino che può aiutarci ad
alleviare il dolore del mondo, per
permetterci infine di librare la nostra
anima verso il Dio che ci ricompenserà
di tutte le sofferenze patite.
Dunque Luzi è il poeta dell’attesa
della provvidenza che trasforma il
caos, lo smarrimento dell’umanità in speranza, anzi nella certezza di una realtà , che non dimenticando le vicende terrene, le trasforma in luce armonizzando il contingente e l’eterno. In tal modo l’eterno nasce dalle cose stesse, per
divenirne l’esito naturale ed ineliminabile. Perché per ogni uomo, in qualunque
epoca ed in qualunque realtà viva ,il binomio vitamorte è il solo principio ontologico che può dar
senso all’esistere.
Certo noi tutti siamo legati al corpo, ne avvertiamo il peso di cui , però, non riusciamo ad immaginare di poter fare a meno e, certo, anche per
questo il pensiero della morte resta per tutti un
mistero doloroso, che ci accompagna per tutta
la durata della vita terrena ed oltre. E questa ansia
è presente persino nel Paradiso di Dante, quando il poeta nel cielo di Marte, grazie alle parole di Beatrice comprende, ma soprattutto fa comprendere agli uomini la vera essenza della beatitudine, che, già perfetta per l’ardore di carità,
che si manifesta nella luce che irradia di sé gli
spiriti beati, diventerà ancor più perfetta, quando il corpo tornerà a rivestire gli spiriti divenuti
adatti a loro volta a “sopportare” il diletto e la gioia
perfetta riservata da Dio ai beati. Ma quello che
avrebbe potuto rimanere una pura teorizzazione teologica, diviene nel canto XIV una festa per
l’intero genere umano. Così nell’ alto dei cieli,
con parole semplici e persino intrise di vernacolo, il poeta ci fa comprendere la gioia immensa manifestata dagli spiriti beati alla conferma
della futura ed ancor più perfetta beatitudine.
Beatitudine che non può dimenticare la terra e
gli affetti più sacri del vivere umano, se così tutti in coro dicono “Amme”, cioè, così sia, in segno
di felice accettazione, perché, aggiungono, che
la felicità non sarà solo per loro, ma “ma per le
mamme, per li padri per li altri che fuor cari”.
Nel leggere questi versi non si può non provare una intensa commozione che unisce mirabilmente
ed ancora una volta terra e cielo, perché finalmente ed al di là di qualunque dubbio, apprendiamo che i nostri cari li potremo rivedere persino rivestiti del corpo, così come li abbiamo conosciuti ed amati. E’ la certezza consolante della
fede, che, sola, forse può , almeno in parte, alleviare l’angoscia della morte.
E ad un giovane, che piangeva la morte di un
suo giovane amico, dicendo tra le lacrime che
non lo avrebbe più rivisto, forse le parole di Dante
potrebbero scendere come refrigerio e come speranza, pur senza poter alleviare il dolore della
perdita, che rimane il fardello più pesante per
tutti i nasi sulla terra.
Nell’immagine del titolo: Giudizio universale (part.),
Michelangelo, 1537, Cappella Sistina.
segue da pag. 5
che in Ucraina si prosegua nella piena realizzazione degli impegni assunti dalle Parti e, soprattutto, si dia una pronta risposta alla situazione umanitaria, che rimane tuttora grave.
L’Europa intera sta attraversando un momento decisivo della sua storia,
nel quale è chiamata a ritrovare la propria identità. Ciò esige di riscoprire
le proprie radici per poter plasmare il proprio futuro. Di fronte alle spinte
disgregatrici, è urgente aggiornare “l’idea di Europa” per dare un nuovo
umanesimo basato sulle capacità di integrare, di dialogare e di generare,
che hanno reso grande il cosiddetto Vecchio Continente. Il processo di unificazione europea, iniziato dopo il secondo conflitto mondiale, è un’occasione unica di stabilità, di pace e di solidarietà tra i popoli. Edificare la pace
significa anche adoperarsi attivamente per la cura del creato.
L’Accordo di Parigi sul clima, entrato recentemente in vigore, è un segno
importante del comune impegno per lasciare a chi verrà dopo di noi un
mondo bello e vivibile. Auspico che lo sforzo intrapreso in tempi recenti
per fronteggiare i cambiamenti climatici trovi una sempre più vasta cooperazione di tutti, poiché la Terra è la nostra casa comune e le scelte di ciascuno hanno ripercussioni sulla vita di tutti. Tuttavia ci sono fenomeni che
superano le possibilità dell’azione umana. Mi riferisco ai numerosi terremoti che hanno colpito alcune regioni del mondo (Ecuador, Italia, Indonesia),
che hanno provocato numerose vittime e tuttora molte persone vivono in
condizioni di grande precarietà. Ho potuto visitare personalmente alcune
aree colpite dal terremoto nel centro Italia, dove, nel constatare le ferite
che il sisma ha provocato a una terra ricca di arte e di cultura, ho potuto
condividere il dolore di tante persone, insieme al loro coraggio e alla determinazione a ricostruire quanto è andato distrutto. Auspico che la solidarietà che ha unito il caro popolo italiano nelle ore successive al terremoto, continui ad animare l’intera Nazione, soprattutto in questo tempo delicato della sua storia. La Santa Sede e l’Italia sono particolarmente legate da ovvie motivazioni storiche, culturali e geografiche. Tale legame è apparso in modo evidente nell’anno giubilare e ringrazio tutte le Autorità italiane per l’aiuto offerto nell’organizzazione di tale evento, anche per garantire la sicurezza dei pellegrini, giunti da ogni parte del mondo.
Cari Ambasciatori, la pace è un dono, una sfida e un impegno. Un dono
perché essa sgorga dal cuore stesso di Dio; una sfida perché è un bene
che non è mai scontato e va continuamente conquistato; un impegno perché esige l’appassionata opera di ogni persona di buona volontà nel ricercarla e costruirla. Non c’è dunque vera pace se non a partire da una visione dell’uomo che sappia promuoverne lo sviluppo integrale, tenendo conto della sua dignità trascendente, poiché «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», come ricordava il beato Paolo VI.
Questo è dunque il mio auspicio per l’anno appena iniziato: che possano
crescere fra i nostri Paesi e i loro popoli le occasioni per lavorare insieme
e costruire una pace autentica”.
Marzo
2017
7
Antonio Bennato
P
er certe persone non ha molta importanza ascoltare il mellifluo
filosofare sul Vangelo. Se uno ascolta, dopo un poco si arrabbia con se stesso di stare lì ad ascoltare, e dice: basta, non mi
serve filosofia. Allora, si rivolge all’universo: “Dì tu qualcosa di meglio!”
Aguzza occhi e orecchie per guardarlo, piamente, con semplicità, e sentire qualcosa di meglio, dato che In principio era il Verbo…E tutto è stato fatto per mezzo di lui. Ma per quella rovente persona anche l’universo
non è sufficiente. Si ostina comunque a cercare. Gli necessita investire la vita nella verità. Per questo, si mette in faccia a un altro linguaggio. A quello dei gesti, a quello dei movimenti del cuore. E dice: ah, che
qualche cuore mi risponda! ah, che qualche gesto mi parli!
Sto pensando a quell’ Anziano del Sinedrio che chiese all’Apostolo Filippo
di vedere Gesù, e Filippo mica gli diede un libro di teologia o di filosofia, lo portò da lui, perché quell’uomo voleva Gesù. Le persone vogliono Gesù. Sentirlo, vederlo. Vogliono vederlo attraverso la finestra di un
cuore cristiano, sentirlo nell’incandescenza della sua testimonianza, nella esperienza che fa all’interno della propria vita, nella gioia con cui il
Figlio di Dio sottolinea il suo pianto, giacché lui stesso, nell’Ultima Cena,
aspettando di farsi pianto, parlò di una gioia che sarebbe stata piena e
benedisse il fresco pane e ne fece dei pezzetti per darli agli amici seduti a tavola che erano turbati come se dovessero essere lasciati orfani
per sempre.
Il Mahatma Gandhi, pensando al Cenacolo, disse: “Ci sono persone nel
mondo così affamate (di Dio), che Dio non può apparire loro se non in
forma di pane.” Ci stava bene con il Vangelo in tasca. Non se lo teneva lì per cercarvi nei momenti difficili una parola lirica, ma la nuda parola d’onore di Dio. Ebbene, il giorno in cui un amico gli chiese: “Perché
non sei cristiano, dato che t’importa tanto del Vangelo?”
lui rispose: “Oh, peccato che i cristiani non siano come
dice il Vangelo.”
E’ un vero peccato se un cristiano non è come dice il Vangelo.
Nel battesimo è stato tuffato nella luce del Risorto. In seguito, sicuramente, nella sua vita vagabonda ha molte cose
da fare ma ce n’è una che non può dimenticare, quella
di indicare col suo indice luminoso la dignità della vita.
Invece, da gran bravaccio, si preoccupa di valere qualcosa, e tira in ballo il buon senso. Senso leccapiedi che
chiede di essere diplomatici, di parlare con frasi senza
vigore, di svanire nei compromessi, di accodarsi
alla sensibilità del mondo. Il mondo premia
tale buon senso; e a quel buon diavolo
sembra presunzione voler riaccendere la sua candela. Oh, Signore! Quel
cristiano possiede ancora la sua
candela ma gli manca il fuoco. Il fuoco della preghiera. Questo è il fatto
vero: a un certo punto della vita, si
è strappato di dosso la preghiera ed
è andato a negoziare la sua pace con
il mondo. Ora, senza preghiera, non
c’è amore. Senza amore, non c’è imitazione. Se non imita, non ha luce per
indicare. Ah, sì! Adesso conta qualcosa nel mondo! Conta molto, perché
innalza dovunque l’indice, e la mano
sparge ombra e corruzione.
I Santi, benché a volte dentro una notte oscura, mai si strappavano di dosso la preghiera. Beati voi tutti, apostoli,
martiri, vergini. Beata te, Madre Teresa
di Calcutta: la preghiera te la portavi persino nelle rughe del viso, e non solo la
prestasti alla elegante assemblea riunita per la consegna del Premio
Nobel ma la piantasti come un sasso sulla fronte di ognuno quando indicasti con forza l’aborto come il maggior distruttore della pace. Il cristiano
del buon senso ammira il vostro coraggio, tant’è vero che gli farebbe
piacere avere un paio di voi accanto a sé. Soltanto a immaginare un
santo a destra e un santo a sinistra si sente felice. Due di voi – pensate! – a sorvegliare il suo denaro, due che fanno miracoli per il suo
investimento azionario, che di questi tempi!…
Voi, naturalmente, sapete bene con che devozione incolla le vostre immagini sul parabrezza della macchina; e se ahimè fa lo stupidotto col cellulare e non scampa da qualche incidente, sentite bene le affettuosità
che ha per voi! Se agisce così, come potrebbe accorgersi dei santi che
gli camminano a fianco; con uno di loro proprio stasera andrà a cena,
ma lui non fa miracoli; lui, che non ha occhi miopi come i suoi, gli potrà
leggere solo il menù… e dopo, l’altro gli parlerà del santo parabrezza
della sua macchina.
Forse c’è qualche paura. Forse è la paura di non essere apprezzati. Si
studia tanto per diventare una bella capoccia; si vorrebbe finalmente il
successo. E Dio cosa chiede se non di lasciare che il vento dello Spirito
gonfi le nostre vele, cioè la nostra intelligenza, che si gonfi di saggezza, voglio dire cosa chiede se non di lasciare che lo Spirito viva in noi.
Se lasciamo che lo Spirito aggiunga la nostra candela al suo Fuoco, se
lasciamo che lo Spirito ci prenda come tanti piccoli Davide contro il mondo arrogante, la saggezza agirà, anche a nostra insaputa, come una
preghiera, e bucherà la fronte del mondo. In altre parole, avremo lasciato che il vento dello Spirito sia artefice di nuovi cuori gonfi di carità.
Oh, com’è vuoto il successo che dà il mondo; alla fine, ecco la solitudine. Lo dico perché lo so. Invece, lo Spirito, con nostra grande meraviglia è sempre pronto a mettere in moto da noi gesti attraverso i qua-
continua nella pag. 8
Marzo
2017
8
Gilberto Borghi*
Solida armonia umana, riconnessione con la
comunità, teologia della gratuità
e competenza relazionale.
L
e riflessioni di Roberto Beretta sul nuovo libro dedicato allo scandalo pedofilia
e soprattutto la domanda che lui pone
sul tema della formazione dei preti mi danno l’opportunità di mettere in fila alcune riflessioni che
ho fatto, già da tempo, sulle necessità e possibilità di rivedere i percorsi con cui la Chiesa si
occupa della formazione dei suoi sacerdoti. È evidente che la base su cui appoggiare una solida
formazione dei preti è una vera e sana spiritualità,
che dà corpo ad una fede sincera. Questo lo do
per scontato, anche se non sempre lo è, perché
ritengo che ci siano altre quattro parole chiave
su cui la loro formazione vada ricostruita.
Solida armonia umana. È l’esigenza più evidente,
che molti ormai di loro non possono più negare. Ma anche da fuori, sempre più, la percezione media che si ha dei nostri preti è quella di
persone che umanamente faticano a trovare una
armonia interna sciolta, fluida, che lasci il profumo della pienezza e maturità umana. Spesso
lasciano invece traccia di forzature umane, di fatica a mantenere l’equilibrio, di una necessità alta
di compensazioni non sempre sane, né soprattutto molto consapevoli. Non si pretende che siano persone pienamente risolte, nessuno lo è mai.
Ma il ruolo che ancora viene chiesto loro richiederebbe una solidità umana che pochi invece mostrano di aver raggiunto. Non è pensabile che oggi
un prete non sia consapevole delle sue doti e
dei suoi limiti, dei suoi meccanismi difensivi e delle possibili ed inevitabili compensazioni sane che
possono essere vissute. E questo soprattutto perché possano mostrare una spiritualità dentro all’umano e non nonostante l’umano.
Riconnessione con la comunità. I seminari così
come sono strutturati ora, prevedono una frattura tra le comunità da cui la vocazione sorge e
quella in cui matura e si sviluppa. Oggi questo
è più un problema che una risorsa. Per due motivi. Da un lato perché in questo modo il prete è
spinto a concepire sé stesso come “un uomo solo
al comando”. Possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma le nostre comunità sono ancora molto
“clero centriche” anche perché spesso i preti sono
stati educati a pensare sé stessi solo come centro e motore delle stesse. Le conseguenze nefaste per la Chiesa sono evidenti. Dall’altro lato,
sul piano umano il prete rischia di percepirsi come
un uomo “sradicato” che dovrebbe appagare i
propri bisogni umani in un contesto di relazioni
“non scelto” e “ a tempo”. Quindi che deve cercare in Dio un radicamento relazionale stabile,
come i monaci, anche quando però le condizioni
di vita non sono quelle monastiche.
Teologia della gratuità. Al di là dell’appartenenza
“politica” a determinate aree teologiche del prete, è innegabile che la formazione teologica media
sia ancora centrata su una categoria di relazione con Dio fondamentalmente giuridica. La fatica di moltissimi preti, nel momento in cui si immergono nella pastorale vera, è molte volte quella
di trovarsi a pensare Dio con categorie che non
sanno rispondere abbastanza alle domande e
alle ferite, ai dubbi e alle contestazioni esistenziali che le persone portano. Manca una
vera e profonda teologia della gratuità, della misericordia
per dirla con Francesco. Manca
loro una teologia che sorga dalla e nella vita reale delle persone, non sui banchi di scuola e che metta in grado i futuri sacerdoti di sapere integrare meglio teologia e vita.
Competenza relazionale.
Come tutti coloro che ricoprono ruoli fatti essenzialmente di
rapporti umani, è impensabile che un prete abbia percorso tratti di formazione specificamente dedicata alla gestione della relazione.
Dalla competenza di ascolto,
profondo, libero, e pulito, cosa veramente rara
nei sacerdoti, alla capacità di consegnare regole in modo né autoritario, né lassista; dalla capacità di empatia umana capace di condividere sinceramente, a quella di sapersi circondare di persone sane, sincere, non ricattatorie, né parassite. Tutto questo è mediamente patrimonio ordinario di chi ricopre ruoli di aiuto alla persona, educativi, organizzativi delle relazioni umani. E perché il prete non deve avere modo di formarsi anche
da questo punto di vista? E perché un prete non
deve avere, oltre una guida spirituale anche una
guida relazionale, che lo aiuti a leggere per lui
le dinamiche “sporche” delle sue relazioni e a guardarsi da esse?
Concretamente, però queste quattro “emergenze” formative richiedono alcune condizioni concrete. Dalle strutture formative non più così monolitiche e “a parte”, agli operatori vocazionali con
un tasso di competenze educative e di solidità
umana molto maggiori di quello che mediamente
si trova oggi. Da percorsi formativi in cui l’esperienza
sul campo, sia molto più presente della riflessione
sui libri, a forme e soggetti di discernimento vocazionale che sappiano “vedere” molto di più la maturazione complessiva della persona che non solamente quella specifica del ruolo sacerdotale.
Da maestri di spiritualità che sanno tenere i piedi per terra, in questo frangente storico, alla necessità di ripensare l’obbligo celibatario dei sacerdoti.
*da Vino Nuovo del 30 gennaio 2017
Immagine dal film il Seminarista
di Gabriele Cecconi.
segue da pag. 7
li farà sentire la carezza del Vangelo di Gesù; e attraverso i movimenti
del cuore a dare prova a chiunque che Dio gli è accanto. Lo fa, e lo farà.
Perché tutti, tutti siamo persone roventi che chiedono a questo tempo
che sia il tempo dei testimoni. In effetti, se vedo che tu vivi il Vangelo,
se vedo che tu cresci come un eroico seme dentro la terra della sua Parola,
io ti ammiro, e so di potermi anch’io interrare in quelle Parole e, senza
alcuna paura, lasciare che maturino anche me.
Diceva Nietzsche: “Io crederò al Cristianesimo quando vedrò sul volto
dei cristiani la gioia di sentirsi salvati.” Eccoli… guardateli!… quelli che
non vogliono sentire filosofare chiedono di sedere nella Tenda della Testimonianza…
Oh, andiamoci tutti, perché lì c’è ancora testimonianza; c’è ancora gioia;
il Vangelo della gioia non è andato perduto; ma c’è anche impegno, un
impegno grandissimo, perché - come Pietro! - siamo gente che cammina
sulle acque; e continuamente siamo gente salvata.
Nell’immagine a pag. 7: Il tributo (part.),
Masaccio, 1425, Firenze.
Marzo
2017
Chiara Gatti *
U
n grazie speciale a Fiorella Mannoia,
in queste sere di Sanremo, certo per
la sua meravigliosa voce ma anche per
una parola dimenticata che ha deciso di sfoggiare nel testo della canzone che ha proposto,
con lo stesso coraggio, a mio avviso, con cui
uno si presenterebbe sul celebre palco
dell’Ariston con un sobrio vestitino demodè... Sì,
perché al di là della canzone che può piacere
o meno (e che comunque a me personalmente piace molto, apprezzando sempre tanto questa cantante), trovo coraggiosa l’idea di benedire la vita con tanta evidente energia e addirittura, nel titolo del brano, proporre quell’aggettivo
“benedetto”, che ha attirato subito la mia attenzione. E’ una forma di coraggio che sfida certamente lo share televisivo nel proporre una categoria verbale, e anche di significato, come quella della “benedizione”, concetto decisamente superato e termine che, probabilmente, la maggior
parte dei nostri adolescenti non ha mai usato
nemmeno una volta in vita sua.
Certamente, come tutti sappiamo, esistono tante parole che escono di moda, proprio perché
si svuotano di luoghi, tempi e contorni che le
sorreggevano. In questo specifico caso rimangono a malapena, come esperienze quotidiane, le “benedizioni” pasquali in primavera fatte
dal prete o dal diacono della propria parrocchia,
o la “benedizione” finale della messa quando si
frequentava la chiesa assieme all’ora di catechismo. Non è assolutamente più bagaglio culturale dei giovani pensare che si debba avere
la benedizione del proprio padre per frequentare una ragazza o un ragazzo, e alla fine, anche
decidere di sposarsi con quella stessa benedizione concessa. Come pure il padre, come invece accadeva nei tempi passati, oggi normalmente
non benedice più la mensa casalinga o le scelte importanti di un figlio, da un acquisto significativo alla partenza per un viaggio...
Insomma ai figli sembra non essere più neces-
9
sario quel viatico paterno che segnava una partenza, scandiva un ritmo, “diceva bene” su quanto quel ragazzo stava facendo, pensando o cercava di intraprendere! E così, lentamente senza accorgerci di questo, abbiamo perso come
società quel gusto bello di sentirci spinti nella
vita con amore, incoraggiati da quella forza che
la benedizione intrinsecamente conteneva,
liberati e inviati all’esterno sentendosi individui
dall’identità formata e autonoma rispetto alle proprie origini. Non così pare per la parola contraria:
infatti la parola “maledizione” (e insieme il suo
aggettivo derivato) sembra essere rimasta in voga
anche tra le generazioni più giovani per il suo
potere trasgressivo e “ ludico” da videogame,
film horror o romanzo fantasy....
