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Zoroastro. Io, Giacomo Casanova. Un “film-concerto”
Roberto Calabretto
«A volte esplicitamente espresso, a volte celato e resistentemente riparato anche dagli affondi delle
analisi più brusche o cattivanti, a volte velleitariamente sbandierato, il rapporto di mimesi fra cinema e musica
e non meno il suo rovescio, il rapporto di mimesi fra musica e cinema, è un gran bel campo di azione critica.
Lo è stato e lo sarà sempre di più». Così scriveva il compianto Giovanni Morelli presentando il ciclo
Stentoree mimesi. I grandi personaggi della musica catturati dalla rappresentazione cinematografica alla
Cineteca Pasinetti di Venezia. L’arte di filmare la musica, non a caso, ha affascinato e coinvolto il cinema sin
dalle sue origini ispirando atteggiamenti e scelte operative quanto mai differenti nel rapportare la telecamera
ad un palcoscenico operistico, ad una sala da concerto e a qualsiasi esecuzione di carattere musicale.
Quale premessa alla breve riflessione che affronteremo in queste pagine, varrà la pena ricordare che
filmare la musica significa offrire una sua interpretazione. Cogliere un evento concertistico con la telecamera
comporta una particolare lettura della partitura che, nel migliore dei casi, porta ad una messa in atto di
equivalenze fra il linguaggio delle immagini e quello dei suoni. «Quel che è dinamica nella musica – ha detto,
a tal fine Jean-Pierre Ponnelle - lo rivedo nel cinema nelle carrellate, nei movimenti di macchina, nelle
zoomate e così via. Le armonie della musica, il verticale, li trovo nel cinema nelle analogie cromatiche, nelle
possibilità di inquadratura dalla panoramica al primo piano. Ai ritmi musicali corrisponde il montaggio, che
va effettuato esattamente secondo la partitura».1
1
JEAN-PIERRE PONNELLE, Cinema, televisione e videodischi, «Quaderni dell’IRTEM» [Scritti sui mezzi di comunicazione di massa e l’opera], I/2,
Roma, 1985, p. 42.
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2
La macchina da presa, pertanto, dev’essere in grado di interagire creativamente con l’evento
concertistico, come suggerisce anche Dany Bloch che ha sottolineato come sia maggiormente interessante
quell’uso in cui «la troupe dei videcameramen risulta essere un partner privilegiato dell’artista protagonista
della performance» piuttosto che un corpo a sé stante che opera in maniera autoreferenziale. Facendo
riferimento alla nota classificazione degli impieghi del video, potremmo postulare due tipologie: «nella prima
[“video freddo”] l’artista ha un rapporto mediato con lo strumento, che viene usato da altri sulla sua opera
creativa e con finalità prevalentemente documentative o didattiche; nella seconda [“video caldo”] l’artista ha
un rapporto diretto con lo strumento, che usa per scopi creativi », come ben ricorda Angela Madesani.2
Esemplare, da questo punto di vista, l’operato di Bruno Monsaingeon, regista che ha dedicato noti e
acclamati documentari a Glenn Gould, Yehudi Menuhin, Dietrich Fischer-Dieskau e Sviatoslav Richter in cui
«suono e immagine si muovono assieme, sulle onde del ritmo e dell’armonia», per cui ogni inquadratura di
un’esecuzione musicale nei suoi film non è mai improvvisata. «Io credo che si debba conoscere benissimo sia
un’opera che i suoi interpreti per produrre delle riprese di qualità – ha detto lo stesso regista nel corso di
un’intervista -: occorre una compartecipazione totale per ottenere un risultato credibile agli occhi
dell’osservatore».3 Parimenti vanno ricordati i film musicali di Frank Scheffer, che offrono una panoramica di
grande interesse sui grandi compositori del ventesimo secolo, oppure quelli di Christopher Nupen, fautore di
un modo nuovo di restituire in video la musica e i suoi interpreti con l’invenzione, nel 1960, della camera
16mm.
