Fucilazione e decimazione nel diritto italiano del 1915
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Transcript Fucilazione e decimazione nel diritto italiano del 1915
Fucilazione e decimazione
nel diritto italiano del 1915-1918
di Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato*
«Rabbia e rancore spingevano il suo spirito aggressivo a
tormentare l’esercito con la più spietata disciplina. Ma non vi
era forza che potesse domare le truppe, tanto traboccavano di
esasperazione. Facevano tutto svogliatamente, senza motivazione, con negligenza e riluttanza; né avevano effetto intimidatorio la minaccia del disonore o la paura. [...] Inasprita in
ogni modo – ma invano – la disciplina, egli non riusciva più
a gestire i soldati».
Non si tratta di una testimonianza di un reduce della Grande Guerra o del resoconto di uno storico sul generale Luigi
Cadorna o sul Duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia,
bensì delle parole di Tito Livio circa la conduzione delle operazioni militari da parte del console romano Appio Claudio
cui si deve la prima decimazione riportata dalla storia1. Ma
l’intrinseca ingiustizia e l’evidente efferatezza della decimazione, unitamente all’empirica constatazione dei suoi effetti
* Sergio Dini è sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica
di Padova, già Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Militari;
Lorenzo Pasculli è dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Università degli Studi di Trento; Silvio Riondato è professore di Diritto penale
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova.
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spesso controproducenti rispetto ai fini perseguiti, indussero
i comandanti romani ad abbandonarla definitivamente, come
illustra Tacito2.
Purtroppo né la Storia, quale maestra di vita, né i principi
di ragione e giustizia, hanno potuto impedire che la tragica
scelta della decimazione si riaffacciasse con tutta la sua brutalità sulla scena del primo conflitto mondiale. Le analogie fra la
crisi in cui versava l’autorità di Appio nel lontano 471 a. C. e
la crisi subita dal Regno e dal Comando Supremo fra il 1916 e
il 1917 sulla linea del Carso, crisi sfociata anche nelle decimazioni subìte dalla Brigata Catanzaro, riflettono una regressione plurimillenaria della civiltà prima ancora che del diritto3.
Non sorprende quindi che nell’immaginario e nella coscienza
sociale della Nazione italiana la prima guerra mondiale risulti strettamente connessa anche a fucilazioni indiscriminate di
disgraziati soldati, volte a spingere all’obbedienza e all’assalto
certe truppe ormai sfibrate, titubanti, spesso ammutinate e
spesso, non si può negare, costituenti loro malgrado pericolosi
inneschi di una ancor più tragica perdita della guerra.
1. I soldati italiani vittime della repressione italiana attuata
tramite la sanzione capitale della morte furono centinaia nel
corso della guerra 1915-1918. Il fenomeno delle fucilazioni è
però complesso, perché varie erano le ragioni e le procedure
della sanzione capitale. Per una breve analisi, sono individuabili anzitutto tre distinte categorie: fucilazioni per sentenze
emanate da tribunali militari, in base a processi regolari secondo le norme del tempo; fucilazioni costituenti esecuzioni
sommarie da parte direttamente di ufficiali o per ordine degli
stessi nella flagranza di particolari reati; fucilazioni eseguite
con il metodo della “decimazione”. Ciascuna delle tre categorie aveva peculiari aspetti e particolari connotazioni di legittimità o illegittimità.
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a) La morte per fucilazione previo processo. Questa prima categoria, per quanto oggi appaia orribile, è quella che dal punto
di vista giuridico desta le minori perplessità, se considerata alla
luce del diritto vigente all’epoca e in relazione alla previsione
di tale pena negli ordinamenti degli altri Stati.
Secondo i dati statistici elaborati dall’Ufficio Disciplina
del Ministero della Guerra furono circa tremila le condanne
a morte per fucilazione emanate dai tribunali militari nel corso della prima guerra mondiale, di cui all’incirca settecentocinquanta ebbero esecuzione. Queste fucilazioni costituivano
la pena legale per certi reati commessi al fronte; e i tribunali
militari erano previsti dalla legge. Nonostante la ripugnanza
odierna, tali pene costituivano all’epoca una sanzione legittima. Per numerosi reati militari il codice penale per l’esercito
prevedeva la pena di morte: diserzione in presenza del nemico,
rivolta, procurata infermità, insubordinazione con omicidio
di superiore gerarchico, spionaggio. La pena di morte mediante fucilazione conosceva due distinte forme di esecuzione: la
fucilazione al petto, per reati gravi ma non infamanti; la fucilazione alla schiena, per delitti considerati disonorevoli e vergognosi quali tradimento, spionaggio, sbandamento.
