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DONNE CHIESA MONDO
MENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO
NUMERO
55
MARZO
2017
CITTÀ DEL VATICANO
Donne e Riforma
numero 55
marzo 2017
UNO
SGUARD O STORICO
Donne fra cattolici e protestanti
LUCETTA SCARAFFIA
A PAGINA
3
SPIRITUALITÀ
Tra femminile e femminismo
ELISABETH PARMENTIER
IN
A PAGINA
11
A PAGINA
17
NOVEMILA CARATTERI
Una costruzione dal basso
MARCELO FIGUEROA
IL
LIBRO
Una ebrea, una protestante, una cattolica
MARGHERITA PELAJA
FO CUS
La colonna portante
LA
SILVINA PÉREZ
A PAGINA
24
IRENE RANZATO
A PAGINA
26
LUÍSA MARIA ALMENDRA
A PAGINA
29
ANNA FOA
A PAGINA
36
BOSE
A PAGINA
39
SANTA DEL MESE
I superpoteri di Olivia
NEL
NUOVO TESTAMENTO
La profetessa Anna
ARTISTE
Dipingere come pregare
MEDITAZIONE
Ci salverà solo l’amore donato
A CURA DELLE SORELLE DI
A PAGINA
22
L’EDITORIALE
Lucas Cranach il Giovane
«Predica
di Martin Lutero»
(particolare)
D ONNE CHIESA MOND O
Mensile dell’Osservatore Romano
a cura di
LUCETTA SCARAFFIA
In redazione
GIULIA GALEOTTI
SILVINA PÉREZ
Comitato di redazione
CATHERINE AUBIN
MARIELLA BALDUZZI
ANNA FOA
RITA MBOSHU KONGO
MARGHERITA PELAJA
Progetto grafico
PIERO DI D OMENICANTONIO
www.osservatoreromano.va
[email protected]
per abbonamenti:
[email protected]
D ONNE CHIESA MOND O
2
L’anniversario della decisione di Lutero, che cinquecento anni fa ha
dato inizio alla separazione fra protestanti e cattolici, può essere affrontato da diversi punti di vista. Certamente quello che a noi interessa di più, cioè il confronto fra donne appartenenti alle diverse
Chiese nate dalla riforma e donne appartenenti alla Chiesa cattolica,
apre uno dei fronti più conflittuali, e quindi più interessanti: quello
del sacerdozio femminile. Tutte le Chiese e le comunità ecclesiali
protestanti, infatti, hanno aperto alle donne l’accesso ai vari gradi di
sacerdozio o al ruolo pastorale, e discutono i propri progetti di futuro in riunioni in cui la presenza femminile non manca mai, in totale
contrasto con quanto avviene nella Chiesa cattolica. Una delle prime
domande che ci si deve porre è se questa differenza nasce dal diverso
atteggiamento che protestanti e cattolici hanno assunto di fronte alla
modernità, che ha visto i protestanti accogliere cambiamenti che per i
cattolici non erano considerati accettabili (per esempio di fronte al
controllo delle nascite, o al matrimonio omosessuale) oppure non sia
radicato in più sostanziali e profonde svolte teologiche. La felice collaborazione che, dopo il concilio Vaticano II, si è aperta fra studiose
di esegesi biblica e teologhe cattoliche e protestanti, in una comune
ricerca — o in un certo senso anche riscoperta — del ruolo della donna nella tradizione cristiana, ci porta a pensare che la questione sia
più profonda e i che nodi da sciogliere, sostanziali, richiedano un lavoro ecumenico. E di questo le donne sono pienamente consapevoli.
Quello fra le donne è stato infatti, in questi ultimi decenni, un
ecumenismo non di dichiarazioni e di commissioni, ma di sostanza:
collaborazioni e confronti intellettuali, di alto livello, ma anche lavoro insieme in difesa delle donne oppresse e in pericolo. Insieme infatti protestanti e cattoliche sono impegnate per salvare dalla schiavitù le giovani cristiane e indù rapite in Pakistan, le donne violentate
come prede di guerra in Africa, le immigrate che arrivano umiliate e
distrutte in Europa. Con una differenza su cui riflettiamo nel nostro
mensile: che le donne cattoliche impegnate in queste battaglie sono
molto più numerose e organizzate, anche se il loro impegno resta invisibile. (lucetta scaraffia)
UNO SGUARD O STORICO
Donne fra cattolici
e protestanti
di LUCETTA SCARAFFIA
A
lungo nella tradizione cristiana si è pensato che fosse più facile irretire nell’eresia le donne piuttosto che gli uomini, e proprio per questo
molti cattolici cercarono di screditare la causa protestante collegandola alla debolezza della donna. Ma veramente la Riforma attirò le
donne cattoliche più degli uomini? E veramente queste ultime trovarono nelle confessioni protestanti la possibilità di partecipare più attivamente alla vita religiosa della loro comunità, e magari anche accesso a condizioni di vita migliori? Oggi, di fronte all’evidenza
dell’apertura del ministero alle donne all’interno di tutte le denominazioni riformate, siamo portati a dare una risposta positiva, e quindi
il mondo protestante appare come più aperto e rispettoso delle donne di quello cattolico. Ma è proprio vero? E soprattutto è sempre stato così?
In un saggio famoso — Donne di città e mutamento religioso — la storica ebrea Natalie Zemon Davis cerca di rispondere a queste domande con una ricerca puntuale sulla Francia ugonotta di fine Cinquecento. Prima della Riforma, quasi tutte le donne prendevano parte,
in vari modi, alle attività economiche della città, anche se la loro vita
era in gran parte assorbita dal compito biologico di procreare. La loro partecipazione alla vita pubblica, però, era scarsa o nulla, e il loro
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D ONNE CHIESA MOND O
livello di alfabetismo piuttosto basso, benché in questo periodo —
grazie alla diffusione delle opere a stampa — fosse in crescita l’alfabetizzazione maschile. La loro partecipazione alla vita religiosa, alla vigilia della Riforma, era meno organizzata di quella maschile: minore
il numero delle confraternite femminili, e minime le tracce di una ricerca di nuovi esperimenti comunitari femminili di vita, al di là dei
pochi monasteri. Il rapporto delle donne con la religione e con i santi, dunque, era generalmente di carattere privato, o affidato all’organizzazione familiare. Bisogna poi ricordare che la presenza alle funzioni — sia per le donne che per gli uomini — era saltuaria, e poco
frequente anche l’adempimento del precetto pasquale. In questo quadro la Riforma è intervenuta come un elemento nuovo e dirompente,
perché metteva nelle mani delle donne la Bibbia: «Sono tutte mezze
teologhe» dicevano con disprezzo i predicatori francescani, che chiedevano piuttosto alle donne, con le loro prediche infiammate, lacrime
di pentimento.
L’umanista Erasmo fu uno dei pochi uomini del tempo che intuì il
risentimento che si andava accumulando nelle donne, i cui sforzi di
approfondimento dottrinale venivano scoraggiati e dileggiati dal clero. In uno dei suoi Colloqui una donna dotta che viene derisa da un
abate sbotta con queste parole: «Se continuerete così come avete cominciato, anche le oche si metteranno a predicare piuttosto che sopportare il silenzio di voi pastori. La scena del mondo è ora sottosopra. O ci si ritira o ciascuno dovrà fare la sua parte».
Lucas Cranach il Vecchio
«Katharina von Bora»
La letteratura popolare calvinista proponeva infatti una nuova immagine di buona cristiana: doveva essere semplice e pura, ma anche
conoscere la Bibbia tanto da essere capace di vincere un confronto
con i preti. Nella propaganda protestante dei primi decenni, infatti,
la donna cristiana viene identificata dal suo rapporto con la Scrittura. «Anche nella realtà — scrive la storica — le donne protestanti andavano liberando le loro anime dal dominio dei preti e dei dottori di
teologia». E cita l’esempio di Marie Becaudelle, domestica a La Rochelle, che impara dal suo padrone il vangelo così bene da riuscire a
trionfare in una disputa pubblica con un francescano. Mentre la moglie di un libraio dalla prigione discute di dottrina con il vescovo di
Parigi e con dottori in teologia. L’ugonotta regina di Navarra, sorella
del re, canta: «Quelli che dicono che non è da donne guardare i Sacri Scritti son uomini malvagi ed empi seduttori e anticristi...».
Negli stessi anni i cattolici invece predicano che alle donne, per
salvarsi, bastano il lavoro domestico, cucire e tessere: «Metterebbero
in paradiso anche i ragni, che sanno tessere alla perfezione» scrive
l’autore di un opuscolo anticattolico. Non è prudente, scriveva d’altra
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D ONNE CHIESA MOND O
parte un noto predicatore gesuita, lasciare la Bibbia a discrezione «di
ciò che frulla nel cervello di una donna».
Il movimento protestante offriva quindi una prospettiva nuova,
per la quale era essenziale l’alfabetizzazione, proprio come per gli
uomini. Nei primi momenti di ribellione alla Chiesa le donne accolsero con entusiasmo questa possibilità: leggevano pubblicamente la
Bibbia, la commentavano. La nuova liturgia, che adottava il volgare,
introdusse i salmi cantati insieme da donne e uomini. Tutti laici, e
uomini e donne allo stesso livello, almeno all’apparenza, e attratti,
come scrive Max Weber, da una religione che faceva appello all’attività intellettuale e all’autocontrollo. Ma le donne, in cambio, furono
private dei santi, delle preghiere, delle immagini, delle invocazioni.