Nel solco di questa tradizione, il nome di Gianni Di Capua va sicuramente annoverato per la lunga serie di
filmati che egli ha dedicato a compositori del nostro presente, da Giacomo Manzoni a Adriano Guarnieri e,
soprattutto, a Luigi Nono di cui ha restituito molte opere del suo catalogo in forma di documentario. Le
operazioni di Di Capua hanno sempre trovato un largo consenso per la fedeltà con cui si sono avvicinate al
testo musicale, assunto senza libere interpolazioni ma piuttosto adeguando gli strumenti del linguaggio visivo
alle esigenze della musica. Al contrario di coloro che hanno lavorato per accumulazione, rendendo spesso
insopportabile l’ascolto-visione di un’opera, Di Capua ha invece operato per sottrazione, consapevole che la
musica debba giungere ugualmente al destinatario senza alcuna sovrabbondanza di elementi visivi.
2
3
ANGELA MADESANI, Le icone fluttuanti del cinema d’artista e della videoarte in Italia, Milano, Mondatori, 2002, p. 90.
Interviste tratte dal sito del regista. Cfr. www.brunomonsaingeon.com. Ultima visita 12 luglio 2016.
3
La sua ultima produzione, Zoroastro, si presenta come un «film-concerto», un sottotitolo che si pone come
un vero e proprio neologismo nella tipologia dei generi con cui la musica viene filmata, quasi a voler
sottolineare la ricerca di modalità alternative per portare in scena l’opera. «Da molto sostengo la necessità che
la musica, come anche il teatro, afflitti dalla malattia dei costi in questo stato di economia stagnante, debbano
trovare nuove strade, anche dal punto di vista dei mezzi espressivi, e ho sempre sostenuto che lo strumento
televisivo possa fare moltissimo in tal senso», ha detto lo stesso Di Capua nel corso di un’intervista.4
Adeguare un testo musicale al piccolo o grande schermo non è una novità – basti pensare alla “gloriosa”
tradizione dei film-opera del cinema italiano nelle sue molteplici sfaccettature che abbraccia un arco
temporale che va dagli anni Trenta ai giorni nostri – ma negli ultimi anni le potenzialità di una performance
musicale sono state sempre più svilite e mortificate da scelte molto dozzinali e banali da parte del linguaggio
televisivo. La televisione, infatti, è «l’onnipresente che frantuma, decostruisce, falsifica e ripristina significati
– ha puntualizzato giustamente Di Capua -. Occorre pertanto essere consapevoli dei suoi meccanismi perversi
nei quali assistiamo a una smaterializzazione della realtà e dove l’attenzione dell’uomo viene distolta dal
mondo naturale e portata a concentrarsi sul mondo della comunicazione che appare diventata un valore
assoluto».5
Proprio all’interno di questo contesto problematico, è nata la sfida di questo e di altri progetti che hanno
costellato l’attività registica di Di Capua. Una loro peculiarità risiede nella maniera del loro approccio
all’evento concertistico che potremmo definire, in maniera sicuramente banale e riduttiva, rispettoso delle
esigenze della musica, per cui ogni scelta nasce sempre da una motivazione di carattere musicale. Parlando
del suo documentario dedicato ad A floresta di Luigi Nono, Di Capua ha detto: «Per spiegare perché io abbia
deciso di mettere la telecamera vicino a sei lastre di rame in scena, bisognerebbe spiegare prima perché il
compositore abbia deciso di mettere delle lastre. Il regista cerca di intuirne la ragione e scopre che alla base di
questo pezzo c’è un nastro magnetico. La mediazione tra quello che accade nel nastro e quello che accade dal
vivo sulla scena è costantemente mediata attraverso le lastre: ogni volta che intervengono le lastre accade
qualcosa in scena mentre lasciamo qualcosa su nastro e viceversa».6
4
Gianni Di Capua in Zoroastro. Io Casanova, in http://www.theresiaproject.eu/?s=zoroastro a cura di Emilia Campagna.
5
Ibidem.