La procedura penale seguita nei tribunali militari era certamente sommaria rispetto alla procedura in vigore avanti ai tribunali ordinari, ma prevedeva comunque una serie di garanzie
per l’imputato, tra cui la presenza di un difensore e la composizione collegiale del giudice. I giudizi e le condanne a morte
irrogate dai tribunali militari avevano luogo di regola nelle
retrovie (ancorché immediate) e a qualche distanza temporale
dai fatti, il che permetteva ai giudici un minimo di distacco in
funzione della serenità e ponderatezza della decisione.
All’inizio del ventesimo secolo la pena di morte era prevista
dalla totalità delle legislazioni penali militari e da quasi tutti i
codici penali comuni europei; faceva lodevole eccezione, ma
solo per l’ambito non militare, proprio il codice penale italia-
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no, che aveva abolito la pena di morte (c.d. Codice Zanardelli,
del 1889).
L’attribuzione al legislatore della facoltà di prevedere la pena
di morte nelle leggi militari di guerra è rimasta molto a lungo
perfino nella nostra Costituzione repubblicana, all’articolo 27,
quarto comma, che è stato abrogato soltanto con la legge 2
ottobre 2007, n. 1; e risale solo al 1994 la legge (n. 589) che ha
eliminato la pena di morte dai codici militari.
b) Le esecuzioni sommarie. Questa tipologia di condanne a
morte, se pur inammissibile secondo la nostra idea di dignità
umana, tuttavia trovava all’epoca una solida legittimazione.
L’articolo 40 del codice penale dell’esercito prevedeva che nel
caso di reati quali lo sbandamento, la rivolta e l’ammutinamento, o la diserzione con complotto, il superiore gerarchico che non utilizzasse qualsiasi mezzo a sua disposizione, ivi
comprese le armi, per impedirne la consumazione, fosse da
ritenersi correo e dunque passibile delle stesse gravissime pene
stabilite per detti reati. In virtù di tale norma, gli ufficiali, in
particolare i comandanti di reparti o formazioni organiche,
avevano non solo la facoltà, ma financo il dovere di uccidere o
far uccidere immediatamente, sul posto, i soldati che si fossero
resi responsabili di quei particolari reati, secondo l’inappellabile valutazione degli ufficiali stessi.
Vi era quindi una totale assenza di garanzie. Inutile rifarsi a canoni che solo oggi troviamo nella nostra Costituzione, come il diritto inviolabile di difesa, la presunzione di non
colpevolezza fino a condanna definitiva, la garanzia che un
giudice indipendente precostituito e imparziale decida sulle
responsabilità penali, il principio del giusto processo in contraddittorio con l’accusa e ad armi pari, il principio per cui le
sentenze devono essere motivate, il principio per cui la sentenza si può impugnare davanti alla Corte di Cassazione per
violazione di legge (principio che tuttavia è derogabile per le
sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra). Il militare
poteva essere ucciso sulla base del giudizio di un singolo superiore, senza che venisse seguita alcuna regola, senza sentire le
discolpe, senza intervento di un difensore, senza assunzione di
prove, senza redazione di atti e/o verbali che potessero essere
oggetto di controllo (ed eventualmente di sanzione) successivo
sull’operato del superiore/giudice. Nell’esecuzione sommaria
sia il giudizio che l’esecuzione non solo erano sostanzialmente
contestuali, ma anche si realizzavano per solito in circostanze
di tempo e di luogo tali da inficiare grandemente la serenità e
ponderatezza delle decisioni, sicché la morte dipendeva, nella
sua tragica definitività, dall’onda emotiva corrente nei combattimenti di prima linea o in altre situazioni di forte tensione
e pericolo. Contrariamente rispetto ai casi in cui un tribunale
militare decideva della vita o della morte di una persona, con
la partecipazione, l’apporto e la valutazione condivisa di tre
persone, secondo regole prestabilite e giovandosi dell’apporto
di un difensore, nell’ipotesi di esecuzione sommaria la morte discendeva dalla decisione insindacabile di un solo uomo,
quasi come se un singolo fosse eretto a Dio, da solo assumendo la responsabilità di stabilire che un altro individuo meritava la morte.