Così se si va in cerca di un “tempio maledetto”
in qualche videogioco già a sei anni, avendo la
possibilità di imparare quel termine, non c’è più
niente che invece si chiami benedetto tra quello che più comunemente si usa oggi, nel frasario
comune delle fasce più o meno giovani della popolazione. Ma, in fondo, a cosa serviva la benedizione a livello antropologico, prima ancora che
religioso? A mio avviso, era funzionale soprattutto a far crescere “liberando”, confermando e
slegando l’individuo da catene di legami eccessivi con le proprie origini.
Non volendo certo entrare, in questa sede, nel
ricco spessore di questo valore cristiano sia in
ambito teologico che liturgico, richiamo solo la
grande ricchezza umana che questo atto, fatto di parole e gesti, spesso rappresentava. E
per farlo, da francescana, mi riallaccio alla straordinaria esperienza di vita dello stesso Francesco
di Assisi che con lo splendido concetto di benedizione ha dovuto fare i conti, più o meno faticosamente, durante tutta la sua stessa vita. Infatti
non si può tentare di comprendere, almeno in
parte, il valore del ricevere e del dare una benedizione per Francesco, se non si guarda il suo
stesso rapporto col padre, Pietro di Bernardone.
Inizialmente, infatti, il suo orgoglioso sogno iniziale di diventare cavaliere, con tanto di arma-
tura e corazza, coronando
il sogno di ogni rampollo
borghese del suo tempo, doveva certamente
aver avuto la benedizione
compiaciuta del ricco e
ambizioso mercante di
stoffe Pietro.
Ma certamente, al ritorno con la coda tra le gambe, dopo la sconfitta da
parte dei Perugini ( e la
successiva prigionia) e
il tentativo fallito di partire per le Puglie in una
nuova impresa, quel
Pietro di Bernardone
non aveva trovato molto da benedire osservando
gli strani segnali del figlio, caduto in quella terribile malattia dell’anima che lo avrebbe condotto
alla conversione definitiva e alla spogliazione
di tutti di vestiti paterni in piazza davanti al Vescovo
di Assisi. In quel percorso, a più riprese, il padre
sconcertato aveva cominciato a maledire e malmenare quel figlio che ai suoi occhi pareva impazzito e ingrato... Così Francesco, come ci racconta il biografo Antonio da Celano nella sua
Vita Seconda, chiaramente appesantito dal comportamento del padre cercò “un uomo di umile
condizione e semplice assai, e lo pregò che, facendo le veci del padre, quando questi moltiplicava le sue maledizioni, egli di rimando lo benedicesse”.
Teneressima questa richiesta di Francesco, e
forse non ce la aspetteremmo nemmeno da un
uomo che per tutta la vita brama il distacco da
affetti e legami terreni di ogni tipo, eppure la benedizione è un tipo di legame che cerca l’origine,
ma per staccarsene bene e aver la forza di iniziare il proprio percorso. Solo così infatti, riconciliandosi con “l’esigenza di confrontarsi con la
ferita più profonda della sua vita: il suo rapporto
con Pietro di Bernardone” (G. Salonia), egli scopre la potenza della benedizione, fondamentale e unica, del Padre che è nei Cieli, non secondo un percorso solo spirituale e avulso dalla propria verità di uomo, ma nella personale fatica
di una carne spesso molto ferita.
“Francesco si era riconciliato con la figura paterna scegliendo il Padre Celeste; aveva accolto
i seguaci come dono di Dio e li aveva chiamati “fratelli” (e non “figli”).” (G. Salonia) E in quest’ottica inizierà a benedire i suoi frati anche lui,
prima di tutto per sostenerli come uomini, nella loro fragilità, e poi nella loro fede come credenti che vogliono aderire alla verità di un Vangelo
non sempre facile.
In molte sue Lettere, poi, benedirà coloro a cui
si rivolge o invocherà su di loro la benedizione
di Dio stesso, mentre in altri Scritti, come ad esempio nei due Testamenti, sceglierà la benediziocontinua nella pag. 10
Marzo
2017
10
Paola Springhetti*
Il dramma dell’uomo del marito
che uccide il giovane
responsabile dell’incidente
stradale che gli ha portato
via la moglie dice il bisogno
di comunità capaci
di una mediazione che
accompagni nel dolore.
L
a storia del giovane uomo di
Vasto, che uccide il ragazzo che
in un incidente stradale aveva ucciso sua moglie, è di quelle che
non dimenticheremo facilmente.
Almeno lo spero. Non mi interessa qui
analizzare le ragioni e i torti dell’uno
o dell’altro, ma dopo aver letto che si
era creato un clima di rabbia contro
il ragazzo e un desiderio di vendetta
che sembrava diffuso tra gli abitanti
della città - non tra tutti, certo, ma tra
molti - ho pensato che, in fondo, il problema non riguarda solo le singole persone, né solo le famiglie o gli amici:
riguarda tutta la comunità.
Comunità dei cittadini (che città siamo? cosa condividiamo oltre ai luoghi?) e comunità dei credenti (che senso ha vivere insieme la fede,
in un territorio concreto, in un momento preciso della storia?).
Un ragazzo che, per una distrazione, causa la morte di una giovane
donna; un giovane marito che non si dà pace; le famiglie sconvolte...
fatti come questi creano ferite insanabili nel tessuto delle relazioni.
Ammesso (e temo non concesso) che la giustizia potesse arrivare a
un verdetto più rapidamente, l’esperienza ci dice che le parti, che si
trovano sui margini opposti della ferita, non si sarebbero comunque
pacificate. Da una parte c’è sempre chi dice che giustizia non è stata fatta, che le pene sono troppo miti (il ragazzo non aveva né bevuto né aveva assunto droghe né andava a velocità troppo alta, non sembrano quindi esserci aggravanti), dall’altra chi, più sommessamente,
difende la persona sotto processo, ricordando che in fondo era per
bene e che la giustizia deve fare il suo corso.
segue da pag. 9
ne come chiusa o come apertura di sostanza,
non certo come soluzione retorica di stile.
Un esempio per tutti del valore umano della benedizione nei suoi Scritti lo troviamo infatti in quella Lettera a Frate Leone, dove Francesco assiste come una madre, dolcemente, il suo amico probabilmente afflitto da un serio problema
di coscienza. E qui lo invita a star tranquillo, a
sentirsi moralmente degno e sicuro di sé, a sentirsi benedetto nel considerare autonomamente ciò che è bene e ciò che è male, ma a considerarsi anche libero, nel caso avesse ancor
bisogno di lui, di tornare a chiedergli ogni volta consiglio. Ecco quel che fa la benedizione,
ecco il suo miracolo che Francesco ben evidenzia:
E in effetti così è, ma c’è un’altra forma di giustizia che si può
attivare, parallelamente, e che
solo una comunità coesa e capace di pensare positivo può mettere in campo. È quel processo di mediazione che da una
parte aiuta la famiglia della vittima ad affrontare la tragedia,
il lutto, il dolore, e dall’altra parte aiuta il colpevole - prima che
anch’esso diventi vittima, come
in questo caso, dell’odio di chi
condanna a priori e poi della
vendetta - a prendere coscienza di quello che ha fatto, a pentirsi, ad affrontare consapevolmente le conseguenze del
proprio comportamento. La
giustizia dei tribunali non può,
per sua natura, risarcire le vittime, se non economicamente. Non può riparare al danno
fatto. La mediazione può almeno in parte riparare la lacerazione, lenire le ferite.
Succede che, per questa via,
si arrivi - con il tempo, con la fatica - alla riconciliazione, al perdono.
Succede quando la comunità accompagna i suoi membri in quel difficilissimo cammino che è l’attraversamento del dolore. Rimuovere il
dolore, infatti, lasciare aperte le ferite, non è solo inutile, ma dannoso: fa crescere la spirale dell’odio, impedisce la pace.
Chi può sostenere questi processi di mediazione? Chi oggi è capace di riconciliare? Persone competenti, certo, ma che stanno dentro
comunità degne di questo nome. Che cercano la giustizia e non il giustizialismo; che si prendono cura dei propri membri, e non godono
nell’infliggere pene. Che insieme sanno soffrire, e insieme sanno superare il dolore. Le nostre comunità lo sono? Le comunità dei credenti
sanno esercitare la profezia della riconciliazione?
slega, rende individui non fusi con la propria radice, ma anche conferma nel bene e apre a un
contatto successivo, se ce ne sarà bisogno, come
in un passaggio di porte scorrevoli dove è possibile entrare e uscire a discrezione di chi le attraversa...
Canta la Mannoia, donna “laica”
del nostro tempo:
Per quanto assurda e complessa ci sembri,
la vita è perfetta,
per quanto sembri incoerente e testarda,
se cadi ti aspetta.
E siamo noi che dovremmo imparare a
tenercela stretta,
* da Vino Nuovo del 03 febbraio 2017
Nell’immaginedel titolo: “Angel”,
opera pittorica di Boyko Kolev.
a tenercela stretta,
che sia benedetta.
Scrive San Francesco d’Assisi,
uomo “religioso”del Duecento:
... fatelo con la benedizione di Dio e la mia
obbedienza.
E se credi necessario per il bene
della tua anima,
o per averne conforto, venire da me,
e lo vuoi, o Leone, vieni.
*da “Vino Nuovo” - 09 febbraio 2017
Marzo
2017
11
Costantino Coros
“Prinzip Nachhaltigkeit: Ein
Entwurf aus theologisch-ethischer Perspektive - Principio della sostenibilità: un progetto di prospettiva teologica ed etica” (Munchen2009, oeKom verlag, terza ed. 2013)
di Markus Vogt è l’opera vincitrice della terza edizione del concorso internazionale “ECONOMIA E
SOCIETÀ”, promosso dalla
Fondazione Centesimus Annus
– Pro Pontifice.
Vincitori della sezione speciale dedicata a lavori giornalistici in Dottrina Sociale della Chiesa
sono:
- Dominique Greiner, blog:
“La doctrine sociale sur le fil - La dottrina sociale sul filo….”, sul sito del giornale “La Croix”
[doctrine-sociale.blogs.la-croix.com].
- Burkhard Schäfers, radio:
“Oswald von Nell-Breuning, was von der katholischen Soziallehre geblieben ist - Oswald von
Nell-Breuning - ciò che rimane della dottrina sociale della Chiesa“. Programma trasmesso per la
prima volta alla Deutschlandradio Kultur/Religion
l’8.3.2015.
La proclamazione delle opere vincitrici è avvenuta in occasione di una conferenza stampa tenutasi presso la Sala Stampa della Santa Sede il
15 febbraio 2017.
Lanciato nel 2013 dalla Fondazione Centesimus
Annus pro Pontifice, il Premio internazionale ‘Economia
e Società’ ha una cadenza biennale e si propone di dar riconoscimento ad opere di carattere economico e sociale che si contraddistinguono per il contributo originale all’approfondimento e all’applicazione della Dottrina Sociale
della Chiesa; fra i requisiti richiesti figurano una
indiscussa solidità dottrinale ed un chiaro
intento divulgativo.
“[…] Nel suo libro, Markus Vogt propone di ripensare i nessi tra tre dimensioni essenziali della
vita umana che sono tra loro interdipendenti: l’economia, l’ecologia e la dimensione sociale”.
Ha spiegato, il presidente della giuria internazionale, S.E. Rev.ma Card. Reinhard Marx presentando i contenuti del volume. […]
Per l’autore “non si riuscirà a salvaguardare l’ambiente senza un’economia funzionante e senza offrire a tutti gli uomini la possibilità di sviluppare i loro doni, così come non si riuscirà ad
affrontare il problema della povertà con un’economia
debole e senza un’adeguata cura dell’ambiente”. […] “Non si può dunque risolvere gli enormi problemi del mondo odierno affrontandoli singolarmente.
Vogt rifiuta la visione che vorrebbe fare dell’ecologia una nuova dottrina della salvezza. Al centro della Dottrina sociale della Chiesa non sta
l’ambiente, ma la persona, e l’ambiente diventa decisivo in quanto la persona ne abbisogna.
Serve pertanto un pensiero complesso, capace di illuminare i nessi tra le diverse problematiche.
Perciò il libro di Vogt affronta il tema della sostenibilità secondo diverse prospettive, etica, teologica, scientifica, sociologica e anche politica.
La sfida consiste nel trovare un nuovo modo di
pensare che assuma ad esempio la responsabilità anche per le generazioni future (il principio “solidarietà”) e che non consideri la natura
semplicemente come somma di risorse utili alla
produzione industriale, ma come creazione, cioè
come dono.
Vogt non propone semplicemente una soluzione calata dall’alto. È vero, la politica svolge un
ruolo essenziale nell’affrontare il problema
ecologico e bisogna in qualche modo anche rafforzare le competenze delle istituzioni internazionali. Ma, nel contempo non si tratta di un problema esclusivamente politico. Infatti, Vogt sottolinea
con forza l’importanza del
principio di sussidiarietà, evidenziando che molti passi vanno compiuti a livello locale, da corpi intermedi
che danno espressione
alla società. Qual è il ruolo della Chiesa nella ricerca della sostenibilità?
Vogt propone che essa accetti la sostenibilità come
uno dei principi fondamentali della sua Dottrina
sociale, accanto a quelli della personalità, della solidarietà
e della sussidiarietà. Egli
considera, infatti la sostenibilità come uno sviluppo
per i tempi nostri del tradizionale principio del bene
comune” […].
Il presidente, Domingo Sugranyes Bickel, nel
corso del suo intervento ha ricordato che il premio rientra negli obiettivi della Fondazione, definiti dal suo fondatore San Giovanni Paolo II: “promuove fra persone qualificate per il loro impegno imprenditoriale e professionale nella società la conoscenza della dottrina sociale cristiana e l’informazione circa l’attività della Santa Sede”1.
Ciò risponde anche al pressante messaggio rivolto alla Fondazione da Papa Francesco: “È mia
speranza che la vostra Conferenza possa contribuire a generare nuovi modelli di progresso
economico più direttamente orientati al bene comune, all’inclusione e allo sviluppo integrale,
all’incremento del lavoro e all’investimento nelle risorse umane.” 2
Il premio ‘Economia e società’ sarà consegnato a Roma il 18 maggio prossimo nel Palazzo
della Cancelleria in occasione di una cerimonia
alla presenza degli autori, del Presidente della
giuria, commissione selezionatrice delle opere
Cardinale Reinhard Marx, e sotto la presidenza di Sua Eminenza il Segretario di Stato Cardinale
Pietro Parolin.
La premiazione avverrà nel
contesto dell’annuale convegno internazionale della
Fondazione Centesimus
Annus – Pro Pontifice, dal
titolo: “Constructive alternatives
in an era of global turmoil.
Job creation and human integrity in the digital space-incentives for solidarity and civic
virtue”, che si svolgerà
nell’Aula Nuova del Sinodo
(Città del Vaticano) e Palazzo
della Cancelleria (Roma), dal
18 al 20 maggio 2017.
1
Fondazione Centesimus Annus Pro
Pontifice, Statuto, Art. 3.
2
Discorso ai membri della Fondazione
Centesimus Annus Pro Pontifice, 13
maggio 2016.
Marzo
2017
12
Giulia Di Summa*
L
a patologia depressiva è considerata oggigiorno il male del secolo . Il disturbo appare come un dolore non descrivibile, un vuoto oscuro e maligno, che procura però un’ enorme sofferenza
alla persona che ne è affetta. Si sta sempre più riconoscendo che la
depressione rappresenta un problema crescente negli adolescenti. La
sua incidenza è decisamente superiore nell’adolescenza che nell’infanzia.
I disturbi dell’umore in generale, tra cui la depressione e il disturbo bipolare, e le sindromi ansiose sono le patologie psichiatriche che vengono diagnosticate più di frequenti negli adolescenti.
“Ho 14 anni e la mia vita è un casino. Fin dall’asilo e dalle elementari venivo esclusa e presa in giro, nessuno mai mi aveva permesso di
stare in sua compagnia, ogni volta che chiedevo qualcosa la risposta
era la stessa ‘’no!’’... Mi hanno sempre fatta sentire sola, mi rifugiavo
allora in quel solito angolino, da sola, ogni tanto piangevo...
Poi le elementari: vittima di bullismo (soprattutto verbale, ma più di
una volta anche fisico)... Mi chiamavano ‘’cicciona, brutta, stupida, fai
schifo’’ e con altri appellativi e offendevano anche la mia famiglia...
Le maestre naturalmente non dicevano nulla e se provavo a dire qualcosa, la colpa era mia secondo loro...
Prima media: wow, avevo cambiato scuola e ora mi aspettava una nuova vita! Avevo un unico sogno, dimostrare di essere intelligente e smentire le voci discriminatorie che già giravano su di me... per quell’anno
ci riuscii... ma poi... subito, a partire dal secondo anno, ho iniziato a
essere stanca, stanca di vivere, non mi impegnavo più in niente, non
facevo più niente e la mia autostima risprofondò... In terza non era
per nulla cambiata la situazione, o forse in realtà si, ero peggiorata:
le mie uniche amiche mi avevano abbandonata e sostituita proprio nel
momento in cui avevo bisogno di loro e il ragazzo che mi piaceva e
la sua ragazza mi hanno solo sfruttata in quanto a loro serviva un posto
sicuro e che non desse sospetti dove poter stare insieme da soli.
Ho cominciato ad avere attacchi di ansia, mi isolavo chiudendomi in
me stessa, piangevo ogni giorno, avevo talmente vergogna di me stessa che non volevo nemmeno più uscire di casa, la felicità era cosi lontana e fioca da sembrare impossibile da raggiungere... pensavo ogni
giorno al suicidio.”
Tra il 20% e il 30% dei ragazzi riferiscono di avere avuto almeno un grave episodio depressivo e questo basta per aumentare parecchio il rischio
che esso si ripeta in età adulta. Anzi, i ricercatori hanno scoperto che
il rischio di un episodio depressivo in età adulta aumenta se il teeneger ha anche solo dei sintomi depressivi, anziché un episodio clinico
conclamato. Tuttavia, adolescenti e adulti differiscono nel modo in cui
si manifesta la depressione. Quella dell’adolescente tende di più a cronicizzarsi ed è associata ad un aumento di 30 volte del rischio di suicidio.
Aldo soffre di ansie e depressioni che lo portano ad avere tachicardie
ed altre manifestazioni fisiche ad esse imputabili. All’età di 8 anni è stato molestato da un cugino più grande di lui e nonostante avesse fatto
di tutto per sentirsi vivo, non c’è mai riuscito veramente. Ha provato una
volta ad amare una ragazza, a trovarsi un lavoro e a somigliare alla gente che a lui sembrava felice ma senza alcun successo.
Michele frequenta la scuola tecnica e nonostante sia al quinto anno di
liceo non riesce ad abituarsi alle interrogazioni o ad esporsi davanti ad
altre persone. soffro di attacchi d’ansia molto forti con conseguenti tremori, rossore e difficoltà respiratorie.
Giusy ha 25 anni e segue l’ultimo anno di università. I suoi sintomi sono
tachicardia, suda a freddo, trema, prova senso di svenimento, nausea
e difficoltà a respirare e in quei momenti è come se vivesse in un mondo parallelo, non riesce ad avere contatto con la realtà e le persone accanto a lei. A causa di questo problema non riesce più a fare niente, ha
paura di uscire, non riesce a prendere mezzi pubblici o ad andare in
luoghi affollati perché le da fastidio avere tanta gente intorno.
Giulia soffre di attacchi di rabbia, vive in una casa che non è la sua ed
anche se la trattano come una figlia non riesce a gestire i suoi momenti di depressione. La cosa che le fa più male è non poter controllare queste situazioni e ferire chi le è intorno.
La depressione negli adolescenti una condizione grave che colpisce le
emozioni, pensieri e comportamenti. Anche se la depressione negli adolescenti non è medicalmente diversa da quella negli adulti, gli adolescenti hanno spesso sintomi unici. Questioni come lo studio, le aspettative e la competizione tra coetanei possono portare un sacco di alti e
bassi per gli adolescenti. La depressione negli adolescenti una condizione grave che colpisce le emozioni, pensieri e comportamenti. Anche
se la depressione negli adolescenti non è medicalmente diversa da quella negli adulti, gli adolescenti hanno spesso sintomi unici.
Questioni come lo studio, le aspettative e la competizione tra coetanei
possono portare un sacco di alti e bassi per gli adolescenti. Chiamata
continua nella pag. accanto
Marzo
2017
anche depressione maggiore o disturbo depressivo maggiore, la depressione negli adolescenti non è una debolezza o qualcosa che si può superare con la forza di volontà.
Come la depressione negli adulti, la depressione negli adolescenti è
una condizione medica che può avere gravi conseguenze. I sintomi più
frequenti negli adolescenti sono sentimenti di tristezza,
perdita di interesse o piacere nelle attività normali,
Irritabilità, frustrazione o sentimenti di rabbia, anche
su piccole cose ,insonnia o sonno eccessivo,
variazioni dell’appetito.