Questa perdita infatti non toccava in egual modo i due sessi: mentre
questi ultimi mantenevano nella preghiera un riferimento alla loro
identità sessuale — si rivolgevano al Padre e al Figlio — la perdita di
Maria privò le donne di un’immagine femminile a cui rivolgersi. Più
profondi furono dunque gli effetti di questa perdita per l’identità
femminile, soprattutto in un momento critico come le doglie del parto, in cui non avevano più devozioni femminili da invocare.
Proprio questo fu il motivo — secondo Zemon Davis — per cui il
clero maschile ha aderito ai movimenti di riforma in misura molto
maggiore delle religiose. Anche di fronte a promesse di dote e di
La Riforma è intervenuta come un elemento nuovo e dirompente
Metteva nelle mani delle donne la Bibbia
«Sono tutte mezze teologhe» dicevano con disprezzo
i predicatori francescani
pensione, le suore resistettero, anche perché preferivano vivere nella
loro condizione di celibato in un’organizzazione femminile separata.
Nella società protestante infatti la donna poteva al massimo essere
consorte di un ministro di Dio, in un matrimonio basato sul principio dell’amicizia e della solidarietà e che si supponeva fedele: nelle
comunità protestanti le prostitute venivano messe al bando immediatamente. Ma le donne erano pur sempre soggette ai mariti.
Nel complesso i fondatori delle nuove confessioni riformate e i pastori in genere non avevano visto con occhio positivo questo inedito
protagonismo femminile: per loro, la riforma doveva limitarsi a sosti-
D ONNE CHIESA MOND O
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tuire il clero con pastori preparati e solidi, non rovesciare la società.
Una donna, e qui tornava la solita citazione paolina, non poteva parlare in un’assemblea cristiana. Un pastore scrisse a Calvino: «Il nostro concistoro sarà lo zimbello dei papisti e degli anabattisti. Diranno che siamo comandati dalle donne». Le donne, che erano state incitate a disobbedire ai loro preti, furono ora domate dai pastori con
una certa facilità: costrette a tornare nel silenzio, scelsero in molte di
nuovo la Chiesa cattolica, dove almeno ritrovavano le loro sante, la
Madonna. E dove forse, alla fine, stavano meglio. Infatti, scrive Zemon Davis, «nessuna donna calvinista dimostrò (o fu messa in grado
di dimostrare) la creatività organizzativa delle grandi protagoniste
della Controriforma cattolica... Inoltre nessuna donna della Riforma
al di fuori delle cerchie nobiliari pubblicò tanti lavori quanti le donne cattoliche dello stesso ambiente».
Jean Perrissin
«Temple de Lyon
nommé Paradis» (1565)
L’abolizione delle sante come modelli religiosi per entrambi i sessi
determinò una grave perdita affettiva e simbolica. E se di fatto, dalla
fine del XVI secolo alla fine del XVIII, sia nei paesi cattolici che in
quelli protestanti le donne soffrirono per gli inasprimenti del diritto
matrimoniale, per la decadenza delle corporazioni femminili, per le
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D ONNE CHIESA MOND O
difficoltà che incontravano le donne istruite per conquistarsi un ruolo, la Riforma — conclude la storica — «eliminando dalla sfera religiosa qualsiasi identità e forma di organizzazione femminile a sé
stanti, rendeva le donne un poco più vulnerabili all’assoggettamento
in ogni campo».
Vediamo tracce di questa storia ancora oggi: se le Chiese protestanti possono vantare le donne pastore, le donne sacerdote anglicane e le donne vescovo, la Chiesa cattolica si fonda sul lavoro e sulla
dedizione di una grande massa di donne — le donne sono più dell’80
per cento dei religiosi, e il 60 per cento se si aggiungono a questi i
sacerdoti — e questo fatto senza dubbio dà un’impronta femminile
D ONNE CHIESA MOND O
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all’apostolato quotidiano, mentre nelle società protestanti le organizzazioni femminili sono poche e di modesta entità.
Questo lungo processo storico, che ha portato a una presenza e a
un ruolo diversi delle donne all’interno delle diverse confessioni, ha
plasmato profondamente la vita religiosa sia cattolica che protestante,
ed è necessario rendersene conto. Anche per creare una nuova consapevolezza, che suggerisce di guardare alle differenze fra il cattolicesimo e le confessioni riformate con altri occhi, meno inclini a dare giudizi frettolosi di modernità agli uni e di arretratezza agli altri. E soprattutto suggerisce che le possibilità di collaborazione e di scambio
di esperienze è necessaria, e molto utile per tutte.
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D ONNE CHIESA MOND O
SPIRITUALITÀ
di ELISABETH PARMENTIER
Tra femminile
e femminismo
C
he cosa accadde quando le donne protestanti divennero bibliste?
Scoprirono che i testi biblici che le avevano ridotte a essere il «sesso
debole» o seduttrici erano letture falsate da culture antiche. Occorreva dunque, secondo quelle pioniere, «salvare la Bibbia» da simili
chiusure. La ricerca biblica quindi è partita da un femminismo sociale per approdare poi a una teologia «femminile».
Il contributo più importante delle donne protestanti, a partire dal
secolo, fu la rilettura dei testi biblici tradizionalmente utilizzati
per argomentare la sottomissione delle donne, con la prospettiva di
una liberazione dagli stereotipi. Le sorelle Sarah e Angelina Grimké,
quacchere americane, nel 1838 scrissero le Letters on the Equality of the
Sexes invocando l’abolizione della schiavitù e i diritti delle donne.
Elisabeth Cady Stanton, con un gruppo di venti donne, tra il 1895 e
il 1898, pubblicò una “Bibbia della donna” (Woman’s Bible), selezionando i brani che riguardavano le donne con una valutazione molto
critica.
XIX
Furono poco seguite, persino dalle donne bibliste, ma la ribellione
esigeva che si ritornasse ai testi con attenzione, a partire da studi di
teologia e di ricerca biblica. Antoinette Brown, congregazionalista, fu
nel 1847 una delle prime studentesse di teologia nell’Ohio. Analizzò
D ONNE CHIESA MOND O
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D ONNE CHIESA MOND O
Il femminismo avanzava nella società degli anni sessanta dello
scorso secolo, ma non nella teologia, per lo meno in quella europea.
La teologia protestante si accontentò d’interrogare gli stereotipi sessuali (Francine Dumas, L’autre semblable, 1967), l’antropologia (Kari
Børresen, Subordination and Equivalence, 1968), la tradizione (France
Quéré, La femme. Les grands textes des Pères de l’Ėglise, 1968), in una
prospettiva “femminile”, volta a ricordare le qualità delle donne. La
teologia protestante se ne sentì turbata, ma non messa in discussione.
Saranno solo le bibliste femministe a pensare un vero progetto di liberazione... a partire dalla Bibbia!
DAL MOND O
D onne
e Chiesa
Il 28 gennaio si è
tenuta a Roma la
plenaria della
Congregazione per
gli Istituti di vita
consacrata e le
Società di vita
apostolica e per la
prima volta vi hanno
partecipato dieci
superiore maggiori.
Benché le donne
costituiscano quasi
l’83 per cento del
numero complessivo
dei religiosi, fino a
oggi la loro presenza
era rappresentata
solo dalla
sottosegretaria suor
Nicla Spezzati.
Speriamo che questo
sia un primo passo
per un
riconoscimento più
equilibrato della
presenza femminile
all’interno di questo
importante
organismo ecclesiale.
Violenza
in Argentina
Ogni 31 ore una
donna viene uccisa
in Argentina.
E in una sola
giornata si registrano
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D ONNE CHIESA MOND O
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Questa teologia moderata con il femminismo nella teologia infatti
si evolveva verso riletture più esigenti. Le esegete femministe pretesero, come i riformatori delle origini, che la Bibbia fosse accessibile a
tutti e non riservata all’élite (non più clericale ma dottorale!). Il fine
era di ritrovare la potenza liberatrice dei testi biblici, a partire dai
vangeli dove Gesù Cristo dà spazio alle donne. Quelle bibliste, che
avevano imparato a leggere e a capire le sfumature delle lingue bibliche, aiutate dalle conoscenze dei processi culturali di produzione dei
testi, scoprivano errori o falsificazioni nell’interpretazione. Molte di
loro rileggevano anche con l’aiuto di prospettive psicanalitiche, letterarie o sceniche. Auspicavano vivamente una teologia non d’ufficio,
ma una “teologia della cucina”, intrisa dell’esperienza e delle questioni pragmatiche delle donne portatrici di una “saggezza” diversa dalle
speculazioni filosofiche e intellettuali. Fu subito evidente che non bastava riabilitare solo Eva, ma anche donne lasciate nell’ombra.
le lettere paoline spiegando che gli eccessi condannati dall’apostolo
al suo tempo non si potevano trasporre al XIX secolo.
Quelle bibliste furono aiutate dall’esegesi storico-critica che si opponeva alle interpretazioni letterali, che imponevano loro ruoli rigidi
nelle Chiese cui appartenevano. Questa esegesi non portò a una rivoluzione, ma piuttosto a una lenta fecondità. Se tra le due guerre
mondiali l’inglese Margaret Brackenbury Crook, pastora unitaria, fu
la prima donna ammessa in una società biblica, fu solo nel 1964 che
decise di pubblicare il frutto della sua ricerca sulla situazione delle
donne nel cristianesimo, dove dimostrava l’androcentrismo della teologia. Affermò però che la sua intenzione era solo documentaria.