Non esiste ancora un panorama completo degli episodi di
esecuzione sommaria, proprio perché assai spesso le esecuzioni
sommarie avvenivano nel corso di combattimenti o sbandamenti, senza testimoni e verosimilmente con scarso o nullo
interesse da parte dell’ufficiale di rendere noto a terzi l’accadimento. Un quadro sommario è stato di recente abbozzato
da due studiosi, Marco Pluviano e Irene Guerrini, nel volume
Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, quadro
basato in gran parte sull’analisi e lo studio della Relazione sulle fucilazioni sommarie durante la guerra -, testo redatto
nel 1919 dall’Avvocato Generale Militare Donato Tommasi su
incarico del Capo di Stato Maggiore Armando Diaz, proba-
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bilmente in vista di un dibattito politico sul tema, che invece
non ebbe luogo. La Relazione Tommasi stima in circa trecento
i casi di esecuzioni senza processo.
Quasi tutte le legislazioni penali militari dell’epoca prevedevano in sostanza poteri analoghi per i superiori che si trovassero ad assistere a particolari gravi reati. Non si può affermare
che l’Italia fosse deviante rispetto alle usanze dell’epoca. Ciò
che quindi sorprende è non già l’esistenza di una pena di morte irrogabile per le vie brevi nelle normative militari di fine
’800 - primi del ’900, bensì che una norma sostanzialmente
identica sia rimasta in vigore nell’ordinamento italiano fino
al 1994: l’art. 241 del codice penale militare di guerra prevedeva, sotto la rubrica «Casi di coercizione diretta», che nella
flagranza di reati di disobbedienza, ammutinamento, insubordinazione, rivolta, allorché vi fosse imminente pericolo di
compromettere la sicurezza o l’efficienza bellica del reparto,
della nave o dell’aeromobile il comandante potesse immediatamente passare o far passare per le armi coloro che risultassero
manifestamente colpevoli. Questa norma ricalcava in sostanza
l’art. 40 del previgente codice penale dell’esercito, sotto la cui
disciplina ricaddero le vicende della prima guerra mondiale.
Nella seconda guerra mondiale si ebbero taluni casi di esecuzioni sommarie fondate sul menzionato art. 241 c.p.m.g.
Questo articolo è stato abrogato con la citata legge n. 589
del 1994. Il legislatore del ’94 si è finalmente dimostrato sensibile. Ha tuttavia lasciato in vigore un’altra norma del codice
penale militare di pace, l’art. 44, che prevede che non sia punibile, qualunque fatto di reato commetta, il «militare che usa o
ordina di fare uso delle armi quando vi è costretto dalla necessità di impedire l’ammutinamento, la rivolta [...] o comunque
fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave, o
dell’aeromobile». L’omicidio è quindi compreso. Si può però
auspicare un ulteriore intervento di riforma, nonché intanto
un’interpretazione che tenda a mantenere l’operatività di que-
sta norma eccezionale entro i limiti segnati dal principio di
ragionevolezza e dagli altri principi costituzionali.
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c) Le decimazioni. L’orrenda pratica della decimazione risulta purtroppo adottata solo dall’esercito italiano nella Grande
Guerra. In forza dell’art. 251 del codice penale per l’esercito,
al Comandante Supremo era conferita la facoltà di emanare
circolari e bandi aventi forza di legge nella zona di guerra, facoltà di cui si fece uso per legittimare la decimazione. Trattasi
in particolare di due distinte circolari a firma del capo di stato
maggiore dell’esercito, generale Cadorna, l’una del 26 maggio
1916, l’altra del 1° novembre dello stesso anno, n. 29104.
La Circolare del novembre 1916 così disponeva: «... ricordo
che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi
che quello di fucilare immediatamente maggiori colpevoli et
allorché accertamento identità personale dei responsabili non
est possibile rimane ai comandanti il diritto et il dovere di
estrarre a sorte tra tutti gli indiziati alcuni militari et punirli
con la pena di morte. A cotesto dovere nessuno che sia conscio
della necessità di una ferrea disciplina si può sottrarre ed io
ne faccio obbligo assoluto ed indeclinabile a tutti i comandanti». Questa circolare era accompagnata da ulteriori note,
per noi molto importanti, a firma del Duca d’Aosta Emanuele
Filiberto di Savoia, comandante della terza Armata, note che
diventavano parte integrante della normativa giuridica: «... ho
appreso che tra le mie truppe si sono verificate recentemente
alcune gravi manifestazioni di indisciplina [...] perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di
così grave onta alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi... ».