La depressione è
spesso causa di
diminuzione
dell’appetito
e
13
Non di rado gli adolescenti attraversano fasi alterne per ciò che riguarda l’umore. Oscillano tra sentimenti di colpa, vergogna, delusione, disistima ed emozioni di intensa agitazione e collera.
A volte trascorrono ore intere sdraiati o seduti, immersi in uno stato d’animo simile alla noia o alla tristezza e sono capaci di provare violente
passioni non appena si presenti loro l’occasione adatta. Tali comportamenti, abbastanza consueti a quest’età, possono mascherare in alcuni casi uno stato depressivo stabile.
Negli adolescenti, dunque, gli aspetti più tipici della depressione possono essere poco evidenti e
lasciare il campo a “equivalenti depressivi” quali disobbedienza, noia, faticabilità, dolori addominali, ipocondria.
il confine tra normalità e patologia non è evidente, è mascherato e variabile da persona a persona. Inoltre i ragazzi hanno capacità cognitive diverse dagli adulti nel differenziare tristezza e rabbia, nello sperimentare e descrivere la colpa, nel caratterizzare i fenomeni affettivi.
* AISPAC
Associazione Italiana Studio
Prevenzione Analisi Crimini – Velletri
Nell’immagine del titolo: un’opera
pittorica di Alfredos Jurevicius.
perdita di peso, ma in alcune persone provoca un aumento per il desiderio di cibo e aumento di peso, agitazione o irrequietezza, stanchezza, sentimenti di autosvalutazione o di colpa, difficoltà nel pensare, concentrarsi, prendere decisioni e ricordare le cose, frequenti pensieri di
suicidio, crisi di pianto senza motivo apparente, inspiegabili problemi
fisici, dirompenti problemi comportamentali, in particolare per i ragazzi, ansia, preoccupazione per l’immagine del corpo, in particolare nelle ragazze. Le persone confondono spesso la depressione con la tristezza.
Una convinzione errata ma molto diffusa è che la depressione è il risultato di una tristezza profonda. Tuttavia, il Professor David Kaplan, a
capo dell’American Counseling Association, ci tiene a precisare che questi due sentimenti non sono la stessa cosa. “Le persone abusano della parola ‘depresso’”, ha affermato Kaplan in un’intervista rilasciata alla
sezione Healthy Living dell’HuffPost. “La depressione è un termine clinico e molto spesso le persone che affermano di essere depresse, in
realtà, sono semplicemente molto tristi. Le parole che utilizziamo sono
potenti ed è essenziale fare una distinzione.”
Le persone depresse compiono sforzi per far finta che vada tutto bene
e a volte possono addirittura apparire particolarmente felici o ottimiste.
Non c’è niente di più sbagliato che credere che tutti coloro che soffrono di depressione si distinguano per la stessa personalità cupa e triste. Gli stati d’animo della depressione sono molteplici.
Chi soffre di depressione ha imparato a modificare il proprio stato d’animo e spesso può addirittura apparire oltremodo “felice”.
Le personalità sono mutevoli. Soventemente chi convive con la depressione cerca di mostrare agli altri l’aspetto più ottimista del proprio comportamento, a prescindere da quello che vive dentro. A nessuno piace avere sugli altri un’influenza negativa e renderli infelici, è per questo che chi è affetto da questo disturbo tende a compiere degli sforzi
per nascondere i propri sentimenti.
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Stanislao Fioramonti
N
acque verso il 385 a Bannhaven
Taberniae, nella Britannia Romana, da
genitori cristiani appartenenti alla
società romanizzata della provincia; il padre Calpurnio
era diacono della comunità e possedeva anche
un podere nei dintorni. Patrizio ebbe un’educazione
abbastanza elevata ma a 16 anni, villeggiando
nel podere del padre, fu fatto prigioniero insieme ad altri concittadini dai pirati irlandesi. Fu portato sulle coste settentrionali dell’isola, tradizionalmente
nella Slemish Mountain (1), contea di Antrim,
a poche miglia da Ballymena, e venduto schiavo; il padrone, che si chiamava Miluic, lo mise
a pascolare le pecore. La povertà e la solitudine, la libertà persa, il ritrovarsi in quella terra
verde e bellissima ma straniera, fra gente pressoché pagana che parlava una lingua che non
capiva, gli resero molto dura la vita, tanto che
tentò due volte la fuga.
Dopo sei anni di servitù, appresa la lingua e i
costumi dei padroni, capì che gli irlandesi avevano un’organizzazione tribale ma nobile e che
i rapporti tra le famiglie e le tribù erano rispettosi. Ma erano ancora pagani
e lui, schiavo, infine riuscì a fuggire.
S’imbarcò su una nave con il permesso del capitano e dopo tre
giorni di navigazione sbarcò su
una costa deserta della
Gallia; era la primavera del
407. Camminarono per 28
giorni, le scorte finirono e gli
uomini dell’equipaggio che
erano pagani spinsero
Patrizio a pregare il suo Dio
per loro; il giovane lo fece
ed ecco comparire un gruppo di maiali, con cui si sfamarono.
Tornato in famiglia, Patrizio
sognò che gli irlandesi lo chiamavano; rispose a quella ispirazione e decise di diventare
sacerdote per convertire le
tribù irlandesi pagane. Si recò
di nuovo in Gallia presso il
santo vescovo di Auxerre
Germano per continuare
gli studi, al termine dei
quali fu ordinato diacono; ma
i suoi superiori lo consideravano poco colto per l’apostolato in Irlanda.
Secondo Prospero d’Aquitania
nel 431 papa Celestino I inviò
nelle isole inglesi il vescovo Palladio, con l’incarico di
predicare ai pagani, contrastare
l’eresia di Pelagio e organizzare
una diocesi per quelli già convertiti al cristianesimo.
Palladio iniziò a predicare in
Irlanda, ma fu bandito dal re
del Leinster e allora si stabilì nel territorio dei Pitti, l’attuale Scozia. Predicò e consolidò la chiesa in
quel paese e morì verso il 450 nel monastero
di Fordun, a 15 miglia da Aberdeen, dove furono conservate le sue reliquie che nel 1409 l’arcivescovo di Aberdeen pose in un prezioso sarcofago. La festa di San Palladio,
primo vescovo d’Irlanda e primo vescovo e apostolo degli
Scoti, si celebra il 6 luglio.
Patrizio intanto trascorse un periodo nel famoso monastero di Lérins
di fronte alla Provenza, per assimilare la vita monastica, modello di Chiesa che poteva trasferire
tra i popoli celti e scoti, come
erano chiamati allora gli irlandesi. Con lo stesso scopo si recò
in Italia nelle isole di fronte alla
Toscana per visitare i piccoli monasteri e conoscere il metodo usato dai monaci per convertire gli
isolani.
Non è certo che abbia incontrato il papa a Roma, tuttavia
nel 432 fu nominato vescovo dell’Ibernia e successore di Palladio.
Il suo metodo di evangelizzazione risultò molto efficace; gli irlandesi erano raggruppati in tante tribù che formavano piccoli stati sovrani (tuatha), quindi per poter predicare e viaggiare sicuri occorreva il favore del re di ogni territorio. Perciò
Patrizio faceva molti doni ai reali e ai dignitari
che lo accompagnavano; ma non chiedeva nulla ai fedeli che convertiva: il denaro era in gran
parte suo, attinto dalla vendita dei poderi paterni ereditati. Da buon conoscitore della struttura sociale e politica dell’isola, puntava alla conversione dei re e dei nobili, che portava di conseguenza alla conversione dei sudditi. Introdusse
in Irlanda il monachesimo maschile e femminile, sorto da poco in Occidente, e molti giovani
aderirono con entusiasmo.
Predicò con successo in territori dove mai altri
predicatori erano giunti. Non tutto fu facile: le
persone più anziane erano restie a lasciare il
paganesimo e poi Patrizio e i suoi discepoli dovettero subire l’avversione dei druidi (casta sacerdotale pagana degli antichi popoli celtici, che praticavano i riti nelle foreste, anche con sacrifici
umani), i quali lo perseguitarono tendendogli imboscate e una volta lo tennero prigioniero per 15
giorni. Patrizio ebbe vita difficile anche con gli
eretici pelagiani, che per ostacolare la sua opera ricorsero anche alla calunnia; egli per discolparsi
scrisse una “Confessione” chiarendo che il suo
lavoro missionario era volere di Dio, che la sua
avversione al pelagianesimo scaturiva dall’assoluto valore teologico che egli attribuiva alla Grazia
e che lui era un “peccatore rusticissimo”, convertito per grazia divina.
Da Antonio Borrelli (sulla rubrica Santi e Beati)
apprendiamo ancora che nella sua opera apostolica e organizzativa della Chiesa Patrizio istituì delle diocesi territoriali (i territori in genere
corrispondevano a quelli delle singole tribù) con
vescovi dotati di piena giurisdizione.
Non essendoci città come nell’impero romano,
Patrizio come altri santi missionari dell’epoca istituì nelle sue cattedrali Capitoli organizzati in modo
monastico come centri pastorali della zona. Oltre
ai vescovati fondò anche chiese: una di queste
continua nella pag. accanto
Croagh Patrick, Saint Patrick.
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L’Isola di Lough.
si crede fondata nella vicina località di Skerry Francia, da dove il culto si diffuse in varie regioChurchyard. Predicò in forma itinerante per alcu- ni d’Europa; in tempi moderni il suo culto fu introni anni, sforzandosi di formare un clero locale; dotto in America e in Australia dagli emigranti
le ordinazioni sacerdotali furono numerose e non cattolici irlandesi.
(1) Slemish Mountain. Nel Saint Patrick’s Day
pochi suoi discepoli divennero vescovi.
Patrizio non fu il primo vescovo cristiano a visi- (17 marzo) una grande folla sale sulla cima del
tare l’Irlanda, perciò egli evangelizzò soprattutto monte in pellegrinaggio; la scalata e il ritorno
il Nord e il Nord-Ovest dell’isola. Nel resto del (1,5 km) richiede con il bel tempo circa un’ora.
territorio, a partire dall’anno 439, ebbe l’aiuto di I 180 metri di dislivello sono ripidi e rocciosi; il
altri tre vescovi, Secondino, Ausilio e Isernino. sentiero può diventare molto scivoloso con la
Secondo gli “Annali d’Ulster” nel 444 Patrizio fis- pioggia, poiché il tempo nella contrada di Antrim
sò la sua sede ad Armagh, nella contea che può cambiare molto velocemente. E’ disponibile
oggi porta il suo nome; sul luogo della sua chie- un ampio parcheggio con cartelli esplicativi e bagni.
sa sorge oggi la cattedrale protestante a lui inti- Dalla cima si hanno ottime vedute a est sulle
tolata. Secondo la tradizione, avrebbe anche tra- coste di Antrim e della Scozia, a ovest sulla citscorso quaranta giorni di digiuno e preghiera in tà di Ballimena, il Lough Neagh e i Monti Sperrin,
una caverna presso Lough Derg (2), laghetto a nord sulla Bann Valley e sulle cime delle colline di Antrim.
nella contea di Donegal (Ulster).
Pur vivendo da anni fra ‘stranieri e barbari’, il (2) Lough Derg. Località lacustre circa 4 km a
santo vescovo si sentì sempre romano, desideroso nord del villaggio di Pettigo, contea di Donegal
di rivedere la sua patria geografica (Britannia) (Ulster), diocesi di Clogher. Per i cattolici irlane quella spirituale (Gallia); ma la sua vocazione missionaria non gli permise mai
di lasciare la Chiesa d’Irlanda che Dio
gli aveva affidato, in quella che fu la terra della sua schiavitù.
Morì nel 461 nell’Ulster a Down (poi
Downpatrick), nella penisola di Ards, dove
oggi è una cattedrale, la sua tomba e
un San Patrick Center dedicato alla sua
vita e alla sua eredità. Durante il secolo VIII fu riconosciuto come apostolo nazionale dell’intera Irlanda e la sua festa il
17 marzo è ricordata per la prima volta nella Vita di s. Geltrude di Nivelles (VII
secolo). Spesso è raffigurato con una
piantina di trifoglio nella mano destra e
con una serpe ai piedi, indicando la leggenda che avrebbe scacciato le serpi dalla sua isola dalla cima del Croagh Patrick
(3) e avrebbe spiegato il mistero cristiano San Patrizio battezza
della Santissima Trinità partendo da un i cristiani convertiti,
Scuola Lombarda,
trifoglio (shamrock).
Intorno al 650, San Furseo portò alcu- XV sec. - Santuario
di San Patrizio,
ne reliquie di San Patrizio a Péronne in Colzate.
desi è un’antica meta di pellegrinaggio annuale, alla fine di luglio.
Prima tappa del pellegrinaggio è la statua di San
Patrizio (1928). Quindi, partenza in barca per
l’isoletta di Station Island, al centro del lago, definita il “Purgatorio di San Patrizio”. Da giugno ad
agosto accoglie un pellegrinaggio di tre giorni
in memoria del santo. Secondo una leggenda
riportata dal monaco inglese Enrico di Saltrey
(c.1190), all’apostolo dell’Irlanda che voleva contrastare l’incredulità di alcuni sulle pene del Purgatorio
il Signore mostrò una caverna presso Lough Derg
che immetteva nell’aldilà. Rimanendovi all’interno
con fede per una notte e un giorno, San Patrizio
avrebbe ottenuto il perdono dei peccati e, perseverando nel bene, l’eterna salvezza. La caverna, murata nel 1497 per ordine di papa
Alessandro VI, è fra le più antiche mete di pellegrinaggio dell’Europa occidentale.
(3) Croagh Patrick (m. 775), chiamata anche
the Reek, la collina, è la montagna sacra d’Irlanda.
Fa parte delle Murrisk Mountains e si trova nell’Irlanda
occidentale, contea di Mayo, a 92 km da Galway
city e a 230 da Dublino. Centro di riferimento è
Westport, a 5 miglia. A 8 km da Westport e alle
pendici del monte è il villaggio di Murrisk (m.
70), di soli 235 abitanti, dove è il Croagh Patrick
Visitors Center (Teach na Miasa) e di fronte il
National Famine Monument, in ricordo della grande carestia dell’Ottocento e delle sue vittime.
Da Murrisk parte il sentiero pietroso e spesso
fangoso e scivoloso per la vetta della montagna, su cui si pongono in cammino migliaia di
persone l’ultima domenica di luglio (The Reek
Sunday o The Garland Sunday), quando si svolge il pellegrinaggio nazionale alla cappella di S.
Patrizio, sulla vetta del monte, da cui si godono splendidi panorami sulla Clew Bay (dislivello di 705 metri).
Il pellegrinaggio popolare ricorda il santo che nel
441 digiunò e pregò per 40 giorni sul Croagh
Aigli, dopo la sua morte chiamato Croagh Patrick.
Anticamente si svolgeva il 17 marzo (St.
Patrick’s day), di notte, a piedi scalzi e con le
fiaccole, ma per gli incidenti legati alle avversità naturali fu spostato all’ultima domenica di luglio,
forse perché in quel giorno i druidi (i sacerdoti
celti) offrivano sacrifici al dio Lugh, il dio sole,
per favorire i raccolti. Prima della vetta si incontrano la statua del Santo e diverse “stazioni” a
ognuna delle quali i pellegrini, disposti in cerchio, recitano sette Pater Noster, sette Ave Maria
e un Credo, condizione per l’acquisto dell’indulgenza
plenaria concessa nel 1883 da papa Leone XIII,
insieme alla confessione e alla S. Messa e alla
S. Comunione sulla vetta, raggiunta dopo un ultimo ripido tratto, in una cappella dove una dozzina di sacerdoti, dietro una paratia di vetro all’esterno della chiesa, confessano e celebrano ogni
ora dalle 8 alle 15. Si gira intorno al St. Patrick’s
bed (letto di S. Patrizio), un paio di massi, e alla
cappella, dalla quale si gode un panorama che
William Thackeray nel 1842 considerò il più bello del mondo.
Nell’immagine del titolo: San Patrizio, G.B. Tiepolo,
XVIII sec., Venezia.
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2017
16
don Carlo Fatuzzo
N
ei mesi scorsi questa rubrica ha offerto ai lettori di Ecclesia una riflessione
sulla recezione cattolica della Parola
di Dio, alla luce della magistrale panoramica dell’esortazione apostolica Verbum Domini di
Benedetto XVI. Proseguiamo dunque una sintetica divulgazione dei più recenti documenti ecclesiali riguardanti l’imprescindibile centralità della Sacra Scrittura nella vita cristiana.
In questo numero presentiamo una Lettera Circolare
della Congregazione per il Clero promulgata il
19 marzo 1999, dal titolo: Il Presbitero, Maestro
della Parola, Ministro dei Sacramenti e guida della comunità.
Tale documento, seppur risalente a quasi una
ventina d’anni fa, conserva la propria attualità;
anzi, oserei dire che esso appaia ancor più urgente proprio in questi giorni, in cui la ribalta della
cronaca nazionale ha certamente amareggiato i fedeli cattolici nell’apprendere alcune notizie riguardanti l’attribuzione di condotte deplorevoli, tra l’immorale e il criminale, ad alcuni sacerdoti italiani.
Ringraziando Dio per le migliaia di presbiteri che
invece si donano con radicalità, serietà e abnegazione, nel totale “silenzio-stampa” del proprio
ministero quotidiano, approfittiamo della lettura di questo documento della Santa Sede come
una vera boccata d’aria pura o un sorso d’acqua limpida, risalendo alle sorgenti del più genuino dover essere di ogni sacerdote di Cristo.
Premessa la natura universalistica della missione
evangelizzatrice, estesa alla Chiesa intera e non
prerogativa esclusiva del clero, questa Lettera
ricorda il necessario e insostituibile ruolo dei presbiteri nell’annuncio efficace della Parola di Dio,
che li rende “araldi del Vangelo”, nella complementarità tra predicazione e sacramentalità, ossia
tra munus docendi e munus sanctificandi.
La predicazione della Parola, compiuta con un
vigore e un entusiasmo dal sapore davvero apostolico, è un servizio dovuto al popolo di Dio,
ma al contempo un atto di vera adorazione a
Dio stesso.
L’apostolo Paolo scrive infatti: «quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il Vangelo
del Figlio Suo» (Romani 1, 9). «Il ministro non
deve frapporre nessun ostacolo né perseguire
fini estranei alla sua missione, né facendo leva
sulla saggezza degli uomini né su esperienze
soggettive, che potrebbero annebbiare il Vangelo
stesso.
La Parola di Dio, quindi, non potrà mai essere
strumentalizzata!» (cap. II, § 1). Del resto, è ciò
che più recentemente ha ribadito anche il Direttorio
omiletico, raccomandando di vigilare affinché l’impronta umana del ministro non nuoccia alla fecondità apostolica della Chiesa con una manipolazione della Parola. C’è un legame indissolubile tra familiarità con la Parola di Dio, orazione personale e testimonianza di vita: tutti elementi egualmente indispensabili all’efficacia dell’evangelizzazione.
Per quanto riguarda il ministero omiletico, il documento insiste sull’importanza della preparazione remota, attraverso letture e interessi adeguati
(magistero ecclesiale, patristica, spiritualità, agiografia, scienza teologica, ma anche capisaldi di
cultura profana e questioni fondamentali nel dia-
logo con le istanze
odierne dell’umanità).
A questa si affianca
anche una altrettanto
necessaria preparazione prossima,
effettuata con cura
e con professionalità, che inizia da una
lettura orante della
Sacra Pagina e prosegue con uno studio serio e rigoroso
dei suoi sensi letterale
e spirituale, senza trascurare la traduzione del messaggio nei linguaggi
che di volta in volta meglio si adattano alle caratteristiche dell’uditorio (a
tale scopo non va disdegnata l’attenzione agli strumenti e
ai metodi più aggiornati della tecnica
comunicativa), evitando banalità e qualunquismo, dilettantismo e improvvisazione, vuota retorica e facili mutilazioni del messaggio biblico.
Il presbitero, nel suo ministero omiletico, è servo della Parola e diacono della Verità: pertanto è tenuto a manifestare in modo trasparente
e non deformato una piena conformità alla dottrina cattolica in materia di verità di fede e di morale, grazie anche alla formazione permanente per
il clero, vivamente caldeggiata da questo documento della Santa Sede, in sintonia col magistero precedente (in particolare con la Pastores
dabo vobis di San Giovanni Paolo II).
Per salvaguardare il bene primario della carità
unitamente a quello della verità, senza sconti
alle esigenze della Parola di Dio e allo stesso
tempo senza angoscianti oppressioni dell’animo dei fedeli, l’omileta deve sapere ferire le coscienze pur sempre senza ferire le persone.
Questa Lettera della Congregazione per il Clero
ricorda poi che l’annuncio della Parola, contestualizzato nel cammino annuale del ciclo liturgico, è una componente irrinunciabile della stessa vocazione presbiterale: l’amore convinto e
appassionato per la Parola di Dio è e sarà sempre la più autentica scintilla che potrà innescare nel cuore di tanti giovani cristiani la percezione della chiara chiamata del Signore Gesù
a seguirlo e servirlo nel meraviglioso servizio sacerdotale che Egli ha istituito.
