Paternità: rifiuto di sottoporsi al test del DNA, nessuna giustificazione

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Transcript Paternità: rifiuto di sottoporsi al test del DNA, nessuna giustificazione

Paternità:
rifiuto
di
sottoporsi al test del DNA,
nessuna giustificazione
Una grave imprudenza del presunto genitore naturale
Avv. Chiara Muratori – L’art. 269 c.c. nel disciplinare
l’istituto della dichiarazione giudiziale di paternità e/o
maternità naturali statuisce che nel giudizio promosso la
prova della fondatezza della domanda può trarsi anche
unicamente dal comportamento processuale delle parti. Pertanto
non sussistendo un ordine gerarchico delle prove in merito
all’accertamento giudiziale, il rifiuto ingiustificato del
padre di sottoporsi agli esami ematologici o al tampone
salivare può essere liberamente valutato dal Giudice ai sensi
dell’art. 116 c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti
sessuali tra le parti.
La dichiarazione della madre, da sola, non determina infatti
una prova come non è sufficiente dimostrare solo l’esistenza
nel periodo del concepimento di relazioni o rapporti tra la
madre ed il presunto padre. Tuttavia tali circostanze, se
unite ad ulteriori elementi, possono essere impiegate a
sostegno del convincimento del giudice compreso il rifiuto di
sottoporsi alle indagini per il test del DNA da parte del
padre presunto. Tale accertamento rappresenta, del resto, la
prova principe poiché consente di accertare la fondatezza
della domanda in termini oggettivi e senza ragionevoli margini
di errore.
Premesso che la prova della paternità può essere data con
qualsiasi mezzo, il Giudice è libero di valutare i fatti e gli
indizi acquisiti ed in particolare il rifiuto ingiustificato
di sottoporsi ad un prelievo ematico che consenta con un
margine di certezza del 99% di escludere la paternità.
Affinché ciò si verifichi si dovrà trattare di un rifiuto
ingiustificato e pretestuoso da parte del presunto padre che
andrà collocato nel quadro probatorio degli altri elementi
raccolti nel giudizio così da formare la conclusione della
gravità e della concordanza delle presunzioni ai sensi
dell’art. 2729 c.c.
Commette, quindi, una grave imprudenza il presunto genitore
naturale che rifiuta di sottoporsi all’esame del DNA nel corso
del giudizio sorto per l’accertamento della genitorialità
naturale.
Il rifiuto di sottoporsi al test del DNA, se privo di valida
giustificazione, è valutabile come un’ammissione di
responsabilità e stessa valutazione si avrà in caso di assenza
ingiustificata agli appuntamenti fissati dal consulente per
procedere ai prelievi. Tale visione ed interpretazione non
costituisce una forzatura rispetto alla volontà o ai diritti
della persona nei confronti della quale è in corso
l’accertamento, poiché questo tipo di indagine non lede né la
privacy dei soggetti coinvolti né costituisce una minaccia per
il loro stato di salute.
Va, infine, ribadito che dalla possibilità di dedurre
argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi
a prelievi ematici o salivari al fine dell’espletamento
dell’esame del DNA, non deriva una restrizione della libertà
personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione
in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il
trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte
costituisce applicazione del principio della libera
valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne
resti pregiudicato il diritto di difesa. Inoltre, il rifiuto
aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può
ritenersi giustificato nemmeno da esigenze di tutela della
riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati
nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di
giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice
a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto
professionale che al rispetto della L. 31 dicembre 1 1996 n.
675 (Cass. Civ. Sez. I n. 5116 del 3 aprile 2003, n. 9394 del
18 maggio 2004 e n. 27237 del 14 novembre 2008).
La Suprema Corte (Cass. Civ. Sez. I n. 10947 del 19.5.2014)
chiarisce che i dati genetici – dotati di una loro peculiarità
in quanto contenenti un corredo identificativo unico ed
esclusivo per ciascun individuo – possono essere anche dati
sensibili, potendo qualora essere destinati a rivelare uno del
profili indicati nell’art 4, comma 1, lett. d, D.lgs. 30
giugno 2003 n. 196 a tutela dell’origine razziale ed etnica,
delle convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere,
delle opinioni politiche, dell’adesione a partiti, sindacati,
associazioni od organizzazioni a carattere religioso,
filosofico, politico o sindacale, nonché dello stato di salute
e della vita sessuale. Non sono considerati dati sensibili,
invece, pur essendo certamente personali, quando sono diretti,
come nel caso di specie, allo svolgimento di indagini per
verificare la consanguineità tra due soggetti. Di qui la loro
disciplina specifica, contenuta in un apposito capo del titolo
V del D.lgs. n. 193 del 2003, relativo ai dati sanitari, e in
particolare nell’art. 90, che richiede, in generale, per il
trattamento dei dati genetici da chiunque effettuato,
un’apposita autorizzazione del Garente della privacy ed il
consenso informato del titolare dei dati. Mente però
l’autorizzazione del Garente n. 2 del 2002 era relativa ai
dati genetici idonei a rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale, ossia quei dati genetici di natura sanitaria
(rispetto ai quali consentiva per certe finalità,
essenzialmente di tutela di diritti in sede giudiziaria, il
trattamento anche senza il consenso dell’interessato), solo
con l’autorizzazione 22 febbraio 2007 il Garante è intervenuto
a disciplinare il trattamento anche dei dati genetici di
natura non sanitaria. Tuttavia, osserva ancora la Corte, il
trattamento di dati genetici di natura non sanitaria, quali
quelli diretti allo svolgimento di indagini per verificare la
consanguineità tra due soggetti, in vista di una futura azione
di disconoscimento o accertamento della genitorialità, non ha
alcuna finalità sanitaria e non è riconducibile all’esercizio,
in sede giudiziaria, di un diritto della personalità di rango
quantomeno pari a quello del controinteressato.
Ciò premesso l’esame genetico in sede di giudizio di
accertamento di genitorialità appare del tutto conforme al
disposto dell’art. 30 Cost. che demanda alla legge di
determinare i modi per la ricerca della paternità nonché
all’art. 13 Cost. che prevede che nessuna ispezione,
perquisizione o restrizione delle libertà personali è
consentita, se non nei casi previsti dalla legge e su atto
motivato dell’Autorità Giudiziaria, dal momento che l’art. 269
co. 2 c.c. in attuazione di detti disposti costituzionali
stabilisce che la prova della paternità può essere data con
qualunque mezzo, tra cui però può ben comprendersi anche
l’esame ematico o salivare. La Cassazione, come detto, ha già
avuto modo di accertare che il prelievo ematico è di ordinaria
amministrazione medica e non lede la dignità o la psiche della
persona (art. 2 Cost.) né mette in pericolo la vita,
l’incolumità o la salute (art. 32 Cost.)
Avv. Chiara Muratori
Fonte:
(www.StudioCataldi.it)