Occorre distinguere tra due tipi di decimazione5. Il primo
riguarda l’ipotesi in cui siano ritenuti responsabili del fatto
tutti i militari interessati. La decimazione non solo evita una
punizione generalizzata di tutti i soldati del reparto, ma anche
esclude la punizione di certi militari che pur sono responsabili del fatto illecito, cosicché non comporta una drastica menomazione delle forze della milizia, ma si limita per esempio
ai «maggiori colpevoli» come indicato da Cadorna. Questo
tipo di decimazione, da alcuni coraggiosamente denominato
«umanitario», meriterebbe piuttosto di esser detto utilitaristico o economico, poiché è ispirato soprattutto dall’interesse
delle forze armate a non perdere uomini più del necessario.
Comunque sia, comporta meno punizione di quanto altrimenti e legittimamente potrebbe essere. Di questo tipo pare
sia stata la decimazione avvenuta a seguito della rivolta della
Brigata Catanzaro a Santa Maria la Longa nel 1917.
Il secondo tipo di decimazione era del tutto diverso, tanto
che è stato definito «aberrante»6. Esso concerneva l’ipotesi in
cui non si riuscisse ad individuare i colpevoli. Pur di non rinunziare al «salutare esempio» si accettava il rischio di colpire
degli innocenti sorteggiati casualmente fra gli appartenenti al
reparto in cui si erano verificati i fatti. La pretesa funzione di
questa decimazione era appunto quella di ricondurre all’obbedienza i soldati scampati all’estrazione, nonché tutti gli altri
militari, mediante l’esempio intimidatorio della sorte toccata
ai propri compagni.
Con queste norme si finiva per ritenere non più imprescindibile, al fine della fucilazione, acquisire la certezza sia della
commissione materiale del fatto illecito da parte del militare,
sia della colpevolezza per quel fatto. Cadorna si accontenta ma
almeno richiede che gli sventurati siano «indiziati», sospinto a ciò dal Ministro Bissolati, ma il Duca d’Aosta annovera
senz’altro e inequivocamente i «non colpevoli». A cadere vittime del fuoco dei commilitoni erano comunque dei veri e propri “presunti innocenti”, stante l’impossibilità di individuare
i responsabili di determinati reati. La decimazione di questo
tipo era perciò quanto di più lontano si potesse immaginare
da un principio fondamentale della civiltà giuridica, il princi-
pio oggi sancito dall’art. 27, primo comma, della Costituzione
italiana: «La responsabilità penale è personale». La pena cessava di costituire una reazione fondata sulla responsabilità propria e personale dell’autore del reato, mentre assumeva la ben
diversa e aberrante veste della “sanzione esemplare” per cui
il malcapitato veniva punito per un fatto commesso da altri.
Nelle modalità applicativo-esecutive, cioè nell’alea del sorteggio, si dissolve ogni razionalità e ragionevolezza e si appalesa
la cieca ingiustizia.
Di decimazione aberrante parrebbe trattarsi nel caso dello
sbandamento della Brigata Catanzaro sul Monte Mosciagh,
29 maggio 1916. Tale decimazione è stata però attuata prima
che la sanzione fosse prevista in via generale nella circolare di
Cadorna del novembre successivo, e più precisamente nella
menzionata nota del Duca d’Aosta. L’episodio è perciò ancor
più grave in quanto non risulta consentito dalla legge, nonostante la legittimazione a posteriori cui sembrerebbe tendere
l’approvazione di decimazioni pregresse contenuta nella stessa
nota del Duca d’Aosta.
Le fucilazioni per decimazione costituirono la più abominevole particolarità repressiva dell’esercito italiano rispetto a
tutte le altre nazioni coinvolte nel conflitto. Fucilazioni ed
esecuzioni sommarie vi furono sì anche nell’esercito francese e
inglese, come pure nei reparti austriaci e tedeschi, ma si trattò
comunque sempre di interventi nei confronti di soggetti ritenuti responsabili personalmente di gravi e pericolosi atti di
ribellione o di indisciplina.
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2. Il Regno d’Italia era uno stato moderno7 improntato ai
principi dello stato di diritto8 consacrati, a ridosso della Rivoluzione francese, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino del 26 agosto 17899, poi ripresi dallo Statuto Albertino del 1848. Sotto l’egida del primato della legge – inteso
quale «dominio di una razionalità obiettiva contrapposta agli
arbitri soggettivistici»10 – lo stato di diritto si poneva a servizio
dell’affermazione dei diritti e delle libertà dell’uomo11, in una
prospettiva imperniata sul valore della personalità umana.
Il diritto penale, plasmato sui principi di derivazione illuministica, che ne determinavano l’intonazione in chiave liberale,
a sua volta si configurava quale «espressione di razionalità utile
al progresso dello spirito umano»12. Erano ormai acquisizioni
pacifiche della coscienza giuspenalistica dell’epoca i principi di
legalità e certezza della pena, il principio di umanizzazione e
di proporzionalità della pena, il reciso rifiuto di ogni strumentalizzazione dell’individuo13 e di ogni concezione vendicativa
del diritto penale, la negazione di finalità esemplari alle fasi di
applicazione e di esecuzione della pena14.