Rivisitarono i testi che servivano a giustificare il ruolo secondario
della donna. L’importanza di Genesi 1, 27 — l’umanità creata «maschio e femmina», creata «a immagine di Dio» — era stata celata a
vantaggio di Genesi 2, dove Eva, creata per seconda, è fatta per sottomettersi al marito come sua serva. Cosa ancor peggiore, con la «caduta» in Genesi 3 si rendeva Eva colpevole del primo peccato, e “la
donna” peccatrice o seduttrice. Ebbene, constatarono che solo due
piccoli brani nella Bibbia riprendevano il peccato di Eva. Uno era
Siracide 25, 24 («Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa
sua tutti moriamo»), che non era fortunatamente un libro contenuto
nelle bibbie protestanti. Ma l’altro, 1 Timoteo 2, 11-15, aveva fatto danni, pur essendo l’unico testo biblico che afferma una salvezza attraverso la maternità! Quelle esegete valorizzarono le figure di donne
potenti o influenti come Miriam, Debora, Maria Maddalena, Lidia e
altre, che relativizzavano la centralità di Maria madre e vergine.
A pagina 12
Hugues Merle (1822-1881)
«Le orfanelle» (particolare)
e nella pagina 10
un ritratto
di Elizabeth Cady Stanton
Più difficile fu la rilettura delle lettere che avevano tanto segnato
le Chiese della Riforma. Efesini 5, 21-24, Colossesi 3, 18-19, 1 Corinzi 11,
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1-16, insistendo sulla necessaria sottomissione della donna all’uomo,
poiché l’uomo è la testa (il capo) della donna come Cristo è la testa
(il capo) della Chiesa, non erano stati letti secondo l’intenzione dei
loro autori, che era stata quella di descrivere l’amore di Cristo per la
Chiesa, bensì per giustificare la messa sotto tutela della donna. A
tutt’oggi, queste interpretazioni sono ancora vive nelle Chiese protestanti fondamentaliste, mentre il testo mostra bene a che punto una
conversione di mentalità sia necessaria agli uomini per “amare” le loro donne.
Le esegete dimostrarono che le lettere contenevano affermazioni
forti, trascurate dalla tradizione, come Galati 3, 26-28: «Siete stati
battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né
greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna,
poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù», testo interpretato in senso
spirituale dai teologi, che gli attribuivano piena validità solo per il
regno di Dio!
Le esegete più femministe mostrarono Dio come donna o madre:
«Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49, 15). Il Signore è addirittura provvisto di un seno materno e allatta (Isaia 46,
3-4, Isaia 66, 12-13). In Giobbe (38, 8-9 e 28-29) la sua attività creatrice
Le esegete femministe pretesero, come i riformatori delle origini,
che la Bibbia fosse accessibile a tutti
Il fine era di ritrovare la potenza liberatrice dei testi
a partire dai vangeli dove Gesù Cristo dà spazio alle donne
fa eco a una procreazione. È con totale fiducia che il salmista si riposa in Dio «come bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Salmi 131,
2). Mosè considera il Signore una madre (Numeri 11, 12) e ricorda al
popolo: «La roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato!» (Deuteronomio 32, 18). Dio viene paragonato anche ad animali femmine: l’aquila che veglia sui suoi piccoli (Deuteronomio 32, 11), li porta sulle sue ali (Esodo 19, 4), li protegge all’ombra delle sue ali (Salmi 17, 8; 57, 2 e 91, 4), e l’orsa che difende i propri figli (Osea 13, 8).
D ONNE CHIESA MOND O
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L’esegeta femminista Helen Schüngel-Straumann analizza Osea 11
mostrando che l’apice della pericope (v. 9) è stato spesso attenuato
dalla traduzione: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo (nel senso
di maschio); sono il Santo in mezzo a te». A importargli non è fare
giustizia, ma mantenere il rapporto con i suoi, e in ciò è parziale e
incoerente. Per questo l’ultima possibilità che il profeta Osea intravede per il suo popolo sta nell’amore materno di Dio. Se i lati materni
di Dio si trovano più frequentemente nella tradizione profetica, polemica riguardo alle dee, il messaggio è il seguente: perché avreste bisogno di una dea madre? Yahvè è addirittura più affidabile di una
madre!
Elisabeth Schüssler-Fiorenza (In Memory of Her, 1984), ricercò le
donne nella storia cristiana, non solo quelle degli Atti degli apostoli e
degli scritti di Paolo, ma anche le martiri e le responsabili di comunità. Le traduzioni del Nuovo Testamento avevano permesso alla tradizione di minimizzare le loro responsabilità, come mostra Romani 16,
1, dove Febe viene chiamata “diaconessa” o “serva” a seconda delle
traduzioni, mentre il termine utilizzato per il suo ministero è “diacono”... al maschile, il che lascia supporre che avesse un vero ministero!
Romani 16, 7 menziona due “apostoli”, Andronico e Giunia. Essendo
questi nomi in accusativo in greco, in francese al nominativo è stata
aggiunta una s (Giunias), mentre si tratta di Giunia, una donna-apostolo!
Queste ricerche ovviamente interrogano le Chiese, soprattutto
quando le esegete femministe fondano l’interpretazione su “l’esperienza delle donne”, che può far sì che il testo venga letto in funzione di ciò che vi si vuole trovare e che ci siano prestiti selettivi dalla
Bibbia. Molte sono anche le esegete femministe che ritengono che altri scritti possano essere investiti della stessa autorità della Bibbia, soprattutto scritti di altre religioni o culture, il che riduce la Scrittura a
un “prototipo”, a un modello per altre letture, e non ne fa un canone
chiuso (Schüssler-Fiorenza). Ma queste scelte non sono più solo appannaggio delle donne e questi dibattiti sono condivisi anche da altri
esegeti.
Le esegete hanno contribuito a un vero rinnovamento della lettura
biblica e a una passione per la diversificazione dei metodi. Oggi questi studi sono condotti anche da donne bibliste del sud e l’esegesi
delle donne sta recando frutti largamente adottati nella ricerca esegetica degli uomini. Tale ricerca, dall’inizio del XXI secolo, non è più
appannaggio dei protestanti e prosegue in una emulazione interconfessionale, anzi interreligiosa.
oltre cinquanta
aggressioni di natura
sessuale. È una vera
e propria strage: dal
2008 al 2016 sono
state uccise 1900
donne. Ai
femminicidi si
aggiungono poi
violenze di ogni
genere che sfuggono
ai dati ma che, se
non fermate in
tempo, rischiano di
fare tante altre
vittime. Su dieci
donne uccise due
avevano avuto la
forza e il coraggio
di denunciare le
azioni di violenza di
genere subite.
Ma denunciare
il pericolo
non è stato
sufficiente
a garantire loro
la sopravvivenza.
Convegno a Bose
sulla Riforma
«Giustificazione.
L’evangelo della
grazia»: sarà
dedicato a questo
tema centrale della
Riforma protestante
l’ottavo convegno
ecumenico
internazionale in
programma nel
monastero di Bose il
26 e il 27 maggio.
Ispirato dalla
ricorrenza del quinto
centenario della
pubblicazione delle
tesi di Lutero, il
convegno si propone
di riaffermare
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D ONNE CHIESA MOND O
IN NOVEMILA CARATTERI
di MARCELO FIGUEROA
Una costruzione
dal basso
siste un evento cardine nella vita ecclesiale
protestante delle donne latinoamericane rispetto ai dibattiti teologici, all’esegesi e al
contesto del momento. Sono passati trentacinque anni e l’ordinazione delle donne al ministero pastorale nella Chiesa evangelica luterana unita in Argentina e
Uruguay è un tema che oggi, riflettendo a distanza, è completamente
interiorizzato e accettato da tutto il sinodo». Lo sostiene la pastora
Andrea Linqvist, che, insieme a quaranta delegati, tra laici e chierici,
ha partecipato alla storica assemblea dove si giunse alla conclusione
che «non c’era impedimento alcuno all’ordinazione di donne al ministero della parola e dei sacramenti». «Io ero delegata della congregazione La Cruz de Cristo», ricorda. «Nelle riunioni i dibattiti molto
spesso poggiavano sul fatto che le sacre Scritture non menzionavano
esplicitamente il tema. Dopo diverse riunioni, la commissione, di cui
facevo parte insieme al pastore Lisando Orlov e molti altri, elaborò
una risoluzione. Fui designata a presentarla all’assemblea, dove alla
fine la proposta prevalse», ha aggiunto Linqvist. «All’inizio magari
alcune comunità si mostrarono più restie ad accogliere una donna
pastora. All’epoca, però, non c’erano neppure tante candidate; e pian
piano quella resistenza, più al cambiamento che alle persone, scomparve».
