mezzocielo n° 154 inverno 2017

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Transcript mezzocielo n° 154 inverno 2017

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mezzocielo
anno XXV inverno 2017 - € 10,00
sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96
Filiale di Palermo
Fotografia di Giulia Mariani, 2016
...ma non ci arrendiamo!
trimestrale di politica cultura e ambiente pensato e realizzato da donne
n°
154
Sommario
Quel che inferno non è
Batrice Agnello - Simona Mafai
Pag.2
Orrida Saguto
”
3
Uomini maltrattanti
Rossella Caleca
”
4
Riconoscersi uomini
e liberarsi dalla violenza
Gisella Modica
”
4
Manifestazione taciuta
Adriana Palmeri
”
6
Le combattenti
Marta Viola
”
7
Una mattina come tante a Pisa
Stefania Difilippo
”
8
A portata di click
Federica Consiglio
”
8
Il percorso millenario
dell’idea di libertà
Valeria Andò
”
10
Un documento su una poetessa
tamil
”
10
Dieci righe
Francesca Traina
”
11
Mezzocielo ci salverà
Shobha
” 12-13
Il lungo percorso di Emma
Egle Palazzolo
”
14
Lina Prosa e il suo teatro
Simona Mafai
”
16
Topazia Alliata: arte e libertà
Mimma Grillo
Il lavoro redazionale e le collaborazioni sono forniti
gratuitamente
”
18
Antonella Anedda, poeta
Francesca Traina
Stampa: Punto Grafica Mediterranea - Villabate (PA) Finito di stampare nel mese di Gennaio 2017
”
20
All’occhi d’un gallo...
Carla Nigro
”
21
Lea Vergine: pazza di lei
Maria Chiara Di Trapani
”
22
Redazione: Carla Aleo Nero, Rita Calabrese, Giusi
Catalfamo, Silvana Fernandez, Mimma Grillo, Simona Mafai, Gisella Modica, Maria Luisa Mondello,
Egle Palazzolo, Francesca Traina.
Hanno collaborato: Batrice Agnello, Valeria Andò, Rossella Caleca, Nicola Cipolla, Federica Consiglio, Stefania
Difilippo, Maria Chiara Di Trapani, Donatella Natoli,
Carla Nigro, Adriana Palmeri, Paola Pintacuda, Shobha,
Marta Viola.
Impaginazione e grafica: Letizia Battaglia,
Massimiliano Martorana
Editore: Associazione Mezzocielo
Responsabile Editoriale: Adriana Palmeri
La biblioteca dell’Albergheria
Donatella Natoli
”
24
Le brutte parole
Paola Pintacuda
”
24
Ulisse tra noi
Nicola Cipolla
Direzione: Letizia Battaglia (coordinamento), Rosanna
Pirajno (direttrice responsabile)
e-mail: [email protected]
Reg. al Trib. di Palermo il 19-3-’92
Quota associativa annua: ordinaria: € 40,00
sostenitrice: € 60,00
c/cp. 13312905 Rosanna Pirajno, V.le F. Scaduto, 14
- 90144 Palermo
Hanno sottoscritto
Simona Mafai (€ 300); Maria Luisa Mondello, Anna Pagano, Francesca Traina (€ 100); Anna Trapani (€ 60);
M. C. (€ 50).
Guardate ogni giorno sul web
”
IV
www.mezzocielo.it
Autorappresentazione
Liliana Maresca (1951-1994) fotografa, scultrice e performer di origine Argentina. Un’artista che espone il proprio
corpo con spirito di denuncia e mossa da una rivoluzionaria energia, come espressione di una creatività liberata tra
gli anni ’70 e ’80 dal terrore della dittatura argentina. Il corpo diventa per lei “territorio di auto rappresentazione,
nutrito da una dimensione esistenziale in bilico tra pubblico e privato” come scrive Ludovico Pratesi. Realizza
opere, sculture e perfomance che mettono al centro della sua ricerca la metamorfosi e la trasformazione di materiali
naturali come rami d’albero, gusci d’uovo, e oggetti d’uso quotidiano, con uno stile pieno di riferimenti al surrealismo e al new dada.
Malapolitica
Quel che inferno non è
Beatrice Agnello - Simona Mafai
Ci riuniamo per elaborare insieme il fondo politico che
aprirà il nuovo anno di “Mezzocielo”. Angoscia, dubbi, un
clima diffuso di mancanza di speranze per il futuro, e non
certo solo tra noi. Dal mondo cattive notizie, il massacro di
Aleppo, la vittoria di Trump, ognuna ne cita una. Un pianeta
senza punti di riferimento, non si sa chi sia davvero alla
guida della macchina e da che parte vogliano andare quelli
che in parte ne hanno il controllo. A casa nostra, in Italia, la
campagna del referendum si è svolta in un clima di rabbia,
e quasi di odio, parole sprezzanti e violente sembrano dominare il discorso politico. Abbiamo tra le mani il numero
di Noi Donne, che annuncia la definitiva chiusura del giornale. Due anni fa, aveva chiuso anche l’autorevole rivista
femminista Via Dogana. Che siano anche questi fatti testimonianza di un arresto nel cammino di progresso che ci è
sembrato percorrere?
Ma non vogliamo addentrarci nel 2017 con questo sentimento negativo e cerchiamo di conservare la luce della ragione e non cedere alla sfiducia generale, che non porta a
nulla. Sarà che ancora, “ragazze del secolo scorso” quali
quasi tutte siamo, abbiamo nel nostro codice genetico l’esortazione di Gramsci a praticare “il pessimismo della ragione
e l’ottimismo della volontà”.
I fatti che hanno cambiato, quasi completamente, il secolo
in cui viviamo, rispetto al non breve ’900, nel corso del quale,
almeno in Occidente, le donne hanno raccolto non poche
conquiste, sono essenzialmente due: la globalizzazione, con
tutte le sue conseguenze negative e positive, e lo straordinario
avanzamento tecnologico con una totale modificazione del
sistema delle comunicazioni. Molte delle nostre aspettative
economiche e politiche però continuano a riferirsi ad un
mondo (e a un’idea di futuro) che non ci sono più. Il sociologo Bauman ha parlato di “retrotopia”, cioè di “utopia retroattiva”.
Il crollo di quelle vecchie ci dice che, se abbiamo ancora bisogno di un’utopia, dobbiamo inventarne una nuova: non
cercare di riciclare tristemente le utopie passate. La diffusione delle comunicazioni, la loro immediatezza e molteplicità, ha messo in crisi il concetto otto/novecentesco della
democrazia: avanza l’idea di una democrazia in cui il “popolo” (espressione ambigua: le masse sono in realtà un insieme di pulsioni divergenti, a volte accomunate dal rifiuto
ma non da un progetto) diventa interlocutore diretto dei poteri decisionali, con l’azzeramento dei corpi intermedi: istituzioni elettive, partiti, associazioni. Ma “la democrazia ha
bisogno delle mediazioni” (Ilvo Diamanti), “là dove invece
è immediata e radicale tende ad abolire se stessa”. Una democrazia senza riconoscimento delle rappresentanze, non
esiste. Si va diritti a regimi autoritari, a dittature.
Di tutto questo siamo stati/e inconsapevoli protagonisti/e
nella campagna referendaria. Tutto è stato considerato
“casta” (un politologo francese, Pierre Rosanvallon. ha
scritto: “Gli eletti sono élite”). Renzi, il “rottamatore”, ha
presentato la riforma costituzionale anche come atto contro
l’“establishement” (illudendosi di “assorbire” il populismo
dilagante). Ma il composito e contraddittorio schieramento
del NO, ha voluto “rottamare” proprio lui.
Difficile, o addirittura impossibile, fare previsioni per un
anno che si presenta convulso e, in Italia, con molteplici appuntamenti elettorali, locali e nazionali – oltre a non secondari appuntamenti europei.
Ma per quanto sia complessa e confusa la situazione che ci
circonda, non intendiamo rimanere politicamente silenti.
Continueremo a incontrarci, scrivere, pubblicare. Cercheremo di fare quel che esprimono, come meglio non si potrebbe, le parole di Italo Calvino:
“Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno; e farlo durare, e dargli spazio”.
Auguri da Mezzocielo!
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Malapolitica
Orrida Saguto
L’ex presidente dell’Ufficio prevenzioni del Tribunale
di Palermo sospesa dal suo incarico, dopo qualche burocratico ritardo, per una pesante inchiesta che la riguarda in prima persona, si chiama Silvana.
Una donna. Una “donna no” come va scritto in nota.
E questo profondamente ci disturba, ci mette a disagio. Non che aver tanto lottato perché alla donna venissero riconosciuti eguali diritti e pari opportunità di
coinvolgimento, partecipazione e responsabilità di lavoro, di professionalità e di gestione della cosa pubblica, valesse l’idea di una aureola sul suo capo, ma
non poteva escludersi la speranza che il contributo
femminile per un corretto e funzionante sistema democratico, potesse esserci davvero. Ma nel caso Saguto il disagio raddoppia: non stiamo parlando solo di
una donna ma di una donna-magistrato col delicato
compito di esser nostra garanzia e difesa nei confronti
della mafia, del malaffare, dei proventi illeciti che alimentano illeciti patrimoni cui alla dott. Saguto toccava
metter ordine e mano. E invece dalla cronaca vengono
fuori fatti e misfatti la cui verità sarà o meno ratificata
alla fine dei procedimenti, ma che intanto come cittadini ci mortifica. Appare poco credibile che quanto
viene pubblicamente riferito sia per lungo tempo sfuggito a controlli e a richiami e che una fitta maglia di
interessi di piccolo e medio calibro si sia sviluppata attorno a una serie di interessi tutt’altro che di pubblica
utilità. Pure Silvana Saguto ha coperto per non poco
tempo il suo ruolo, e al momento della sua sospensione dal servizio, i decreti depositati avevano un ritardo di circa 1399 giorni e i capi di accusa per i venti
indagati coinvolti nella sua inchiesta sommavano 79.
Ad addentrarsi nei dettagli, non par vero quanto si
legge. Il Vice Presidente del C.S.M. non ha esitato a
parlare di fatti di assoluta gravità ma è chiaro che bisognerà conoscere l’intero iter del procedimento giudiziario e soprattutto la giusta e palese conclusione di
questa intera “brutta faccenda” per tirare le somme.
Noi intanto rivolgiamo un grato pensierino alla splendida astronauta italiana che ha compiuto la sua missione nello spazio o all’altrettanto splendida scienziata
che con la sua scoperta apre a nuovi traguardi alla ricerca sanitaria. Due esempi della fitta schiera di
“donne sì”, fra quelle che la ribalta segnala. Ma sappiamo che fuori da diretto protagonismo restano tante
donne che hanno e vogliono avere il merito di contribuire a quanto di positivo va identificato e difeso.
Oggi come non mai, senza competizione di genere.
Specie a traguardo rovesciato: rischieremmo di apprendere che un capomafia donna, in aula, pesi
quanto o più di Riina o Provenzano. Proprio mentre
ci auguriamo che un processo di sradicamento della
mala pianta, le veda, con i propri figli, in primo piano.