E il presbiterio diocesano della nostra Chiesa
di Velletri-Segni, animato dalla sollecitudine e
dagli auspici del nostro vescovo Vincenzo, sta
pregando e riflettendo con rinnovata intensità,
proprio in questi mesi, per conferire maggiore
impulso al discernimento vocazionale delle nuove generazioni.
Marzo
2017
Sara Bianchini*
«Uno sviluppo che non lascia un mondo
migliore e una qualità di vita integralmente superiore non può considerarsi
progresso. L’esclusione economica e
sociale dei più poveri è una negazione
totale della fraternità umana.
I più poveri sono quelli che soffrono
maggiormente perché obbligati a vivere
di scarti e soffrire per primi le
conseguenze dell’abuso dell’ambiente
(pensiamo alle catastrofi naturali,
ai terremoti, agli tsunami che investono
per primi sempre i più poveri che
vivono in luoghi meno sicuri)».
C
osì si pronunciava
Padre Covini,
Vicepresidente della
Fondazione Magis, nel
marzo dello scorso
anno1. Questa prima considerazione sarebbe
sufficiente a spiegare perché il tema della formazione annuale diocesana per i volontari
e gli operatori della
Caritas, sia quello della cura del Creato, dell’attenzione all’ambiente.
È questa infatti una - seppure forse la meno
“conosciuta” - delle
attenzioni fondamentali
della Caritas, insieme
alla promozione umana e all’attenzione alla
mondialità. Secondo
lo stile per cui ogni opera Caritas deve essere un’opera-segno,
un’azione cioè che illustra il tocco essenzialmente pedagogico, educativo, con cui la Caritas agisce, il tema proposto per la formazione è quello di come educarci e come educare all’ecologia integrale di
cui la Chiesa si è fatta diverse volte promotrice, particolarmente con le parole dell’enciclica di papa Francesco Laudato si’.
Come ha espresso papa Francesco nel
Messaggio per la celebrazione della giornata
mondiale di preghiera per la cura del creato
(01/IX/2016), «Dio ci ha fatto dono di un giardino rigoglioso, ma lo stiamo trasformando in
una distesa inquinata di “macerie, deserti e sporcizia” (Enc. Laudato si’, 161). Non possiamo
arrenderci o essere indifferenti alla perdita della biodiversità e alla distruzione degli ecosistemi,
spesso provocate dai nostri comportamenti irresponsabili ed egoistici».
Non è solo dunque perché i poveri sono le prime vittime della distruzione del Creato che il
cristiano può definirsi ed essere tale solo se si
17
prende cura dell’ambiente. L’attenzione al
Creato non è un di più, ma è un tratto essenziale dell’identità cristiana, come ha sottolineato
Adriano Sella, missionario vicentino dei nuovi
stili di vita e creatore-referente della Rete interdiocesana dei Nuovi Stili di vita, che ha guidato
il secondo di questi incontri di formazione, svoltosi il 31 gennaio ad Artena.
Il salmo 104 al versetto 24 canta il fatto che la
terra è piena delle creature del Signore: l’uomo come l’ambiente, una fratellanza che
spesso siamo portati a dimenticare. Questo è
molto importante perché ancora oggi, molto spesso, l’atteggiamento comune è quello di subordinare la natura all’uomo (quando non è addirittura quello di subordinare l’uomo all’uomo, rendendo i più sprovvisti della terra vittime delle
catastrofi generate dalla subordinazione che l’uomo fa - a sé - della natura, come ricordavamo
con la citazione iniziale).
L’intervento di Pietro Ramellini, docente di scienze naturali e filosofia della biologia, tenutosi il
28 novembre, si è concentrato principalmente
su questo. Evidenziando le principali conseguenze
dell’antropocentrismo esasperato, che hanno
subordinato le scelte di rispetto per l’ambiente a quelle del profitto, Ramellini ha ribadito come
sia dovere di ogni uomo (e ancora di più di chi
riconosce l’ambiente come creatura di Dio, quindi il cristiano) innanzitutto conoscere quali sono
le condizioni e le sfide ecologiche; in secondo
luogo cogliere la logica di complessità che le
anima. Cosa significa? Che dobbiamo cercare di avere una visione più possibile “completa” non nel senso di conoscere ogni problematica
ambientale fino in fondo, ma nel senso di essere consapevoli che l’attenzione all’ambiente non
si riduce alla raccolta differenziata per esem-
pio, oppure che le fonti di notizie sull’ambiente spesso sono “interessate” in quanto indirettamente coinvolte magari in operazioni commerciali
all’interno di un campo su cui pretenderebbero di pronunciarsi (come chiedere ad un contadino che riempie i suoi prodotti di pesticidi se
essi fanno bene o male alla salute dell’uomo),
il che ci chiede lo sforzo di capire quali fonti siano accreditate e quali no.
E poi avere “chiara” la complessità di queste
tematiche, intendendo per “complessità” il fatto che le sfide ecologiche ci chiedono spesso
di scegliere fra corni della questione che sono
strettamente collegati fra di loro: un esempio
potrebbe chiarire, tutti ormai gridiamo allo scandalo dell’olio di palma, nessuno però si preoccupa di chiedersi come si sostenteranno i coltivatori - dei paesi poveri - in cui le palme da
olio sono diventate la
monocultura trionfante.
Il cardinale Gianfranco
Ravasi, rimandando
dalle pagine de Il
Sole
24
ore
(10/01/2016) all’enciclica
di papa Francesco, ce
lo chiariva bene:
«Senza elidere la
peculiarità e la responsabilità dell’essere
umano e senza cadere nella divinizzazione panteistica della
natura, [l’enciclica]
dichiara: “Essendo
stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo
uniti da legami invisibili
e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione
sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile” (n.
89). Potremmo, allora, declinare il celebre precetto biblico dell’amore per il prossimo - come
ha suggerito Enzo Bianchi, il priore di Bose anche in un’altra direzione: “Ama la terra come
te stesso”».
Il percorso di formazione è ancora in corso; lo
spunto che resta da approfondire è quello su
come da questa consapevolezza possano nascere dei nuovi stili di vita possibili per tutti, che
aprano al valore profondo della sobrietà e alla
spiritualità, che siano cioè una strada sulla quale riconoscere la grandezza del nome del Signore
su tutta la terra.
1
http://news.gesuiti.it/italia-laudato-si-e-lattenzionea-uno-sviluppo-rispettoso-del-creato/ (accesso alla
pagina in data 10/11/2016).
*Caritas Diocesana
Nell’immagine: una foto di Alice Vacondio.
Marzo
2017
18
Ufficiali a ricevere questo Rè,
e chiedergli licenza di poter comprare trè, o quattro bovi, qual
licenza non solo fù subito concessa, ma regalò altresì gli Uffiziali
di varij frutti, e diede loro da rinfrescarsi. Mentre così ci divertivamo, i marinari fecero gran
provisione di legna, e di acqua:
sicchè ben provisti, dopo giorni nove, che fù il dì 21. di Giugno,
facemmo vela”.
Tonino Parmeggiani
Continua il viaggio di Padre Antonio
Maria Scifoni, seguiamolo in questa
puntata, nel suo viaggio per mare, dallo
scalo effettuato nell’Isola di Giava, al
suo arrivo nel porto di Macao, Colonia
Portoghese e da qui, non senza altre
peripezie, verso la Provincia di
destinazione nell’Impero della Cina.
[Cap. 14] “In questo luogo [La nave Hercule, il
12 giugno 1744, arrivò nell’isoletta detta del Principe,
l’attuale Panaitan, situata all’inizio dello Stretto
della Sonda, unico varco tra le Isole di Sumatra
e Giava, per accedere al Mar Cinese] gettarono l’ancora, volendo fare nuove provvisioni [L’ultimo
scalo per far provviste di generi alimentari, era
stato effettuato oltre quattro mesi prima nell’Isola
di Capo Verde]. Appena fummo su l’ancora si
vedevano d’ogni intorno piccoli battelli di negri,
detti Malaij, da Malè [Forse dal termine Malesi,
uno dei gruppi etnici presenti in quella grande
regione], ed uno di questi ricapitò una lettera di
altra Nave Francese, che un mese avanti era
di là partita [Potrebbe anche trattarsi della nave,
partita sempre da Porto Luigi, sulla quale i nostri
non fecero in tempo ad imbarcarsi]. Era uno spasso vedere un continuo accesso, e recesso di què
battelli, nell’accostarsi, ed in partendo dicevano, Tabbè, che in lingua loro vuol dire, vi saluto, vi lascio, à Dio.
Portavano a vendere polli, ova, e pesci, altri avevano zucche, e limoni. Uno frà gli altri in più volte vendè una gran quantità di testugini, e la più
grande, da me misurata, era lunga palmi 6. romani [Oltre 120 cm., chissà quanti anni aveva!], a
segno che di questa sola fù preparato un pranzo per 22. persone che tanti appunto eravamo
nella mensa del Capitano [I dieci passeggieri e
gli Ufficiali]; col brodo ne fecero la zuppa, avemmo il nostro lesso, nostro spezzato, e l’interio-
ra le cossero arrostite: questo cibo è assai buono, e sano; ed espressamente ne bevono il brodo ogni mattina per rinfrescare, e raddolcire il
sangue [Ancora oggi il brodo e la carne di tartaruga sono molto apprezzati in varie parti del
mondo]. Nè fecero una grossa provvisione, perchè per gli infermi di male scorbutico, ò di mare,
è un preservativo nobilissimo.
Portavano ancora banane, che sono una specie di fico, ma assai lungo, simile a una gran
salsiccia [La descrizione oggi può far sorridere]; Guaiave, e sono come le nostre pere, e ve
né hanno bianche, e rosse di dentro [Ricche di
vitamine, sono frutti graditi]; Recarono Coccò
in gran quantità [Le Noci di Cocco]. Questo è
un frutto grande più di un nostro Melone, sopra
hà una scorsa alta un buon deto, e mezzo, questa si pesta, e poi filandola, né compongono funi,
e tela, più a dentro hà un guscio assai duro, quale diviso per il mezzo serve a quella gente per
tazze, e per cavare acqua dà loro vasi, entro
di questo guscio è una polpa bianca alta un buon
deto, questa si mancia, ma è assai dura, e del
sapore appunto delle nostre nocchie, ò avellane; di questa polpa se ne compongono varij dolci, appunto come noi ci serviamo delle amandole dolci; onde di questa ne cavano ancora olio
in abbondanza, finalmente nel suo mezzo contiene due bicchieri di Liquore chiaro, come acqua,
e rifrescativo. L’albero, da cui produconsi questi frutti, è molto simile alla palma, ma le foglie,
ed il piede sono assai maggiori, non però si alto,
come la palma.
L’Isola di Giava è assai grande, sotto il dominio, si può dire degli Olandesi, che vi hanno la
Città di Batavia [Con il nome di Batavia gli Olandesi
ribattezzarono la città di Giacarta, dopo la conquista agli inizi del ‘600] molto ben fortificata,
e presidiata; da questa ne cavano varie Droghe,
e Legnami di molta stima.
Vi sono ancora i loro antichi abitanti col loro Rè,
che risiede in Batan, ma poco conta, e sono sempre insidiati dagli Olandesi.
Mandò un giorno il Nostro Capitano due
[Cap. 15] “Il viaggio entro lo stretto era solamente di giorno, e
la notte eravamo sempre su l’ancora. Questo stretto, e quello
parimente trà l’Isola Summatra,
e Banca, di cui parlerò appresso, obbligano a gran vigilanza,
e dà di continuo gran travaglio
a tutti: il Capitano, Uffiziali, e Piloto
maggiore, sono in continua attenzione [A causa dei banchi di sabbia e delle forti correnti che erano pericolosi]; i marinari stanno voltando le vele or da questa, or da quella
banda, due giovani piloti sono colla loro applicazione, cioè uno da un bordo della Nave, e l’altro dall’altro, stanno scandagliando con piombo, qual’ altezza di acqua abbiamo (e per questo appunto dicesi stretto della Sonda, ò sia scandaglio) acciò la Nave non tocchi fondo.
Durò questa laboriosa operazione per otto giorni, poiché il dì 29. di Giugno fummo fuori di questo stretto, e camminavasi con più libertà; il giorno 2. di Luglio passammo a costo a due piccole Isole, dette le due Sorelle, ed il dì 4. entrammo nello stretto di Banca [L’Isola di Bangka], e
ricominciò la di sopra accennata fatica, qual durò
soli trè giorni: il dì 8. detto vedemmo l’Isola Saja,
ed indi quella di Lingèn, e ripassammo per la
seconda volta la linea equinozziale (= l’equatore), ed entrammo nella Latitudine Nord, ò
Settentrionale: Benchè i calori qui sieno grandi, soffia sempre qualche ventarello fresco, e si
hà un continuo piacere, nel vedere sempre nuove Isole, quali sembrano poste dalla divina provvidenza per segnali, per i quali i Piloti vanno regolando il lor cammino, così il dì 11. eravamo avanti l’Isola Aor, Pisang, e Timor, questa è assai grande, ed abitata dà Negri, il dì 18. si vidde quella di Polo Candor, questa pure è grande, ed aveva in circa 45. miglia di Lunghezza, tutta abitata: gli Inglesi fecero qui negli anni passati uno
sbarco, con intenzione di fortificarvisi, ma i paesani, coll’ aiuto dè Cocincinesi [Gli abitanti delle regioni a sud dell’attuale Vietnam], né uccisero gran quantità, e costrinsero il restante ad
abbandonare l’impresa. L’ultima isoletta, che vedesi, vien detta Pol zappato, poiché è un gran scoglio fatto a forma di una scarpa, quale dà Portoghesi
chiamasi, zappato, vicino a questa passammo
il dì 20. del detto mese: c’inoltrammo in
appresso nel golfo, quale è assai procelloso, pur
tuttavia si navigava senza incommodo.
Andavamo sempre contro il moto del sole, cioè
continua nella pag. accanto
Marzo
2017
questo dal Circolo del Cancro si avanzava verso l’equinoziale, e noi dall’equinoziale andavamo verso il Cancro; onde il dì 26 di Luglio avemmo per la seconda volta il Sole perpendicolarmente, e la noja del caldo rendevasi ormai insoffribile, à segno che più non si dormina la notte, ma chi si gettava sovra una cassa, e chi dormina sopra la Nave all’aria scoperta.
Finalmente la mattina del 28. trovai le guardie
tutte liete, poiché avevano già scoperte l’Isole
non molto distanti dalla Cina, trà qualche ora
cominciarono bene à distinguersi, e si vidde trà
le altre quella di Sanciano [L’Isola di Sancian,
dove l’Apostolo dell’Oriente morì il 3 dicembre
1552], in cui finì l’Apostolica sua carriera il
grand’Apostolo dell’Indie S. Francesco Saverio,
sogliono salutare questo luogo col Cannone, e
19
cantare l’Inno, Iste Confessor, la nostra Nave
però nulla fece di questo, onde io da me recitai il detto Inno, e mi raccomandai al Santo mio
Protettore, di cui ne ebbi il nome nel Santo Battesimo
[Come vedremo in seguito, P. Alberto si chiamava al battesimo Francesco Saverio, era nato
il 1 dicembre 1703 da Girolamo e Lavinia e battezzato, presso la Parrocchia di S. Martino in
Velletri, il 3 dicembre, giorno in cui ricorre proprio la festa di S. Francesco Saverio, Patrono
delle Missioni che aveva girato buona parte dell’estremo oriente]; ed il dopo pranzo giungemmo finalmente ad ancorare presso Macao; ed
il giorno appresso 29. di Luglio venne il P. Procuratore
Generale delle Missioni di Propaganda Fide Arcangelo
Miralta a prenderci, di notte mettemmo il piede
a terra, andando al nostro Conventino, ed i trè
Padri, che la dimoravano, ci attendevano nella porteria, e ci riceverono con tutta carità; ci portammo subito alla Chiesa per ringraziare il SS.mo
Sagramento del felice arrivo a quella terra, dopo
essere stati in mare da Porto Luigi di Francia
sino à Macao mesi sei, e 20. giorni, e dopo aver
fatto per mare di cammino corretto 18230. miglia
Italiane [I vari stati italiani avevano unità di misura differenti, presupponendo che quì sia il miglio
di 1.851,6 mt. si hanno ben 33.755 Km percorsi!],
e per misericordia del Signore, benchè molto io
abbia sofferto sempre con prospera salute.
Da Roma partij il dì 27. di Settembre del 1743.,
giunsi in Cina il dì 29. di Luglio del 1744. dunque fui per viaggio mesi dieci, e due giorni. Grazie
al mio buon Angelo Custode, che di me tenne
una particolar protezzione. Grazie al Sommo Dio,
che mi diè tanta forza, e salute. Sit nomen Domini Benedictum”.
[Fine della prima parte, fogli 1
– 22r., iniziamo a leggere la seconda parte del manoscritto]
Nell’immagine:
Rotta marittima seguita dal Vascello Hercule, dal 12 giugno al 28 luglio 1744, nei mari del sud-est asiatico, disegnata su parte della Mappa disegnata da M. Bonne nel 1770. Ad ogni data sono riportati i vari
eventi, avvistamenti, passaggi e soste accaduti durante il tragitto.
“Seconda Parte [Cap. 17.] Vi darete forse à credere, che giungendo
io à Cina, arrivassi alla meta del
mio viaggio, ed al mio riposo: ma
tutto appunto al contrario. Anzi
solo a Dio son ben noti i gran
travagli, che qui cominciarono,
e durarono sino al termine della mia permanenza in quelle parti Orientali.
Il porsi subito a scrivere cose concernenti il mio impiego, specialmente per apprendere una
lingua difficilissima, il sopportare un caldo intollerabile, che non
mi lasciava dormire la notte, il
mangiare sì differente dal nostro
e bere sempre acqua, il vedermi imminente il cammino di trè
mesi, ed ancor più, per fiumi pericolosissimi, per giungere alla
Missione destinatami da quel Padre
Procuratore, l’udire la morte di
Monsignor Maggi, seguita appunto, quando io là dimoravo, cioè
trà l’ottava dell’Assunta del
1744, erano come preludij dè maggiori patimenti, che mi aspettavano”.
Mons. Lodovico Maria Maggi, della Congregazione di S. Marco
di Firenze, Vescovo e Vicario
Apostolico in Cina, era colui che
aveva richiesto nell’anno 1740
al Cardinal Petra, allora Prefetto
della Congregazione di Propaganda
in Fide, l’invio di due sacerdoti
domenicani, in aiuto nelle vaste
Provincie del Hu Kuang e di Suciven, vedi la prima puntata.
“Il dì 4. di Gennaro del 1745. partirono per Xansì, e Xensì li due
continua nella pag. 20
Marzo
2017
20
Sul luogo della capanna ove morì, nell'isoletta di
Sanciano, S. Francesco Saverio
(7 aprile 1506 - 3 dicembre 1552, canonizzato nel 1622)
venne eretto nell'anno 1639 questo sarcofago con una
iscrizione a ricordo, in alto il testo in cinese ed in
basso in portoghese. Il corpo incorrotto venne
trasferito, dopo due mesi, nell'Isola di Goa in India.
segue da pag. 19
nostri Padri Riformati, ed il giorno 24. di
Febraro partì per Pekin il Padre Nostro
Teresiano. Giunse finalmente il dì 13. di Marzo
dell’istesso anno, destinato per il Prete Don Domenico
La Magna e per me stimato tempo a proposito
per lasciare Macao, ed entrare in Cina”.
Macao era una Colonia portoghese per cui dovevno passare la frontiera dell’Impero Cinese che
era ben sorvegliata proprio per evitare l’afflusso di stranieri: il modo più sicuro fu quello di procedere di notte, con barche lungo i fiumi, evitando le guardie lungo le rive. “Qui avvereste
riso nel solo vederci con barba cresciuta trè, o
quattro dita, con testa rasa, a riserva di un tondo dalla parte posteriore largo poco più di una
piastra, ove mi lasciarono i capelli, a quali (per
esser corti) adattarono una treccia finta, lunga
due buoni palmi [L’uso dell’acconciatura dei capelli con il codino non era solo una moda ma nel
secolo precedente era stata imposta tassativamente
dall’Imperatore anche ai popoli sottomessi; ai
missionari non rimaneva quindi che adeguarvisi, per non incorrere in ulteriori guai]: facevo
una bella figura; poiché interiormente ero vestito alla Cinese, esteriormente avevo la sola tonica, e cappa con cappello Europeo; così disposto, andavasi avvicinando la notte; quando ecco
dal Cielo una dirotta pioggia, allora ci si fece avanti il nostro condottiere, Uomo Cinese Cristiano,
ed accortissimo, vestito anch’egli ridicolosamente
con pelliccia adosso, un largo cappello di paglia
in capo, ed una lunga canna per bastone in mano,
per non essere raffigurato (= riconosciuto). Andiamo
ci disse: ma (repigliammo) e l’acqua? questa,
soggiunse, è a proposito, per occultarci maggiormente. Tosto si mutò scena, e si convertirono le risa in pianto.