«E
La questione dell’identità femminile e del ruolo della donna nella
Chiesa è un tema che ha occupato, e tuttora occupa, molte scrittrici,
intellettuali laici e religiosi. In un continente sempre più plurale e
culturalmente diverso, in cui convivono molte etnie, religioni e stili
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D ONNE CHIESA MOND O
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di vita differenti, le visioni parziali diventano parti del tutto che si integrano, invece di escludersi. Le Chiese protestanti sono numerose,
autonome e molto diverse, per cui è impossibile presentare un quadro dettagliato della situazione in ciascuna di esse, neanche se si considerano le grandi tradizioni — luterana, calvinista, metodista — nel
complesso, poiché anche al loro interno sussistono differenze. Al
massimo si può offrire una visione generale che inevitabilmente
esclude tutte le situazioni particolari e i casi eccezionali. Al di là dei
numeri, una delle caratteristiche che marca la distanza tra la Chiesa
cattolica e quella protestante è che quest’ultima riconosce l’esercizio
da parte delle donne di tutte le funzioni e gli incarichi religiosi all’interno della Chiesa. Ciò significa che la donna può essere ordinata
pastora e presiedere la riunione di pastori e pastore per l’adozione di
decisioni organizzative. La maggior parte delle Chiese evangeliche
permette l’attività pastorale delle donne, attribuendo loro uguali diritti e uguali funzioni. Ciò apre un intenso dibattito sul ruolo della
donna come responsabile del culto e questo crea una netta differenza
con la Chiesa cattolica. Tuttavia la percentuale di donne pastore nei
paesi latinoamericani è molto bassa, a differenza di quanto accade in
Germania o in Svizzera. Un fenomeno di attività pastorale femminile
collaterale si presenta nei cosiddetti pastorati matrimoniali. In questo
caso, sempre più frequente, anche se quasi soltanto nelle Chiese
evangeliche non tradizionali, si dice che entrambi i coniugi condivi-
La lotta della donna per aprirsi uno spazio di uguaglianza
nell’universo protestante è stata costante
Non solo in Europa ma anche in America latina
dono il mandato ministeriale. Dato che non sempre il ruolo della
donna pastora supera l’“aiuto idoneo” del pastore principale nei modelli tradizionali, non è chiaro se si tratta di un ordinamento pastorale femminile o semplicemente di un “maquillage familiare” di modelli
tradizionalmente noti. Personalmente ritengo più vicina alla realtà ecclesiale la seconda ipotesi.
La lotta della donna per aprirsi uno spazio di uguaglianza
nell’universo protestante è stata costante, non solo in Europa, dove il
protestantesimo ha una storia consolidata e incardinata socialmente,
ma anche in America latina, dove la presenza protestante, meno radicata storicamente del cattolicesimo, sta crescendo in modo straordi-
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nario. In poco meno di due secoli, il protestantesimo latinoamericano da un pugno di credenti socialmente insignificante si è trasformato in una fede religiosa che riunisce milioni di membri. Da credenza
“strana”, o vista come straniera, è diventata un’espressione ben consolidata e specifica delle molteplici forme dell’essere latinoamericano.
Tra le diverse famiglie ecclesiastiche, le Chiese pentecostali sono il
ramo evangelico con la maggiore crescita in America latina, giungendo a rappresentare il 75 per cento dei protestanti latinoamericani. La
popolazione attuale si avvicina ai 600 milioni, di cui il 20 per cento
sarebbero evangelici, ossia circa 120 milioni.
Un filo conduttore nelle donne protestanti latinoamericane è la visione, e la relazione, tra il globale e il locale, che è diventata un linguaggio comune come parte della prospettiva della globalizzazione.
Un porsi esterni rispetto al globale, che ci coinvolge ma senza darci
possibilità di partecipare o agire al suo interno, porta a valorizzare di
più il locale, dove si rafforzano le identità e i valori specifici e si contestualizzano linguaggi e azioni. Alle donne protestanti latinoamericane il processo non è risultato semplice; in ambiti protestanti europei, le donne sono riuscite ad abbattere muri di discriminazione e a
imporre una rilettura dei testi paolini con i quali è stata giustificata
storicamente la loro discriminazione, escludendo la donna da qualsiasi posizione ecclesiastica e approfondendo teologicamente il principio
riformato della libertà individuale, il cui postulato, non senza una
certa resistenza, ha finito coll’essere accettato anche dalle donne stesse. La Chiesa metodista argentina è stata la prima in Sudamerica a
scegliere una donna come vescovo. La pastora Nelly Ritchi è stata
ordinata nel 2001 e ha esercitato le sue funzioni fino al 2009. «La
promozione della Bibbia è un obiettivo per cui i cristiani possono lavorare in stretta unione a gloria di Dio e per il bene di tutta la famiglia umana» ha affermato nel 2007 la metodista Nelly Ritchie, vescovo, guardando negli occhi l’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale
Jorge Mario Bergoglio, accompagnato dai suoi vescovi ausiliari, Joaquín Sucunza, Eduardo García, Oscar Ojea e Mario Poli, che avevano partecipato alla celebrazione annuale della giornata nazionale della Bibbia nella Chiesa metodista centrale argentina. «Quante volte
noi cristiani — si è rammaricato il cardinale Bergoglio nel prendere la
parola — perdiamo la capacità di stupirci perché sappiamo già tutto»,
e così «perdiamo la capacità di sentirci accarezzati dalla tenerezza
della parola, che è puro dono, pura grazia».
Il dialogo con i cristiani di altre confessioni è uno dei fili che lega
l’importante ruolo delle donne protestanti. Ma in America latina le
sfide della post-modernità hanno imposto la seguente domanda:
«Come evangelizzare in un mondo di poveri?» I protestanti scopro-
l’attualità
dell'intuizione dei
riformatori circa la
giustificazione per
sola fede. I lavori
saranno introdotti da
Enzo Bianchi. Alla
giornata conclusiva
interverranno il
cardinale Walter
Kasper e il pastore
Paolo Ricca che
offriranno il punto
di vista cattolico e
prostestante di come
i cristiani possano
vivere insieme
l’evangelo della
grazia.
Duecento milioni
le vittime
delle mutilazioni
genitali
Secondo i dati
dell’Unicef e del
Fondo delle Nazioni
Unite per la
popolazione,
in tutto il mondo
almeno 200 milioni
di ragazze
e donne hanno
sofferto qualche
forma di mutilazione
genitale.
Le ragazze fino ai 14
anni sono 44 milioni
del totale delle
vittime e la più alta
incidenza in questa
fascia di età si
registra in Gambia,
Mauritania e
Indonesia,
dove circa la metà
delle ragazze fino a
undici anni ha subito
mutilazioni.
Metà delle vittime
>> 21
19
D ONNE CHIESA MOND O
>> 19
vive in tre paesi,
Egitto, Etiopia e
Indonesia. La
maggioranza delle
bambine è stata
mutilata prima di
compiere cinque
anni.
Le piccole shaolin
di Kabul
Giovani studentesse
dell’Instituto Evangélico
Americano de Caseros
(Buenos Aires)
A pagina 16: Antonio
Berni, «Manifestazione»
(particolare)
no nella povertà una sfida centrale per la fede. E il modo in cui si risponde a questa sfida si colloca al centro del messaggio di salvezza,
al di là dell’appartenenza o meno alla Chiesa. La donna protestante
latinoamericana porta nella Chiesa le sue storie brevi, la sua vicinanza alla vita quotidiana della gente, la sua capacità di dare un senso
agli spazi limitati in cui si può muovere, agli orizzonti ridotti in cui
può progettare. Le porta nella comunità, nel quartiere povero, nella
famiglia in difficoltà, dando risposte rapide e una sensazione di sicurezza, nell’immagine di un Dio vicino e accessibile a tutti, nel suo
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adeguarsi alle nuove condizioni del mercato, nel suo soddisfare i bisogni affettivi e spirituali delle persone in una situazione di profondo
cambiamento, cercando di creare nuove identità per ricostruire il tessuto sociale. È un lavoro di fede che nasce dal povero: la frugalità, il
digiuno e l’astinenza sono condizioni di oppressione in una cultura
che vive nella fame. È la costruzione “dal basso” che configura un
cammino femminile in comune delle Chiese in un continente che accoglie quasi la metà dei cattolici del mondo e che è il cuore del pentecostalismo mondiale.
Sfidando le regole
più conservatrici
dell’Afghanistan, un
gruppo di ragazze
pratica il wushu,
un’antica arte
marziale cinese. Si
allenano anche
all’aperto, sulla neve,
con i loro
pigiami di raso.
Ma non serve solo la
giusta preparazione
fisica, bisogna
rafforzare la mente, i
pensieri, la propria
vitalità.
«Nel pensiero ultraconservatore di
questo paese tutte le
donne danno fastidio
— spiega Sima
Azimi, l’insegnante,
che sfidando tutti ha
aperto una sua
palestra — noi siamo
determinate a
resistere e a
combattere questo
modo di pensare.
Nessuno qui ci aiuta,
le donne si devono
aiutare da sole. Per
questo chiedo alle
ragazze di dimostrare
quello che sono in
grado di fare,
dobbiamo smettere
di avere paura e
restare in silenzio».
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Maria Sibylla Merian
in un’incisione realizzata
sulla base di un disegno
del figlio
IL LIBRO
Una ebrea
una protestante
una cattolica
di MARGHERITA PELAJA
È
marito muore. La vedova non si perde d’animo
ma prosegue e sviluppa gli affari del marito
viaggiando in tutta Europa finché si stabilisce
con un nuovo marito a Metz, dove morirà a 78
anni. Viaggia, commercia, e intanto scrive. In
trent’anni scrive sette libri in cui racconta la
propria vita, la famiglia, le nascite, le morti, la
forza necessaria ad affrontarle, i peccati in cui
cade: in una parola, «discute con Dio».
gnamento alle «giovani selvagge» sono — scrive
Marie — «una tale fonte di piacere che ho peccato, semmai, per averli troppo amati».
In apparenza accomunate solo dal secolo in
cui vivono, il Seicento, le tre donne si muovono
in contesti diversi e lontani: Glikl sposa a 14 anni un ricco commerciante e mette al mondo 14
figli, di cui otto sono ancora piccoli quando il
Anche Marie de l’Incarnation scrive: quaderni su quaderni in cui spiega perché, rimasta vedova, abbandona il figlio undicenne per entrare
nel convento delle orsoline; descrive il proprio
amore per Dio e «la condotta che Dio ha tenuto nei suoi confronti», descrive visioni mistiche
e apparizioni diaboliche; racconta di come abbandona la Francia per farsi missionaria in Canada, per obbedire agli ordini del direttore spirituale ma anche per rispondere ai richiami di
uno spirito «che non poteva essere rinchiuso».