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Società
Uomini
maltrattanti
agire, sia per la difficoltà a riconoscere pregiudizi e stereotipi
culturali improntati alla disparità di genere, spesso presenti
come un substrato insidiosamente nascosto sotto atteggiamenti apparentementi “aperti” e “moderni”. L’impressione
è che questi uomini, lottando per cambiare, debbano vincere
non solo le resistenze personali e i meccanismi di difesa psicologici, ma debbano “trasgredire”, andare oltre: oltre i comportamenti appresi dalla famiglia d’origine, oltre dinamiche
relazionali cristallizzate nel tempo, oltre, soprattutto, idee socialmente condivise sul genere e i ruoli di genere che resistono al cambiamento molto più di quanto si creda; oltre,
non ultima, la difficoltà a riconoscere le proprie emozioni negative e a parlarne, anche questa culturalmente determinata.
Questo conferma, qualora ce ne fosse bisogno, come e
quanto la violenza di genere sia legata a un processo culturale
tutt’altro che lineare, a un percorso spesso interrotto e ben
lontano dall’essere compiuto: da costruire e ricostruire ancora, al di là del genere, partendo dalla parola.
Rossella Caleca
Fermare l’uso della violenza nelle relazioni, in particolare la
violenza subita dalle donne, dovrebbe essere un impegno
prioritario per tutti, quando la realtà dei dati sempre più inquietanti, e tuttavia insufficienti a definire il fenomeno per
la sua dimensione sommersa e sconosciuta, mostra come la
violenza faccia parte della vita quotidiana di moltissime
donne. Ma l’indignazione, la condanna sociale, la lotta intrapresa dal movimento delle donne, le azioni positive realizzate da istituzioni e associazioni, non bastano se non ci si
convince che il problema ci riguarda più di quanto vogliamo
ammettere, che riguarda ciascuno di noi, e che tutti, donne
e uomini, siamo chiamati ad agire per affrontarlo.
Per un’azione efficace, occorre quindi un’assunzione di responsabilità collettiva: non soltanto cercando di comprendere codici culturali e meccanismi psicologici che
favoriscono la violenza, ma facendo emergere l’esperienza
quotidiana di donne ed uomini; raccontare e raccontarsi, trovare modalità di ascolto e riflessione che coinvolgano gli uomini, che consentano loro di interrogarsi sulla propria
relazione con la violenza nei rapporti personali. La parola
agli uomini, la parola dagli uomini sugli uomini: sia quella di
coloro che desiderano impegnarsi partendo da sé, dal cercare
di mettere a fuoco la propria distanza dalla violenza, sia
quella di coloro che hanno un passato di violenza agita e
hanno intrapreso un percorso di cambiamento.
Partendo da queste premesse, in diverse città d’Italia già da
alcuni anni sono stati aperti Centri di ascolto per uomini
maltrattanti (CAM): realtà che operano presso servizi pubblici o sostenute da associazioni ed Onlus, con lo scopo di
accogliere e curare uomini autori di violenza. Anche nella
provincia di Palermo, a Bagheria, da alcuni mesi è attivo un
Centro gestito da una cooperativa sociale in rete con i servizi
e le agenzie sociali del territorio.
È sempre più diffusa infatti, tra operatrici e operatori che a
vario titolo si occupano di maltrattamenti e violenza alle
donne, la consapevolezza che l’intervento sul maltrattante
possa e debba essere parte integrante del progetto di cura
della vittima; oltre agli interventi a livello individuale e familiare, hanno assunto rilievo l’attivazione di percorsi psicoterapeutici di gruppo e la facilitazione di gruppi di auto-aiuto.
Ed è in questi ambiti gruppali che si dà la possibilità a chi si
sta impegnando per cambiare una parte importante della
propria vita di “ri-conoscere” le esperienze di violenza agita,
vederle e “attraversarle” raccontando la propria storia ed
ascoltando quelle di altri, riflettendosi per prenderne distanza: e non solo dalla violenza fisica, ma dalle infinite forme
di violenza psicologica ed economica, tanto più facili da mascherare e negare.
Alcuni operatori che da anni lavorano in questi Centri, come
Alessandra Pauncz e Giacomo Grifoni, hanno raccolto in volumi di cui sono autori anche diverse testimonianze di uomini maltrattanti impegnati in un percorso di uscita dalla
violenza: testimonianze che colpiscono sia per la tendenza
iniziale non a negare, ma a trovare giustificazioni al proprio
Riconoscersi uomini
e liberarsi
dalla violenza
Gisella Modica
Intervista a Francesco Seminara, uno dei fondatori del gruppo
“Noi Uomini a Palermo contro la Violenza sulle Donne”.
Come nasce il gruppo?
“Il gruppo che presto si costituirà in associazione nasce nel gennaio 2015 grazie a Beppe Pavan, di “Uomini in Cammino”. Iniziamo con incontri pubblici per approfondire alcune tematiche
legate alla violenza contro le donne e proseguire nel cammino
già iniziato in altre città italiane (Il Cerchio degli Uomini a Torino
e a Milano, Uomini in Cammino a Pinerolo, gruppo Livorno Uomini insieme, Uomini in gioco di Bari, Maschile-Plurale).
Chi sono questi uomini?
Giuseppe Burgio, professore di pedagogia all’università di
Enna; Augusto Cavadi, filosofo; Franco Di Maria, ex direttore Dipartimento di Psicologia di Palermo; Pippo Consoli,
presidente dell’Arvis (Associazione Arti Visive); Michele Verderosa, imprenditore; Mario Berardi, insegnante; Antonello
Provenzano, funzionario regionale; Ignazio Maiorana, giornalista. Ma già altri uomini iniziano ad aggregarsi.
Qual è stata l’idea originaria?
“La consapevolezza acquisita che la violenza contro le donne
sia una questione che riguarda gli uomini per il semplice motivo che sono gli uomini gli autori delle violenze. Un concetto
che sembra banale ma che viene regolarmente contraddetto
dalla realtà di ogni giorno in cui nei media e nelle manifestazioni pubbliche sono quasi sempre le donne ad occuparsi di
episodi di violenza”.
Il concetto non è affatto banale, vuole approfondirlo?
“C’è un legame stretto fra identità maschile e violenza per mo-
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Fotografia di Giulia Mariani, Catania, 2016
dei maschi grazie all’utilizzo della mostra fotografica “Riconoscersi Uomini-Liberarsi dalla Violenza” realizzata da “Maschile Plurale” e “Officina”.
La mostra, riprodotta con la collaborazione di Pippo Consoli, inaugurata alla Real Fonderia alla Cala e successivamente a Palazzo delle Aquile, propone 13 set di vita
quotidiana che ritrae uomini e donne in situazioni di violenza o di conflitto rivissute attraverso il dialogo e la comprensione reciproca. La mostra è stata utilizzata anche
nell’ambito di un workshop presso il CISS con studenti di
sociologia dell’Università di Palermo, all’I.T.I Alessandro
Volta e al Finocchiaro Aprile. Particolarmente interessante
è stata l’esperienza al liceo Meli con la collaborazione della
Professoressa Isabella Albanese dove abbiamo dato corso a
brevi rappresentazioni teatrali. Gli studenti interpretavano
scene delle foto in cui il conflitto si risolveva prima attraverso dialogo e comprensione e poi in una chiave negativa,
mettendo in evidenza l’esplosione di violenza e rabbia da
parte dell’elemento maschile.
Con l’Ufficio Scolastico Regionale abbiamo organizzato un
concorso fotografico fra tutte le scuole secondarie siciliane
sul tema della violenza sulle donne.
Le foto premiate faranno parte di una nuova mostra fotografica che è in corso di produzione.
Da poco infine abbiamo avviato un percorso di autoformazione del gruppo ma aperti a chiunque sia interessato con
l’obiettivo di interrogarsi sulle relazioni con l’altro sesso partendo dalle esperienze personali.
Una sorta di autocoscienza dunque?
Più che autocoscienza lo definirei un percorso di verifica
sulle nostre relazioni col sesso femminile al fine di delineare
meglio il nostro essere maschi in relazione al potere e alla sessualità.
Prime impressioni?
Il percorso è solo all’inizio e si sta appena delineando una
traccia sulla quale proseguire.
Per esempio?
Per esempio le contraddizioni che sorgono in ciascuno di
noi in relazione al potere e alla sessualità.
tivazioni essenzialmente legate alla costruzione culturale dell’identità maschile consolidatasi nel corso dei secoli, e in particolare: il modello patriarcale e la maschilità ideale. Il potere che
l’uomo detiene nei confronti delle donne e che giustifica vessazioni, sopraffazioni e spesso anche violenza nei confronti delle
donne, elemento che contraddistingue il patriarcato, consente
ancora oggi una supremazia in molti ruoli lavorativi dove la
donna non è in posizione paritaria. Come scrive Giuseppe Burgio, l’attitudine alla bellicosità viene considerata un ingrediente
essenziale della maschilità non per motivi biologici o genetici
ma per effetto della costruzione sociale e culturale dell’identità
maschile. Di conseguenza il maschio spesso è allo stesso tempo
autore e vittima di violenza come accade anche negli episodi di
bullismo diventati sempre piu frequenti. L’educazione della famiglia svolge un ruolo importante negando certi elementi del
carattere come la gentilezza o l’affettività considerati più prettamente femminili. “Non piangere perché sei già un uomo” è
una delle frasi ricorrenti della nostra infanzia di maschi.
Mi parli delle attività finora intraprese
Il primo incontro pubblico è stato sul rapporto fra sessualità
e potere grazie al contributo di Augusto Cavadi; ne è seguito
uno su “Tratta e Prostituzione” con il contributo di Giuseppe Burgio, a seguito dell’assassinio di due giovani prostitute nigeriane, e l’incontro “Violenza e Attaccamento” sul
tema delle radici psicologiche della violenza sulle donne nelle
relazioni domestiche, relatore Franco Di Maria. Poi ci siamo
occupati di attività di sensibilizzazione e prevenzione nelle
scuole perché sono uno dei luoghi in cui si manifesta e al contempo si forma la cultura maschilista alla base dei fenomeni
di violenza sulle donne. Tengo a precisare che il nostro modello di comunicazione è alternativo rispetto a quello adottato dai mass media che, attraverso immagini di donne offese
o ferite, concentra l’attenzione sulla vittima e trascura il ruolo
degli autori delle violenze che vengono dipinti come “mostri”, lontani dal quotidiano. In tal modo si favorisce una
sorta di rimozione del problema nel maschio che così pensa
riguardi gli altri e mai se stesso.
Mi spieghi meglio questo modello.
Si basa sull’adozione di comportamenti alternativi da parte
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Mondo
Manifestazione
taciuta
Adriana Palmeri
“Non possiamo contare sugli uomini per creare la pace. Dobbiamo fare da sole. Fare la pace è una cosa difficile, richiede
un prezzo. Richiede di avventurarsi in luoghi che non avete
mai immaginato assieme alle vostre sorelle palestinesi. Vi farà
perdere amici e sacrificare la famiglia. Se non siete pronte,
fate un passo indietro”.
