Parte la nuova rubrica di diritto costituzionale

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Parte la nuova rubrica di
diritto costituzionale: focus
sulle sentenze 2017 della
Consulta
Dal Jobs Act al caso Taricco alle legge elettorale, le
pronunce più importanti della Corte Costituzionale nel 2017
Dott.ssa Luisa Foti – Nei mesi scorsi la Corte Costituzionale
ha emesso alcune importanti sentenze. Tra le principali
troviamo, innanzitutto, l’attesissima sentenza sulla legge n.
52 del 2015 (Italicum), le cui motivazioni sono state
depositate il 9 febbraio scorso. Si è anche espressa
sull’ammissibilità dei referendum abrogativi sul cosiddetto
“Jobs act“, emettendo inoltre una sentenza di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia sul caso Taricco che
vale la pena di illustrare nei suoi punti principali, data
l’importanza nonché le ricadute effettive sul principio di
legalità sostanziale in materia penale nel nostro ordinamento.
Infine è stata emessa una sentenza di inammissibilità
sull’art.
41-bis,
nella
parte
in
cui
permette
all’amministrazione penitenziaria di negare la possibilità di
ricevere libri ai detenuti sottoposti al regime di carcere
duro.
Ecco, in breve, queste ultime pronunce:
Ammissibilità referendum sul Jobs
Act
La
Consulta
ha
emesso
tre
decisioni
nel
giudizio
di
ammissibilità del referendum abrogativo: due di ammissibilità
e una di inammissibilità.
Dopo aver dichiarato ammissibili i quesiti sui voucher
(“abrogazione delle disposizioni sul lavoro accessorio”) e
sulla responsabilità dell’appaltatore (“abrogazione delle
disposizioni limitative della responsabilità solidale in
materia di appalti”), si è soffermata sul quesito
“propositivo” – a dire dei giudici – richiesto sull’art. 18,
l. 300/1970 dichiarandolo inammissibile, non solo per mancanza
di omogeneità e univocità del quesito ma soprattutto per
essere lo stesso uno strumento manipolativo delle scelte
legislative, con la conseguenza di determinare uno
stravolgimento dell’istituto referendario di tipo abrogativo.
Nel giudizio di ammissibilità dei referendum abrogativi ex
art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1953, la Corte ha
deciso di non ammettere al referendum abrogativo i quesiti
posti sull’art. 18, l. 300/1970 e sul decreto legislativo n.
23 del 2015.
Il quesito referendario, per mezzo dell’abrogazione integrale
del d.lgs. n. 23 del 2015 e parziale dell’art. 18 della legge
300/1970, si proponeva di eliminare le novità normative
introdotte con il jobs act e, in più, di estendere la tutela
reale oltre la dimensione occupazionale del datore di lavoro e
cioè, in sostanza, il comitato promotore non solo mirava al
ripristino ma anche all’ampliamento della tutela
reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo
estendendola a tutte le aziende con oltre cinque dipendenti,
contro il tetto dei 15 dipendenti del vecchio articolo 18.
In caso di esito favorevole del referendum, in sostanza,
incidendo con la tecnica del ritaglio sulla disposizione
normativa, avrebbe avuto l’effetto di applicare la tutela
reale a qualunque datore di lavoro che occupa,
complessivamente, più di 5 dipendenti, introducendo, di fatto,
attraverso lo strumento del referendum abrogativo, un limite
che non ha mai operato nel nostro ordinamento a tal fine, se
non con riferimento al caso peculiare dell’imprenditore
agricolo.
In sostanza con lo strumento abrogativo, si sarebbe introdotta
una nuova normativa.
Il giudice delle leggi ha spiegato che, pur essendo estranee
alle materie di cui all’art. 75, co. 2, Cost., le richieste
sono comunque incompatibili con la ratiodell’istituto
referendario e con gli ulteriori limiti non scritti che, a
partire dalla sentenza n. 16 del 1978, la Corte ha elaborato
in via giurisprudenziale: “il quesito è inammissibile – si
legge dalla parte motiva della sentenza – a causa del suo
carattere propositivo che lo rende estraneo alla funzione
meramente abrogativa assegnata all’istituto di democrazia
diretta previsto dall’art. 75 Cost”, in quanto il quesito
manipola il testo della legge e attraverso la tecnica del
ritaglio di parti di disposizioni normative da abrogare, ne
consegue, “per effetto della saldatura dei brani linguistici
che permangono, un insieme di precetti normativi aventi altro
contenuto rispetto a quello originario”.