Il viaggio, l’incontro con gli uroni e gli algonchini e l’apprendimento della loro lingua, l’inse-
E anche Maria Sibylla Merian scrive e viaggia. Dipinge pure, non per passione religiosa
ma per passione scientifica. Non abbandona i
figli per questo: abbandona il marito, un pittore
di Francoforte, per unirsi ai labadisti, una comunità di protestanti che aveva messo radici
nella provincia olandese della Frisia, in un’esperienza di rinuncia e distacco da ogni bene e
preoccupazione terrena. Dopo qualche anno però, forse insofferente delle gerarchie della comunità o della separazione dal mondo, Maria Sibylla parte di nuovo, sempre insieme alle figlie,
e si stabilisce ad Amsterdam. Non basta ancora:
un libro di storia diverso dagli altri Donne ai margini: comincia con
un Prologo teatrale, in cui l’autrice
cerca di rispondere alle rimostranze
immaginarie delle donne di cui ha
scritto la biografia. Glikl bas Yehudah Leib,
commerciante ebrea di Amburgo, Marie de l’Incarnation, mistica orsolina fondatrice della prima scuola per amerindie, Maria Sibylla Merian,
pittrice e naturalista tedesca protestante, indignate chiedono all’autrice perché abbia deciso
di affiancare le loro vite in modo così arbitrario.
Risponde Natalie Zemon Davis: «Vi ho messo
insieme perché volevo imparare dalle vostre somiglianze e differenze».
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la passione che arde in lei è lo studio degli insetti, su cui ha già scritto volumi illustrati conosciuti in tutta Europa, e nel Nuovo Mondo ci
sono insetti e piante che chiedono ancora di essere analizzati. Nel 1699 parte con la figlia più
piccola per il Suriname, dove africani e amerindi la aiuteranno nella ricerca e nello studio e
dove redigerà la sua opera più importante, le
Metamorfosi degli insetti del Suriname. Poi tornerà
ad Amsterdam, dove morirà nel 1717.
Vite diverse dunque, ma con molti punti di
contatto: spirito di iniziativa, propensione al
viaggio e all’avventura, passione per la scrittura,
una spiritualità profonda e una religiosità che la
portano a conoscere e a esprimere le parti più
nascoste della propria interiorità.
23
D ONNE CHIESA MOND O
In che cosa consiste la collaborazione fra le donne protestanti e cattoliche nella sua Chiesa?
FO CUS
al singolare, come realtà esclusivamente locale,
ma va ormai affrontata e vissuta al plurale».
La colonna portante
Intervista alla pastora Nora Wolf
di SILVINA PÉREZ
«N
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on mi sono mai sentita sola, isolata, come donna pastora qui in Basilea. Sin dall’inizio del mio
ministero mi sento accompagnata e sostenuta
dalle donne della comunità. Alcune appartengono alle diverse Chiese protestanti, altre invece
sono cattoliche. Le chiamo le mie sorelle amiche, perché oltre alla fede in Dio ci lega anche
una bella amicizia. Loro sono per me una vera
fonte di empowerment femminile».
A parlare è la pastora protestante tedesca Nora Wolf, che ha compiuto da poco 50 anni. Ministro di culto, laureata in teologia protestante,
negli ultimi otto anni ha svolto il suo servizio
nella Chiesa evangelica valdese di Basilea. «Per
me, la mia parrocchia è il mondo e quanto più
possibile cerco di essere presente nel mezzo dei
problemi della società: la nostra Chiesa è da anni una specie di “laboratorio” della società svizzera che, a mio avviso, non è più immaginabile
Come si struttura la presenza femminile nella Chiesa valdese svizzera?
Oggi più del 30 per cento del corpo pastorale
è femminile. Nella Chiesa valdese esistono le
donne pastore dal 1967. Quindi sono le donne
la colonna portante senza la quale sarebbe impossibile andare avanti. Confesso che comunque
ancora oggi mi capita molte volte di sentire:
«Certo, tu devi pensare anche alla famiglia...».
Oppure quello che io chiamo il complimento
che profuma di pregiudizio: «Certo, tu come
donna, facendo la pastora, hai una marcia in
più rispetto ai tuoi colleghi maschi», riferendosi
alla mia capacità di essere empatica e comprensiva... Mi sono trasferita circa otto anni fa dal
centro di Berlino, dove si trova il Tempio valdese, in un piccolo quartiere di Basilea, per continuare il mio ministero presso la Chiesa evangelica metodista (le Chiese metodiste sono in
unione con quelle valdesi), in una comunità
composta da persone provenienti da ben 19 paesi diversi. Qui, sono le donne quelle che costruiscono giorno dopo giorno una pacifica convivenza tra persone diverse tra loro, una diversità riconciliata, come si direbbe usando un linguaggio più teologico. Io non mi sento diversa
da altre donne di questa città, sono una di quelle che cerca di vivere la propria vita in modo
più coerente possibile, che sogna una vita bella
per i propri figli, ma anche per i figli e le figlie
di altri meno fortunati... Sì, mi sento fortunata,
perché ho la mia famiglia vicino, ho un lavoro
per il quale ricevo riconoscimento, ho una casa,
amici e amiche, fratelli e sorelle e un luogo di
culto in cui esprimere la mia spiritualità e fede!
Non vorrei sembrare retorica ma è proprio
nella costruzione quotidiana di un mondo diverso, un mondo al di là della segregazione, del
razzismo e della paura. Nel nostro piccolo cerchiamo di fare quello che ha fatto Papa Francesco nell’isola greca di Lesbo, l’ecumenismo dei
fatti e della «solidarietà cristiana». La nostra
presenza pastorale si è fatta continuativa e capace di permeare il tessuto sociale della città, con
studi biblici e conferenze ecumeniche sempre
assai frequentate e apprezzate ma il lavoro concreto con le donne cattoliche è senz’altro il nostro gesto ecumenico più potente. Noi partiamo
dalle persone e poi camminiamo insieme.
Nella teologia cattolica, la Madonna è la figura femminile
più importante; e in quella protestante evangelica?
Credo che il protestantesimo abbia recuperato
recentemente il lato più “femminile” di Dio,
proprio grazie alla riscoperta di sue immagini
bibliche, come per esempio la madre che consola. Maria, la madre di Gesù, nelle Chiese protestanti è considerata semplicemente una sorella
nella fede e non è venerata come nel cattolicesimo. Io mi sento particolarmente legata al momento in cui Maria vive l’attesa della nascita di
Gesù. Non sa bene come affrontare questo
evento, va da Elisabetta, sua cugina e sorella
nella fede e riceve, in questo incontro, la forza
per portare avanti il progetto di Dio di un mondo nuovo. Maria e Elisabetta sono due donne
che prima di noi hanno creduto, sperato e lottato, hanno pregato l’una per l’altra e si sono incoraggiate a vicenda per non perdere la speranza che questo mondo diventi più giusto e offra
la possibilità di vivere in modo dignitoso a tutti
e tutte. È proprio nella collaborazione fra donne che a noi protestanti Maria in quanto sorella
ci indica una strada per potere collaborare insieme ad altre donne cristiane.
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D ONNE CHIESA MOND O
LA SANTA DEL MESE
I superpoteri
di Olivia
di IRENE RANZATO
livia nacque a Palermo nel 448
da nobili genitori cristiani. Era
una ragazzina bellissima. Dotata di forza, velocità, capacità
sensoriali e resistenza sovraumane, era caratterizzata da una totale mancanza di
paura e da una profonda fede nel Signore. Per
queste sue doti, questa figlia di notabili della
città venne utilizzata senza troppi scrupoli dalle
alte sfere del governo di Palermo come arma
contro i vandali di Genserico, che nel 454 conquistavano la Sicilia e occupavano Palermo,
portando il martirio tra i cristiani. Fin da piccola e con il beneplacito dei genitori, Olivia veniva spedita in missione e mentre le sue amichette
passavano dai giochi alla ricerca di marito, lei
era impegnata nella ricerca di armi sempre più
sofisticate e si esercitava ogni giorno in gare di
velocità con i palermitani più prestanti. Chiunque immaginerebbe che il suo servizio alla comunità portasse a Olivia onori e rispetto: non è
così. Essere una donna anticonformista, pensare
poco a conquistarsi i favori dell’altro sesso a
O
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26
La copertina del libro di Jacqueline Carey
dedicato alla giovane santa
a sinistra la statua nella cattedrale di Palermo
quei tempi e in quel mondo di uomini non pagava. Olivia parlava con gli animali (era portata
per le lingue) e aveva una predilezione per i lupi, ed era quindi, comprensibilmente, additata
come “diversa” dal resto della comunità. La
stessa famiglia quasi si vergognava di lei, invece
di andarne fiera, e quando la sentivano commutare di codice, a seconda se parlasse con i membri della sua famiglia o con le galline del cortile, abbassavano lo sguardo e facevano finta di
non conoscerla. Per questo, era priva del sostegno della famiglia e la sua lotta contro i vandali
si svolgeva in solitario. Nonostante i grandi successi iniziali (tornò un giorno con tre scalpi di
vandali appesi alla cintura dorata), Olivia purtroppo fu catturata. Indomita, lungi dal perdersi d’animo, sosteneva e incoraggiava i compagni
cristiani prigionieri dei vandali. Resistette a tutte le avances, sia dei vandali, sia dei compagni
di fede, e passava le giornate in preghiera. La
famiglia la considerava ormai perduta e non
cercò di riscattarla. Ingrati. Genserico, lui sì, fu
toccato dalla sua forza d’animo e invece di martirizzarla decise di liberarla, confidando che non
sarebbe stato difficile tenere sotto controllo una
ragazzina, allora soltanto tredicenne. Uscita di
prigione, e vissuto il lutto della morte della madre, che la sconvolse profondamente nonostante
avesse ricevuto poco affetto anche da lei, Olivia
si unì a una comunità di orfani non integrati,
una sorta di scalcinata banda di bambini perduti che, vessati continuamente sia dai palermitani
sia dai vandali, trovavano solo nella fede un sostegno alla loro vita disgraziata. L’arrivo di Olivia nella loro piccola comunità cambiò le loro
vite: i bambini perduti, nella maggioranza bambine, formarono un gruppo di vigilanti stretto
intorno alla loro nuova leader, che cominciarono a chiamare “santa”. Il gruppo usciva sempre
tutto unito per pattugliare la città. Anche la vita
di Olivia cambiò. Non era più una giustiziera
solitaria ma era al centro di un gruppo di bimbi
adoranti che non chiedevano di meglio che di
lavorare con lei.