Il principio di personalità della responsabilità penale aveva
trovato la propria affermazione legislativa nell’art. 45 del codice penale Zanardelli del 1889, che stabiliva che «nessuno può
essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo
costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico
come conseguenza della sua azione od omissione». Rispetto al
suo primigenio significato di divieto della responsabilità penale per fatto altrui, tale principio si arricchiva, dunque, di
un ulteriore contenuto: giungeva ad esigere un nesso morale,
oltre che materiale, fra il soggetto e il fatto: responsabilità penale per fatto non soltanto “proprio”, bensì, di regola, anche
“colpevole”.
Così come il diritto sostanziale, anche il diritto processuale penale si orientava verso orizzonti garantistici. Fra gli strumenti di tutela del singolo contro gli arbitri dei poteri dello
Stato si annoveravano il principio di presunzione di non colpevolezza15, la garanzia della giurisdizione ed il principio del
giudice naturale16, la pubblicità del processo17, il diritto di difesa, l’obbligo di motivazione delle decisioni quale limite alla
discrezionalità del giudice18.
Bastano queste essenziali notazioni19 a mettere in risalto
l’assoluta incompatibilità della decimazione rispetto ai raffinati principi del diritto penale comune del tempo. Essa non
conosceva il compito naturale dell’autorità giudiziaria, ma si
affidava ai compiti – spogliati di ogni componente garantistica – dell’autorità militare. L’autorità giustiziava non secondo
motivata discrezionalità, ma secondo l’arbitrio del fato, facendo della vita umana uno strumento funzionale all’esempio.
Resta però da stabilire se la straordinarietà dello stato di
guerra non implicasse deroghe ai principi, che permettessero
il ricorso alla decimazione.
Orbene, la concezione dell’ordinamento militare all’inizio
del ventesimo secolo era quella di un ordine giuridico separato
ed autonomo rispetto a quello comune, proteso al conseguimento di fini esclusivamente militari. Di conseguenza, il relativo apparato sanzionatorio si collocava in una posizione di
alterità rispetto al diritto penale comune.
Diritto penale militare e Diritto penale comune non potevano tuttavia che poggiare sugli stessi principi fondamentali,
in quanto inerenti ad ogni sanzione penale20. In ogni caso, le
eventuali discrasie non avrebbero potuto trascendere i principi dello stato di diritto, cui s’informava anche la normativa
penale militare, benchè arretrata rispetto alle evoluzioni del
pensiero giuridico dell’epoca21. Il fatto che nessuna norma penale militare prevedesse l’applicabilità della decimazione dimostra come il legislatore avesse ritenuto un deterrente più
che sufficiente la minaccia della pena di morte – già scomparsa
dal codice penale comune –, peraltro circoscritta a limitate
ipotesi22.
L’alterità, tuttavia, non va confusa con la straordinarietà
dello stato di guerra. Se la prima comporta una certa esigenza
di presidiare la conservazione della compagine militare, la seconda mira a garantire la sopravvivenza dello Stato stesso alla
forza distruttiva della guerra. Ammettiamo pure almeno in
ipotesi che la necessità di adottare misure eccezionali in difesa
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del bene supremo della continuità dell’ordine giuridico costituito giustifichi una temporanea sospensione dei principi dello
stato di diritto23. In nessun caso, comunque, tale sospensione
può tradire la razionalità oggettiva del diritto, che è preesistente allo Stato stesso24 e in cui si sostanzia il primato del diritto
e della legge che ne costituisce la manifestazione: lo strumento per salvare lo stato di diritto non può consistere nella sua
soppressione25. Non a caso, alcuni Paesi, durante il tempo di
guerra, proteggevano i propri soldati dagli abusi dell’autorità
militare mediante la previsione di apposite tutele, come la Rechtsstaatlichkeit (“condizione dello stato di diritto”) riconosciuta ai militari dal diritto tedesco, o quelle garanzie di stampo liberale introdotte durante la Grande Guerra nell’ambito
della giustizia militare francese26. Su un piano sovranazionale
si avvertiva sin dalla seconda metà dell’Ottocento la necessità
di stabilire principi comuni di natura umanitaria che vincolassero, in tempo di guerra, tutte le nazioni ed escludessero gli
arbitri dei capi militari27.