La Corte ha precisato che la tecnica del ritaglio non è di per
sé causa di inammissibilità del quesito e che anzi si rende
necessaria in certi casi (vedi giurisprudenza ammissibilità
referendum abrogativi in materia elettorale). Altra cosa,
tuttavia, è la manipolazione della struttura linguistica della
disposizione, “ove a seguito di essa prende vita un assetto
normativo sostanzialmente nuovo”. In questo caso, secondo la
Corte, si realizzerebbe uno stravolgimento dell’istituto
referendario di tipo abrogativo: “ne consegue che la
manipolazione richiesta non è diretta a sottrarre
dall’ordinamento un certo contenuto normativo, (…) essa,
invece, del tutto arbitrariamente, rinviene nell’espressione
linguistica una cifra destinata a rispondere ad altre esigenze
e se ne serve per renderla il cardine di un regime giuridico”
diverso.
La proposta referendaria si trasforma, in sostanza, in una
nuova scelta legislativa: “la decisione su quale debba essere
il livello numerico cui subordinare questo effetto esige una
valutazione di interessi contrapposti, che il legislatore
formula con riguardo alla disciplina generale dell’istituto, e
che un referendum di natura esclusivamente abrogativa non può
invece determinare di per sé, grazie alla fortuita compresenza
nella disposizione di indicazioni numeriche sfruttabili
mediante il ritaglio. Altro sarebbe stato se il quesito
referendario avesse chiesto la integrale abrogazione del
limite occupazionale, perché in questo caso si sarebbe mirato
al superamento della scelta stessa del legislatore di
subordinare la tutela reale ad un bilanciamento con valori
altri, nell’ambito di un’operazione meramente demolitoria di
una certa operazione legislativa (sentenza n. 41/2003)”.
“Laddove non intenda abrogare quella opzione di base ma
esclusivamente articolarla in modo differente – conclude la
Corte, prima di contestare anche la mancanza di omogeneità e
univocità del quesito – il quesito assume invece un tratto
propositivo, che ne determina l’inammissibilità”.
Legge elettorale
35/2017)
(sentenza
n.
L’attesissima sentenza sulla legge 52 del 2015, cd. Italicum,
la n. 35 del 2017, è stata emessa il 26 gennaio e le
motivazioni sono state depositate il 9 febbraio. Prima di
entrare nel merito delle questioni, la Consulta si è espressa
sulle questioni pregiudiziali e cioè sull’asserita mancanza di
rilevanza ed interesse ad agire, ribadendo quanto già
affermato nella precedente sentenza n. 1/2014, aggiungendo le
ragioni che permettono di ritenere sussistente l’interesse ad
agire dei ricorrenti, nonostante la legge impugnata non sia
mai stata applicata.
Superando questo limite, la Corte ha spiegato tuttavia che lo
scrutinio si rende necessario “al fine di evitare la creazione
di una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale, in
un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico
dell’ordinamento”, garantendo “l’esigenza – come si legge
dalla sentenza n. 1/2014 che la Corte fa sua anche in questa
pronuncia – che non siano sottratte al sindacato di
costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le
elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole
della composizione di organi costituzionali essenziali per il
funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che
quindi non possono essere immuni da quel sindacato”.
Inoltre, per quanto concerne l’asserita mancanza di interesse
ad agire dei ricorrenti, a causa della mancata applicazione
della legge n. 52 del 2017, accogliendo l’impostazione dei
giudici ricorrenti, la Corte ha stabilito che “il fatto
costitutivo che giustifica l’interesse ad agire è dunque
ragionevolmente individuabile nella disciplina legislativa già
entrata in vigore, sebbene non ancora applicabile al momento
della rimessione della questione, oppure al momento
dell’esperimento dell’azione di accertamento: le norme
elettorali regolano il diritto di voto e l’incertezza riguarda
la portata di quest’ultimo, con il corollario di potenzialità
lesiva già attuale, sebbene destinata a manifestarsi in
futuro, in coincidenza con la sua sicura applicabilità. La
rimozione di tale incertezza rappresenta, quindi, un risultato
utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non
attraverso l’intervento del giudice. Ne deriva la sussistenza,
nei giudizi a quibus, di un interesse ad agire in mero
accertamento”.