Piangevano i Nostri Padri, cinque di numero, allorchè ci abbracciarono. Piangeva il Nostro buon
Padre Procuratore Miralta, al quale mi accostai
per volergli dire qualche cosa, mà i singhiozzi
mi affogarono le parole in gola, sicchè datogli
un’ abbraccio alla muta, si ritirò Egli nelle sue
stanze, dicendo, vi piango, vi piango. Indi abbracciai il Padre Compagno del suddetto Padre
Procuratore il Padre Guglielmi, e per ultimo il
mio Compagno Padre Maccioni; così trà i singhiozzi accompagnati sino alla Porteria, uscimmo bagnati da lagrime, ma ad un tratto ben lavati dalla pioggia”.
È naturale tanta commozione, dopo un anno e
mezzo vissuto assieme all’altro Padre domenicano, e per oltre sette mesi in preparazione nel
Convento di Macao, ben consapevoli dei rischi
in cui sarebbero incorsi nel proseguo della loro
missione.
[Cap. 18] “Non hò qui termini per ispiegarvi quell’improviso contento rasciugò le mie lagrime, e
mi volse in un subito dal cuore ogni amarezza:
vedermi ormai in attual principio delle mie brame, e dè patimenti per Gesù Xto (Christus), nel
quale sol confidavo in quella difficile impresa,
trà l’acqua, e le tenebre della notte, non vedendo ove mettessi li piedi, fece sì, che spuntasse un bel sereno nel mio cuore, che dileguò tutte le nuvole, e dè compagni lasciati, e dell’apprensione della lunga serie dè travagli, né quali attualmente mi esponevo: effetto invero della divina grazia!
Giungemmo bagnati sulla riva del fiume, e spogliatomi della cappa, e tonica, restai vestito alla
Cinese, entrammo in un piccolo battello che ivi
era preparato: il Padrone era Gentile [Cioè non
Cristiano], con altri trè parimente Gentili per remare: due Missionarij, col nostro Condottiere, eravamo trà tutti sette, ed il battello era sì piccolo, che sole quattro dita sopravanzavano sopra
l’acqua; ci avvisarono a non muoverci, altrimente
saremmo caduti tutti nel fiume.
Considerate, che buona entrata fù questa! bagnati, e stretti senza potersi muovere, e senza mai
dormire, e con timore di essere scoperti ad ogni
passo: poiché sulla sponda del largo fiume, or
da una, or dall’altra banda sono ogni terzo di
uno delle nostre miglia casette con soldati di guardia, per impedire specialmente il passaggio à
qualunque Forastiere, ancorchè Mercante,
andava dunque il piccolo barchetto or dall’una,
or dall’altra parte del fiume opposta alle dette
casette, per iscansare le guardie, e coll’ajuto del
Signore ci riuscì, e giungemmo di buon mattino ad un Barco [Una barca locale più sicura]
assai grande, che parimente da molti giorni in
un certo sito aspettavaci: quando fummo ivi dentro, cominciarono subito a remare.
È qui da notarsi, come questi barchi Cinesi sono
la dote, la Casa, ed ogni suo essere di una famiglia, e di queste vè ne sono innumerabili, e rimangono tutta la lor vita in questa Casa natante.
Uno di questi adunque fù il primo barco, in cui
entrammo, qui ci attendevano quattro Cristiani
antecedentemente fermati,
e stabiliti per Compagni
del nostro viaggio. Il Padrone
del barco con tutta la sua famiglia era gentile, avvisato della qualità delle due persone, che conduceva, e per conseguenza del pericolo, nel
quale si esponeva; ma l’argento, (di cui son’avidi fuor
di ogni credere, quelle genti), che in queste occasioni
si spende profumatamente,
non dubitate, che l’incorraggiva
a non temere; benchè quando condusse altri due
Missionarij, questo istesso
gentile passasse un’evidente pericolo, e per la paura allora concepita, ancora
avesse la febre”.
continua
Marzo
2017
Nicolino Tartaglione
L
’emanazione del nuovo regolamento della procedura per il riconoscimento dell’idoneità canonica ad insegnare religione
cattolica nelle scuole pubbliche e private non
è solo un adempimento rispondente alla modifiche intervenute nel mondo della scuola, nella normativa che disciplina l’IRC, nei percorsi
universitari, portato a cinque anni con l’intesa
MIUR-CEI del 2012.
Tale regolamento costituisce soprattutto uno
strumento che vuole stimolare la costruzione
di un IRC che sia ponte tra la comunità ecclesiale e la società civile in un ambiente importante e delicato come la scuola.
L’Evangeli Gaudium ci offre una prospettiva
per “leggere” questo regolamento. In particolare, uno dei postulati di Papa Francesco è che
il tempo è superiore allo spazio.
Si tratta “ di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a
sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo
della realtà impone. È un invito ad assumere la
tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Dare priorità allo spazio porta a
diventar matti per risolvere tutto nel momento
presente, per tentare di prendere possesso di
tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione.
Significa cristallizzare i processi e pretendere
di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere
spazi” ( EG 223) Il tempo in senso cronologico è una caratteristica del percorso scolastico, in cui l’IRC è parte integrante, che accom-
21
pagna la persona dalla scuola dell’infanzia alla
scuola secondaria superiore, ovvero dai 3 ai 18
anni. Un tempo che deve essere anche significativo, che aiuta i ragazzi ad aprirsi alla realtà, ad incontrarsi con gli altri, a rispettare opinioni e scelte diverse.
Nell’incontro con la scuola del maggio 2014 Papa
Francesco usava l’espressione, cara a Don Milani,
“imparare ad imparare” ! Don Milani aveva forse anticipato la scuola della competenza, dove
l’apprendimento è un processo che mette al centro la persona, e la conoscenza delle discipline non è fine a se stessa ma strumentale al saper
fare ed al saper essere.
Nello stesso incontro il Santo Padre richiamava
il proverbio africano che per educare un ragazzo ci vuole un villaggio; può esistere un villaggio senza relazioni significative? Esse però vanno costruite e, in un tempo di complessità e liquidità dell’identità soggettive, le difficoltà sono maggiori rispetto al passato. Siamo di fronte ad un
processo che richiede adattamenti continui. La
formazione del docente non può più solo limitarsi alla conoscenze e trasmissione dei contenuti della disciplina, ma esige anche una competenza a relazionarsi con gli altri.
Non basta la conoscenza teologica o di teorie
pedagogiche e didattiche, ma ai futuri docenti
di religione si richiede anche una maturità piscologica, indispensabile nella realtà della scuola, per gestire non solo il rapporto educativo
con gli alunni, ma anche con le famiglie e con
i colleghi.
L’insegnante di religione non può nascondersi
dietro la specificità della materia o i limiti normativi che ancora oggi affliggono la nostra disci-
plina. In questa logica si inserisce anche il periodo di prova, previsto dal regolamento dopo il superamento delle prova scritta ed orale, finalizzato a verificare la competenza “sul campo” del
docente prima di conferire l’idoneità, che come
previsto dalla Conferenza Episcopale Italiana,
è permanente e, di conseguenza, revocabile
solo con un processo canonico.
In questo periodo il nuovo docente sarà accompagnato da un collega tutor che avrà il compito principale di aiutarlo e sostenerlo nella prassi didattica.
Naturalmente un regolamento, ammesso che sia
adeguato, non deresponsabilizza la comunità
ecclesiale, dal momento che l’IRC è un ministero
ecclesiale, caratteristica essenziale, che va valorizzata e sostenuta aiutando il docente a “ordinare cristianamente un realtà temporale come
la scuola” .
Nel contesto di una Chiesa in uscita, che Educa
alla Vita Buona del Vangelo, consapevole di essere in un “cambiamento d’epoca” , il docente di
religione, è per molte persone del mondo della scuola l’unico contatto con la chiesa.
Si tratta di una responsabilità a cui i docenti non
possono sottrarsi, curando attentamente la propria spiritualità, ma che chiama la comunità ecclesiale a sostenerla con lo stile del samaritano e
con spirito misericordioso.
La scuola è uno dei luoghi dove si possono “
privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza
ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”
( EG n. 223)
Marzo
2017
22
Cari fratelli e sorelle,
la Quaresima è un nuovo inizio, una strada che
conduce verso una meta sicura: la Pasqua di
Risurrezione, la vittoria di Cristo sulla morte. E
sempre questo tempo ci rivolge un forte invito
alla conversione: il cristiano è chiamato a tornare a Dio «con tutto il cuore» ( Gl 2,12), per
non accontentarsi di una vita mediocre, ma crescere nell’amicizia con il Signore. Gesù è l ‘amico fedele che non ci abbandona mai, perché,
anche quando pecchiamo, attende con pazienza il nostro ritorno a Lui e, con questa attesa,
manifesta la sua volontà di perdono (cfr Omelia
nella S. Messa, 8 gennaio 2016).
La Quaresima è il momento favorevole per intensificare la vita dello spirito attraverso i santi mezzi che la Chiesa ci offre: il digiuno, la preghiera e l’elemosina. Alla base di tutto c’è la Parola
di Dio, che in questo tempo siamo invitati ad ascoltare e meditare con maggiore assiduità. In particolare, qui vorrei soffermarmi sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,1931). Lasciamoci ispirare da questa pagina così
significativa, che ci offre la chiave per comprendere
come agire per raggiungere la vera felicità e la
vita eterna, esortandoci ad una sincera conversione.
1. L’altro è un dono
La parabola comincia presentando i due personaggi
principali , ma è il povero che viene descritto in
maniera più dettagliata: egli si trova in una condizione disperata e non ha la forza di risollevarsi,
giace alla porta del ricco e mangia le briciole
che cadono dalla sua tavola, ha piaghe in tutto il corpo e i cani vengono a leccarle (cfr vv.
20-21). Il quadro dunque è cupo, e l’uomo degradato e umiliato.
La scena risulta ancora più drammatica se si
considera che il povero si chiama Lazzaro: un
nome carico di promesse, che alla lettera significa «Dio aiuta». Perciò questo personaggio non
è anonimo, ha tratti ben precisi e si presenta
come un individuo a cui associare una storia personale. Mentre per il ricco egli è come invisibile, per noi diventa noto e quasi familiare, diventa un volto; e, come tale, un dono, una ricchezza
inestimabile, un essere voluto, amato, ricordato da Dio, anche se la sua concreta condizione è quella di un rifiuto umano (cfr Omelia nel-
la S. Messa, 8 gennaio 2016).
Lazzaro ci insegna che l’altro è un dono. La giusta relazione con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore. Anche il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare
vita. Il primo invito che ci fa questa parabola è
quello di aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro
vicino sia il povero sconosciuto. La Quaresima
è un tempo propizio per aprire la porta ad ogni
bisognoso e riconoscere in lui o in lei il volto di
Cristo. Ognuno di noi ne incontra sul proprio cammino. Ogni vita che ci viene incontro è un dono
e merita accoglienza, rispetto, amore.
La Parola di Dio ci aiuta ad aprire gli occhi per
accogliere la vita e amarla, soprattutto quando
è debole. Ma per poter fare questo è necessario prendere sul serio anche quanto il Vangelo
ci rivela a proposito dell’uomo ricco.
2. Il peccato ci acceca
La parabola è impietosa nell’evidenziare le contraddizioni in cui si trova il ricco (cfr v. 19). Questo
personaggio, al contrario del povero Lazzaro,
non ha un nome, è
qualificato solo come
“ricco”. La sua opulenza si manifesta negli
abiti che indossa, di
un lusso esagerato.
La porpora infatti era
molto pregiata, più dell’argento e dell’oro, e
per questo era riservato alle divinità (cfr
Ger 10,9) e ai re (cfr
Gdc 8,26).
Il bisso era un lino speciale che contribuiva
a dare al portamento un carattere quasi sacro.
Dunque la ricchezza
di quest’uomo è
eccessiva, anche
perché esibita ogni
giorno, in modo abiNell’immagine:
Ricco epulone e il
povero,
Lazzaro Leandro da
Bassano, 1595.
Marzo
2017
23
segue da pag. 22
tudinario: «Ogni giorno si dava
a lauti banchetti» (v. 19). In
lui si intravede drammaticamente la corruzione del peccato, che si realizza in tre
momenti successivi: l’amore
per il denaro, la vanità e la
superbia (cfr Omelia nella S.
Messa, 20 settembre 2013).
Dice l’apostolo Paolo che «l’avidità del denaro è la radice
di tutti i mali» (1 Tm 6, 10).
Essa è il principale motivo della corruzione e fonte di invidie, litigi e sospetti. Il denaro può arrivare a dominarci,
così da diventare un idolo tirannico (cfr Esort. ap. Evangelii
gaudium, 55).
Invece di essere uno strumento
al nostro servizio per compiere
il bene ed esercitare la solidarietà con gli altri, il denaro può asservire noi e il mondo intero ad una
logica egoistica che non lascia spazio all’amore e ostacola la pace.
La parabola ci mostra poi che la cupidigia del
ricco lo rende vanitoso. La sua personalità si realizza nelle apparenze, nel far vedere agli altri
ciò che lui può permettersi. Ma l’apparenza maschera il vuoto interiore. La sua vita è prigioniera dell’esteriorità, della dimensione più superficiale ed
effimera dell’esistenza (cfr ibid., 62).
Il gradino più basso di questo degrado morale
è la superbia. L’uomo ricco si veste come se fosse un re, simula il portamento di un dio, dimenticando di essere semplicemente un mortale. Per
l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze non
esiste altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non entrano nel suo sguardo. Il frutto dell’attaccamento al denaro è dunque una sorta di cecità: il ricco non vede il povero affamato, piagato e prostrato nella sua umiliazione.
Guardando questo personaggio, si comprende
perché il Vangelo sia così netto nel condannare l’amore per il denaro: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà
l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza»
(Mt 6,24).
3. La Parola è un dono
Il Vangelo del ricco e del povero Lazzaro ci aiuta a prepararci bene alla Pasqua che si avvicina. La liturgia del Mercoledì delle Ceneri ci invita a vivere un’esperienza simile a quella che fa
il ricco in maniera molto drammatica. Il sacerdote, imponendo le ceneri sul capo, ripete le paro-
le: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai».
Il ricco e il povero, infatti, muoiono entrambi e
la parte principale della parabola si svolge nell’aldilà. I due personaggi scoprono improvvisamente che «non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via» (1 Tm 6,7).
Anche il nostro sguardo si apre all’aldilà, dove
il ricco ha un lungo dialogo con Abramo, che chiama «padre» (Lc 16,24.27), dimostrando di far
parte del popolo di Dio.
Questo particolare rende la sua vita ancora più
contraddittoria, perché finora non si era detto
nulla della sua relazione con Dio. In effetti, nella sua vita non c’era posto per Dio, l’unico suo
dio essendo lui stesso.Solo tra i tormenti dell’aldilà il ricco riconosce Lazzaro e vorrebbe che
il povero alleviasse le sue sofferenze con un po’
di acqua.
I gesti richiesti a Lazzaro sono simili a quelli che
avrebbe potuto fare il ricco e che non ha mai
compiuto. Abramo, tuttavia, gli spiega: «Nella
vita tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi
mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu
invece sei in mezzo ai tormenti» (v. 25). Nell’aldilà
si ristabilisce una certa equità e i mali della vita
vengono bilanciati dal bene.
La parabola si protrae e così presenta un messaggio per tutti i cristiani. Infatti il ricco, che ha
dei fratelli ancora in vita, chiede ad Abramo di
mandare Lazzaro da loro per ammonirli; ma Abramo
risponde: «Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro»
(v. 29). E di fronte all’obiezione del ricco, aggiunge: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (v. 31). In questo modo emerge il vero problema del ricco: la radice dei suoi mali è il non
prestare ascolto alla Parola di Dio; questo lo ha
portato a non amare più Dio e quindi a disprezzare
il prossimo. La Parola di Dio è una forza viva,
capace di suscitare la conversione nel cuore degli
uomini e di orientare nuovamente la persona a
Dio. Chiudere il cuore al dono di Dio che parla
ha come conseguenza il chiudere il cuore al dono
del fratello.
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima è il tempo
favorevole per rinnovarsi nell’incontro con
Cristo vivo nella sua Parola, nei Sacramenti e
nel prossimo. Il Signore - che nei quaranta giorni trascorsi nel deserto ha vinto gli inganni del
Tentatore - ci indica il cammino da seguire.
Lo Spirito Santo ci guidi a compiere un vero cammino di conversione, per riscoprire il dono della Parola di Dio, essere purificati dal peccato che
ci acceca e servire Cristo presente nei fratelli
bisognosi. Incoraggio tutti i fedeli ad esprimere questo rinnovamento spirituale anche partecipando
alle Campagne di Quaresima che molti organismi
ecclesiali, in diverse parti del mondo, promuovono per far crescere la cultura dell’incontro nell’unica famiglia umana.
Preghiamo gli uni per gli altri affinché, partecipi della vittoria di Cristo, sappiamo aprire le nostre
porte al debole e al povero. Allora potremo vivere e testimoniare in pienezza la gioia della Pasqua.
Dal Vaticano, 18 ottobre 2016,
Festa di San Luca Evangelista
FRANCESCO
Marzo
2017
24
don Andrea Pacchiarotti
S
i apre davanti a noi il tempo santo della Quaresima, un tempo favorevole per
rinnovare le motivazioni profonde di ciascuno di noi e per tentare di sfuggire le abitudini e la routine che spesso spengono i motivi
e il senso di questo momento di rinnovamento spirituale. Uno dei cardini del pensiero di papa
Francesco, “il tempo è superiore allo spazio”,
può aiutarci ad entrare dentro questo tempo,
perché non si tratta di occupare degli spazi o
compiere dei riti per abitudini, ma avviare dei
processi affinché la Quaresima non sia solamente
spazio di digiuno, ma tempo di verifica, non solo
spazio di preghiera, ma tempo di ascolto, non
soltanto spazio di elemosina, ma tempo di condivisione.
La Quaresima conduce alla Pasqua “meta sicura” del cammino di conversione per stringere
amicizia con Gesù “amico fedele che non ci abbandona mai, perché, anche quando pecchiamo,
attende con pazienza il nostro ritorno a Lui”. Lo
scrive papa Francesco nel Messaggio per la
Quaresima 2017 dal titolo “La Parola è un dono.
L’altro è un dono”. Innanzitutto, accoglienza della Parola, perché nasca in noi il desiderio di una
verifica sull’accoglienza del Vangelo nella
nostra vita. Tutto il tempo della nostra esistenza
è un continuo tentativo da parte di Dio di parlare al cuore dell’uomo.
Per questo possiamo domandarci, fino a che
punto il Vangelo è entrato nella nostra vita? Quali
sono i luoghi della nostra vita in cui il Vangelo
non riesce a entrare? Lì dove tocca la nostra
profondità, che frutti porta? La Parola di Dio,
scrive il papa “è una forza viva, capace di suscitare la conversione nel cuore degli uomini e di
orientare nuovamente la persona a Dio.
Chiudere il cuore al dono di Dio che parla ha
come conseguenza il chiudere il cuore al dono
del fratello”. La Parola di Dio vuole raggiungerci
nella nostra umanità, vuole essere Parola di speranza, di gioia, di forza, una Parola che affascina.
Una Parola che mi raggiunge a partire nelle mie
fragilità, e proprio da queste “periferie” la sento Parola di tenerezza, di misericordia, Parola
che fa tanto bene alla mia vita. Mi fa bene perché mi fa sentire figlio amato, accolto e consolato. La Parola di Dio “ci aiuta ad aprire gli
occhi per accogliere la vita e amarla, soprattutto quando è debole. Ma per poter fare questo è necessario prendere sul serio anche quanto il Vangelo ci rivela”. Quest’ascolto ci apre all’incontro privilegiato con Cristo, incontro che cambia il cuore, perché facendo esperienza del suo
amore ci rende capaci di ascoltare il grido del
povero. Il povero, scrive il papa, non è un ingombro ma “un appello a convertirsi e a cambiare
vita” e la “Quaresima è un tempo propizio per
aprire la porta ad ogni bisognoso e riconoscere in lui o in lei il volto di Cristo. Ognuno di noi
ne incontra sul proprio cammino. Ogni vita che
ci viene incontro è un dono e merita accoglienza,
rispetto, amore”.
Dobbiamo però essere sinceri, non è questa l’esperienza quotidiana di tantissimi di noi. A noi
danno fastidio i poveri, danno fastidio i senza
fissa dimora, gli immigrati, i profughi, e questo,
sia a livello personale che a livello globale. Viviamo
un momento di grande chiusura e il chiuderci
al dono della Parola di Dio ci acceca e chiude
il cuore al dono dell’altro. E’ naturale – ed è umano – avere il timore del fratello che vive situazioni di disagio, perché – come dice Papa Francesco
nel Messaggio – spesso questo sembra che ci
scomodi e ci ingombri, mentre in realtà ci richiama a cambiare vita perché dall’aprirsi dell’uomo che viene la vita; dal chiudersi viene la morte. Questo è un messaggio che vuole invitare
tutti ad aprire il loro cuore all’ascolto della Parola
di Dio, e tanto più l’uomo si apre alla Grazia –
all’agire di Dio – tanto più diventa sensibile anche
alle persone che gli stanno intorno.
La novità che possiamo vivere in questa Quaresima
è scoprire che ascoltare Dio significa anche ascoltare l’uomo, che l’altro è un dono, un qualcosa che mi arricchisce.