Queste le parole di Leymah Gbowee, pacifista liberiana e
Premio Nobel per la pace nel 2011, insieme a Ellen Johnson
Sirleaf e alla yemenita Tawakkul Karman, che non hanno scoraggiato le ventimila donne, laiche, religiose, di destra e di
sinistra, colone, musulmane, ebree e cristiane unitesi in un
cammino di pace verso Gerusalemme. Donne provenienti da
ogni settore della popolazione si sono messe in cammino
lungo un percorso di 200 chilometri, durato 14 giorni. La
marcia è stata organizzata dal movimento Women Wage
Peace, nato due anni fa grazie all’impegno di quaranta donne
israeliane, madri di soldati che stavano combattendo la
guerra di Gaza nel 2014. Donne vestite di bianco, artiste folk
israeliane e palestinesi, ebree e musulmane insieme ad altre
donne di ogni religione suonavano e cantavano allegre canzoni in arabo e in ebraico, creando un’atmosfera festosa,
quasi inebriante. Un gruppo di donne batteva il ritmo con i
tamburi, altre suonavano chitarre nonostante le alte temperature e sotto un sole cocente. Molte donne palestinesi sono
state abbracciate da donne israeliane appena scese dall’autobus, altre hanno formato cerchi di danze improvvisate e
poi tutte insieme hanno attraversato il deserto del nord di
Israele fino a Kfar Yehoshua nella valle Jezreel. La Marcia è
terminata il 19 ottobre scorso con una grande protesta davanti alla residenza del presidente e del primo ministro israeliano. Insieme hanno chiesto che le donne siano integrate nel
gruppo di governo oltre a formare un dipartimento per la
pace nell’ufficio del primo ministro al fine di riattivare le negoziazioni con i palestinesi. Siamo tutte donne – dicevano le
marciatrici – abbiamo scelto coraggiosamente di intraprendere una strada che non è ancora stata percorsa. Una strada
di speranza, amore, luce, dignità, inclusione e riconoscimento reciproco.
“Non ci fermeremo finché non sarà raggiunto un accordo
politico che porterà a noi, ai nostri figli e ai nostri nipoti un
futuro sicuro”.
Il messaggio che hanno voluto trasmettere queste donne è
molto serio, molto potente e ha una grossa valenza politica,
eppure la notizia di questo evento ha solo sfiorato i media.
Nonostante la manifestazione sia stata ripesa dalle agenzie
di stampa di tutto il mondo che hanno filmato il loro cammino, le loro danze, la loro musica, la notizia è giunta a noi
in maniera blanda attraverso i social. Nonostante l’entusiasmo espresso da tanta gente, nonostante i “like”, l’evento è
stato relegato e considerato alla stregua di un fenomeno
bello ed eccentrico, ma non degno di troppa importanza e
la notizia non è nemmeno stata trasmessa nei telegiornali.
Cosa è accaduto? La Pace non fa scoop? Oppure perché
sono donne!
Manifesto diffuso in Italia durante la Prima Guerrra Mondiale
“Fare la pace è una cosa difficile, richiede un
prezzo. Richiede di avventurarsi in luoghi
che non avete mai immaginato assieme alle
vostre sorelle palestinesi.Vi farà perdere
amici e sacrificare la famiglia. Se non siete
pronte, fate un passo indietro”.
“Non ci fermeremo finché non sarà raggiunto
un accordo politico che porterà a noi, ai nostri
figli e ai nostri nipoti un futuro sicuro”.
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
La vita è bella
Le combattenti
Marta Viola
Cosa succede quando si
delle persone da cui prima
rompono gli equilibri quofuggivo. Da quando la mia
tidiani, per quanto bizvita ha preso questa piega
zarra e personale possa
ho incontrato donne deteressere la vita di ognuno di
minate che riconoscono le
noi? Generalmente la maloro fragilità e ne fanno la
lattia irrompe nella vita
loro forza.
delle persone come un fulSi guardano allo specchio e
mine a ciel sereno, non
si riconoscono. Ho inconbussa neanche alla porta e
trato anche bambini, purla si ritrova a tavola come
troppo. Sorridenti in un
un ospite ingombrante per
modo spiazzante.
cui si aggiunge un posto a
Se ne vanno in giro con le
tavola controvoglia.
loro mascherine che coLa sopravvivenza agli
prono quasi tutto il viso.
eventi è data dalla capacità
Ma lo sguardo è sempre
di adattarsi e modulare le
vispo, non perde un colpo.
risposte adatte alla realtà
Coraggiosi e vitali, solo
in cui ci si trova immersi.
ascoltare le loro voci o
Qualunque essa sia, queguardarli trotterellare nei
sto è il punto cruciale. Le
corridoi ridimensiona la
persone resilienti sono
realtà e fa sentire stupide
Fotografia di Marta Viola, autoritratto, 2016
quelle che riescono a sfrutle convenzioni sociali che
tare al meglio le risorse che hanno per uscire da situazioni
ci ingabbiano e annebbiano la vista. Da quando mi hanno
drammatiche. Bianca, conosciuta durante il mio primo ricocomunicato la diagnosi, non sono più solo Marta con i miei
vero, mi ha raccontato che ha stretto amicizia con alcune
titoli di studio e le esperienze lavorative, ho anche una nuova
donne da quando si è ammalata.
etichetta che va ad aggiungersi alle preesistenti. Adesso, la
Hanno formato un gruppo su whatsapp per sentirsi, si chiacondizione di malattia ha spostato i riflettori su qualunque
mano le “Combattenti”. Mi era sembrato tutto così assurdo
cosa dica o faccia, soprattutto sui social network. Potrei pubquando me lo aveva raccontato. Allo stesso modo non capivo
blicare fotografie orrende e citazioni banali, avrei comunque
perché Lia, un’altra compagna incontrata in questa avvenfollower pronti a rendere evidente la loro approvazione. Aptura, continuava a ripetermi quanto fosse importante manpena viene postato qualcosa, si scatena l’inferno. Non solo
giare in quella condizione. Lo avrei capito dopo, e ancora
pubblicamente, piovono anche messaggi privati con richieste
adesso sono grata ai suoi consigli e la ascolto nella mia mente.
di aggiornamento sulla condizione clinica, sulla spiegazione
L’empatia è un’altra caratteristica importante, di cui forse la
della malattia, sul mio stato mentale. Poi si torna al silenzio,
nostra cultura risulta essere sempre più sfornita. Semplifitutto tace. La vita è troppo veloce per soffermarsi su cosa recando ai massimi livelli, è il grado di immedesimazione che
almente comporta una malattia. Non solo ci si dimentica, ma
ognuno di noi può sviluppare nei confronti dei suoi simili.
neanche ci si pone qualche interrogativo che potrebbe aliNel percorso degli ultimi mesi, quando è finita la mia quotimentare un senso di consapevolezza. Qualcuno si chiede mai
dianità caotica ed è iniziata l’odissea ospedaliera, mi sono rise può fare qualcosa di più, oltre a mettere un like? A volte
trovata vicino persone sconosciute che mi hanno sorretto e mi
possiamo fare tanto con un gesto semplice, ma non accade
hanno offerto la loro esperienza per aiutarmi a capire le parole
perché significherebbe uscire di casa, fare qualcosa di diverso
incomprensibili pronunciate dai medici. Mi chiedevo perché
dal solito, informarsi su un tema che fa paura. Dobbiamo scolo facessero, io me ne stavo sempre sulle mie, non chiedevo
modarci. Alla fine il motivo di tanto interesse della gente nei
niente a nessuno. Quasi avrei voluto solo essere lasciata in
confronti di una persona malata è dato dal fatto che siamo
pace. Poi mi sono ritrovata a comportarmi allo stesso modo,
dominati dalla paura di soffrire. Per questo guardiamo sbicercando di rendermi utile se qualcuno ne aveva bisogno.
gottiti il coraggio di chi affronta una situazione difficile. In un
Eravamo tutte in difficoltà, lo siamo ancora, lo saremo semmondo che corre veloce e dove tutti sono impegnati a essere
pre probabilmente. Ma, riconoscendo la sofferenza, appena
belli e felici, non c’è spazio per il dolore fisico né tantomeno
ci si sente meglio si cerca di far qualcosa. E la verità è che si
psicologico. Il male di vivere oggi è questo senso di ripugnanza
fa molto, perché l’energia ritrovata è galvanizzante. Tante
verso la morte che fa chiudere gli occhi e tappare le orecchie,
volte, durante le “sessioni di dolore” come le chiamo, ho
portando a pronunciare frasi di circostanza. Basterebbe prenpensato alla sofferenza ingiustificata che affligge in modi didere di nuovo una posizione, vivere autenticamente le situaversi l’umanità. Pensiero inutile forse, ma mi ha portato ad
zioni e riconoscerne i suoi aspetti di bellezza così come quelli
amare di più gli altri e a riconoscere ed accettare la vicinanza
di sofferenza: ridare senso alla parola “azione”.
7
mezzocielo n° 154 inverno 2017
Bullismo e Young people
Una mattina come tante a Pisa
Stefania Difilippo
Sembrava dovesse essere una mattina di Novembre come tante, una di quelle in cui il sole che entra dalla finestra sembra presagire
una giornata calda quando, in realtà, così non è. È mezzogiorno e sto per avviarmi verso la mensa universitaria attraverso la calca
di liceali appena usciti da scuola, ad un certo punto mi ritrovo in Piazza dei Cavalieri, esattamente al centro di Pisa (non in un vicoletto buio e poco illuminato di una cittadina di campagna), dove uno strano trio attira la mia attenzione, mi avvicino cercando
di capire qualcosa in più. Una ragazzina che avrà, ad occhio, tra i quattordici e i quindici anni è per terra, un’altra, che sembrerebbe
essere una studentessa della stessa scuola è china su di lei e ride, in un primo momento penso la stia aiutando a rialzarsi e che
stiano ridendo insieme, ma c’è un’altra ragazza immobile che le osserva ferme, ridendo e la cosa comincia ad insospettirmi. Mi
avvicino e noto, con stupore, che quella che poi scoprirò essere una bulla, non sta aiutando la compagna ma vuole solo continuare
a strattonarla, riuscendoci e che avendole tolto sia il giubbotto che lo zaino si allontana dicendole che dovrà andarsi a riprendere
ciò che è suo. Mi fermo e penso a cosa fare, sono due ragazze più piccole della mia età e fisicamente meno forti, quindi non mi
potranno fare niente, almeno spero, una parte di me vorrebbe farsi i fatti propri, l’altra, quella che predominerà, mi impone di
intervenire e allora prendo il coraggio a due mani e dico in modo perentorio di restituire lo zaino, cosa che la ragazzina fa senza
fiatare continuando, però, a tenere una manica del giubbotto fino a quando non le dico di restituire anche quello. Mi allontano
dalla scena ringraziando che sia andato tutto bene, anche se non riesco a capacitarmi di come sia possibile che altra gente, anche
più adulta di me non abbia sentito il bisogno di fare qualcosa e se lo ha sentito come ha potuto non ascoltarlo. Mi chiedo cosa
avrei potuto fare se al posto di tre ragazze ci fossero stati tre uomini alti il doppio di me. Mi chiedo cosa noi giovani, non più adolescenti ma nemmeno ancora del tutto adulti, potremmo fare, in che modo si potrebbero prevenire, nei limiti del possibile, scene
del genere. Poi penso che, forse, ho migliorato un po’ la giornata di un altro essere umano e anche se, quando ripasso da quella
piazza, poco dopo, mi guardo ancora intorno perché ho paura che le “bulle” possano essersi indisposte nei miei confronti e possa
trovarmele davanti arrabbiate e, magari, in un numero maggiore rispetto a prima. Superato quell’accenno di paura mi sento bene
e credo sia questa la cosa che conti di più.