Superando le questioni prodromiche alla cognizione di merito
delle censure, in particolare, per ciò che concerne il premio
di maggioranza al primo turno, la Corte ha ritenuto non
fondata la questione. Il giudice delle leggi ha spiegato che
“le previsioni della legge n. 52 del 2015 introducono una
soglia di sbarramento non irragionevolmente elevata, che non
determina di per sé, una sproporzionata distorsione della
rappresentatività dell’organo elettivo” in quanto è sempre
stato riconosciuto al legislatore un margine nella scelta del
sistema elettorale ritenuto più idoneo in relazione al
contesto storico politico in cui tale sistema è destinato ad
operare, riservandosi l’intervento ai casi di disciplina
manifestamente irragionevole e cioè nei casi in cui l’esigenza
di governabilità arrivi a comprimere la rappresentanza. A
detta della Corte, l’esistenza di una soglia minima per
l’attribuzione del premio non rende il premio manifestamente
irragionevole in quanto è la soglia stessa “a bilanciare i
principi costituzionali della necessaria rappresentatività
della Camera dei deputati e dell’eguaglianza di voto, da un
lato, con gli obiettivi, pure di rilievo costituzionale, della
stabilità del governo del paese e della rapidità del processo
decisionale, dall’altro”.
Per quanto concerne il ballottaggio, la Corte ha spiegato che
non è in sé l’istituto del ballottaggio ad essere
incostituzionale, ma il suo concreto modo di essere, e cioè le
modalità attraverso le quali opererebbe così come disegnato
dal legislatore. Facendo esempi di ballottaggio nel nostro
sistema (elezione del sindaco nei comuni con più di 15 mila
abitanti) e in altri sistemi al di fuori del territorio
nazionale, ha spiegato che è la mancanza di una soglia
raggiunta la quale attribuire il premio, ad essere
incostituzionale.
Come si legge dalla parte motiva della sentenza, “sono invece
le concrete modalità dell’attribuzione del premio attraverso
il turno di ballottaggio a determinare la lesione degli artt.
1, secondo comma, 3 e 48 secondo comma, Cost.” infatti “una
lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo
conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, e
ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati
i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al
primo turno”. Ci sarebbe, dunque, “un effetto distorsivo
analogo a quello che questa Corte aveva individuato, nella
sentenza n. 1/2014, in relazione alla legislazione elettorale
previgente”.
Per quanto riguarda i capilista bloccati, la Corte ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge nella
parte in cui permette al capolista bloccato di scegliere
volontariamente il collegio in cui insediarsi. La scelta del
miglior metodo spetta al Parlamento, a detta della Consulta.
Pertanto, per adesso, il sorteggio appare la scelta migliore,
nell’attesa che il Parlamento scelga discrezionalmente un
metodo che, a detta della Consulta, non spetta a lei né
sindacare né imporre con la sua pronuncia.
Infine,
la
Consulta
chiude
sollecitando
un
intervento
parlamentare al fine di armonizzare le discipline elettorali
dei due rami del Parlamento in seguito all’esito del
referendum costituzionale del 4 dicembre: “fermo restando
quanto appena affermato, questa Corte non può esimersi dal
sottolineare che l’esito del referendum ex art. 138 Cost. del
4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato
sulla parità di posizione e funzioni delle due Camere
elettive. In tale contesto, la Costituzione, se non impone al
legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento,
sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di
non compromettere il corretto funzionamento della forma di
governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti,
non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di
maggioranze parlamentari omogenee”.
41-bis: Arriveranno nei prossimi giorni le motivazioni della
decisione con la quale la Consulta ha dichiarato non fondata
la questione di legittimità costituzionale in relazione al
regime di carcere duro. In particolare, il magistrato di
sorveglianza aveva sollevato dubbi di costituzionalità
sull’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario,
nella parte in cui consente al Dap (dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria) attraverso circolari, di
adottare, tra le elevate misure di sicurezza interna ed
esterna, il divieto di ricevere libri e riviste per i detenuti
in regime di carcere duro. La questione era stata sollevata
con riferimento alla violazione degli artt. 15, 21 33, 34 e
117 (in relazione alla Cedu che vieta trattamenti inumani e
degradanti). La Corte ha deciso di non aderire a questa
impostazione, ritenendo la questione non fondata per le
ragioni che leggeremo nei prossimi giorni.