Ancora una volta, la città dimostrava poca
gratitudine nei confronti di Olivia e della sua
banda, ma era comunque ipocritamente felice
che i vandali fossero tenuti a bada da questo
gruppo di coraggiosi outsider. Genserico, ormai
spazientito dalle gesta della ragazzina ribelle,
dopo molti tentativi senza successo, riuscì a farla catturare di nuovo dai suoi uomini. Ancora
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D ONNE CHIESA MOND O
intenerito, forse attratto da questa ragazzetta,
ma in fondo un gentleman, decise di spedirla a
Tunisi: sapeva che Amira, governatore di quella
città, uomo dal polso durissimo, avrebbe potuto
piegarla e convertirla al paganesimo. In ogni caso, era importante privare i bambini perduti
della loro guida.
A Tunisi, Olivia, sebbene di nuovo sola, si
sentiva ormai non soltanto superpotente ma,
per un fenomeno che gli psichiatri oggi chiamerebbero inflazione dell’ego, sentiva anche che
forse l’appellativo di santa assegnatole dai bambini perduti non era un’esagerazione. Iniziò lei
a convertire i pagani al cristianesimo, con costernazione di Amira, e a operare miracoli, benché gli studiosi non trovino accordo sul numero
che Olivia riuscì a compierne: secondo una studiosa americana, la professoressa Isabel Archer
dell’università del Wisconsin, furono almeno
trentasei, contando la resurrezione del cane
morto di Amira; secondo il gruppo di ricerca
guidato dal dottor John Knightley, PhD, di
Irene Ranzato
Irene Ranzato, PhD in Translation
Studies, è ricercatrice di lingua e
traduzione inglese all’università La
Sapienza di Roma. I suoi interessi si
rivolgono alla traduzione audiovisiva e alla
traduzione intersemiotica. Ha dedicato
alla traduzione dei riferimenti culturali nei
dialoghi televisivi la sua più recente
monografia: Translating Culture Specific
References on Television: The Case of Dubbing
(Routledge 2016).
D ONNE CHIESA MOND O
28
Oxford, i miracoli non furono più di dodici. In
ogni caso, Amira, quantunque ben contento di
riabbracciare il cane, la spedì in un luogo deserto pieno di leoni, serpenti e draghi perché potessero divorarla o almeno, se questo non fosse
stato possibile, perché morisse di fame.
Sappiamo ormai che la vita di Olivia era segnata dall’ingratitudine di coloro che avrebbero
dovuto ringraziarla. Colpisce comunque l’ingenuità di Amira, che non aveva l’intelligenza di
Genserico. Olivia infatti visse piuttosto bene
durante il suo soggiorno nel deserto, cibandosi
della ricca fauna di, appunto, leoni, serpenti e
draghi. Esasperato, Amira inviò un esercito a riprenderla. Poiché l’immersione nell’olio bollente
non le recò alcun danno, decise di farla decapitare nel 463. Aveva quindici anni. La sua testa
gli fu portata in un cesto tra manghi e banane
durante un banchetto. Amira se ne compiacque
ma era troppo ubriaco per rendersi bene conto
e la testa rimase dimenticata in un angolo fino
al giorno dopo, quando vi trovarono il cagnolino addormentato accanto.
Questo triste epilogo non deve addolorarci,
perché la santità opera il bene ancora di più dopo la morte. Il culto della santa è vivissimo sia
a Tunisi sia in Sicilia e la santa conforta e rinvigorisce la fede di tutti coloro che si sentono poco apprezzati nel luogo dove sono nati e dalle
persone che in teoria dovrebbero sostenerli. Se
trovate dei reietti che vi amano, ci dice la santa,
unitevi a loro, quella è la vostra famiglia.
Il suo corpo non si trova e, a Tunisi lo sanno
bene, è meglio così. Si sa però per certo, perché
così si tramanda nel diario di uno dei bambini
perduti, che riposa in un pozzo profondo di acqua fresca.
La storia di Olivia intreccia episodi della vita
della santa a particolari di finzione e a dettagli
ispirati alla fiaba fantasy Santa Olivia di Jacqueline Carey.
NEL NUOVO TESTAMENTO
La profetessa
Anna
di LUÍSA MARIA ALMENDRA
29
D ONNE CHIESA MOND O
a menzione della profetessa Anna nel vangelo dell’infanzia di Luca risulta effettivamente sorprendente. I motivi
sono piuttosto diversi: non ci sono precedenti biblici per
questa persona e il suo ruolo, tale come l’autore lo descrive, non presenta i tratti caratteristici dei profeti: la
vocazione, gli oracoli di giudizio, i messaggi di consolazione, le azioni simboliche, le visioni... Chi è allora la profetessa Anna? E perché
l’autore la nomina in questo modo? Era davvero una profetessa? Anna appare, nel vangelo secondo Luca, insieme al vecchio Simeone
che accoglie Gesù nella presentazione al Tempio (cfr. 2, 22-38). Si
tratta del momento della circoncisione, un rituale comune tra gli
ebrei, che viene realizzato all’ottavo giorno su ogni bambino maschio, secondo la prescrizione della Legge. Maria e Giuseppe portarono quindi il bambino a Gerusalemme «per offrirlo al Signore» (2,
22). In questa espressione, l’evangelista introduce il lettore nel cuore
del rituale della circoncisione il cui senso profondo consiste infatti
nell’appartenenza al Signore. Così è scritto nella Legge: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» (Luca 2, 23; cfr. Esodo 13,
2.12.15).
L
Insieme a Maria e a Giuseppe ci sono nel Tempio due figure luminose: il giusto Simeone e la profetessa Anna; un uomo giusto e una
donna profetessa, dunque due figure diverse unite da un compito —
Anna ha fatto del Tempio casa sua
Lì rimane notte e giorno
lodando, digiunando e pregando continuamente
il riconoscimento — straordinariamente significativo. Infatti la loro lode emerge dal profondo della loro fede e della loro speranza. Ambedue, Simeone e Anna, molto anziani, sono abitati dallo Spirito santo.
Ed è proprio questo Spirito che ispira la loro lode, fatta di canto e
profezia, che nessuno, fino a quel momento della narrazione evangelica, era stato capace di proclamare. I due anziani però reagiscono in
modo diverso nella presentazione del bambino, ognuno secondo il
proprio ruolo.
Simeone è l’uomo dell’attesa (cfr. Luca 2, 25). Nel Tempio vegliava
e attendeva il compimento della promessa messianica (cfr. 2, 26) annunciata dagli antichi profeti (cfr. Isaia 40, 1; 52, 9). Il suo cuore
D ONNE CHIESA MOND O
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31
D ONNE CHIESA MOND O
La profetessa Anna condivide pienamente questo sguardo che nasce dalla profondità, e tuttavia l’autore la presenta come una figura
molto singolare: una donna profetessa, vedova anziana, figlia di Fanuel della tribù di Aser e che vive nel Tempio della città santa. Queste referenze non sono casuali. Fanuel richiama il nome Penuel (“volto di Dio”), che Giacobbe dà al luogo in cui avviene la sua lotta interiore nella notte con l’angelo (cfr. Genesi 32, 31). La tribù di Aser
invece richiama un’ascendenza di prestigio, cioè il figlio della matriarca Lia (cfr. Genesi 30, 13). Anna è, dunque, una donna con importanti riferimenti biblici, strettamente collegata alla storia di Israele. Quello che sorprende di più è che, diversamente da Simeone,
l’autore non le fa dire niente, semplicemente la descrive. Anna non
irrompe come Simeone in un canto di lode, dove sono richiamate e
celebrate le speranze messianiche d’Israele. Dobbiamo vederla e immaginarla lì, al Tempio, insieme a Simeone, Maria e Giuseppe, attraverso la presentazione velata dell’evangelista.
Ambrogio da Fossano
detto il Bergognone
(1453–1523)
gioisce, perché è capace di comprendere che Gesù è la salvezza promessa da Dio. In altre parole, la promessa divina si è realizzata in
quel bambino offerto al Signore. Immerso nello Spirito, Simeone è
capace di vedere e capire il significato profondo di quello che sta vivendo: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Luca 2, 30). L’evangelista Luca ci offre la chiave per
comprendere i fatti narrati: il riconoscimento di Gesù come realizzazione della promessa messianica dipende dalla comunione con lo
Spirito santo, per mezzo del quale ci è donata la capacità di vedere
in profondità (cfr. Isaia 52, 10).