A portata di click
Federica Consiglio
La verità è che la vita quotidiana sa essere terribilmente noiosa. Con le sue realtà scomode, la sua monotonia di ogni
giorno, le sue imperfezioni; la sua fredda imparzialità all’interno della quale ognuno è un nome, un corpo caldo sullo
sfondo di una città immobile, un colore in mezzo alla folla.
Così chi si trova intrappolato tra un severo “abbastanza
grande” e un condiscendente “troppo piccolo”, nel tortuoso
passaggio tra i quattordici e i vent’anni, ritrova a chiedersi
quale sia il momento propizio per ergersi da quella massa informe, come i protagonisti dei romanzi più avvincenti. È una
delle tante opportunità che Internet offre. Grazie all’uso dei
social network, difatti, questa rete diventa la proiezione di
una vita perfetta, irreale, in cui vengono salvati solo gli scatti
migliori, le frasi più poetiche, le battute di spirito, i momenti
più cari; ciò che oggi viene chiamato comunemente “virtuale”. Questo è il riscatto: un mondo apparentemente minuscolo, contenuto nel display di un cellulare, circondato da
una fioca luce bianca, in cui i sorrisi vengono sostituiti dai
“mi piace” e gli apprezzamenti da commenti sgrammaticati
di profili sconosciuti; sembra qualcosa di troppo irreale, per
essere pericoloso. Eppure, proprio dietro questi scudi, si celano anche le ombre di questi piedistalli; uomini e donne
senza nome, che trovano un pretesto per far crollare quella
facciata perfetta, costruita foto dopo foto, colpendo ben al
di là della semplice barra dei commenti, molto più in profondità di quello che una singola immagine possa far pensare.
Il cyberbullismo è diventato un termine tremendamente
noto nella nostra epoca; e ogni confidenza, rivelata spensieratamente nella propria pagina, posta sotto gli occhi di tutti
i passanti virtuali, viene derisa, attaccata, profanata dalle angherie di mani senza nome e di parole senza amore. In un
mondo in cui tutto è connesso e condiviso, sappiamo tutto,
e subito; la vita virtuale e la vita reale si confondono, fino a
che i commenti scritti su una tastiera diventano una reputazione scolastica, la condivisione di un video fatto al momento
sbagliato si trasforma in un biglietto da visita; e ciò che rende
veramente letale questo sistema, è l’impossibilità di rimuovere tutto ciò che diventa virale.
L’accanimento su Internet lascia le sue indelebili tracce nella
fitta rete della tecnologia moderna, costruita con una tale
maestria da far sì che tutto venga esteso al raggio più ampio
possibile di persone, e che nulla venga dimenticato; e per la
legge di questa scacchiera di luci ed ombre, quelle mani senza
nome non verranno mai accusate. La colpa è, invece, di
quella vittima. Colpa di quel vestito troppo succinto, colpa
di quel trucco sui suoi occhi appannati, colpa di quell’alcool
nelle vene, del suo sorriso ammiccante in quelle fotografie,
della sua imprudenza, della sua sfacciataggine. Colpa sua,
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Fotografie di Lise Sarfati, She, Oakland, 2011
che voleva diventare la protagonista di una storia tutta sua.
Eccola sulle labbra dei commentatori più spietati, sotto decine di occhi maliziosi, oggetto di risate sconce, fredde e
vuote, a portata di un click. Uno spettacolo gratuito, che lei
non aveva mai chiesto, né voluto; è un esito ben diverso da
quello che avrebbe immaginato, un capitolo non programmato di una storia che doveva essere una favola, e invece si
trasforma in un incubo.
Niente restrizioni, nessuna protezione; è la regola di Internet,
il patto che viene sancito tra la piattaforma e chi ne usufruisce, che permette di esprimersi senza censure, ma anche di
essere attaccati da qualunque lato, senza esclusione di colpi.
Chi nasconde le proprie lacrime dietro un sorriso per un
obiettivo, chi subisce l’ingiustizia della vendita del proprio
volto alla fame vorace della condivisione, e tace, diventa la
vittima di un bullismo moderno, spietato e sconfinato.
Il cyberbullismo è uno dei problemi più attuali della mia generazione, una delle trappole più letali dell’era moderna; un nemico senza volto e senza nome, una barbarie priva di barriere,
che minaccia e soffoca chi è troppo spaventato per parlarne.
La rete, tra i quali si intersecano anche i blog e i social network,
può essere sicuramente la cresta di un’onda per gli emergenti
protagonisti della propria vita; ma puoi anche caderci e rimanervi appiccicato, come alla sottile rete di un ragno.
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Un libro e un documentario
Le donne oggi e il percorso
millenario dell’idea di libertà
Valeria Andò
esplicito nell’attribuire alla donna la responsabilità della caduta della condizione umana, condannata alla fatica del lavoro e del parto. Nell’età moderna, attraverso il pensiero di
Locke, la dialettica servo/padrone di Hegel, fino alla riflessione di Karl Marx, il lavoro, anziché essere ostacolo alla libertà, viene invece inserito nella sua stessa sfera. E la libertà
politica dei Greci, intesa come valore comunitario, ottenuta
al prezzo della propria autonomia nel privato, cede il passo
alla nozione di libertà individuale col sacrificio della sovranità politica.
E le donne? L’Autrice attraversa in pagine efficaci la storia
del femminismo e delle tappe che hanno portato alla conquista della maternità vissuta come libera scelta e non come
unico destino biologico, alla autodeterminazione del proprio
corpo e della propria sessualità, soffermandosi sulle principali
correnti di pensiero, dal femminismo della differenza, francese e italiano, alla teorie americane del gender. Ritornando
dunque alla domanda iniziale sul senso della libertà delle
donne oggi, Francesca Izzo risponde che la costituzione duale
del genere e la intrinseca struttura relazionale del soggetto,
evidente nella maternità, trasforma il limite, rappresentato
dall’altro, in inedito strumento e veicolo di libertà: “nessun
essere umano può considerarsi libero, senza essere responsabile verso l’altro”. La dimensione della responsabilità e della
cura dell’altro non solo non pone un vincolo ma orienta la libertà all’interno di un orizzonte etico, nel quale il potere generativo di un corpo non può e non deve essere confuso col
diritto soggettivo a disposizione di un individuo. Questa la risposta che è lecito leggere tra le righe, espressione di un posizionamento politico ancor più importante in un momento
di accesi dibattiti sull’uso ‘libero’ del proprio corpo.
Un libro intelligente e stimolante l’ultimo di Francesca Izzo
Le avventure della libertà. Dall’antica Grecia al secolo delle
donne. Il libro prende le mosse da una domanda sul presente:
come può declinarsi oggi la libertà delle donne quando almeno formalmente vengono loro riconosciuti diritti sociali,
politici e civili, e soprattutto quando le nuove tecniche sembrano avere decostruito le barriere biologiche del corpo?
Per rispondere a queste domande l’Autrice compie un ricco
e documentato percorso che attraversa gli snodi essenziali
che hanno scandito in occidente lo sviluppo dell’idea di libertà. La Grecia antica costituisce la prima tappa, dove la
nozione di libertà, eleutheria, ha avuto origine, assieme a una
interpretazione che rimase valida non solo nel corso dell’antichità, ma che fu anche ripresa in età moderna nel pensiero
di Nietzsche e Hannah Arendt. La libertà greca fu cioè nozione ‘comunitaria’, nel senso che apparteneva al cittadino,
membro della comunità politica, che esercitava il suo diritto
alla partecipazione diretta e attiva alle scelte fondamentali
della vita pubblica, quali la pace e la guerra, nonché le leggi
e gli assetti istituzionali. Ma per fare questo il cittadino doveva essere ‘libero’ dal lavoro e da tutto ciò che comportava
la produzione e riproduzione della vita, del bios. Se il lavoro
era compito degli schiavi, la riproduzione era il precipuo
compito delle donne, il loro unico destino sociale. Nella
Grecia antica dunque la libertà era strutturalmente estranea
alle donne che, escluse dalla politica, vivevano sotto costante
tutela giuridica, del padre o del marito. Nonostante la vistosa rivoluzione etica che il cristianesimo ha comportato,
tuttavia per le donne la possibilità di accedere al mondo divino era condizionata dall’elisione della loro differenza e
della loro sessualità. Il racconto biblico della Genesi è infatti
Un documentario sulla lotta
di una poetessa tamil
A tredici anni, con il primo mestruo, Salma viene rinchiusa in casa, destinata come moglie ad un uomo che non ama. Dalla casa potrà
uscire soltanto con il matrimonio. La ragazza, che invece vuole continuare a studiare, rifiuta il matrimonio per otto lunghi anni. Senza
un libro, senza giornali se non quelli che avvolgono la spesa della madre, trascorre il suo tempo in una stanza semi buia scrivendo su
tutti i pezzetti di carta che trova, inclusa quella igienica, i suoi pensieri di reclusa e di giovane donna. In qualche modo, grazie alla
madre carceriera, questi pezzi di carta arrivano tra le mani di un editore. Intanto Salma si è arresa ed ha sposato l’uomo assegnatole.
L’editore vuole conoscerla. Le poesie di Salma, donna indiana di religione musulmana, sono belle, coraggiose, devono essere pubblicate.
Naturalmente i problemi con il marito non mancano. Sono ancora anni di lotta, deve convincere anche la gente del villaggio che una donna
non è soltanto figlia moglie madre. Un documentario della regista inglese Kim Loncillotto, racconta la sua storia, con interviste e documenti.
Un documentario delicato in lingua originale, con sottotitoli in inglese dove è la stessa Salma a raccontare la storia di Salma, poetessa tamil
ormai molto nota anche come presenza politica. La telecamera della regista esplora con discrezione il mondo di Selma, incontra le donne,
il padre, il marito, la madre, le donne del villaggio, tutti coloro che in qualche modo hanno tentato di tenerla chiusa in casa, di toglierle
autonomia, di rimetterle il velo in testa. Selma rimane nel suo villaggio, viene eletta anche come consigliera comunale, raccoglie stima,
Alla fine del documentario un giovane nipote ancora insiste, ma con dolcezza: “Mettiti il velo, le dice, gli uomini ti rispetteranno di più”.
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Diecirighe
Francesca Traina
Resta la voce. La declinazione di parole esatte ed ubriache, disossate e risolte nei mai, nei
sempre d’una grammatica di sale. Ecco, mi sdraio sul ponte della dimenticanza per ricordare
l’amore. Passano da qui senza fermarsi. L’andatura scoscesa e menzognera d’un sogno sfuggito al bisbiglio dei confessionali. Ti chiedo di urlare con voce di conchiglia e rombo di
marea. Ti chiedo di marciare, di accendere un fuoco se precipita la notte sulla tua schiena
nuda. Ti chiedo di cantare come fosse per te sola o per la figlia che non hai voluto. Non dirlo
quell’addio che freme sul bordo dei rosoni. Lascia che l’argot delle stelle tracci la via del pettirosso ma non scordarti di te, del tuo corpo che snoda le stagioni una ad una e resta infine
a presidiare il tempo. Non scordarti di te tra steli e nenie. Vai e vola nelle contentezze, nella
sovranità del desiderio perché – anche nelle bufere – si sperda ancora il cuore.
mezzocielo
o ci salverà
Fotografia di Shobha, 2016
Teatro
Il lungo percorso di Emma
Egle Palazzolo
Più volte, in queste nostre pagine, abbiamo detto di Emma Dante.