Caso Taricco (sentenza n. 24/2017)
La Consulta ha deciso di rinviare in via pregiudiziale la
questione sul Caso Taricco, (sentenza della CGUE dell’8
settembre in causa C-105-14, Taricco) rinviando alcuni quesiti
alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Con questa
decisione i giudici di Lussemburgo avevano stabilito che
l’art. 325 del TFUE impone di non applicare gli artt. 160,
ult. co., e 161, co. 2, c.p. quando ciò gli impedisce di
infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero
considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi
finanziari dell’Unione e anche quando le frodi che offendono
gli interessi finanziari di uno Stato membro sono soggette a
termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le
frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
Nonostante la decisione Taricco, i giudici della Cassazione e
della Corte di Appello di Milano avevano ritenuto che tale
decisione fosse in contrasto con i principi supremi
dell’ordine costituzionale italiano (cfr. teoria dei
controlimiti) e con i diritti inalienabili della persona di
cui agli artt. 3, 11, 24, 25 co. 2, 27 co. 3. 101 co. 2, con
espresso riferimento al principio di legalità in materia
penale.
Secondo i giudici rimettenti, le scelte relative al regime
della punibilità devono essere assunte esclusivamente dal
legislatore nazionale con norme sufficientemente determinate e
applicabili a fatti commessi prima dell’entrata in vigore
delle norme.
Non applicare gli artt. 160, ult. comma e 161, secondo comma,
determinerebbe un aggravamento del regime della punibilità di
natura retroattiva e mancherebbe inoltre una norma
adeguatamente determinata.
I giudici rimettenti della Corte di Appello di Milano e della
Cassazione avevano quindi chiesto alla Consulta di dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’ art. 2 della legge 2
agosto 2008 n. 130 nella parte in cui autorizza alla ratifica
e rende esecutivo l’ art. 325, par. 1 e 2, TFUE, come
interpretato dalla sentenza Taricco.
La Corte, dunque, invece di esprimersi, ha deciso di rinviare
in via pregiudiziale la questione con le seguenti motivazioni.
Secondo la Consulta, “la Costituzione italiana conferisce al
principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello
riconosciuto dalle fonti europee, in quanto non è limitato
alla descrizione del fatto di reato e alla pena, ma include
ogni profilo sostanziale concernente la punibilità”.
Nell’ordinanza con la quale ha disposto il rinvio
pregiudiziale, la Consulta ha spiegato che mentre la Corte di
giustizia muove dal presupposto che la prescrizione abbia
natura processuale, per l’ordinamento italiano essa ha natura
sostanziale e non vi è inoltre l’obbligo di uniformarsi alla
normativa comunitaria, non riguardando la norma le competenze
dell’Unione.
Prima di esplicitare i quesiti specifici da proporre alla
CGUE, la Consulta ha precisato che la regola tratta dall’art.
325 TFUE, come applicato dalla Sentenza Taricco, debba
applicarsi solo ove non contrasti con i principi fondamentali
dell’ordinamento: nella sentenza Taricco sarebbe ravvisabile
questo contrasto in quanto il principio di legalità penale
comprende tutti gli elementi che attengono alla descrizione
del fatto di reato e della pena ma anche tutto ciò che si
riferisce alla punibilità. “Se si dovesse ritenere che la
prescrizione ha natura processuale – ha aggiunto la Consulta –
o che comunque può essere regolata anche da una normativa
posteriore alla commissione del reato, ugualmente resterebbe
il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla
deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente
determinate. In questo principio si coglie un tratto
costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati
membri di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di
creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato
dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano
l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere
uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge
specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa
avvenire”.
Nel rinviare la questione, la Corte ha dunque posto i seguenti
quesiti, chiedendo se la normativa nazionale debba essere
disapplicata, nel senso indicato dalla sentenza in causa
Taricco:
– anche quando la mancata applicazione sia priva di una base
legale sufficientemente determinata;
– anche quando nell’ordinamento
dello
Stato
membro
la
prescrizione è parte del diritto penale sostanziale ed è
soggetta al principio di legalità;
– anche quando la mancata applicazione è in contrasto con i
principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro
e con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla
Costituzione dello Stato membro.
Fonte:
(www.StudioCataldi.it)