D ONNE CHIESA MOND O
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È da notare un particolare: Anna «non si allontanava mai del
Tempio» (Luca 2, 37). Cosa vuole dirci Luca con questa immagine: una vedova che faceva del Tempio la
sua casa? A nostro parere, è un modo per dire che
Anna ha trascorso la sua lunga vita (aveva ottantaquattro anni) in preghiera e quindi in comunione con
Dio. Non è lì per caso, è lì perché aveva eletto quel
posto — l’abitazione di Dio — come sua dimora abituale: il Tempio era il centro della sua vita. A questo
punto, l’evangelista aggiunge una ulteriore informazione: Anna serviva Dio «notte e giorno con digiuni e
preghiere» (Luca 2, 37). È un’affermazione impressionante, l’anziana vedova era “sempre” impiegata nello
stesso servizio, cioè aveva una dedicazione di sé piena
e totale. L’affermazione colpisce ancora di più quando ci si rende
conto che niente di simile è stato mai detto, prima o dopo, di un’altra donna, neppure di Maria o Elisabetta. Ambedue appaiono in
un’ambiente familiare. Non si distaccano dalla loro attività quotidiana, pur rimanendo concentrate sulla propria interiorità e capaci di
aprirsi alla sorpresa di Dio. Anna invece ha fatto del Tempio casa
sua. Lì rimane notte e giorno, lodando, digiunando e pregando continuamente. Possiamo intuire che per Anna questa lode continua è
diventata il senso della sua vita, la ragione d’essere della sua esistenza. Pur essendo una donna fragile, in quanto anziana e vedova, essa
sperimenta in carne propria la gioia autentica e inesauribile che solo
il Signore può donare.
L’autrice
Luísa Maria Almendra
insegna presso la
facoltà di teologia,
dell’Università cattolica
portoghese, dottorato
in teologia biblica,
nell’area Scritti
sapienziali.
Tiene corsi e seminari
sull’Antico e il Nuovo
Testamento e insegna
lingue bibliche. È
membro della Society
for the Study of
Biblical and Semitic
Rhetoric,
dell’Association
Catholique Française
pour l’étude de la
Bible e della Society of
Biblical Literature. È
responsabile del corso
di teologia della facoltà
e dei rapporti
internazionali della
stessa facoltà.
33
D ONNE CHIESA MOND O
Non sappiamo perché l’evangelista la chiami profetessa. La comprensione che abbiamo dei profeti è piuttosto collegata all’ascolto interiore, all’annuncio della salvezza e alla denunzia dei misfatti; insomma, al parlare esplicitamente in nome di Dio. Questo, Anna non
lo fa. Il lettore rimane stupito davanti al silenzio di Anna, non riesce
a capire che una profetessa non profetizzi. E subito gli viene in mente Culda, la profetessa che, oltre a confermare l’autenticità del rotolo
trovato nel tempio durante il regno di Giosia, annunciò la caduta del
regno del Sud (cfr. 2 Re 22). Allora, come mai non ascoltiamo la voce di Anna? Perché tace davanti al salvatore del mondo? Orbene, le
risposte a queste domande si devono cercare nel modo di raccontare
di Luca. Egli presenta la profezia in modo diverso da come la presentano gli autori dei libri profetici. Per Luca la profezia si svolge,
non nella piazza pubblica o nella corte dei monarchi, ma nella presenza e nel rapporto intimo di Dio, diventando così una totalità di
vita, come nel caso della nostra profetessa. Anna risponde perfettamente a questo “nuovo tipo” di profezia.
Proprio in questo consiste la dimensione profetica di molti cristiani, dei primi e di tutti tempi. Detto diversamente, la profezia è una
decisione libera di essere e di rimanere in un rapporto personale e intimo con Dio; un rapporto di amore da dove emerge la testimonianza eloquente di fede e di lode. Forse l’autore ha capito che alla testi-
Anna continua la lunga tradizione delle donne profetesse
nell’Antico Testamento
La sua presenza va interpretata nel contesto della profezia in Israele
monianza di Simeone mancava quella di Anna; alla parola profetica
di Simeone che annuncia a Maria il drammatico destino di suo figlio
e di lei come madre (cfr. Luca 2, 34-35), mancava la testimonianza di
fede di Anna, maturata nell’incommensurabile interiorità di una vita.
Anna è la prima di un lungo elenco di profeti e profetesse che svolgeranno un ruolo fondamentale nell’annunzio di Gesù Cristo, pur rimanendo fino a oggi ignorati e sconosciuti da molti cristiani.
Come Elisabetta e Maria, Anna è una donna che comunica una
verità che non si confonde con le altre: il riconoscimento di Gesù come dono di salvezza ha bisogno di un cuore capace di attendere nel
silenzio e nell’interiorità notte e giorno. Il ruolo di Anna non ha la
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novità di quello di Elisabetta o la grandezza di quello di Maria, però
in lei si anticipano i tratti più rilevanti dei discepoli e delle discepole
di Gesù. Come profetessa, Anna continua la lunga tradizione delle
donne profetesse nell’Antico Testamento la cui presenza, benché molto discreta, è attestata in diversi scritti biblici e va interpretata all’interno del contesto generale della profezia in Israele. Pensiamo a Miriam, la sorella di Mosè e di Aronne (cfr. Esodo 15, 20), una figura
molto ammirata nella letteratura rabbinica; a Deborah, profetessa e
giudice, che annunciò a Barak la vittoria di Israele per volontà di
Dio (cfr. Giudici 4, 4.9); a Culda, di cui abbiamo parlato prima (cfr.
2 Re 22, 14); o perfino alla moglie di Isaia, detta la profetessa (cfr.
Isaia 8, 3). La nostra protagonista, però, nel fare del Tempio casa
sua, oltrepassa la soglia dell’Antico Testamento, anticipando il ruolo
delle donne profetesse dei primi tempi della Chiesa (cfr. Atti degli
apostoli 2, 17; 21, 9; 1 Corinzi 11, 5). La sua benedizione consiste in lodare Dio e parlare del bambino «a quanti aspettavano la redenzione
di Gerusalemme» (Luca 2, 38). Infatti, Giuseppe e Maria, nel loro
desiderio di obbedire alla Legge riguardo alla circoncisione del bambino e alla purificazione della madre, ricevono la benedizione di Dio
tramite Simeone e Anna. Tuttavia, quello che viene sottolineato è il
loro atteggiamento di attesa e di lode. Maria e Giuseppe rimangono
all’ombra. Sembra che Luca voglia avvertire i suoi lettori che sta per
iniziare un tempo nuovo, un tempo in cui la lode e l’annunzio prendono il sopravvento.
Il racconto biblico è permeato, da un lato, dalla bellezza del rituale ebraico e, dall’altro, dalla fede di Maria e Giuseppe attraverso le
parole di Simeone e la presenza della profetessa Anna. Le parole del
vecchio Simeone costituiscono il centro del racconto, nonostante
emergano in un contesto segnato da elementi teologici carichi di significato: ubbidienza alla Legge, celebrazione di una nascita, adorazione nel Tempio e riconoscimento che la promessa di Dio si è realizzata. La celebrazione nel Tempio non rappresenta un’intrusione nella
loro vita, ma la realizzazione della loro fede. Maria e Giuseppe vivevano in un contesto di alleanza e volevano introdurre loro figlio nello stesso ambiente. Simeone e Anna, sensibili alla presenza di Dio
negli eventi del passato d’Israele, rispondono all’ubbidienza di Giuseppe e Maria con parole di benedizione. Questa loro benedizione
ha dato alla celebrazione della presentazione del bambino un significato che altrimenti non avrebbe mai avuto. Immaginiamo che Maria
e Giuseppe abbiano sempre ricordato questa benedizione, segno di
un Dio che è in mezzo a noi, ma questo rimane mistero indicibile.
Gesù è un Dio che è venuto nella storia per darci la gioia, ma rimane
in attesa della nostra intimità e speranza.
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ARTISTE
Dipingere
come pregare
di ANNA FOA
a donna in preghiera ha il capo coperto da un velo leggerissimo, le
mani raccolte sul candelabro a nove
braccia, un’hannukkiah. Ha appena
acceso le candele e sta mormorando
la benedizione, tutta avvolta tra le mani a coppa e il capo velato. È un quadro, uno dei primi
da lei dipinti, di Antonietta Raphael Mafai, che
raffigura sua madre. In un altro quadro, del
1931, dipinto a Londra, vediamo uno Yom Kippur in sinagoga. È fitto di teste di ebrei in preghiera, e sullo sfondo una figurina «molto mistica», come lei stessa racconta in una lettera al
marito Mario Mafai, quasi la tela godesse di
una sua autonomia e si dipingesse da sé. Sono
quadri carichi di silenzio, di raccoglimento, di
preghiera. Quadri densi di misticismo, potremmo definirli. Eppure, Antonietta era lungi
dall’essere una mistica o anche soltanto una
donna religiosa. Già la pittura era di per sé una
trasgressione per una ebrea, come lo era per
Chagall, di cui Antonietta era stata definita dal
critico Roberto Longhi «una sorellina di latte».
Ma la pittrice aveva avuto una vita intensa e
turbinosa, carica degli stessi colori che usava
nelle sue tele straordinarie.