La Quaresima diventi allora spazio privilegiato di ascolto a livello personale, ma anche comunitario. L’Ufficio liturgico diocesano propone, per
dare a tutti la possibilità di un ascolto orante della Parola, una piccola guida che ogni Parrocchia
può richiedere, sia per i singoli che per le famiglie. Inoltre s’invitano le comunità parrocchiali
ad avviare momenti di riflessione sul tema dell’accoglienza dell’altro, accoglienza che scaturisce dall’ascolto della Parola. Proposte semplici che ci aiutino a comprendere questo messaggio importante che possiamo fare nostro, anzi
che dobbiamo fare nostro.
Marzo
2017
25
don Carlo Fatuzzo
U
no dei temi centrali del magistero del nostro vescovo Vincenzo
è che il fondamento dell’intero complesso della catechesi ecclesiale, anzi della pastorale tutta nella sua globalità, sia la Parola
di Dio, e in special modo la Parola nella Liturgia, in quanto incarnazione vivente della voce del Signore che ogni giorno e in ogni tempo
dell’anno e della vita ci accompagna all’appassionante scoperta della
sua divina volontà, e comunica il proprio disegno d’amore su ciascun
fedele e sull’intera comunità cristiana.
Il tempo liturgico della Quaresima, com’è noto, è connotato da una
proposta di letture e meditazioni bibliche – all’interno sia del Lezionario
feriale e festivo che del Breviario – dalle molteplici implicazioni e di una
grande ricchezza di significati.
Per antichissima tradizione, infatti, i brani della Sacra Scrittura che la
Chiesa proclama in questo periodo possiedono una plurima valenza:
l’iniziazione cristiana (detta “illuminazione”) dei catecumeni in vista del
battesimo nella veglia di Pasqua; l’invito alla conversione in vista della riconciliazione pasquale dei penitenti; la memoria dei quaranta giorni di digiuno e agone spirituale contro le tentazioni di Gesù nel deserto; il parallelo ricordo dei quaranta giorni di dialogo tra Dio e Mosè sul
Sinai e al contempo dei quaranta anni di esodo del popolo eletto verso la terra promessa; l’impegno ascetico nell’offrire a Dio questa “decima” dell’anno (questa è difatti la percentuale del numero di giorni quaresimali rispetto a quelli annui totali) attraverso i classici strumenti spirituali e pratici della preghiera, dell’elemosina e del digiuno; la preparazione alla più importante celebrazione dell’anno liturgico che è il Mistero
Pasquale col suo solennissimo triduo della Passione e Resurrezione
di Gesù.
Il mercoledì delle Ceneri, nel quale la Quaresima prende il suo avvio,
il Lezionario della Santa Messa del giorno proclama l’invito al “ritorno”
(primo significato etimologico della conversione nel lessico ebraico) a
Dio col digiuno, la contrizione del cuore e la richiesta di perdono dei
peccati, secondo la profezia di Gioele (cfr. 2, 12-18), che testimonia
una grandiosa liturgia penitenziale del V sec. a.C., cui risponde il salmo penitenziale per eccellenza (cfr. Salmo
51 [50]).
L’apostolo Paolo, con la sua accorata supplica rivolta ai Corinzi
in nome di Cristo, a lasciarsi riconciliare con Dio immediatamente, nel giorno favorevole alla salvezza (cfr.
2 Corinzi 5, 20 – 6, 2), introduce poi il tempo propizio per “praticare la giustizia” secondo il cuore di
Cristo, attraverso l’umile
e nascosto esercizio della carità, della preghiera
e della mortificazione (cfr.
Matteo 6, 1-18).
La prima domenica di questo anno A del ciclo triennale della Liturgia
festiva della Parola ci presenta la caduta di Adamo subito dopo la creazione (cfr. Genesi 2, 7-9; 3, 1-7) e la sua redenzione per grazia di Cristo
dopo quella nuova creazione che è la resurrezione (cfr. Romani 5, 1219). L’episodio della lotta tra Gesù e satana nel deserto viene presentato
quest’anno dall’evangelista Matteo (cfr. 4, 1-11).
La seconda domenica, con la medesima pedagogia adottata da Cristo
stesso con i suoi discepoli, la Chiesa ci mostra l’evento luminoso e glorioso della Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor (cfr. Matteo 17, 19), per preparare in anticipo la nostra debolezza ad affrontare la tremenda visione della sua Passione senza disperare nella Resurrezione.
Un’esplicita catechesi pre-battesimale viene assicurata dalla Chiesa
nella terza domenica, con la proclamazione del dialogo tra Gesù e la
donna samaritana, in cui egli annuncia lo sgorgare della sorgente d’acqua per la vita eterna (cfr. Giovanni 4, 5-52).
Un ulteriore gradino della scala verso la completa illuminazione dell’aspirante al battesimo è attraversato nella quarta domenica, con l’episodio della guarigione del cieco nato (cfr. Giovanni 9, 1-41), simbolicamente associato al dono della fede in Cristo e alla visione della Verità
su Dio che in Gesù è pienamente rivelata. La quinta domenica, poi,
presentando la resurrezione di Lazzaro (cfr. Giovanni 11, 1-45), conduce al culmine della teologia battesimale sul passaggio dalla morte
del peccato alla vita della grazia per opera della potenza redentrice di
Cristo.
La Liturgia delle Ore dipana sui giorni e sulle settimane del cammino quaresimale la meditazione di così tematiche così ricche e profonde,
aiutandoci a orientare la nostra preghiera personale e comunitaria alla
luce del racconto dell’esodo dalla schiavitù d’Egitto alla libertà della
patria, nell’ascolto delle parole dei profeti sul vero digiuno del cuore e
di quelle degli apostoli sulla purezza del nostro culto a Dio come frutto della nostra conversione.
Grazie alla revisione generale della nostra vita spirituale e al rinnovato impegno nella scelta radicale di Dio, grazie all’abbraccio misericordioso del Padre nella riconciliazione sacramentale, grazie all’accoglienza
dei nuovi figli di Dio nell’immersione battesimale, la Chiesa invita tutti a riempire la sala del banchetto nuziale del Re.
Nessuno degli invitati, anche i più lontani, il cui ritorno è maggiormente
atteso, potrà così mancare
all’appuntamento gioioso
con la Pasqua, svolta
irreversibile della storia
umana e inaugurazione di un’era di pace
per tutti i popoli. Ecco
perché Gesù in persona, che parla quando la Chiesa proclama la Sacra Scrittura,
grida a tutti noi: «Venite
alla festa!» (cfr. Matteo
22, 4).
Marzo
2017
26
Luigi Musacchio
“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo
e Giovani e li condusse in disparte,
essi soli, su un alto monte, dove si
trasfigurò davanti a loro”.
I
n questa proposizione, tutta bella coordinata, si possono individuare tre momenti
emblematici: 1°) Gesù che prende con sé
i tre discepoli, 2°) li conduce in disparte e 3°)
si trasfigura davanti a loro.
Nel primo e nel secondo momento si celebra
la magnificenza della famigliarità amicale: c’è
in quel “prendere con sé” di Gesù la confidenzialità,
la naturalezza di un gesto che non ha bisogno
di parole di richiesta e di acconsentimento. È
tutto così semplice e spontaneo. I discepoli, infatti, si prestano a incamminarsi insieme con il loro
Maestro.
La meta è un “alto monte”. L’altezza di questo
monte che, geograficamente, sappiamo essere in Palestina piuttosto modesta, segna – come
quella volta primigenia con Mosé – una distanza che è insieme verticale e orizzontale, avvicinamento al cielo e allontanamento dalla terra. E’ il momento in cui il Signore avverte imminente l’appressarsi del culmine della Sua vicenda e in cui si appalesa il Suo contemporaneo
“allontanamento” (che non è estraniamento) dalla “terra”.
Questo terzo momento si riveste immediatamente
di divinità: Gesù si trasfigura davanti ai suoi discepoli. Per rendere la sublimità di questo avvenimento, l’evangelista non ricorre a parole, metafore ridondanti; ma, per stupefacente contrasto, utilizza un riferimento che non è dato immaginare più modesto: quello di un “lavandaio” che
non potrebbe rendere più candide le vesti in cui
appare avvolto Gesù. (La grandezza di un cronista ispirato si tradisce anche in queste sue
performances).
Nel frattempo - come se già non bastasse tale
straordinario avvenimento - a colmare il vaso
dello stupore presumibilmente annichilito dei
tre compagni di fede, appaiono anche Elia e
Mosè che conversano con Gesù.
La miracolosa grandiosità della scena si appalesa a noi lettori moderni solo se facciamo mente e occhi “locali” e solo a condizione che, con
un certo sforzo, proviamo a porci nei panni dei
discepoli presenti all’accadimento: ma riusciamo a “realizzare” quello che accade? E cioè
assistere a un avvenimento del genere?
La terra sfuma i suoi confini, il cuore batte all’unisono con l’essenza dell’universo, gli occhi si
inondano di luce celestiale…
E, in effetti, lo sbalordimento dei discepoli si traduce in sgomento da panico. Essi cadono con
la faccia a terra dopo che una voce “misteriosa”
è risuonata dal cielo: Gesù viene riconosciuto
come Figlio prediletto ed amato.
L’invito, quanto mai perentorio, è quello di ascoltarLo.
Il resto della vicenda, mai conclusa ma appena iniziata, è scritto nelle pagine del Vangelo
e della storia dell’umanità, la
quale, ancora
oggi, si interroga su quell’invito.
Quello che
accadde
sull’“alto monte”
è indicibile e
indescrivibile;
tanto che, forse,
possono bastare le semplici e,
apparentemente, “sufficienti”
parole di Marco.
Nell’immagine :
Trasfigurazione
di Cristo,
Tiziano Vecellio,
1563, Venezia.
Marzo
2017
27
don Antonio Galati
L
’articolo del mese scorso, il primo di questa serie di riflessioni
sulla sinodalità, si è concluso
affermando che l’atteggiamento
di una Chiesa sinodale è quello in cui tutti i battezzati, come
pietre vive, si sentano corresponsabili della vita ecclesiale e possano, anche con
dibattiti e confronti, arrivare
a percorrere insieme la stessa strada, tra le tante vie del mondo.
Perché questo sia possibile, però, c’è bisogno
che, tutti quelli che vogliano concorrere nel condividere la stessa responsabilità per la propria
Chiesa locale, “amino” questa Chiesa nella sua
concretezza, cioè nelle persone, nei battezzati, che la compongono ai diversi livelli.
Detto in maniera più sintetica, e forse tecnica,
per vivere la sinodalità c’è bisogno di vivere, prima, la comunionalità. Questa rimanda, evidentemente,
alla parola “comunione”, intesa in senso forte
ed eucaristico. La comunionalità non è quindi,
solo, la condivisione di qualcosa o di qualche
obiettivo, ma è proprio tutto ciò che consegue
dalla comunione eucaristica.
Ogni qualvolta, infatti, le persone partecipano
al banchetto eucaristico, cioè alla Messa, e “fanno la comunione”, si ingenera un processo particolare che si potrebbe sintetizzare in questo
modo: si entra in comunione con la vita trinitaria in cielo e ci si ritrova a vivere la comunione
tra i fratelli su questa terra. E non può essere
altrimenti, infatti: «un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione;
un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra
di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente
in tutti» (Ef 4,4-6).
L’unità e l’unicità di Dio, con il quale si entra in
comunione con l’unico pane spezzato, sono la
causa e il motivo dell’unica comunità che si forma su questa terra, in forza della partecipazione all’unico sacrificio redentivo di Cristo.
Per questo la Chiesa è una e unita, o almeno
dovrebbe essere una e unita al suo interno. E
proprio su questa unità, che è comunione, si basa
la possibilità della “vita”, o dello stile, sinodale.
Ora ci si potrebbe domandare con “quale” Chiesa
si ingenera questa comunione, e quindi questo
stile sinodale: con la parrocchia? Con la
Chiesa diocesana? Oppure con il papa e la Chiesa
universale?
Evidentemente la risposta corretta è con tutte
e tre queste dimensioni di Chiesa. Però, più approfonditamente, potrebbe emergere una domanda più sottile: quale di queste tre dimensioni è
“la prima”? Cioè, attraverso quale delle tre un
battezzato si inserisce in questo dinamismo comunionale che permette di sentirsi in comunione
con tutti, e quindi è spinto a vivere e a mettere in pratica l’atteggiamento sinodale, cioè il prendersi cura della Chiesa, per quello che gli compete?
Per rispondere a questa domanda è possibile
guardare all’inizio della storia del cristianesimo,
cioè al momento in cui, dopo l’ascensione di Gesù,
gli Apostoli e i loro collaboratori iniziarono ad evangelizzare. Se si guarda a quei primi secoli, si
può notare come i missionari del Vangelo si spostavano all’interno dell’impero romano utilizzando
le grandi vie di comunicazione, le sole che permettevano di raggiungere le grandi città (si vedano, per esempio, le tappe dei viaggi missionari di Paolo).
Appena un evangelizzatore arrivava in città, iniziava a predicare il Vangelo e intorno a lui si riuniva la prima comunità di quella zona. Egli poi partiva per la tappa successiva, spesso a grandi
distanze, mentre la comunità che era presente nella città si organizzava scegliendo i suoi responsabili, e poi mandava evangelizzatori nelle zone
limitrofe, “le campagne” che circondavano la città, e qui si andavano a formare delle comunità “figlie” di quella che era presente in città.
In questo modo, se da una parte il Vangelo iniziava ad essere ascoltato anche nelle zone più
periferiche, dall’altra le comunità di queste zone
sentivano un legame comunionale forte con quella della città, dalla quale venivano i missionari
che hanno annunziato loro il Vangelo della vita.
Per cui, per loro, essere in comunione con la
Chiesa, significava essere in comunione con la
comunità che risiedeva nella città, in maniera
particolare con il capo di questa comunità, che
era il vescovo.
In seguito, questi insiemi di comunità di città e
di campagna diventeranno le diocesi.
Per questo motivo, per le Chiese locali dei primi secoli, essere in comunione significava stare in comunione con il proprio vescovo. Ad un
altro livello, poi, i vescovi, tra loro, stringevano
rapporti di comunione e di collaborazione, specie con quelli che erano più vicini. Tra loro veniva scelto un responsabile che, a sua volta, stringeva rapporti di comunione con gli altri responsabili di altri raggruppamenti più vicini. E così,
di grado in grado, fino a che i responsabili più
in alto della gerarchia non stringevano rapporti di comunione tra loro e con il vescovo di Roma,
cioè il papa.
In altre parole, un battezzato, che voleva sentirsi in comunione con tutta la Chiesa universale,
doveva sentirsi prima di tutto in comunione con
il proprio vescovo, sapendo che attraverso quest’ultimo, stando lui in comunione con gli altri
vescovi e con il papa, stava in comunione con
la Chiesa universale, e con il papa in particolare. Al contrario, un battezzato non poteva dirsi in comunione con la Chiesa universale, e con
il papa, se mancava di comunione con il proprio vescovo.
Questo era lo stile comunionale della Chiesa dei
primi secoli, e in questo stile si sviluppa proprio
la prassi sinodale, cioè appunto questa corresponsabilità di tutti al bene della Chiesa. E allora, per concludere, se oggi si vuole riscoprire
questo stile sinodale per la nostra Chiesa, e cioè
fare in modo che tutti i battezzati di Velletri-Segni
possano prendersi cura e intervenire nella vita
ecclesiale, è bene, prima di tutto, riscoprire la
vita comunionale con il vescovo in primis, e poi
con il resto dei fratelli battezzati, sapendo che
“facendo la comunione” eucaristica si manifesta proprio questa voglia di comunionalità.
Marzo
2017
28
tenimenti ludici per i più piccoli fino, man mano,
alla conferenza per gli adulti.
In quest’ultima, curata dal presidente diocesano dell’Azione Cattolica Costantino Coros, si è
soprattutto parlato di immigrazione ed integrazione. In particolare del tipo di accoglienza cosiddetto “tutoraggio” ovvero ospitare immigrati, giunti con il loro carico di esperienze che definire
disavventure è un eufemismo, presso famiglie
delle comunità parrocchiali al fine di agevolarne l’integrazione. A supporto la testimonianza
di una donna armena attualmente ospitata con
il suo bambino presso un convento.
Nel finale, un video del documentarista Paolo
Mancini sull’attuale situazione in Ruanda.
Paese dell’Africa orientale reduce dall’orrendo
genocidio del 1994 (le stime parlano di circa un
milione di vittime) ma che oggi vive un processo di riappacificazione tra le etnie un tempo contrapposte. Una speranza per quel Paese che potrebbe divenire un esempio da seguire per il Continente.
Una Chiesa, dunque, che conferma il proprio impegno nel sociale, tappando falle nella speranza
che prima o poi si rinnovi quest’Arca che conGiovanni Zicarelli
“All you need is love” (“Tutto ciò di cui hai bisogno è amore”), celeberrimo titolo e ritornello di
una canzone dei Beatles che ha attraversato decenni e scavalcato un secolo e un millennio rimanendo intatta nella validità di un testo che, seppur reso orecchiabile, è tutt’altro che banale. Ma
rimaniamo al ritornello: è proprio di amore – e
solo quello – ciò di cui ha bisogno l’Umanità.
Un amore che significa non solo affetto ma anche,
e soprattutto, rispetto per il prossimo.
Parola quest’ultima che non dev’essere più fraintesa: il “prossimo” è tutto ciò che ci circonda e
incrociamo nel corso della vita (Papa Francesco
con la sua “Laudato sì” docet).
Chi rispetta il filo d’erba e la cavalletta che vi si
poggia non sarà mai capace di offendere alcuno. Sentimenti che all’osservatore possono essere ispirati da eventi come quello che si è tenuto in Colleferro domenica 29 gennaio: “La marcia della Pace”. Organizzata dall’Azione Cattolica
Diocesana, si è trattata di una manifestazione
iniziata al mattino,
intorno alle 9,30,
presso la parrocchia
Maria
SS.ma
Immacolata, dove
dalle parrocchie della nostra Diocesi
sono giunti, con i propri catechisti ed
educatori, numerosi bambini e ragazzi frequentatori del
catechismo e appartenenti ai gruppi
locali dell’Azione
Cattolica.
Un saluto del vescovo, S.E. Rev.ma
mons. Vincenzo Apicella, visibilmente gioioso
alla vista di tanta gioventù, ha dato quindi inizio ad attività varie che si sono svolte negli spazi messi a disposizione dalla parrocchia, con particolare riguardo alle fasce di età: dagli intrat-
Nelle foto sotto: alcuni momenti della ''Marcia della Pace''.
L'intervento del vice sindaco
di Colleferro Diana Stanzani.
dividiamo ovvero che si elevi il grado di evoluzione mentale dell’Umanità.
E in questo punta sui giovani, così che la speranza non muoia nel presente ma venga
proiettata nel futuro, lo spazio temporale da cui
continua nella pag. accanto
Marzo
2017
trae la forza e in cui possa concretizzarsi nell’animo umano
quella benevola metamorfosi
che alla luce del presente parrebbe impossibile.
Dalle ore 11 circa, i presenti
danno quindi forma ad un lungo corteo che, con striscioni
e cartelli – tutti invocanti alla
pace – e bandiere dell’Azione
Cattolica, muove dall’Immacolata
per attraversare le principali vie
del centro di Colleferro.
Presente tra i manifestanti la
vice-sindaco Diana Stanzani
accompagnata dal presidente del Consiglio comunale
Vincenzo Stendardo e dalla
comandante della Polizia locale Antonella Pacella.
Una sosta in piazza Aldo
Moro, davanti all’Ospedale
29
Sosta della Marcia della Pace davanti all'ospedale di Colleferro.
Nelle foto sotto:
alcuni momenti
della Santa Messa.
prio quel giorno ricorreva l’anniversario del più tragico
evento che la città ricordi: il
29 gennaio del 1938, una fortissima esplosione accidentale all’interno della “BPD” (sigla
della fabbrica di esplosivi
“Bombrini Parodi Delfino”) provocò la morte di 60 lavoratori e il ferimento di oltre 1.500.
La funzione viene celebrata
in un’affollata navata con bambini e ragazzi tra i banchi, nel
corridoio centrale e finanche
ai lati dell’altare, davanti al quale sono stati posizionati gli striscioni e i cartelli esibiti durante la Marcia.
Grande la soddisfazione di
mons. D’Ascenzo alla vista di
quella navata gremita dalla nuova generazione. Ha ricordato che la pace è anche perdono:
molte guerre e tensioni nel mondo oggi non ci
sarebbero e nella Storia non ci sarebbero state, se solo questa parola basilare del messagLa corale ''Anima e Coro''.
Leopoldo Parodi Delfino, di recente assurto a
simbolo cittadino del degrado sociale in campo sanitario a causa del depauperamento di reparti e personale, per un saluto ai partecipanti da
parte di don Nando Brusca, cappellano presso
il nosocomio.
Si prosegue quindi fino a piazza
Italia dove, davanti al Municipio, la
vice-sindaco esprime la sue felicitazioni
per la riuscita della manifestazione, peraltro assistita da una giornata particolarmente soleggiata. Quindi,
ricomposti striscioni, cartelli e bandiere, il corteo si conclude con l’ingresso nella vicina Chiesa di
Santa Barbara per la celebrazione della Santa Messa.