Perché il fatto che “m’Palermo”, Emma ci sia, è una gran bella cosa.
Con lei e con un teatro nel quale, da più di due decenni ormai, ha investito
tutto il suo impegno, – dalla palestra abbandonata dove ha lavorato per anni,
ai successi ottenuti oltre le mura della sua città – ma con la voglia mai dismessa di tornarci a lavorare, con la sua ferma speranza che a Palermo il teatro non muoia, forse è già tempo di fare i conti.
E sono tutti conti in attivo. Perché ci sono i suoi testi, la sua scuola di teatro,
la convinzione che sul palcoscenico gesti e suoni nuovi o genialmente articolati, movimento liberatorio del corpo possano farsi rappresentazione viva
di un mito da sempre accaparrato dalla memoria o altrettanto di un presente
che si riflette, senza pudori né maschere, tra lacerazioni, sfrontatezze e coraggio.
Ma a Emma drammaturga, regista, autrice, come sempre si finisce col fare a
fronte di un artista, non è inutile tener d’occhio quel che lei è come persona,
nella sua umanità, nelle sue tappe.
Una donna che non tradisce e non si tradisce e che in ogni caso ... non la
manda a dire.
Di fatica per farsi conoscere e apprezzare da chi guarda uno spettacolo senza
remore o riserve, ne ha fatta tanta.
...Milano, Verona, Parigi, Mosca, Spoleto …
Oggi, ritorno a Palermo. Il suo è il nome di apertura nella stagione del
“Biondo”, e sta per inaugurare quella del “Massimo”, dove un calendario
fittissimo offre alla città splendide occasioni tra il tradizionale e il nuovo, con
la sua versione del Macbeth.
Emma è proprio nel suo “bel mezzo del cammin” ed è già in grado di collocare dall’inizio a ora ogni passaggio.
Se proviamo a ripercorrere quel che abbiamo visto di suo, i titoli sono tanti
e vale citarli quasi tutti. Dopo “m’Palermo” che è del 2001, così come li ricordiamo arrivano Carnezzeria,Vita mia e poi Medea. A seguire: La scimia,
Mishelle di Sant’Oliva, Festen, Le pulle, La trilogia degli occhiali, ed altro
ancora. Molto discusso, ma certo indimenticabile, “Cani di bancata”: il velo
da sposa di Mammasantissima che si trasforma nella tavolata immensa dove
banchettano gli affiliati mafiosi.
Poi ci sono i suoi libri: favole, come quella del pesce cambiato, Anastasia, Genoveffa e Cenerentola; Via Castellana Bandiera da cui venne fuori un film
meritatamente apprezzato.
Ma una fertile fonte cui attingere restano per Emma i miti di una grecità che
come un morbido calzino ci ritroviamo a calzare. Non fa torto all’assunto,
ma con il suo “libero adattamento” e soprattutto con la sua creatività di
scena, ci intriga e ci trascina.
Come per Odisseo che è il più recente e, dobbiamo dirlo, il più compatto,
intenso e mirato. Forse l’Ulisse, cui Emma non fa sconti, ma che ripropone
in una umana, fragile, sorniona identità, ci è più simpatico di quello che nelle
tragedie greche aveva più volte la meglio.
Con leggerezza, con ironia, con un impatto scenico laborioso e gradevolissimo abbiamo rivisitato i personaggi di Omero.
Alla prossima, con Le Baccanti, Emma saprà trarre, con la sua sigla personalissima, ciò che il mondo classico ci ha lasciato come non deteriorabile eredità.
E mentre aspettiamo curiosi ci fa piacere ricordare che è di solo qualche
anno fa una delle più toccanti e personalissime opere teatrali, “Le sorelle
Macaluso”, che ricollocano Emma “m’Palermo” dritta dritta.
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
“Basta guerra, basta rabbia,
noi quarantenni vogliamo sorridere”
Rimanere a Palermo con le difficoltà che il sud comporta, perché, diciamocelo, Palermo non è Milano, anche se l’una
e l’altra sono due grandi città italiane, è stata una mia precisa scelta.
Qui volevo maturare, dare la mia forza artistica. E credo che l’artista debba misurarsi con quanto di bello e di brutto
gli sta intorno. L’arte ti vuole nudo tra successi e fallimenti, ti chiama, si veda o no, a guardarti dentro di continuo.
Sento che Palermo scandisce la mia identità e quel che è straordinario mi fa sentire a contatto col mondo.
Emma Dante
Fotografia di Clarissa Cappellani, le sorelle Macaluso, 2013
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Teatro
Lina Prosa
e il suo teatro: dalla Sicilia al mondo
intervista di Simona Mafai
Attraverso quali ali, di colomba o internet, la piccola migrante di Lampedusa Beach è arrivata in Sud Africa? Non si
sa come, ma vi è giunta. È atterrata in una scuola di teatro
frequentata da giovani dei quartieri poveri di Johannesburg,
E nelle mani della regista, Raissa Brighi, le sue parole sono
state moltiplicate nelle voci di ben diciotto attori.
Ma come è possibile trasformare un monologo in uno spettacolo con tanti interpreti? – chiedo a Lina, davanti a una tazza
di the, in una casalinga intervista.
Ho sempre considerato il monologo un discorso aperto – mi risponde – Il dialogo è un rapporto che si chiude a due; il monologo è infinito.
Lo spettacolo è stato poi rappresentato al Festival dell’Università della capitale, Pretoria, ed ha vinto il premio Per le
arti e la giustizia sociale. Lina Prosa lo ha visto solo su internet, ma attraverso skype ha parlato a lungo con la regista e
gli attori e spera di poterli far venire in Europa (i ragazzi recitano in inglese).
Quest’anno Lina è stata impegnata nella scrittura di un’opera
commissionatale dal Teatro di Kolmar, sulla vita e le passioni
di una sociologa turca, Pina Select, incarcerata per due anni
ad Istanbul, ed ora residente in Francia. Lina ha avuto una
serie di incontri diretti con lei, in base ai quali ha scritto il
dramma Buio sulle radici (Éclats d’ombre, in francese) che è
stato rappresentato a novembre sia nel Teatro di Kolmar che
nel teatro di Strasburgo.
Affronti sempre temi di lotta – osservo –. Sì. Io credo in un
teatro che sappia svegliare le coscienze – mi risponde.
Con questa ottica, facciamo un breve viaggio all’indietro sulla
sua vita. Una specie di favola, commenta lei stessa. Si parte
dall’ambiente chiuso di Calatafimi, suo luogo di nascita, dove
non c’era neppure una libreria; incontra il teatro alle rappresentazioni di Segesta; individua la propria vocazione; organizza una scuola di teatro a Monreale; si immerge nella
lettura dei tragici greci; collabora alla messa in scena di Assalto al cielo (Pentesilea), del regista Salmon – (precocemente
scomparso, cui oggi è dedicato un padiglione dei Cantieri
Culturali della Zisa a Palermo); scrive il dramma Filottete –
rappresentato sempre ai Cantieri, con la regia di Cauteruccio
e le musiche originali di Sollima; poi le Baccanti, rappresentato al Teatro Garibaldi di Palermo, con la regia di Massimo
Verdastro. Arriva poi “l’esplosione” di Lampedusa beach. Il
suo atto unico, su una giovane migrante che annega mentre
tenta di raggiungere l’Italia, viene tradotto in francese dallo
scrittore Manganaro; quindi incluso in una lista di testi sottoposti alla lettura del pubblico della Comédie Française. Prescelto dai lettori, dopo una pubblica lettura-spettacolo, viene
rappresentato nel prestigioso teatro, diretto – per la prima
volta nella sua storia – da una donna: Muriele Majette. Lampedusa Beach e i due testi successivi che insieme compongono
La Trilogia del naufragio sono stati rappresentati, singolarmente o insieme, in moltissimi teatri: dal Teatro Biondo di
Palermo, al piccolo Teatro di Milano, a Barcellona, a Pittsburgh, a Zagabria.
Dai primi esperimenti di teatro a Monreale ad oggi – ne è
passata di acqua sotto i ponti: nell’attività artistica e nella vita
di Lina. L’incontro con Anna Barbera, amica e collaboratrice
da oltre venti anni; il tumore al seno e l’operazione, dalla cui
esperienza nasce l’altra grande creatura di Lina Prosa: Le
Amazzoni, centro di iniziative culturali e scientifiche, per la
prevenzione, la condivisione, il superamento delle conseguenze della malattia tramite l’amata pratica teatrale. È una
realtà originale che ha coinvolto e coinvolge centinaia di
donne a Palermo e che ha avuto numerosissimi ed autorevoli
riconoscimenti sul piano internazionale: e che non ha interrotto, ma arricchito di nuove emozioni il suo lavoro creativo.
Le Amazzoni... forse volutamente, forse per un regalo del
caso, Lina Prosa – andando in Brasile per condurre una serie
di laboratori teatrali – si è ritagliata uno spazio di tempo per
recarsi in Amazzonia, quasi per incontrare le antenate delle
Amazzoni, in cui si vorrebbero immedesimare le donne operate al seno.
Vagabondando tra villaggi e foreste, Lina Prosa ha incontrato
e parlato con moltissime donne. Donne brasiliane, straordinarie, fortissime – si entusiasma Lina nel descriverle – donne
che hanno subito e subiscono sfruttamento e violenza, ma vivono sempre a testa alta, con indescrivibile energia. Le loro radici mitiche e religiose sono profondamente diverse dalle
nostre, ma pure ho trovato qualche comunanza con i miti greci
e la nostra cultura.
Tre giovani attrici brasiliane hanno fatto parte del cast dell’ultimo spettacolo di Lina Prosa, Troiane. Variazioni con
barca, presentato a Palermo per il 20° anniversario del progetto Amazzoni.
Così Lina Prosa, donna semplice, senza uffici stampa od
agenti letterari, ha lanciato dalla Sicilia, attraverso la rappresentazione del dolore, un arcobaleno di pensieri, emozioni ed
arte – che ha collegato tra loro donne e uomini di ogni parte
del mondo.
Il Ministero della Cultura francese le ha conferito il settembre scorso il titolo e la medaglia di Cavaliere delle Arti e delle
Lettere.
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Teatro
Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo, 2017
SCRIVERE PER CAPIRE
Da drammaturga penso di dare un qualche contributo per capire meglio l’umanità, noi stessi.
Mi piace pensare che la mia scrittura possa aiutare a capire che scegliere “diversamente” si può. Io dò al teatro un alto valore politico. Amo, quindi, prendere una
posizione insieme al personaggio, perché farlo in teatro significa farlo dinanzi alla
società, al pensiero comune.
Questo può aiutare altre donne o altri uomini a prendere posizione. A cambiare.
Lina Prosa
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Arte
Topazia Alliata:
arte e libertà
cilia aristocratica e bigotta, conservatrice e provinciale. Con
solido buon senso ne accantonarono ben presto i titoli considerandoli un’anacronica sopravvivenza nei tempi nuovi
della democrazia e dell’uguaglianza”.
E che dire della madre di Topazia? Enrico a Parigi aveva incontrato Amelia Ortuzar y Olivares – detta Sonia – giovane
cilena bellissima e dotata di una straordinaria voce di soprano. Si sposarono.