L’alterazione dell’ordine giuridico costituito determinata
dallo stato di guerra soggiace, pertanto, a limiti di natura formale e sostanziale. Tuttavia, in un ordinamento costituzionale
flessibile quale quello albertino, in cui la legge ordinaria può
revocare i principi dello Statuto, i limiti formali ricavabili dalla
carta fondamentale sono esposti ad una particolare precarietà.
Ben più incisivi, invece, restano i limiti di carattere sostanziale, che si compendiano nel divieto di sospendere quei principi
che nulla hanno a che vedere con la guerra, nonché quei diritti di libertà che costituiscono le «strutture elementarmente
articolate dello Stato-comunità»28. Pare che tra questi principi
e diritti inderogabili debba figurare il principio di personalità
della responsabilità penale e, con esso, la maggior parte dei
principi liberali in materia di pena e processo penale.
Nondimeno, in Italia le cose andarono diversamente: il 25
maggio 1915 il Paese non entrava in uno stato di guerra come
quello sin qui delineato, ma tendeva a precipitare in un vero e
proprio stato di eccezione29. Il potere legislativo era nelle mani
del Governo e del Comando Supremo, che approfittava delle
sacche illiberali del codice penale per l’esercito30, residuato di
concezioni antiquate della guerra, per dar sfogo alle proprie
interpretazioni repressive. Mediante capziose forzature ermeneutiche si legittimavano esecuzioni sommarie in casi che,
per legge, avrebbero dovuto essere affidati ai tribunali militari straordinari; con petulanti direttive e con la minaccia di
tempestive rimozioni si influenzavano le decisioni dei giudici
militari ordinari; dietro efferate sanzioni disciplinari si occultavano le mancanze degli ufficiali.
Sotto gli occhi di un Parlamento inerme e di un Governo irresoluto, l’autorità militare conduceva la sua guerra con cieco
autoritarismo. E nei meandri oscuri dello stato di eccezione,
a cavallo fra il 1916 ed il 1917, si insinuò la prassi della decimazione: espressamente ordinata in via generale da Cadorna a
tutti i comandanti, e accettata – sebbene non approvata – dal
Governo31, nonché in definitiva sopportata se non giustificata
dalla stessa Giustizia Militare (che non risulta abbia mai incriminato gli autori di quelle fucilazioni arbitrarie).
Qualcuno può pensare che si punisse ormai fuori da ogni
legalità. Di certo, nessun limite, formale o sostanziale, aveva
saputo arginare la radicale trasfigurazione dell’ordine giuridico
costituito: «la struttura dello stato restava liberale, ma erano
tramontati i presupposti dello stato di diritto»32. Questo è l’effetto legale ma paradossale dell’art. 251 del codice penale per
l’esercito, secondo cui al Comandante Supremo era conferita
la facoltà di emanare circolari e bandi aventi forza di legge nella zona di guerra, facoltà di cui come si è detto si fece uso per
legittimare la decimazione. Si consideri che qualora manchi,
come allora mancava, (l’effettività di) un diritto superiore, chi
in guerra decide sulla necessità si vale al contempo del canone
necessitas non habet legem e del canone necessitas facit legem,
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tanto più quando proprio i detentori della forza sono coloro
cui spetta di dettare quel diritto che la stessa forza dovrebbe
difendere affinché sia effettivo. Di conseguenza il paradosso
finisce per sostanziarsi nell’annullamento della distinzione tra
il diritto della forza e la forza del diritto: la forza è padrona.
Nel trascinare l’Italia nello stato di eccezione, Governo e
Comando Supremo avevano creduto di poter esercitare il loro
potere dominando legalità e diritto. Ma senza diritto, il potere
perde la sua legittimazione ed ogni tentativo di imporlo con la
forza è destinato a causare la reazione di chi la subisce33.
Gli episodi di indisciplina dei reparti italiani nel corso della prima guerra mondiale non possono esser riduttivamente
interpretati – come pretendeva di fare il Comando Supremo
– quali fatti criminosi tout court. Essi erano, in realtà, epifania
della grave crisi che aveva travolto le fondamenta dell’autorità
dei comandi militari, le cui vessazioni le truppe non erano più
disposte ad accettare. E il ricorso alla giustizia sommaria altro
non era che il disperato tentativo di riaffermare un potere ormai delegittimato tramite l’esercizio arbitrario della violenza.
Far luce sulle decimazioni restituisce l’onore rubato a certi
giustiziati e rivede le dovute responsabilità – senza l’aiuto dei
dadi, s’intende.