Ad officiare: mons. Leonardo
D’Ascenzo, rettore del Pontificio
Collegio Leoniano di Anagni e assistente diocesano dell’Azione
Cattolica, coadiuvato da don
Corrado Fanfoni, co-parroco
dell’Immacolata, don Gabriele
Ardente, vice-parroco di San Bruno
e assistente diocesano dell’Azione Cattolica Ragazzi
e dal diacono Gaetano Di Laura. Animazione musicale degli “Anima e Coro”.
Prima dell’inizio, mons. Luciano Lepore, parroco di Santa Barbara, ha voluto ricordare che pro-
gio evangelico, insieme a rispetto, speranza e
carità, avesse trovato sempre o, quantomeno,
molto più spesso applicazione.
Ricorrere alla violenza non è naturale. Non può
esserlo nell’uomo del terzo millennio che grazie alla tecnologia vive a
stretto contatto anche con chi
abita dalla parte opposta del
globo terrestre, in una sorta di
graduale riduzione dell’estraneità.
Un marcia nata dalla volontà
dell’Azione Cattolica di dirci che
la guerra, in ogni sua forma,
e tutto ciò che di miserevole
e cruento si trascina dietro, è
decisamente il retaggio storico più anacronistico, inutile e
deleterio. L’antitesi della Logica.
Nella foto a sinistra:
La chiesa di Santa Barbara - Colleferro
durante la funzione.
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cretizza in un servizio
ai fratelli.
Per questo occorre il
mandato della Chiesa
e una certa stabilità commisurata non solo alla
disponibilità personale, ma anche ai biso-
a cura della redazione
N
el 1987 i vescovi nel sinodo, discutendo sulla vocazione e missione dei laici nella chiesa e nel
mondo, hanno di fatto riavviato nel popolo di Dio uno slancio di interesse. Nel particolare parlando dei ministeri , ovvero dei
doni diversi che lo Spirito suscita nei battezzati chiamandoli ad essere in modi diversi, attivi e corresponsabili nell’opera di evangelizzazione della chiesa. Con l’esortazione post-sinodale Christifideles laici Giovanni
Paolo II, ha inteso “suscitare e alimentare
una più decisa presa di coscienza del dono
e della responsabilità che tutti i fedeli laici... hanno nella comunione e nella missione
della chiesa”.
I ministeri istituiti: hanno il loro fondamento sacramentale nella dignità battesimale
avendo assunto in esso il sacerdozio
comune dei fedeli (LG 10).
Coloro che ricevono questa istituzione ministeriale restano laici sono aperti a uomini e donne (ad eccezione del
ministero istituito del Lettore e
dell’Accolito che sono invece riservati
ai soli uomini: MQ VII). Ogni ministero
è un carisma rispondente a una particolare chiamata del Signore e si con-
gni effettivi di una
determinata comunità.
Per attuare la sua
missione la Chiesa si
avvale di persone che
siano pubblicamente capaci di mostrare la
sua fondamentale dipendenza da Cristo, come
pure sente il bisogno di riconoscere pubblicamente, con una speciale istituzione alcuni ministeri che sono propri della comunità. La Chiesa riconosce dunque pubblicamente, con una speciale istituzione, alcucontinua nella pag. accanto
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Nel silenzio della notte, tra lo sconcerto generale dei fedeli, si sentono dei colpi di arma da
fuoco. Il giorno seguente Padre Ginepro viene trovato lungo il greto di un torrente, privo
di vita, con tre ferite da arma da fuoco e numerose ferite da taglio. I suoi occhiali e la tonachetta con i fori sono stati riportati ad Artena
da un altro missionario, Padre Cerasa, che
ha sempre cercato di far conoscere l’operato del giovane religioso e ha organizzato una
sala a lui dedicata all’interno del Museo
Francescano di Artena.
Ha promosso, inoltre, la nascita del Circolo
culturale “P. Ginepro Cocchi”, che da ben 20
anni si prodiga per tener desta la memoria
di P. Ginepro impegnato nella difficile realtà
della Cina, nei primi decenni del secolo passato, attraverso pubblicazioni, rappresentazioni teatrali e cerimonie.
Quella del 6 marzo, anche quest’anno, prevede una S. Messa, una commemorazione
nella piazza a lui intitolata, alla presenza di
autorità, civili e religiose, con la partecipazione
di rappresentanze delle scuole elementari e
medie. Sono previste anche visite guidate al
Chiostro, al Museo, alla preziosa Biblioteca
storica del Convento e rappresentazioni teatrali sulla vita di P. Ginepro.
Sara Calì
È
sera, Padre Ginepro, attorniato dai
fedeli, sta parlando dell’Eucarestia.
Da quando è arrivato in Cina ha conquistato il cuore di tutti i fedeli a lui affidati e
ha creato un folto gruppo di catechisti che lo
amano e lo seguono con fervore. Sanno che
non si risparmia mai e aiuta tutti indistintamente.
Come sempre lo ascoltano con attenzione mentre spiega ciò per cui ha dato la vita e a cui
ha dedicato tutta la sua giovinezza, abbandonando la patria, il paese natale e tutti i suoi
affetti. Improvvisamente irrompono dei soldati, si avventano su di lui e gli chiedono minacciosamente di consegnare armi, soldi e una
ragazza, precedentemente impiegata presso gli uffici militari, ora diventata catechista
presso la sua parrocchia.
Il sacerdote risponde di non possedere né armi
né soldi e si rifiuta di consegnare la ragazza per motivi etici. I soldati, allora, lo ingiuriano, lo picchiano e lo spogliano lasciandolo in camicia, alcuni di loro portano via la catechista e sua madre, un altro gruppo trascina Padre Ginepro fuori dal villaggio.
segue da pag. 30
ni ministeri (= ministeri istituiti).
Altri servizi consistenti e costanti che vengono compiuti senza titoli ufficiali nella prassi pastorale possono essere chiamati mini-
segno della provvidenza del Signore per la
sua Chiesa. In questa occasione vogliamo
evidenziare l’istituzione di un ministro
straordinario della Comunione nella
senza anche dei familiari del nuovo ministro, pur mantenendo il carattere della ordinarietà ha suscitato nell’assemblea tutta un
forte sentimento di adesione alla vita
steri di fatto.
Parrocchia Regina Pacis di Velletri.
ecclesiale.
Tutta questa premessa per dire di come una
comunità parrocchiale si avvale di collaboratori
che incarnano i ministeri. Possiamo dire che
nella nostra Chiesa Locale continuamen-
Nicola Tullio Sorrentino, partecipe di questa comunità, domenica 5 febbraio è stato istituito ministro della Comunione dal nostro
vescovo Vincenzo Apicella.
Bello e anche un po’ commovente è stato
vedere il nuovo ministro comunicare i suoi
familiare e in particolare la mamma Maria
Addolorata. Ad aggiungere vivacità e gioia
te fioriscono di questi ministeri come
La celebrazione, molto partecipata, alla pre-
poi ci hanno pensato i nipotini.
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Marco Scifoni
Premessa
Questo breve scritto sugli incontri della Parola
di vita non vuole essere un trattato esaustivo
sul come sia nata, si sia sviluppata e sui risvolti ecclesiali, sociali, teologici e di linguaggio che
essa comporta, quanto un portare a conoscenza
ai tanti che leggeranno questo scritto cos’è la
Parola di Vita e quali possono essere i frutti e
gli effetti di chi partecipa a questi incontri.
Che cos’è la Parola di Vita
E’ un incontro dove le persone raccontano le
esperienze che hanno fatto durante il mese cercando di vivere il quotidiano alla luce del Vangelo.
Ogni mese viene distribuita una Parola del Vangelo
da meditare e poi da vivere: e’ un dono spirituale reciproco, che ognuno fa per l’edificazione di tutti.
Come è nata la Parola di Vita
Tutto è iniziato con Chiara Lubich durante la seconda guerra mondiale. Nata a Trento il 22 gennaio del 1920, questa donna, davanti alla distruzione di ogni ideale e sentimento provocata dal
conflitto, di fronte alla domanda se esistesse
qualcosa che non muore mai, ha trovato nell’amore, quello totale e oblativo a Dio, la risposta. E’ cominciata cosi un’avventura che lei stessa definisce “divina” perche’ guidata da Dio,di
cui si fa docile strumento.
Un’avventura che anche dopo la sua morte, avvenuta a Rocca di Papa il 14 marzo del 2008, in
tanti continuano nei tanti ambiti dell’agire umano: ecumenico, interreligioso, politico, economico...
Dalla devastazione della seconda guerra mondiale Chiara ha dato vita a un movimento che,
partendo dalla sua città, in meno di sessant’anni
si è diffuso in tutto il mondo, coinvolgendo credenti di tutte le fedi ed anche non credenti.
Gli incontri della Parola di vita
A Velletri vengono organizzati presso il Seminario
don Orione in via Carlo Angeloni 12, in genere il primo sabato del mese. Vengono portati avanti dal gruppo Don Orione Opera, in comunione col Movimento dei Focolari e con i religiosi
di don Orione.
verso le esperienze concrete che ciascuno ha
vissuto nel mese e che può liberamente condividere. Dopo l’ascolto e la condivisione, viene letta la Parola che accompagnerà il cammino
del mese successivo. Si consuma poi insieme
la cena,il cui contributo libero, tolte le spese vive,
viene utilizzato per aiutare i nostri poveri.
Effetti degli incontri della Parola di vita
Don Orione Opera è un gruppo di laici e di famiglie che hanno un desiderio nel cuore: costruire una comunità autentica, viva e generativa;
rendere più bella la città e la Chiesa, a partire
dai rapporti tra le persone, dall’ascolto reciproco
e dall’aiuto a chi conosciamo e sappiamo vivere in difficoltà; approfondire e mettere in pratica il Vangelo anche attraverso gli incontri della Parola di vita. Ciò che ispira tutto questo è
il monito di papa Francesco. “Esiste un vincolo inseparabile tra il Vangelo e i Poveri”.
Struttura degli incontri
Si inizia sempre con l’accoglienza per favorire
la conoscenza reciproca e rafforzare i rapporti di amicizia. C‘è quindi l’incontro con la Parola attra-
Chiara Lubich diceva che la Parola fa “vivere”,
rende liberi, converte, purifica, produce opere,
dona sapienza, suscita l’unione con Dio, ci fa
uno e tanto altro, ma aggiungeva anche che chi
non la vive provoca la divisione perché, dove va,
porta un’atmosfera soltanto umana, terrena.
Alcune riflessioni personali
Sono più di dieci anni che porto avanti questi
incontri insieme a mia moglie. Sono una benedizione per tanti. Se dovessi descrivere a parole quello che ha provocato e provoca nella mia
persona ogni incontro della Parola di Vita, potrei
sembrare un tipo fuori dal mondo, un esaltato,
qualcuno che ti vuole a tutti i costi vendere un
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Una prospettiva nuova
E’ quello che serve,
è quello che ci ricorda papa Francesco:
il cristiano è un discepolo/missionario.
E’ un portare la
Parola in mezzo alla
gente, lì dove vive, lotta, spera, dove
Gesu’/Parola è vera
Luce ancora oggi!
...Vieni e Vedi... a
Velletri in via C.
Angeloni 12, n. telefono: 06 9638623.
Per informazioni:
Marco Scifoni - 3333508022
don Filippo Benetazzo- 3484944018
Come gruppo Don Orione Opera vorremmo portare la Parola di Vita non solo nelle Parrocchie,
ma in tutta la città: negli uffici, negozi, laboratori, studi...
Prossimi incontri della Parola di vita
con inizio alle ore 17.00:
4 Marzo, 1 Aprile, 29 Aprile, 3 Giugno,
1 Luglio, 5 Agosto, 2 Settembre.
bel prodotto (anche spirituale). Niente di tutto
questo. Mi ricordo, e ti ricordo... sì, proprio a
te che sei arrivato fin qui a leggere, che il vangelo fa quello che dice ed io sono chiamato a dirti quello che fa!
Gli incontri della Parola di Vita sono un potente antidoto a tutto quello che il mondo ci propone, suscitano comunità e le irrobustiscono,
a cominciare dalla famiglia (la prima comunità). Le tante parrocchie che adottano in tutto il
mondo questo stile testimoniano che questi incontri sono un bel metodo pastorale: si crea famiglia, ci si ascolta reciprocamente, ci si conosce
di più e normalmente cadono tante barriere tra
i partecipanti, perchè non ci si giudica, ma si
accoglie quello che dice il fratello come un dono.
La Parola di Vita
dalla viva voce di
Chiara Lubich
«Una pratica che caratterizzò fin dai primi tempi il nostro movimento fu quella che chiamammo
“Parola di Vita”.Gia’ era ferma in noi la convinzione che Dio è amore e meritava quindi
tutto il nostro povero personale amore. Già
avevamo capito che, per amarLo, era nostro
dovere fare la Sua volontà e che Sua volontà particolare era quella lasciata ci prima di
morire: “Amatevi a vicenda come io ho amato voi”. E già avevamo fatto i primi sforzi per
attuarla, nutrendoci dell’Eucaristia e trovando in Gesù crocifisso -specialmente nel suo
abbandono - la chiave per mantenerla. Gesu’
aveva potuto - lo speriamo - vedere nella nostra
minuscola comunità realizzate le Sue parole “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome
ivi sono Io in mezzo ad essi”.
Fu pressappoco a questo punto della nostra
storia che si iniziò a scegliere periodicamente
una frase compiuta del Vangelo come norma del nostro vivere... Ogni settimana si viveva con particolare attenzione una “Parola”.
La si portava in cuore come un tesoro e la
si applicava ogniqualvolta era possibile. Non
solo, ma per la mutua e continua carità, desiderando di condividere ance le ricchezze spirituali col fratello, per cooperare alla santità
altrui come alla propria, ci comunicavamo le
varie applicazioni, i risultati e la gran meraviglia, piena di gioia, che con esse la vita mutava. Ci si accorgeva di quanto paganeggiante fosse stata la nostra condotta prima, di gente, pur cattolica, ma con una mentalità ancor
troppo lontana da Gesu».
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Stanislao Fioramonti
I
l 5 settembre 1896 il XIV Congresso Cattolico
Italiano annunciò l’iniziativa di rendere omaggio a Gesù Cristo Redentore in previsione
dell’Anno Santo 1900. Il comitato esecutivo insediato a Roma decise, su proposta di Filippo CancaniMontani, di consacrare diciannove monti di diverse regioni italiane con la costruzione di altrettanti monumenti al Redentore, uno per ogni secolo. L’opera suscitò un tale entusiasmo che il conte Ludovico Pecci, nipote di Leone XIII, propose di erigere un ventesimo monumento, in omaggio al XX secolo che stava entrando, sul monte Capreo presso Carpineto Romano, paese natale del papa regnante. “Tre monti ci offre la regione romana, che tutta l’abbracciano - si legge in
una lettera di Augusto Grossi Gondi, segretario del comitato - il Guadagnolo al levante, il
Cimino al nord, il Capreo al sud. Queste vette, allorché avranno il monumento a Gesù Redentore,
si saluteranno con fuochi di gioia, e le tre nuove stelle che sembreranno apparse sul venerando suolo latino ci diranno che Gesù è e sarà
sempre il faro dell’umanità. (...)
L’altra vetta è il Capreo, alta 1470, gigante dei
Lepini. Colassù il giovinetto Gioacchino Pecci
saliva spesso e piantava tre croci; e quell’atto
nobile di pietà faceva presagire che il nobile adolescente era riservato a grandi destini, e la vetta ove sorgerà una croce colossale sopra artistico monumento sarà detta d’ora innanzi
Punta Leone XIII, unendo così bellamente le glorie del Redentore con quelle del suo Vicario in
terra”.
Eremo di San Michele Arcangelo e Redentore, Parco Naturale dei Monti Aurunci.
Le tre cime ebbero ben presto
i loro monumenti che ancora
oggi - almeno sul monte
Guadagnolo e sul Capreo - svettano a ricordare la figura di Cristo
re dell’universo (come abbiamo visto sul numero di settembre
2016 di questa rivista, raccontando
proprio del Redentore di
Guadagnolo).
Ma nel Lazio c’è oggi un
quarto monumento al Redentore,
quello sul monte Altino in territorio di Maranola, frazione di
Formia. All’origine compreso nella regione Campania, in diocesi
di Gaeta, è a quota 1252 m.
s. m. ed è stato inaugurato il
31 luglio 1901. Nell’atrio
Collegio Leoniano di Anagni se
ne conserva il calco in gesso
colorato, alla cui base è scritto: “Rosa Zanazio, Roma”; sul
davanti della base: “Regi saeculorum honor et gloria”; sulla croce: “Christus vincit,
Christus regnat, Christus imperat. Pater futuri saeculi, princeps pacis”.
Il monumento si può raggiungere con uno dei
più frequentati sentieri del Parco Regionale dei
Monti Aurunci. Istituito nel 1997, il parco ha un’estensione di quasi 20.000 ettari a cavallo delle
province di Frosinone e Latina; comprende i comuni di Ausonia, Campodimele, Esperia, Fondi, Formia,
Itri, Lenola, Pico, Pontecorvo e Spigno Saturnia.
I suoi richiami principali sono, oltre al Redentore
di Formia, il Monte Appiolo con i suoi pascoli
d’altura e la Cima della Croce, tra Lenola e
Campodimele; il santuario della Madonna della Civita sul monte Fusco, in territorio di Itri; i
monti Ruazzo, Faggeto e Revole; un tratto della Via Appia Antica, tra Fondi e Itri.
Il sentiero per la cima del Redentore parte dal
rifugio Pornito, posto a 8 km da Maranola sui
rilievi degli Aurunci sopra a Formia; è raggiungibile con una carrozzabile stretta ma asfaltata e altamente panoramica che risale la montagna. Il tracciato è antichissimo, frequentato da
oltre un millennio sia per la grotta di San Michele,
sia per il ritorno economico tratto dal lavoro del
taglio dei boschi e dall’utilizzo del ghiaccio delle nevere (pozzi ricavati nelle doline dei monti
più alti dove i pastori stipavano la neve).
E’ un itinerario classico degli Aurunci, non troppo impegnativo ma di incredibile bellezza per i
vasti panorami, per la sua forte valenza spirituale-religiosa e per gli aspetti più propriamente ambientali: geologico, faunistico e botanico.
Dal rifugio Pornito (m 819), dove si parcheggia
dopo aver superato la Casa Forestale della Comunità
Montana, si scavalca un orletto roccioso e subito si è sul sentiero n. 60; in alto la roccia del
Redentore, visibile fin dall’inizio dell’itinerario.
Il percorso, sospeso sul mare, traccia un arco
sul fianco del monte ed “esce” sul bordo del versante opposto, al Poggio della Croce (m 943);
sfiora la statua di una Madonnina (m 1087) e
continua nella pag. accanto
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Statua del
Redentore
a Formia,
Parco
Naturale
dei Monti
Aurunci.
sale ancora fino all’eremo-santuario di S.
Michele Arcangelo (m 1142), una chiesa rupestre ricavata da una grotta di rara suggestione,
incassata nella roccia del m. Altino, risalente all’830
d. C. ma ristrutturato nelle attuali forme goticheggianti
nel 1893; presso la grotta, il cui piccolo spiazzo si affaccia a strapiombo su Formia e Gaeta,
c’è anche una sorgente d’acqua potabile.
Una curiosa tradizione vuole che la statua di San
Michele - piccola scultura in peperino nero che
alcuni consierano di epoca romana (VI secolo
d. C.), altri barocca - fosse stata in origine in
una grotta del monte di Gianola, in riva al mare,
e che si fosse trasferita in montagna per non
sentire le bestemmie dei marinai!
Oggi è custodita, fino a giugno, nella parrocchiale
di Maranola; poi fino a settembre è portata nella grotta del monte Altino.
Lasciato il santuario (in una visita del 3 aprile
2010 vi ho incontrato il custode, Tullio Minutillo),
si riprende la salita per un tragitto abbastanza
ripido ma breve, che superando in circa mezz’ora un dislivello di un centinaio di metri, oltrepassa la verde Sella Sola (m 1229) e giunge
alla grande statua in ghisa del Redentore (m.
1252), sotto la quale è un rifugio-porticato. Per
allestire il monument nel 1900 fu costruita l’odierna mulattiera del m. Altino, chiamata appunto “Via della Statua”. La strada in origine partiva direttamente da Maranola e occorrevano 3
ore per raggiungere a piedi la statua del Redentore.
Che non è quella originaria, distrutta dai fulmini nella notte del 29 ottobre 1907, ma quella
rifatta e ricollocata il 18 ottobre 1919.
Il sentiero da secoli è percorso in processione
dai maranolesi almeno due volte l’anno, quando trasportano la statua di San Michele dal paese al santuario nell’ultima domenica di giugno
e quando la riportano nella trecentesca chiesa
dell’Annunziata a Maranola il 29 settembre, festa
liturgica dell’Arcangelo. Gesto tipico dei pastori, dopo la messa della festa di giugno, l’offerta della “quagliata e devozione”, latte di capra
rappreso su pane di farina scura.