E col loro matrimonio lo spagnolo si aggiunse alle lingue di
casa Alliata (oltre al siciliano, l’italiano, il francese, l’inglese)
e la genealogia familiare si arricchì di un apporto di sangue
ispano-indio probabilmente risalente a Mancu Capac, primo
imperatore Inca.
Questo dunque il contesto in cui, tra Villa Valguarnera a Bagheria e Palazzo Alliata a Piazza Bologni a Palermo, si muove
la giovane Topazia (nata nel 1913) che quasi ancora adolescente, iscritta al liceo artistico, inizia a frequentare il Corso
Libero di Nudo all’Accademia di Belle Arti di Palermo (allora riservato rigorosamente solo agli studenti di sesso maschile) con i compagni Renato Guttuso, Nino Franchina,
Ezio Buscio, Piera Lombardo, Lia Pasqualino Noto, Giovanni Rosone. Loro maestri furono in quegli anni Pippo
Rizzo, Archimede Campini, Mario Mirabella, Ettore Maria
Bergler. È un dipinto del 1931, “Donna alla fonte”, la prima
opera di Topazia che si incontra nel percorso della mostra.
Seguono i ritratti di Topazia dipinti dai suoi amici artisti,
quello del ’31 – “Giovane donna ammantata” – di Renato
Guttuso (che illustra la copertina del già citato libro di Toni
Maraini), quelli del ’30 di Michele Dixit e di Piera Lombardo. Nel 1932 così scrive Renato Guttuso della pittura di
Topazia: “Un’artista d’avanguardia. Alla sua entrata in combattimento la pittrice abbraccia decisa quella corrente di idee
della pittura moderna che porta alla rappresentazione
astratta di emozioni, sentimenti, stati d’animo. Autodidatta
in pittura, quest’artista, che ha ora 19 anni, si è fatta notare
nelle ultime esposizioni del Sindacato Siciliano Artisti, dove
le sue opere rivelarono la pensosa serietà con cui essa si accosta al mistero della pittura. In un nudo di Donna alla fonte,
allora esposto, si vedeva, dalla scrittura lunga, passionalmente femminile e modulata in variazioni appena percettibili, la tendenza di questa pittrice ad alleggerire la linea e a
spiritualizzare la materia. Abbandonata oggi completamente
la rappresentazione esteriore del mondo tangibile, Topazia
Alliata si è immersa in un mondo astratto e irreale del quale
tenta di fermare le vibrazioni. I suoi quadri vivono di forme
tormentate ed affinate fino all’impossibile, di linee sofferte
profondamente sotto l’apparente placidezza e semplicità dei
contorni, di idee, sensazioni totali e intense. Libera da influenze esteriori, la sua arte si collega per prossimità di intenzioni a quella dei più nuovi artisti”.
La posizione di Topazia e dei suoi amici artisti nei confronti
del regime fascista era molto critica. Ma mentre Guttuso,
Franchina, Pasqualino Noto e Barbera formarono nel 1934
il Gruppo dei 4 come formazione di artisti che operavano in
un clima “pienamente fascista”con la strategia di riuscire ad
operare “dal di dentro”del fascismo, Topazia organizzò nel
33 assieme allo scultore Domenico Li Muli la mostra al teatro
Massimo di Palermo “20 artisti siciliani” definita da Franco
Grasso come “la vera occasione d’incontro del gruppo di artisti antifascisti siciliani in una mostra indipendente dal sindacato fascista”. Topazia dimostrava di avere maturato
posizioni politiche indipendenti.
Mimma Grillo
Appassionante la mostra allestita – ad un anno dalla morte –
a Palazzo Sant’Elia a cura di Anna Maria Ruta.
Riduttivo solo il titolo “Una vita per l’arte”, perché tutta la
vita di Topazia viene fuori dalle varie sezioni in cui è articolata la mostra come un’avvincente e singolare avventura in
cui i percorsi della bellezza si coniugano sempre con i percorsi del pensiero, dell’intelligenza e della libertà. E del resto
è proprio lo straordinario contesto familiare in cui nasce e
cresce Topazia che viene tratteggiato nelle due prime sezioni
della mostra: i quadri delle zie Felicita e Amalia (allieve di
artisti del calibro di Ettore Ximenes, Benedetto Civiletti e
Mario Rutelli, frequentatori abituali di palazzo Alliata), gli
scritti del padre Enrico, Principe di Villafranca, Valguarnera,
Duca di Salaparuta, filosofo, uomo illuminato e libero pensatore, attento e responsabile proprietario della casa vinicola
Corvo di Salaparuta (– egli pensava che l’artefice del successo
fosse soprattutto il lavoro contadino e che la casa vinicola
doveva considerarsi pertanto il frutto della collettività –
scrive di lui Silvio Ruffino) fondata dal nonno Edoardo, ad
Enrico trasmessa dal padre Giuseppe, e che sarà poi trasmessa nel dopoguerra da Enrico a Topazia che la porterà
avanti tra tante difficoltà fino alla cessione nel 1959 alla Regione Sicilia. Negli anni della gestione di Topazia nasce il
Corvo bianco Colomba Platino (“Picasso e Braque avevano
disegnato la colomba della pace e per Topazia la colomba e
il bianco di quel vino riportavano un equilibrio con il Corvo
cosi’ nero...” – scrive Mario Farinella in un articolo del giornale L’Ora del 21.6.56 intitolato “La duchessa che ha inventato il bianco vino della distensione” ed esposto in una
bacheca della mostra).
Del nonno Enrico scrive Toni Maraini, figlia di Topazia, nel
libro “Ricordi d’arte e prigionia di Topazia Alliata” (citato
spesso nel percorso della mostra): “Per l’epoca e l’ambiente
da cui proveniva, Enrico, che ogni mattina si alzava all’alba
e percorreva tre chilometri di sentieri da Bagheria a Casteldaccia per occuparsi in tutta semplicità della casa vinicola,
era un uomo dei tempi nuovi. A torto alcuni lo hanno definito un nobile “eccentrico”. Questa è una etichetta che
troppo facilmente si concede a chi in Sicilia si distingue per
il suo particolare modo di essere. Enrico era soprattutto un
uomo di grande spessore etico le cui idee sembravano astruse
alla società feudale in cui era nato e a quella bigotta che lo
attorniava. Sotto molti aspetti era in anticipo sui tempi. Era
un animo universale e, a modo suo, moderno. Vegetariano e
salutista, aveva scritto uno dei primi libri italiani di cucina
vegetariana, il “Manuale di gastrosofia naturista”, che non
riduceva il vegetarianismo a una mera dieta, ma ne definiva
l’etica e la saggezza... Per lui che aveva alle spalle un albero
genealogico venerabile ma che nel dopoguerra votò per la
Repubblica, la questione della nobiltà si riassumeva in poche
parole: è nobile chi è nobile d’animo, e chiunque può essere
per natura e propria educazione nobile d’animo. Topazia, sua
figlia, non ha pertanto dato importanza alcuna alla questione
dei titoli nobiliari. Lei, e la sorella Orietta, criticavano la Si-
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Topazioa Alliata,
Autoritratto con piccozza, 1933
di Fosco, che in questo modo si guadagna il rispetto dei carcerieri.
Ma la cosa che più colpisce in questo diario è la forza con cui
Topazia cerca di ancorare dentro se stessa la bellezza, i suoi
principi di vita, nonostante tutto. Scrive il 24 gennaio 1944:
“Mi ricordo quando dipingevo sempre colonne – già allora
mi dicevano tanto – le ho sempre trovate simboliche di tutto
ciò che amo di più nella civiltà: pure, solide, pratiche, rotonde, eleganti – fini – delicate nella robustezza, solitarie ed
individuali benché aggruppate, accoppiate, allineate. La più
bella espressione dell’efficienza immedesimata a una bellezza
di arte pura. Come mi fa bene guardarle queste due colonne –
chiudono l’arco che le sovrasta – ti suggeriscono sensazioni
di sicurezza – stabilità, serena stabilità duratura, tutto ciò che
NON abbiamo in noi da mesi e anni... e dietro, il mare –
flusso e riflusso – l’eterno – il grande – il terribile-il dolcissimo, il consolante e tante volte spietato mare. VITA”. Dopo
il ritorno in Italia Topazia si stabilisce per alcuni anni in Sicilia,
si interessa alla politica separatista. Ma, soprattutto, dopo la
morte del padre Enrico, gestisce l’Azienda vinicola fino alla
cessione alla Regione Sicilia. Poi si trasferisce a Roma. Dal ’58
al ’63 tiene aperta la Galleria Trastevere che diventa una forte
realtà della storia artistica romana. Vi espongono per la prima
volta in Italia artisti di tante nazionalità. Tra gli italiani Burri,
Giulio Turcato, Lo Savio, Lucio Pozzi, Ettore Colla, Pupino
Samonà, Carlo Lorenzetti, Emilio Villa, Mimmo Rotella, Cascella, Nuvolo e altri. Tra uno studio e una trattoria condividevano ideali e difficoltà economiche. A questo periodo sono
dedicate le ultime sezioni della mostra. Con Guttuso e gli altri
“figurativi” Topazia non aveva più contatti. “D’altronde –
scrive Toni Maraini – la disputa tra arte figurativa e arte
astratta era, in quegli anni, incandescente e viscerale. Lei era
decisamente estranea al mondo rassicurante della figurazione
e dei salotti romani”.
Un pannello che chiude il percorso della mostra riporta in
proposito un commento di Achille Bonito Oliva: “Topazia
aveva un’innata curiosità, non si preoccupava di essere garantita dal giudizio degli altri, era una donna votata alla scoperta, e lo era nella vita e nell’ambito dell’arte: ...così nasce
la galleria Trastevere... aveva fatto di questo spazio un punto
di riferimento, un porto franco, un luogo di accoglienza e di
osservazione, luogo dove non c’era nessuna prevenzione e
nessuna strategia, in qualche modo la conferma della sua personalità...”.
Viaggiava, era stata a Parigi, a Roma, dove aveva conosciuto
Corrado Cagli e Carlo Levi. La loro amicizia fornì una base
più consapevole al suo antifascismo. In seguito gli eventi personali (l’incontro con Fosco Maraini) la portarono inoltre a
Firenze e a Fiesole a frequentare artisti e intellettuali dissidenti dal regime.
Tornando alla mostra, non sono molte le opere di Topazia
esposte: dopo il Nudo alla Fonte, seguono alcuni disegni
(Donna che dorme, Veduta marina, Donna pensosa, Sulla
cresta, Uomo nudo che si arrampica (Fosco), Poi alcuni dipinti degli anni ’30-’31-’32-’33 (Paesaggio con case, Capo
Zafferano, Ritratto di Fiammetta di Napoli, Ritratto di G.
Farneti, Pannocchie, Casa Rossa, il bellissimo Autoritratto
col campanile basso, il Ritratto di Alpinista (Fosco), l’Autoritratto del ’31 e l’Autoritratto con cavalletto, il Figlio di marinaio, una Veduta Montana. Del ’34 è il ritratto del padre
Enrico, del ’35 un paesaggio con ulivi, del ’38 un ritratto di
Maria Fossi. Poi più nulla.
Scrive la figlia Dacia Maraini: “Non so perché mia madre
abbia smesso di dipingere. Probabilmente non aveva abbastanza fiducia nel suo lavoro. Come tante donne portava in
sé la memoria atavica della sfiducia istituzionale”.