L
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Era nata a Ekaterinoslav, una città dell’Ucraina russa situata a nord del Mar Nero, nel 1895.
Era figlia di un rabbino e da parte di madre discendeva da un’importante famiglia rabbinica di
Vilnius, di origini sefardite. Sua madre, Kaia,
era una donna forte. Nel 1905, dopo la morte
del marito, si trasferì a Londra dove già vivevano i suoi figli maggiori, portando con sé la piccola Antonietta. Dallo shtetl russo a Londra il
salto non fu da poco. Antonietta, che aveva dieci anni al momento dell’arrivo a Londra, scelse
di studiare musica, diplomandosi in violino e
pianoforte. Aveva davanti a sé una promettente
carriera, che però fu troncata da un blocco nervoso che le impediva di esibirsi in pubblico.
Cambiò modalità artistica e iniziò a frequentare
il mondo culturale londinese, diventando amica
di pittori e scultori, ed entrando perfino a far
parte di una piccola compagnia teatrale. Nel
1922, la morte della madre la spinse ad abbandonare Londra. Voleva girare il mondo, prima
la Francia, poi Roma, dove però si fermerà. Qui
conobbe un giovane pittore romano, più giovane di lei di sette anni, Mario Mafai. Fu l’inizio
di una storia di amore, passione e rotture che
segnerà per sempre la vita di entrambi. Nascono
tre figlie, la prima Myriam poi Simona e poi
Giulia. In un bel libro di memorie di Giulia ritroviamo la vita turbinosa ma anche severa della
famiglia, con Antonietta che ne rappresentava il
motore, Mario sempre un po’ defilato anche se
legatissimo alle figlie, e le ragazze strette da un
rapporto intensissimo a quella madre tanto fuori
dal comune, che le dipinge in mille forme e che
era tuttavia anche capace di abbandonarle un
poco. «Per anni ho creduto che fosse unica, diversa da tutte le madri, da tutte le donne che
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avessi incontrato», scrive di lei Giulia nel suo libro La ragazza con il violino.
Mario si afferma, Antonietta anche, sia pure
in maniera meno “canonica”. Formano, insieme
con Scipione, quella che è stata definita come la
scuola romana di via Cavour. Ma presto Antonietta, per non far concorrenza a Mario ma forse anche per differenziarsi maggiormente, si volge verso la scultura. Vanno a Parigi, poi Antonietta va da sola a Londra e vi resta per alcuni
anni. Vi ritrova gli amici di un tempo, studia
scultura, riprende possesso di se stessa. Quando
ritorna, impianta un suo studio a piazza Indipendenza. Come scultrice ha bisogno di spazio,
le sue sculture sono grandi, devono respirare.
Sono gli anni della Fuga da Sodoma, del Narciso.
Resta anomala nel panorama artistico italiano, e
«Fiori» (1966)
nella pagina precedente: «Autoritratto col violino» (1928)
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troverà la sua affermazione solo negli anni cinquanta, quando diventerà un’artista nota e affermata. Le leggi razziali vedono l’intera famiglia
rifugiarsi a Genova: Antonietta è ebrea, le figlie
sono miste e non battezzate. Ma dopo il 25 luglio tornano a Roma, credendo che tutto sia finito. Durante i mesi dell’occupazione sono a
Roma, più o meno nascosti, protetti dalla loro
incoscienza più che dalle misure di sicurezza
prese. Tutti sapevano che erano là, la loro casa
era sempre affollata di amici e partigiani. Sopravvivono, e la vita riprende, tutta dedicata
all’arte, in quella straordinaria Roma del dopoguerra percorsa da fermenti culturali vivacissimi,
povera e vitale. Mario muore nel 1965, Antonietta gli sopravvive di dieci anni, continuando
a scolpire, viaggiando, manifestando fino alla fine la sua incredibile vitalità. Va in Sicilia, da sola, e viene scambiata per una matta fuggita dal
manicomio. Va in Cina, e sviene dall’emozione
vedendo l’alba nascere sulla Grande Muraglia.
Era una pittrice diversa dalle altre pittrici italiane, anche da quelle ebree. La forza del mondo ebraico dell’Europa orientale, quello appunto reso immortale dalla pittura di Chagall,
erompeva nei suoi dipinti. La ragazza con il
violino, il violino appunto, lo strumento che gli
ebrei preferiscono, secondo la vecchia barzelletta: «Perché? Hai mai provato a fuggire portando un pianoforte sulle spalle?». E poi, l’afflato
mistico, che ci ricorda i chassidim con i loro riccioli, gli abiti scuri dei rabbini dell’Est. Nulla
nella sua vita ci parla di un’Antonietta religiosa
secondo le norme dell’ebraismo, ma tutto nella
sua pittura e nella sua arte ci parlano di
un’ebrea pienamente e totalmente tale, che non
va forse in sinagoga a Kippur per pregarvi ma
che vi va per osservare pregare gli altri e dissezionarne l’anima. Era anche questo, per la discendente di dinastie di rabbini, un modo per
legarsi alla sua lunga storia. Per pregare, sia pure, come in tutto quello che faceva, in modo diverso dagli altri.
MEDITAZIONE
a cura delle sorelle di Bose
Ci salverà solo
l’amore donato
Q
MATTEO 25, 31-47
uesta è l’ultima predicazione
di Gesù prima della sua Passione, ci parla dell’amore per
il prossimo come di un
tutt’uno con l’amore per il Signore.
A chi vuole seguirlo per vivere con lui Gesù
dice, con una sorta di parabola, dove incontrarlo nel lungo tempo della storia in attesa del suo
ritorno.
Jan Provoost, «Giudizio finale» (1505)
nella pagina successiva: Kandinsky (1912, particolare)
Quando il Figlio dell’uomo verrà, giudicherà
ognuno sull’amore prestato al prossimo bisognoso. Non saremo giudicati su null’altro. Non
sulla fede, non sulla speranza, tanto meno
sull’appartenenza religiosa, ma solo sull’unico e
molteplice frutto cui è ordinata tutta la Rivelazione: sull’amore, sul nostro farci prossimi a chi
è nel bisogno.
E il bisogno che affligge la povertà, così come l’amore che lo soccorre, è narrato in modo
preciso e concreto, e viene ripetuto nel testo con
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la storia e oltre, tra il corpo umiliato delle persone povere e quello del Signore, tra il suo volto e
il loro volto. Sono loro le membra del suo corpo. Ed è con queste parole profetiche che Gesù
rende per sempre i poveri e gli ultimi la presenza più preziosa e la più esigente per discepoli e
discepole, magistero quotidiano per aver parte
con lui in questo mondo e in quello futuro. La
risposta verso chi è in condizioni di debolezza
diventa il criterio per discernere in noi stessi e
nella Chiesa e nel mondo ogni progetto e gesto
di empietà, perché l’empietà, che è idolatria, ha
sempre, come cuore e frutto, l’indifferenza e
l’odio per le persone deboli, povere, straniere,
sempre giudicate irrilevanti.
insistenza martellante, a indicare che agli occhi
di Dio è questa la cosa seria della storia e del
mondo: la fame delle persone affamate, la sete
delle assetate, la multiforme povertà e umiliazione delle persone straniere, il freddo e la vergogna e l’isolamento di quelle nude, carcerate,
malate, abbandonate.
In tutta la Scrittura questa miseria dolorosa è
il grido incessante che il Signore ode salire dalla
terra, come udì il grido muto del sangue di
Abele, il grido da Sodoma dove l’ospitalità veniva tradita e gli stranieri usati, il grido della sete di Ismaele, della disperazione di Agar, il grido dall’Egitto, dove Israele era schiacciato dalla
schiavitù. E poiché questo grido d’angoscia non
ha smesso mai di salire al cielo, il Signore ci ha
visitati venendo in mezzo a noi umano e povero
nell’uomo Gesù, esposto al patire come noi.
E il Figlio dell’uomo è annunciato nell’atto di
rivelare chi lo ha amato, perché è l’incarnazione
del Dio compassionevole e il Servo del Signore
che patisce e porta su di sé come suo proprio
strazio e tribolazione e piaga il dolore di tutti gli
esseri umani sofferenti, fino a identificarsi con
loro. Oggi ci è rivelata la piena coincidenza, nel-
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Le Scritture ci attestano che il diritto del Signore nostro Dio coincide col diritto del nostro
prossimo nel bisogno, perché è il Signore stesso
che attende nella persona dei poveri il nostro
soccorso, la condivisione di ciò che siamo e abbiamo. Così chi umilia e ignora una persona
povera, umilia e ignora il Signore. Il Signore dà
la propria voce e il proprio volto ai poveri di
tutta la storia, e svela la beatitudine di chi lo ha
soccorso e l’infelicità di chi non lo ha soccorso.
Fa molta impressione che qui neppure siano nominate le violenze e le angherie che noi umani
sappiamo infliggere alle persone più deboli di
noi e che la Bibbia ben conosce. Qui basta
l’omissione di soccorso per essere rivelati malvagi e del tutto estranei al Signore. In quel giorno
nessuno dirà la povertà che ha patito, il suo bisogno tormentoso: perché di tutto questo dolore
si farà voce il Signore rivelandolo come suo dolore, come il dolore di Dio. Ma ognuno sarà riconosciuto sull’attenzione e la risposta, offerta o
negata, al dolore del suo prossimo, alla fame,
alla sete, alla nudità e alla vergogna, all’isolamento e all’umiliazione, all’afflizione patite dal
suo prossimo.
Ancora una volta Gesù ci insegna che non il
nostro dolore ci salva, ma sempre e soltanto
l’amore.