Il Redentore è uno dei punti più panoramici
dell’Appennino, con la vista del golfo di Gaeta,
Formia, Scauri e Minturno, delle Isole Ponziane,
di Ischia, Capri e il Vesuvio. Dalla vetta del vicino monte Altino (m. 1376) si spazia invece sulle catene maggiori dell’Appennino. La nebbia
o la foschia che sale dal mare può spesso condizionare il panorama, che con una giornata limpida risulta indimenticabile.
Per fare il percorso indicato (circa 3 km fino alla
statua e 450 metri di dislivello) occorrono 2 ore
all’andata e altrettante al ritorno. Con altre 2 h
A/R, passando per la Sella Sola e Fontana Canale
(m 1276) si può raggiungere la vetta del m. Petrella
(m. 1533), culmine degli Aurunci, dalla quale si
ha una visione completa “mare e monti” del territorio, dal golfo di Napoli al Circeo.
Prima di tornare a casa si può fare un giro per
il borgo medievale di Maranola, frazione collinare a 3 km da Formia, sorta nel X-XI secolo
e nel XIV passata ai Caetani. Accanto al castello sorge la chiesa parrocchiale di san Luca, a
navata unica e coperta da tre volte a crociera;
nella cappella del Corpo di Cristo conserva una
pala d’altare del Sermoneta.
Nella cripta, scoperta casualmente sotto l’altare maggiore durante l’ultimo restauro, è comparso un ciclo di affreschi trecenteschi con numerose rappresentazioni di Maria lactans. Esse sono
state il tema di un convegno organizzato a Maranola
nel 2016 dall’Associazione Calliope, dal titolo
“Maria Lactans tra arte e fede: testimonianze dell’Alta
Terra di lavoro”.
Ci sono stati interventi sull’iconografia e la simbologia della figura di Maria Lactans, con particolare riferimento agli affreschi di Maranola e
dell’intero Golfo di Gaeta; sulla figura della Madonna
del Latte e sul legame tra la produzione artistica e l’iconografia religiosa con risvolti sulla cultura e la tradizione.
E’ stata proposta la mostra fotografica “Ma-Donnemadre è vita” e una mostra itinerante sul tema
“Maria Lactans nell’Alta Terra di Lavoro: viaggio artistico-spirituale alla scoperta della devo-
zione a Maria Lactans da Caserta a Maranola”.
Da quasi un quarto di secolo a metà gennaio
si organizza a Maranola il Festival di musica e
cultura tradizionale “La Zampogna”. E’ uno dei
più importanti raduni d’Italia sulla musica popolare e la world music, con formazioni di musicisti e danzatori folk provenienti anche da paesi extraeuropei, a conferma del forte e costante aumento d’interesse verso uno strumento fondamentale della tradizione popolare italiana, che
non compare solo a Natale.
Le strade, le piazzette e i vicoli del centro storico di Maranola si riempiono di musicisti, studiosi, liutai, vecchi e giovani suonatori di zampogna e ciaramella; si tengono concerti, seminari e una mostra mercato di liuteria tradizionale, dove si possono incontrare gli artigiani più
importanti della penisola e gli strumenti musicali e gli altri classici attrezzi di uso pastorale
legati al mondo degli zampognari : zampogne,
dunque, ma anche pive, ciaramelle, bombarde,
tamburelli eccetera.
Nella 24a edizione della rassegna, svoltasi il 14
e 15 gennaio 2017, si è parlato degli strumenti musicali costruiti con metalli e pietre (campane,
campanacci, triangoli, sistri, scacciapensieri e
pietre sonore), si sono ospitati e premiati specialist folk stranieri e italiani: il belga Jean Pierre
Van Hees, solista di sordellina; Susana Seivane,
esponente della famiglia della più importante liuteria spagnola, che ha molto contribuito alla rinascita e all’affermazione della gaita galiziana; gli
emiliani Enerbia, i ciociari Radici Popolari, il Trio
di Zampogneria ecc. E insieme al suono degli
strumenti popolari si sono levati i canti tradizionali,
che raccontano la vita contadina, la fatica della terra, lo strazio dell’emigrazione, la dolcezza e le pene dell’amore, che raccontano
insomma l’uomo e i suoi sentimenti. Un festival che non ha nulla da invidiare a quelli ormai
storici e internazionali che si tengono nell’area
delle Mainarde, sul versante molisano a Scapoli
(Isernia) a fine luglio e su quello laziale ad
Acquafondata (Frosinone) in agosto.
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Alessandro Ippoliti
E
rnesto Biondi, il 10 dicembre 1903, ricordando l’amico scomparso Vincenzo
Montefusco in un articolo pubblicato sulla, “Rivista d’Italia”, oltre a mettere in luce un
aspetto goliardico vissuto con il grande pittore
salernitano, in Acri (CS), ci rivela l’incarico di lavoro che padre Giacinto da Belmonte Calabro diede ad entrambi: la realizzazione di quattro statue in marmo al Biondi; la narrazione della vita
del Beato Angelo in affresco al Montefusco; il
tutto a decoro della Chiesa dei Cappuccini in
costruzione nella stessa Acri.
Padre Giacinto da Belmonte Calabro, nel 1887
riceve da Papa Leone XIII l’incarico di Definitore
Generale e Consultore dell’indice dei libri proibiti. Padre Giacinto accettò l’incarico e si trasferì
da Acri a Roma. Nonostante la distanza dalla
Diocesi di Bisignano continuò a mantenere fede
a tutti gli impegni assunti precedentemente, nominando come suo fidato collaboratore Don
Francesco Maria De Simone, il quale accettò
anche lo specifico incarico di seguire i lavori della costruenda Basilica del Beato Angelo in Acri.
Don Francesco Maria De Simone, inizia un fitto rapporto epistolare con Padre Giacinto a partire dal giorno 11 maggio del 1893, data della
fatidica posa della prima pietra del Santuario del
Beato Angelo in Acri.
Ernesto Biondi, tra il 1894 e il 1895 modella il
San Francesco, un’opera creata entro quell’intervallo di tempo in cui durò la sacrale ispirazione. Ispirazione che mette in luce la grande
fede e spiritualità del Santo attraverso la sua estasi. Ma questa condizione mistica, purtroppo, non
viene ricercata nella iconografia classica delle
immagini sacre. Immagini che nella generalità
debbono rappresentare un veicolo di comunicazione più semplice da comprendere.
Padre Giacinto, nel 1895 andò a trovare nel suo
studio Ernesto Biondi. Si presentò, forse
aggiungendo che a fare il suo nome era stato
Papa Gioacchino Pecci di Carpineto Romano,
Sulla facciata della Basilica del
Beato Angelo in Acri quattro sculture del Biondi.
ed espresse la necessità di avere a breve termine quattro statue, S. Francesco,
S. Antonio, la Madonna Addolorata e il
Beato Angelo.
Il Biondi, seduta stante gli fece vedere
il S. Francesco già modellato, frutto della sua indotta esperienza mistica. Il grande Generale dei Cappuccini esperto in
comunicazione, fece il suo positivo apprezzamento come opera d’arte, ma bocciò
l’istante d’estasi del Santo, sembrerebbe,
perché non consono alle sue esigenze;
ponendo naturalmente per la formalizzazione dell’ordine, la condizione al rispetto della tradizione iconografica. Il Biondi
accettò, ma forse, senza rinunciare al
suo piglio dialettico provocatorio. E’ forse questa la causa per cui il Cappuccino
non citò mai il nome di Ernesto Biondi?
Il Biondi però una firma l’ha lasciata: il
volto del San Francesco è quello del fratello Costantino (il suo è quello del S.
Francesco di Morolo).
Pasquale De Simone, conservò le lettere che Padre Giacinto scrisse al suo
parente prossimo Don Francesco Maria,
relative alla costruzione del Santuario
del Beato Angelo.
Padre Giocondo Leone da Morano, nel
1947 riuscì a contattare il sig. Pasquale
De Simone e a trascrivere le lettere accennate, che ritroviamo a stampa in appendice al libro dallo stesso, scritto e pubblicato nel 1987, “PADRE GIACINTO DA BELMONTE CALABRO e IL SANTUARIO DEL BEATO ANGELO IN ACRI”.
La prima volta che andai ad Acri nella primavera del 1989, lo feci su suggerimento di Don
Antonio Biondi. Lo scopo era quello di fotografare le quattro statue citate nel suo libro, “ Ernesto
Biondi Vita e opere “. Durante il soggiorno incontrai Padre Matteo, Superiore del Convento dei
continua nella pag. accanto
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Bollettino diocesano:
Prot. n° VSC A 04/ 2017
NOMINA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DELLA
IPAB “CASA DI RIPOSO GIROLAMO E FRANCESCA BERARDI”, in VELLETRI
Considerato che:
•
in data 24-04-2012 ai sensi dell’art.11 del DGR n. 8628 del 23.12.1987, è stato designato quale Presidente del C.d.A. dell’IPAB “Casa di Riposo
Girolamo e Francesca Berardi” in Velletri e comunicato alla Regione Lazio con lettera prot. VSC11A/2012 il Rev.mo Mons. Eugenio Gabrielli, cui va tutta la
nostra gratitudine per l’opera svolta, ma le cui condizioni di salute non consentono la prosecuzione dell’incarico
•
il Comune di Velletri, ai sensi dell’art. 11 del DGR n. 8628 del 23.12.1987, con propria deliberazione di C.C. n. 74 del 13.08.2012, confermata dal
Decreto Sindacale prot. n. 26345 del 10.10.2012, ha designato quali membri del C.d.A. di propria nomina, il Prof. Ezio Gamboni e l’Avv. Mauro Becucci;
•
la Regione Lazio ad oggi non ha provveduto alla designazione dei membri di propria nomina ai sensi dell’art. 11 del DGR n. 8628 del 23.12.1987;
•
che il C.d.A., così come sopra nominato, non si é mai riunito ed é comunque giunto a scadenza naturale essendo trascorsi quattro anni dalla nomina ai si sensi dell’art. 11 del DGR n. 8628 del 23.12.1987;
PRENDO ATTO
•
della decadenza dei membri del C.d.A. della IPAB “Casa di riposo Girolamo e Francesca Berardi”, così come sopra nominati, ai sensi dell’art. 11
del DGR n. 8628 del 23.12.1987;
•
della scadenza naturale del C.d.A. della IPAB “Casa di riposo Girolamo e Francesca Berardi” ai sensi dell’art. 13 del DGR n. 8628 del 23.12.1987,
essendo trascorsi quattro anni dalla nomina;
e pertanto, ai sensi dello stesso art. 11 del DGR n. 8628 del 23.12.1987
NOMINO
Presidente del Consiglio di Amministrazione
della IPAB “Casa di Riposo Girolamo e Francesca Berardi”
Il Rev.mo Mons. GINO ORLANDI, Economo diocesano.
Restando in attesa delle nomine di competenza del Comune di Velletri e della Regione Lazio, formulo i migliori voti di buon lavoro per la conduzione e lo sviluppo di questa importante e benemerita realtà sociale e assistenziale del nostro territorio.
Velletri, 26.01.2017
+ Vincenzo Apicella, vescovo
segue da pag. 36
Cappuccini di Acri, e lo informai che stavo facendo un audio visivo sul percorso artistico, dell’autore
delle statue, Ernesto Biondi. Il Reverendo Padre
non capiva, e subito dopo mi chiese chi fosse
Ernesto Biondi, dopo essermi ripreso dallo stupore, confermai che si trattava di uno scultore
di Morolo. Egli con un sorriso e una mano sulla fronte mi disse che ad Acri l’autore delle opere era sconosciuto.
Tornato a Roma informai la Sig.ra Ernesta Biondi
di quella esperienza che avevo vissuto, e lei,
sorridente mi mostrò copia dell’articolo, di cui
sopra, del 1903, tutto fu chiaro; Informai anche
Don Antonio il quale ne rimase soddisfatto, soprattutto per le fotografie.
Ritornai ad Acri agli inizi del mese di agosto e
andai a trovare subito Padre Matteo, il quale si
fece capace che la mia insistenza non era casuale. Mi pregò di seguirlo nel suo studio all’interno del convento, e telefonicamente chiamò due
ragazzi della locale Proloco, Salvatore e
Roberto. I cordialissimi ragazzi mi invitarono a
dare l’informazione attraverso un giornale locale, “confronto”, scrissi l’articolo che fu pubblicato,
qualche giorno dopo, nel numero 8 dello stesso mese e anno.
Ernesto Biondi
Padre Matteo vista la mia convincente prova di
serietà, mi regalò il libro scritto da Padre Giocondo
Leone da Morano come unico documento che
riguardava la chiesa.
Ritornato a casa lessi il libro, e finalmente alla pagina 134 trovai la lettera scritta a Roma il 9 di gennaio
del 1896 dove Padre Giacinto
informava…….Si stanno lavorando
gli altari in Napoli e le quattro statue per la facciata qui (intendendo
Roma). Mentre nella pagina 145, sempre da Roma Padre Giacinto il 22
di maggio del 1896 dice: Si stanno
accomodando ora le casse per le
statue e per i quadri ecc.
Ad Acri però, nonostante il mio impegno, le cose non andarono come avevo sperato: l’autorità ecclesiastica
accettò quanto avevo loro comunicato; l’autorità civile dimostrò distacco e ancora oggi sul loro
Wikipedia non è indicato il nome dell’autore delle famose quattro statue.
Qualche anno fa fui contattato da
un cittadino di Acri, studioso di Storia
Patria che, per caso, aveva visitato il mio sito Internet, gli inviai per E-mail l’articolo del 1903 affinché lo recapitasse a chi di
dovere: non ho saputo più niente.
Marzo
2017
38
Bollettino diocesano:
Prot. n° VSC A 06/ 2017
Considerata la necessità di conferire l’idoneità per l’Insegnamento della Religione Cattolica, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, a nuovi docenti, al fine di
garantire la continuità di tale insegnamento nella Diocesi di Velletri-Segni:
valutato l’allegato Regolamento, proposto dall’Ufficio Scuola diocesano e che sostituisce il precedente, ormai datato:
con il presente
DECRETO
approvo il suddetto Regolamento, che entra in vigore con effetto immediato ed istituisco la Commissione per il riconoscimento dell’idoneità canonica
all’Insegnamento della Religione Cattolica nelle persone di:
Mons. Cesare CHIALASTRI, presidente
Prof. Don Dario VITALI
Prof. Don Antonio GALATI
Dott.ssa Sara BIANCHINI
Prof. Francesco DE ROSSI.
Tale Commissione svolgerà il suo incarico dalla data odierna fino a nuova disposizione.
Confidando nella competenza di ciascuno dei membri e sottolineando la delicatezza di tale incarico, al fine di assicurare una valida ed efficace presenza in un
ambito fondamentale ed insostituibile dell’educazione, quale è quello scolastico, auguro buon lavoro, nel Nome di Cristo, Luce delle Genti e di Maria, Sede
della Sapienza.
Velletri, 02.02.2017
+ Vincenzo Apicella, vescovo
Prot. n° VSC A 08/ 2017
Visto il Decreto del 21/02/1987, con il quale è stato eretto in persona giuridica canonica pubblica l’Istituto Diocesano Sostentamento Clero della Diocesi di Velletri – Segni con sede in Velletri, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con decreto del Ministero dell’Interno n. 285 in data
23/04/1987 pubblicato nel S.O. alla Gazzetta Ufficiale del 11/05/1987, iscritto nel registro delle persone giuridiche tenuto dalla Prefettura – Ufficio
Territoriale del Governo di Roma in data 22/09/1987 al n. 1187;
Vista la delibera approvata dalla 65a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, pubblicata sul Notiziario della C.E.I. n. 3 del
31/07/2013 che modifica gli articoli 11, lettera b) e 19, quarto comma, dello statuto – tipo degli Istituti Diocesani e Interdiocesani per il Sostentamento
del Clero;
Considerato che l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Velletri – Segni è retto dallo Statuto allegato al Nostro decreto del 07/03/2014 prot. n. VSC/10/2014;
Tenuto conto che l’Intesa tecnica interpretativa ed esecutiva dell’Accordo modificativo del Concordato Lateranense del 18 febbraio 1984 e del
successivo protocollo del 15 novembre 1984, entrata in vigore il 30 aprile 1997 (pubblicata sul S.O. n. 210 alla Gazzetta Ufficiale n. 241 del
15/10/1997), ha precisato che le modifiche statutarie non comportanti mutamenti sostanziali di cui all’art. 19 della Legge 20/05/1985 n. 222 non
necessitano di approvazione ministeriale, ma solo dell’autorità competente nell’ordinamento canonico e hanno immediata efficacia civile, una
volta iscritte nel registro delle persone giuridiche;
Vista la nota del Presidente dell’Istituto Centrale Sostentamento Clero del 20/05/2016, prot. n. 6118/2016, con la quale si auspica una modifica
statutaria affinché questo Istituto Diocesano possa avere tra gli organi assembleari anche quello del Collegio dei Revisori dei Conti; con questo
DECRETO
lo Statuto dell’Istituto per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Velletri – Segni è integrato e modificato negli articoli: 18) Collegio dei Revisori
dei Conti; 19) Obblighi del Collegio dei Revisori; 20) Vacanza dei seggi nel Collegio dei Revisori; 21) Rinvio a norme generali.
Lo statuto integrato con le predette modifiche è allegato al presente decreto.
Velletri, 22.02.2017
Mons. Angelo Mancini,
Cancelliere Vescovile
+ Vincenzo Apicella, vescovo
Marzo
2017
39
L’”ANNUNCIAZIONE”
DEL BEATO ANGELICO
Luigi Musacchio
O
ccorre recarsi al convento domenicano di San Marco, a Firenze,
percorrerne il corridoio est e, prima di entrare, fermarsi davanti alla cella numero tre, così, per una pausa, per scrollarsi di
dosso la polvere della quotidianità, prima di
aprire gli occhi sul miracolo del Beato
Angelico, beato perché santo nell’animo e
nei costumi e angelico perché aduso a raffigurare come altri mai le creature celesti, e,
alla bisogna, messaggeri di Dio.
La prospettiva “a fuoco centrale” dell’affresco ti colpisce e ti avvolge a un tempo. Subito
dopo sei preso da un coinvolgimento di tipo
metafisico, non solo estetico.
La visione che ti si spalanca innanzi è di un’essenzialità disarmante: denuncia sia la semplicità dignitosa della casa nazarethiana di
Maria che la laconicità dei tredici versi dell’annuncio dell’arcangelo.
A ciò si accompagnano il nitore e la diafanità dell’ambiente in cui Beato ha voluto allocare lo straordinario evento dell’Annunciazione.
Le due volte a crociera enfatizzano la misticità del luogo: le linee curve inducono a osservare in alto; le colonne aprono tre varchi verso l’esterno, a significare un messaggio proclamato anche al mondo; il verde di un giardino, appena intravvisto, può o vuole ricordare il verde del giardino dell’eden perduto,
sede primordiale del primo e infausto peccato per il quale ora
soccorre la benevolenza
del Padre.
Stagliato di tre quarti nello spazio d’uno di que-
sti varchi, una figura nei panni di un domenicano, a mani giunte, tradisce la presenza
di un’entità apparentemente anacronistica: tratterebbesi del martire Pietro da Verona dalla testa sanguinante: un anacronismo solo formalmente inappropriato, dacché esso , in un
avvenimento così intimamente personale, racchiuso nel mistico dialogo a due, vuole solo
rappresentare la
“testimonianza” di
un’umanità non lontana né estranea,
destinataria peraltro prediletta del
progetto divino di
redenzione e salvezza.
Maria, sorpresa nella lettura d’un libro
prevedibilmente ispirato devozionale,
appare a mani giunte nell’atto dell’accoglienza e dell’accettazione. Alla
poeticità del gesto
si accompagna quella del volto, sereno e compreso.
Gabriele ha appena fatto la
sua parte, l’indice della sua
mano destra indica il Cielo
da dove è partito l’ordine della “spedizione”. Le ali, prodigiosamente variopinte e leggere, fanno pensare a un volo
appena concluso.
L’essenzialità della pittura di
Beato traspare anche nella
coloritura non sfarzosa dell’insieme: le tonalità cromatiche
“suonano” sul registro mediobasso.
L’Arcangelo non vi compare nell’azzurro della veste propria delle creature celesti, né
Maria indossa una veste nel
colore rosso, proprio dei mortali, della tradizione, che si ammanterà di celeste solo dopo
il suo “sì”.
Gabriele è in piedi, Maria è reclinata in avanti, appena appoggiata su un panchetto nell’atto di una sottomissione consapevole. Il momento, che segna l’incalzare di avvenimenti escatologici, è solenne. Il dialogo tra i due personaggi pare avvenire,
più che a parole, nel
silenzio dipinto d’un
quadro, che anche nella sua forma ad arco,
anticipa la grotta di
Betlemme.
Nove mesi ancora e
il divino Bambino farà
il suo ingresso nella
storia, creatore tra le
sue creature, messaggero di redenzione e pace, non riconosciuto ma testimone eterno, soccorritore
misericordioso, della
vicenda umana.