Del resto il matrimonio con Fosco Maraini (fotografo, etnologo, antropologo) nel ’35, la nascita di Dacia e poi, nel ’38,
il trasferimento in Giappone col marito e Dacia bambina
(Fosco aveva avuto in Giappone un incarico universitario ma
in realtà entrambi volevano fuggire dalla repressione con cui
il regime fascista schiacciava ogni libertà di espressione) sono
avvenimenti che segnano una forte svolta nella vita di Topazia. Una sua frase è riportata nel percorso della mostra: “Seguii Fosco fino alla fine del mondo, ricordo tutto, ho
scordato solo il dolore”.
Ma il Giappone era alleato dell’Italia fascista e della Germania nazista. Così dopo l’8 settembre del ’43 Topazia e Fosco
vengono arrestati per non avere voluto giurare fedeltà alla
Repubblica di Salò. Vengono quindi internati insieme alle
loro bambine – oltre Dacia erano intanto nate Yuki e Toniin un campo di detenzione (Tempaku, poi gli ultimi mesi
Kosai-ji). Saranno liberati nell’agosto del ’45, dopo Hiroshima. Nel periodo ottobre ’43/settembre ’44 Topazia riesce
a tenere un diario (37 pagine) in cui, con un mozzicone di
matita, riesce a segnare su carta parole che come pennellate
raccontano il dolore, la fame, il beri-beri sofferti da loro e
dagli altri prigionieri, il yubikiri (autoamputazione di un dito)
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Poesia
Antonella Anedda
Una scrittura obbediente allo sguardo
Francesca Traina
I semi lenti a germogliare infine vedono la
luce. Ne seguivamo la scansione certe dell’imminente fioritura. L’esordio di Antonella Anedda del 1992, con Residenze
invernali, è già esito, soluzione di un’attesa
che fu al suo nascere avvertimento di poesia.
Suoi scritti erano stati pubblicati su varie
riviste che ne avevano rivelato l’originalità,
tanto da essere subito considerata voce tra
le più significative della nuova poesia italiana.
Tale si confermava nelle successive pubblicazioni non solo
di poesia, ma anche di saggi e racconti. A ciò va aggiunta la
raffinatezza delle sue traduzioni dal francese; ha affrontato
con successo un poeta impegnativo qual è Philippe Jacottet.
Nata a Roma, ma di origine sarda, Anedda è laureata in storia
dell’arte moderna e, infatti, non si possono non cogliere nelle
sue opere l’adesione all’arte insieme alla dimensione di insularità intesa come centralità, sede privilegiata di pensiero che
tuttavia esprime una condizione poetica di solitudine.
Anedda scrive di sé mentre intesse i suoi paesaggi d’anima
nella costante correlazione con scrittori e scrittrici amati/e e
testimoniati/e in un tributo d’amore che conferisce alla sua
scrittura una dolente incisività: Mandel’štam, Cvetaeva,
Celan, Herbert, Rilke, Zach, Kolmar, Beckett, Loi, Rosselli,
e tanti/e altri/e sono contrappunto e dialogo fra Anedda e la
grande letteratura.
Ha cominciato a scrivere, dichiara in un’intervista, dopo aver
ascoltato una poesia di Blok. Da quel momento è cresciuta
dentro di lei una foresta di libri, alberi diversi, secolari o recenti, alberi-libri, ma anche alberi-quadri.
La sua è una poesia interiore che sa attingere all’esterno,
alla contingenza, agli oggetti quotidiani, ad ogni cosa e al
dettaglio di ogni cosa. Tutto osservato silenziosamente e
intensamente interiorizzato, viene riversato in una scrittura obbediente allo sguardo che è specchio di sé, ma è
anche rimando di immagini esterne a sé. È come se
Anedda scrivesse e al contempo studiasse ciò di cui scrive
che può essere suscitato da una fotografia, da un quadro,
da un libro.
Questo le consente di spaziare dalla poesia alla prosa (Cosa
sono gli anni, La luce delle cose, Nomi distanti, Notti di pace
occidentale, Salva con nome…) in uno sforzo creativo che
esige massima severità verso se stessa. E Anedda possiede
raro rigore morale, è severa ed esigente; questo le ha permesso di ritagliarsi una nicchia nella genealogia dell’arte al-
tissima dove la fragilità dell’essere coincide
con l’esattezza della parola poetica e dove
tra le tante straordinarie poetiche, quella
russa ha per lei un posto d’anima.
I suoi versi vivono il tempo consolante
dell’attesa verticale, il brivido d’una necessità che non si può tradire, la concavità
dello svuotamento di sé ceduto alla parola:
Vedo dal buio
come dal più radioso dei balconi
…cammino sotto i rami: c’è un crepitio segreto:
i pensieri, i capelli, l’unghia di un sentimento a metà staccato:
spina che si prepara, che naviga veloce dentro il sangue…
Non è di nostalgia che piange, ma per il peso intero
della pioggia, come se lui fosse il tetto
che sopporta e si scrosta.
Come se l’intero palazzo, gonfio di acqua e pietra
rivelasse un’offesa.
Una creatura può crucciarsi per questo, passare sveglia la notte
o replicare nel sogno la desolazione. Essere in un burrone.
Stare lì tra la terra, nella pioggia che viene.
Dalla memoria di versi noti è iniziato il suo cammino poetico, da letture notturne guardando il mare di Sardegna e
Corsica appena rischiarato da una luna diversa. Bisognava
rispondere a questo, al richiamo di un lontano sconosciuto.
Per farlo ha attraversato se stessa tentando di decifrare e
tradurre voci di poeti/e prossimi/e e distanti a cui ha dato
lingua e conoscenza pronta a ripiegare verso un nuovo necessario silenzio:
Laggiù è l’enigma: in quelle frasi da cui si sollevano mondi
e richiami; in quelle immagini che continuano in avanti, che
continuano per noi, senza di noi, la vita. Là si addensa qualcosa: inconoscibile e insufficiente. Dietro il visibile, dietro i
segni, gli alfabeti e i colori, ecco rovesciato ciò che sommariamente allude a un mondo immenso, costretto a premere
su di noi attraverso l’apparenza, attraverso ombre che non
spiegano, ma confondono. Lo stesso cielo non è forse, dietro
lo scudo della luce, nero? La notte è la sua verità, il buio il
suo corpo che l’azzurro o il grigio di volta in volta coprono.
È questa la parola suasiva, lenta e struggente nella precarietà
di una traiettoria accesa come lampara che effonde chiarore
al mare, ma sentendo il tremore dell’onda lo assume e lo rinvia nelle vibrazioni della luce, nelle sue infinite variazioni.
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
All’occhi
d’un gallo
appartiene
la salvezza
Carla Nigro
Al banchetto ultimo
nelle desolate valli,
ove lo spazio curva verso l’orizzonte
ove il tempo s’accascia sulle terre aride
s’abbandona a noi
che bisogniamo di vasti deserti di pensiero
Fotografie di Letizia Battaglia, La festa è finita, Arenella
bagnati tutti di sangue secco
come la terra su cui ruotiamo
sollevando la polvere della liberazione
attorno al tavolo di legno alleggeriamo i corpi tumefatti
dall’anni di tormento
d’anni di ginocchi consumati all’inginocchiatoio in petto alla croce
d’anni di mani conserte sulla fronte china
d’anni d’abito nero di lutto di già sulla sedia del mattino
d’anni d’uomini di già in tomba seppur respiranti
ma il sangue secca al sole
e ci facciamo essiccare
come i pazzi al giardino nell’ora d’aria
divoriamo come affamati d’anni di carestia
dolce e salato nella stessa vocca
da un angolo all’altro
da sotto a sopra
ci scansiamo per prostituirci nei morsi delle grigliate,
nella perdizione dei fumi d’alcol
l’orgia delle mancanze colmate
e all’orgasmo la morte lenta si solleva come la polvere
Al banchetto ultimo
siamo morti tutti
essiccati nella secca terra rossa
decaduti a pancia piena e a salvezza negata
quando un gallo d’improvviso
salta al tavolo del banchetto
sul mare dei morti alla battaglia per il pane
s’erge
il naufrago del sangue essiccato
all’occhi d’un gallo appartiene la salvezza.
È Il testimone
ed ogni dì all’alba rammenta all’orecchio dormiente
i morti
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Il corpo come arte
Lea Vergine: pazza di lei
Maria Chiara Di Trapani
Milano- Ci sono libri che sono incontri sinceri. “L’arte non è faccenda di persone perbene”, l’autobiografia di Lea Vergine, nata da
una conversazione con Chiara Gatti sorprende il lettore per la forma di racconto autentico. Un dono poter leggere pagine che raccontano
una vita intensa, scandita da struggenti episodi narrati con leggerezza, autoironia, eleganza e grazia. Lea Vergine ci dice come l’arte
cambia la vita, e lo fa partendo da sé, spiegandolo con parole semplici e preziose. Incontrare i propri miti, è un rischio. Ma leggere il
libro e desiderare incontrarla, sono un tutt’uno. Busso alla sua porta mentre i rintocchi della basilica di S. Ambrogio riempiono l’aria
di una gelida e incolore mattina milanese. Arrivo puntualissima. L’ incontro è fissato per le ore 12. Appare un po’ incredula della mia
presenza, con un sorriso ammette di aver dimenticato il nostro appuntamento, invitandomi con naturale ospitalità a seguirla nella
sua stanza-studio. La dimenticanza trasforma la nostra conversazione su un piano felicemente informale, e in luogo dello studio, ci
accomodiamo in una camera dall’atmosfera intima e accogliente arredata da un letto dall’aspetto candido e comodo, una scrivania coperta di fogli, appunti e lettere, disposti con ordine e sulle pareti scaffali di legno pieni di libri e riviste d’arte che sbircio di sfuggita.
Rapida con lo sguardo e la mano sfoglia l’agenda su cui scopre subito d’aver segnato il mio nome per quel giorno alle 12, e sorride apprezzandomi per la puntualità. Ci accomodiamo su due sedie vicine, una di fronte all’altra. Ha occhi grandi e incantati animati da
uno sguardo indagatore attento e curioso, muove con dolcezza mani piccole dalle dita sottilli e eleganti mentre si accende la prima sigaretta senza filtro, che non termina mai, quasi un gesto di accompagnamento del pensiero. Sono emozionata, preferirei tacere e poter
osservarla in silenzio. Le spiego come per me il suo lavoro autorevole nel mondo della critica d’arte abbia da sempre evocato timore
e rispetto. Ha appena finito di leggere la recensione al suo libro di Tommaso Montanari. “È un articolo che mi lusinga molto, perché
che uno storico dell’arte antica si occupi del contemporaneo non è di tutti i giorni” esclama con sorpresa.
È molto riservata sulla sua vita privata. Nel libro alla domanda “Cosa ha rappresentato Enzo Mari nella sua vita?”
risponde Una pietra. Indispensabile. Ne vuole parlare?
È l’amore di una vita…incredibile, abbiamo compiuto
50anni di convivenza, dopo due matrimoni – ognuno di noi
veniva da un matrimonio precedente – abbiamo avuto una
figlia e a quell’epoca se tu non eri sposato la figlia cominciava
sin dall’asilo ad essere discriminata come figlia naturale.