GIANNI DI CAPUA, Modi di riproduzione in televisione della musica dal vivo o in studio, Atti del convegno, «Quaderni dell’IRTEM», 25, Roma,
2000, p. 47.
6
4
Perseguendo le stesse modalità Di Capua si è avvicinato anche a Zoroastro di Rameau, nell’ovvia distanza
temporale che la separa dall’opera di Nono. Anche in questo caso le sue riprese si adeguano ai respiri musicali
della partitura, rispettandone i fraseggi e il loro sviluppo che non viene mai spezzettato alterandone la visione
da più punti di vista grazie ad un uso esorbitante di telecamere sul palcoscenico, come spesso accade nelle
tante regie televisive che oggi imperversano sullo schermo. In questo modo la narrazione viene tutelata in
quanto ritenuta sovrana e insostituibile: la ripresa risulta così essere un’altra via per giungere alla conoscenza
dell’opera che continua ad essere tutelata in tutte le sue coordinate. Ecco perché anche in Zoroastro il piano
sequenza ancora una volta è lo strumento privilegiato dal regista che gli permette di svelare i diversi segmenti
dell’esecuzione divenendo il cardine della narratività musicale. Le inquadrature, inoltre, consegnano delle
immagini spesso colte di lato – circostanza che favorisce con maggior naturalezza l’utilizzo delle dissolvenze
– e che non sono illuminate frontalmente in quanto ciò non permetterebbe loro di essere in sintonia con lo
spazio circostante.
Agendo in questo modo, Di Capua vince una grossa scommessa: portare ad un vasto pubblico uno
spettacolo che difficilmente andrebbe a vedere nei normali circuiti di diffusione senza mai banalizzare o
impoverire lo spettacolo stesso. Le potenzialità dei media nel divulgare un’opera artistica erano già state colte
da Walter Benjamin che, nel suo celebre L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, aveva
dichiarato come l’universo dei media avesse necessariamente comportato l’immedesimazione del pubblico
con all’interprete e la sua prestazione artistica attraverso l’immedesimazione con l’apparecchio, da cui le
enormi responsabilità di chi presiede a questo genere di operazioni per far dialogare un’opera del passato con
gli strumenti tecnologici attuali.7
Questo problema, “il problema” forse che maggiormente affligge un regista, ha portato Di Capua ad
adottare delle precise scelte nel concepire la mise en scène del film-concerto, l’aspetto certo più complesso,
ma anche il più affascinante perché ne determina il valore della narrazione visiva. In questo le scelte di Di
Capua sono sempre state rigorosissime. Anche nel suo recente Richard Wagner. Diario veneziano della
Sinfonia ritrovata egli aveva evitato qualsiasi intrusione di elementi di finzione che pure era facile adottare
per il genere della docu-fiction, scegliendo un’opzione, al contrario, “creativa” di segno decisamente opposto,
ossia di costante svelamento della macchina cinematografica a favore del testo musicale.
7
Cfr. WALTER BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, traduzione italiana di Enrico Filippini, Torino, Einaudi,
1966, p. 31.