1 Tito Livio, Ab urbe condita libri, II, 58-59. Narrano di successive decimazioni Plutarco, Vitae comparatae, Crassus; Tacito, Annales, III, 21
e XIV, 44; Svetonio, De vita Caesarum, II, Divus Augustus, 24. Ne descrive le modalità esecutive Polibio, Istoriai, VI, 38. V. anche S. Malizia,
voce Decimazione, in Enc. Dir., XI, 1962, pp. 809 ss.
2 Cfr. Tacito, op. cit., XIV, 44 e S. Malizia, op. cit., p. 809.
3 La severità con cui certa letteratura straniera descrive il generale Cadorna e i suoi metodi riecheggia il citato passaggio dell’opera di Tito
Livio: «he regularly castigated public opinion for apathy and defeatism,
a condition that he did nothing to repair. He ruthlessly dismissed senior commanders (217 in all) and sought to maintain military morale
through a series of brutal, summary executions (of which there were
some 750) more appropriate to a barbarian horde than the army of a
constitutional monarchy» (J. M. Bourne, voce Cadorna, Luigi, in Who’s
Who in World War One, Routeledge, London 2001, p. 48). Cfr., in toni
altrettanto critici, H. H. Herwig – N. M. Heyman, voce Cadorna, Luigi, in Biographical Dictionary of World War I, Greenwood Press, London
1982, p. 104, e S. Pope – E. Wheal, voce Cadorna, General Luigi, in The
Macmillan Dictionary of the First World War, Macmillan, London 1995,
p. 94.
4 Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Rep. L3,
busta 141, fasc. 9, cit. in M. Pluviano – I. Guerrini, Fucilate i fanti della
Catanzaro. La fine della leggenda sulle decimazioni della Grande Guerra,
Gaspari, Udine 2007, pp. 19 ss., e pubblicata dallo stesso Cadorna nelle
sue Pagine polemiche, Milano 1950, p. 94.
5 Su questa distinzione S. Malizia, op. loc. cit. e P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, Laterza, Bari 1969, p. 128.
6 Melograni, op. loc. cit.
7 Uno dei teorici dello stato moderno fu V. E. Orlando, Introduzione al
Trattato di diritto amministrativo, vol. I, cap. II, Milano 1897. Orlando
ingaggiò contro Luigi Cadorna il “duello” di cui riferisce P. Melograni,
Orlando contro Cadorna: duello di Stato, in«30 Giorni», anno XXI, agosto-settembre 2003, pp. 86 ss.
8 Cfr. E. Tosato, voce Stato (dir. cost.), in Enc. Dir., XLIII, 1990, p. 758; F.
Lanchester, voce Stato (forme di), ivi, pp. 796 ss.; P. Biscaretti di Ruffia,
voce Stato (storia del diritto), in Nov. Dig. It., XVIII, 1971, pp. 261 ss.
9 Georg Jellinek, Die Erklärung der Menschen- und Bürgerrechte (), in
R. Schnur (a cura di), Zur Geschichte der Erklärung der Menschenrechte,
Darmstadt 1964, rinviene i presupposti di un potere politico limitato
già nel primo costituzionalismo inglese. Altri li trovano addirittura nel
Medioevo (F. Kern, Recht und Verfassung im Mittelalter, in «Historische
Zeitschrift», 1919, CXX, rist. Darmstadt 1952 e Id., Gottesgnadentum
und Widerstandsrecht im frühen Mittelalter (), rist. Darmstadt 1953.
Cfr. M. Fioravanti, voce Stato (storia), in Enc. Dir., XLIII, 1990, pp. 693
ss.).
10 Fioravanti, op. cit., p. 712.
11 L. Carlassare, Conversazioni sulla Costituzione, Cedam, Padova 2000, p. 19.
12 S. Vinciguerra, Le fonti culturali del diritto penale italiano, Cedam, Padova 2008, p. 5.
13 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. a cura di P. Calamandrei, 1950,
XXVII; I. Kant, Metafisica dei costumi. Principi metafisici della dottrina
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del diritto (), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto,
Torino 1956, p. 520.
14 Cfr., in particolare, le posizioni di Feuerbach e Romagnosi riassunte in
S. Vinciguerra, Diritto penale italiano, I, Cedam, Padova 1999, pp. 230
ss. Ivi ulteriori indicazioni bibliografiche.
15 Già sancito nell’art. 9 della Dichiarazione del 26 agosto 1789.
16 Artt. 68 ss. St. Alb.
17 Art. 72 St. Alb.
18 Su un piano comparatistico, cfr. il discorso di Winston Churchill alla
House of Commons del 20 luglio 1910.