5
Opzione che si ritrova anche nella struttura di Zoroastro film-concerto, le cui scelte di regia portano in
dialogo l’opera con ampi segmenti della traduzione del libretto che Giacomo Casanova fece nel corso della
sua movimentatissima vita. E’ singolare che, al fine di creare un trait-d’union apparentemente inspiegabile, il
movente sia stato di natura cinematografica. Alessandro Taverna, infatti, ha dichiarato come Il Casanova di
Federico Fellini (1976) sia stato il motivo ispiratore di questa idea citando la celebre scena del film al teatro
di Dresda in cui, secondo le tipiche costanti della poetica cinematografica felliniana, si viene catapultati
improvvisamente nell’iperbole visivo-sonora di un finale operistico, mettendo allo scoperto la concezione che
il regista di Rimini aveva del melodramma. Questa scena è visibilmente ispirata allo Zoroastre di Rameau. Da
questo pretesto ha preso vita la dialettica Casanova-Zoroastro, elemento di coesione del film-concerto e del
suo impianto scenico-drammaturgico: i testi del seduttore veneziano, letti da Galatea Ranzi («non volevo che
un eventuale interprete maschile fosse assimilato, anche se involontariamente, a Casanova. A contare è il testo
e colui che lo interpreta. Come per un testo musicale, poco importa se il suo interprete è maschio o
femmina»,8 ha detto di Capua spiegando le ragioni di questa scelta), sono estrapolati da un nutrito impianto di
pagine tratte, non solo, dalla traduzione in versi che Casanova fece dell’opera ramista, dalle proprie Memorie
e da testi risalenti all’ultimo periodo della sua vita, quello dell’esilio di Dux nel castello dei conti Waldstein in
Boemia, dove nel 1798 egli giunse al termine della propria esistenza. L’opera, di conseguenza, è messa in
prospettiva con il disincantato realismo del tardo Casanova che devia, bruscamente, dall’Happy Ending
scontrandosi con la tragica fatalità storica del processo rivoluzionario che gli storici indicano come lo
spartiacque tra l’epoca moderna e contemporanea e nel quale s’incardina la vita stessa dell’illustre veneziano.
Una seconda nota che caratterizza la mise en scène è la presenza della danza al suo interno. Com’è noto, De
Cahusac aveva una visione assai moderna rispetto all’uso della danza nell’opera, anticipando in questo alcuni
principi della riforma di Gluck e Calzabigi. Sono questi i motivi per cui la danza è stata integrata nel contesto
della rappresentazione, rispettando le intenzioni di De Chausac, ma attualizzandole con delle scelte coreutiche
dichiaratamente moderne, anche in questo caso assecondando la dialettica che ha ispirato l’allestimento di
questo film-concerto.
8
Gianni Di Capua in Zoroastro. Io Casanova, in http://www.theresiaproject.eu/?s=zoroastro a cura di Emilia Campagna.
6
Infine la musica, affidata alla Theresia Youth Baroque Orchestra e al cast dei cantanti che hanno avuto il
non facile compito di suonare davanti alla telecamera finalizzando la loro performance alla riproducibilità del
medium. Un compito che viene affrontato da tutti gli interpreti con grande padronanza che rende la loro
performance perfettamente adeguate alla poetica rigorosa della regia di Di Capua.
Tutte queste scelte hanno reso Zoroastro e la sua musica ancora attuali e permettono al film-concerto di Di
Capua di riproporre al pubblico i valori che hanno ispirato Rameau nel comporre quest’opera. «Zoroastro
simboleggia la vittoria del bene sul male – ha ribadito il regista -, dell’intelligenza sulla stupidità. Andando
oltre ai dettagli della sua produzione e della sua ricezione, l’opera risulta suggestiva con il messaggio che gli
autori, il librettista in primis, hanno inteso veicolare, vale a dire una sorte d’iniziazione del pubblico ai valori
della Conoscenza che all’epoca della sua prima rappresentazione non venne capito, anzi, dopo qualche replica
l’opera venne ritirata e riproposta qualche anno dopo largamente rimaneggiata nei suoi contenuti originali
spurgandola della sua forza eversiva».9
Per chiudere queste brevi note introduttive alla visione di questo film-concerto, vorremmo citare una
fortunatissima serie televisiva andata in onda negli anni Settanta che vide protagonisti Luciano Berio e
Gianfranco Mingozzi e che ci sembra fare pendant con questa operazione. C’è musica e musica, articolata in
dieci episodi, ripercorreva l’universo musicale in tutte le sue sfaccettature proponendolo con grande
intelligenza a vaste fasce di pubblico televisivo. Non a caso, fu salutata da Ulrich Mosch come «un’opera
d’arte televisiva in anticipo sui tempi». Ebbene, proprio nel solco di questa tradizione, ci sembra vada colto
Zorastro film-concerto che ha il pregio di portare avanti un progetto che sembrava destinato a non avere eredi.
9
Ibidem.