19 Per un quadro più esauriente si rinvia a S. Vinciguerra, Le fonti culturali
del diritto penale italiano, cit. e C. F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e Novecento, in L. Violante, Storia
d’Italia. Annali, 12: La criminalità, 1997, p. 9.
20 P. Vico, Diritto penale militare, II ed. riv. e agg., Società Editrice Libraria, Milano 1917 (estratto dalla Enc. Dir. Pen. It.), p. 4. Per una sintetica
panoramica sulla normativa penale militare negli anni della prima guerra mondiale v. A. Monticone, Introduzione. Il regime penale nell’esercito
italiano durante la prima guerra mondiale, in E. Forcella – A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza,
Bari 1968 (II ed. 2008), nonché Pluviano – Guerrini, op. cit.
21 Il codice penale per l’esercito del 1869 allora in vigore ricalcava sostanzialmente quello del 1859, che, a sua volta, era frutto di una riforma
volta ad adeguare il diritto penale militare ai principi dello Statuto Albertino. Dopo l’approvazione del Codice Zanardelli, da cui il codice
per l’esercito era rimasto scoordinato, si era dato il via a nuovi lavori
di riforma, che furono interrotti dall’avvento della guerra. Cfr. Vico,
op. cit., pp. 56 ss.; V. Manzini, Diritto penale militare, II ed. agg. con i
codici del 1930, Cedam, Padova 1932, pp. 4 ss.
22 Cfr. Vico, op. cit., p. 152. Sul tema v. anche G. Sucato, Istituzioni di
diritto penale militare, I, Parte generale, Stamperia Reale, Roma 1941, pp.
247 ss.
23 Tale sospensione è ammessa anche dal nostro sistema costituzionale.
Cfr. le pagine di G. Ferrari, voce Guerra (stato di), in Enc. Dir., XIX,
1970, pp. 816 ss. Per la diversa problematica dello stato d’assedio v. F.
Modugno – D. Nocilla, voce Stato d’assedio, in Nov. Dig. It., XVIII,
1971, pp. 243 ss.
24 Cfr. Tosato, voce Stato (dir. cost.), cit.
25 Proprio attraverso l’analisi dello stato di guerra pensatori quali Thomas
More, Jean Bodin, Ugo Groot e Alberico Gentili intendevano indivi-
duare i presupposti del giusnaturalismo moderno, sulla base della considerazione che la guerra non può sospendere «quelle norme che sono
fondate sulla stessa natura umana e sono quindi inerenti alla comunità
umana in qualsiasi momento ed anche nei rapporti moderni», N. Abbagnano, Storia della filosofia, II, III ed., Utet, Torino 1982, p. 384. Cfr.
anche S. Vinciguerra, op. ult. cit., p. 9.
26 V. rispettivamente G. Oram, Military Executions during World War I,
cit., p. 28 e G. Pedroncini, Les mutineries de , Presses Universitaires
de France, Paris 1967 (III ed. 1996).
27 Cfr. il preambolo della Convenzione internazionale dell’Aja del 29 luglio
1899 concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre. Per altri riferimenti normativi e bibliografici v. M. Capasso, voce Guerra, in Nov. Dig.
It., VII, 1962, pp. 48 ss.
28 G. Ferrari, op. cit., p. 828.
29 C. Schmitt, Teologia politica, 1922; G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
30 Cfr. A. Bruno, Prefazione, in Id. (a cura di), Codice penale per l’esercito
illustrato con le decisioni della Cassazione e del Tribunale supremo, Barbera, Firenze 1916, p. v ss.
31 Il ministro Bissolati si compiaceva di esser riuscito a convincere Cadorna a circoscrivere il sorteggio solo agli indiziati (L. Bissolati, Diario di
guerra, Einaudi, Torino 1935, p. 86).
32 G. Procacci, La società come una caserma, in B. Bianchi (a cura di),
La violenza contro la popolazione civile nella Grande guerra. Deportati,
profughi, internati, Unicopli, Milano 2006, p. 286., p. 73, n. 17. Sull’argomento v. C. Latini, Una giustizia “d’eccezione”, in «Deportate, esuli,
profughe», n. 5-6, 2006, pp. 67 ss. e Id., Governare l’emergenza. Delega
legislativa e pieni poteri in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano
2005.
33 Cfr. Tosato, op. cit., pp. 770 ss. Avevano ragione i tribuni ed i legati ad
ammonire Appio a non voler mettere alla prova il suo «imperium, cuius
vis omnis in consensu oboedientium esset» (Tito Livio, Ab urbe condita
libri, II, 57-58).
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