Allora noi ci siamo risposati per questa ragione, poi il mondo
è cambiato etc…Ma non vorrà parlarmi di questo?
anche un po’ demenziale. Viene guardata come una santa
ormai. All’inzio invece si distingueva perché aveva un
certo temperamento, poi si è fatta sedurre da un modo
mediatico di esporre se stessa. Alcune opere belle le ha
fatte, ma molti anni fa.
E sa il problema oggi non è quello delle donne, è quello degli
uomini. Sono loro ad essere oggi atterriti da questo essere
femminile di cui sono costretti a riconoscere le qualità, i talenti la superiorità quasi razziale. Perché le donne fanno
tutto, sopportano tutto, faticano come bestie ancora oggi,
confermandosi come un elemento superiore, danno la vita…
assistono i morituri etc…Sono degli angeli.
Oggi continua a seguire il percorso delle giovani artiste?
Oggi giorno si fanno moltissime mostre, e ci sono da una
parte bravissime artiste, in mezzo ad una grande immondizia,
questo è dovuto al numero, sa... quando io ero ragazza
c’erano cento persone che volevano fare l’artista, poi sono
diventate mille, ed oggi c’è una moltitudine biblica, è chiaro
che così scada ache la qualità.
Ma quando viene fuori una giovane talentuosa, nonostante
il mal di schiena e tutto il resto – un intervento a cuore aperto
etc… – cerco ancora di andare a vedere qualcosa.
Parlando oggi tra le giovani mi pare che nonostante tutto sia
abbastanza straordinaria Vanessa Beecroft, e molte altre
come Liliana Moro, Marcella Vanzo etc..
Di quali altri autori di oggi stima il lavoro?
Credo che ci siano dei personaggi straordinari, come Sislej
Xhafa, molto ironico, e trovo molto bravo Adrian Paci, in
mezzo a tantissimi altri i bravi.
L’arte oggi è anche naturalmente accerchiata da mille stoltezze, e mi ripeto, questa è la questione del numero.
Trovo interessanti i due italiani Francesco Vezzosi e Maurizio Cattelan.
In mezzo all’ironia nel suo lavoro si trova anche una grande
tenerezza, se pensa Bidibibodibiboo (1996), l’opera sullo
scoiattolo suicida. E di Vezzoli, mi piace il suo rivolgersi
al mondo sperlucente del cinema e delle attrici e trovo i
suoi ricami abbastanza straordinari.
In questi giorni la Gam di Torino celebra con una grande
retrospettiva il lavoro di Carol Rama, cosa è cambiato nel
mondo dell’arte femminile rispetto a quaranta anni fa?
Carol Rama, posso dire che l’ho portata fuori dal buio. Ma
è una donna che se fosse viva oggi avrebbe 100anni. Per
le donne non è più come una volta, adesso sono nel mercato. C’è una gamma di artiste che va da una corrente all’altra, non si può definire l’arte femminile un ambito
omogeneizzato. Sono poche le artiste che si occupano ancora del corpo, e non parlo di fenomeni mediatici come
la Abramovic, la quale è arrivata in terza posizione rispetto ai contemporanei con cui aveva iniziato, ed è diventata una sorta di agenzia, espressione di un sistema
C’è una mostra che vorrebbe curare oggi?
Ormai sono vecchia e non ho tempo né energia sufficiente.
Sono molte, vorrei curare una mostra sule badesse, sono loro
che grazie al loro modo d’essere hanno tenuto in vita l’architettura la pittura la scultura e anche il proto-design.
Le badesse avevano questa capacità economica per poter affidare e commissionare le opere…
Lei ha mai fatto psicanalisi ?
Perché me lo chiede ? crede che la psicanalisi abbia mai salvato o curato nessuno ? Ma non diciamoci sciocchezze !
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Fotografie di Santi Caleca, Lea Vergine, Milano
Il rigore critico e l’eccezionalità dell’ impresa curatoriale compiuta da Lea Vergine nella mostra “L’altra metà dell’avanguardia” (1980),
sono un punto di riferimento insuperato negli studi di storia dell’arte contemporanea. Con il suo lavoro Lea Vergine porta alla luce
l’attività di oltre cento artiste europee, russe, americane, mettendo insieme le pittrici e scultrici che avevano avuto un ruolo fondamentale all’interno dei rispettivi gruppi e movimenti di rinnovamento artistico della prima metà del Novecento.“ Un lazzaretto di regine, erano tutte eccezionali e molte di loro rinunciatarie. Tutte minimizzavano, auto-ironiche. Come Meret Oppenheim, Carol Rama”.
Artiste come Varvara Stepanova, Frida Kahlo entrano ufficialmente nella storia delle arti visive attraverso di lei.
Neanche io lo credo. Penso sia già tanto, trovare qualcuno
che fa le domande giuste...
È vero! Si, Ho fatto delle grandi chiacchierate senza aver mai
fatto la vera terapia psicanalitica. Andavo da questo signore,
Giancarlo Zapparoli, che era una persona abbastanza eccezionale, soprattuto piena di umorismo, che quando andai per
la prima vola, mi disse “Lei quanti anni ha 32? e che vorrebbe fare la psicanalisi? Che ci prendiamo in giro? a 32 anni
è troppo tardi! quindi facciamoci qualche chiaccherata”.
Così abbiamo fatto varie conversazioni lungo una gittata
d’anni, per 15-20 anni
qualcosa che lo dilanierà. Starà a lui decidere come adoperarlo. Qual è l’incontro che le ha più sconquassato il cuore?
È una domanda o un racconto? – Ci mettiamo dentro anche
gli antichi? o dobbiamo stare sul contemporaneo?
Se vuole – e dice socchiudendo per un attimo gli occhi e stendendo il viso in un sospiro: Hieronymus Bosch, Albrecht
Dürer, e se vuole anche Mantegna, anche Jacobello del Fiore,
attivo alla fine del 1300. Ce n’è creature come loro miracolose. E dell’oggi possiamo parlare di Lucio Fontana, Jannisi
Kounellis, Giovanni Anselmo e di tanti altri.
Nel libro si percepisce forte la malinconia per Napoli…
- Non si nasce per caso alle falde del Vulcano, vorrei morire
davanti al mare…
Nel suo libro dice: “È inutile che lo spettatore cerchi nella
visione di un’opera d’arte qualcosa che lo consoli. Troverà
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mezzocielo n° 154 inverno 2017
Quali prospettive per la biblioteca
dei ragazzi del rione Albergheria?
Donatella Natoli
L’attuazione di un percorso che potesse permettere alla Biblioteca dei bambini e dei ragazzi Le Balate di diventare Biblioteca di pubblica lettura mediante una convenzione fra
Curia arcivescovile e Comune di Palermo oltre a rendere la Biblioteca Le Balate una struttura più stabile e protetta da colpi
di mano, era anche funzionale alla realizzazione di un progetto
più ampio dal titolo: “Periferie: cultura, coesione e inclusione
sociale mediante le Biblioteche di pubblica lettura”.
Progetto che avevamo presentato all’assessore alla Cultura del
comune di Palermo Andrea Cusumano nel novembre 2015 e per
il quale erano state fatte alcune riunioni con la direttrice della Biblioteca Comunale, con l’Assessore alla scuola e perfino con rappresentanti dell’AMAT, poi più niente, è calato il silenzio.
La presenza di strutture aperte nelle periferie con valenza aggregativa, culturale e di scambio viene oggi da tutti individuata
come condizione indispensabile per la costruzione di una società
più solidale e per la lotta all’emarginazione di importanti fasce
di popolazione, soprattutto giovanili. Questa narrazione l’ho
ascoltata a tanti livelli, ultimamente è stata ribadita a Milano in
un incontro fra il Ministro Franceschini, Antonella Agnoli, il direttore del Museo della Scienza di Milano e il responsabile dei
Musei di Roma, incontro organizzato da Giuseppe Laterza, in
presenza di circa ottanta operatori culturali provenienti da varie
parti d’Italia. Il progetto, presentato al Comune di Palermo che
ha questi contenuti è stato sollecitato anche da Antonella Agnoli
in una lettera al Sindaco Orlando (maggio 2016) a sostegno della
Biblioteca Le Balate “…Non possiamo permetterci che un’esperienza, conosciuta in tutta Italia, visitata, sostenuta ed apprezzata
da migliaia di persone muoia per fare spazio ad un doposcuola
legato alle attività della parrocchia. Non solo Le Balate deve vivere, ma dovrebbe diventare il capofila di una rete di biblioteche
che la città di Palermo offra ai suoi cittadini”. Ma fino ad oggi
nessuno degli illustri destinatari cui ci eravamo rivolte perché le
Le Balate diventassero una struttura pubblica, nel quadro di un
Progetto complessivo di Biblioteche di pubblica lettura, ha
preso in considerazione la nostra idea. Nel frattempo, per una
serie di avvenimenti poco gradevoli, la nostra Biblioteca dei Ragazzi di fatto non esiste più.
Stralcio della lettera inviata nel giugno scorso al Sindaco e all’Arcivescovo di Palermo
“… Crediamo che sia un dovere di tutti coloro che hanno a cuore i bambini e i ragazzi di Palermo e la loro cultura, ma soprattutto del
Sindaco, che è il tutore del benessere di bambini e ragazzi, e del Vescovo che sicuramente guarda con interesse percorsi che possano permettere maggiore benessere a chi è meno fortunato, prendere in considerazione un percorso che dia slancio alla disponibilità della Curia
che dieci anni fa ha accolto il progetto Biblioteca scritto da una laica (Donatella Natoli) e che permetta al Comune di sviluppare, in una
struttura sul territorio aperta a tutta la città, attività di biblioteca per tutti ma anche incontri, scambi culturali ed artistici, come è sempre
avvenuto alle Balate. Crediamo inoltre che Vescovo e Sindaco dovrebbero essere attenti allo sviluppo di opportunità inedite per le scuole,
offerte finora dalla Biblioteca Le Balate per raggiungere l’obiettivo di “Una scuola dalle pari opportunità in cui il sapere essere, il saper
fare, il saper osservare ed il sapere comprendere si intrecciano e si rincorrono”. Un compito importante della Biblioteca Le Balate potrebbe ancora essere quello di aiutare a riprodurre le caratteristiche di Servizio culturale e sociale di base in tutte le altre biblioteche periferiche del Comune come da progetto già presentato”.
Le brutte parole
Paola Pintacuda
Ho accolto con curiosità e fascinazione la nascita sul web di twitter, un social che chiedeva di esprimersi in 140 caratteri: un esercizio di stile e di sintesi, pensavo. Considerata la grande diffusione dei Social non era difficile immaginare l’influenza che avrebbe
avuto sul linguaggio. Si sarebbe perso ogni retaggio di verbosità e il politichese sarebbe scomparso in favore di una espressività
più chiara, diretta ed efficace. Finché non ci fu quel famigerato Vaffanculo day che si fece un baffo dell’eufemismo delle Brutte
Parole (Nora Galli de’ Paratesi, Le brutte parole: semantica dell’eufemismo), che pure non era solo mera ipocrisia ma anche rispetto
per le altrui sensibilità e lasciava un margine per il confronto dialettico e l’argomentazione.
È accaduto che il linguaggio delle brutte parole è andato ad innestarsi con le forme più volgari dei dibattiti televisivi condotti
come corride, in cui vincitore è chi grida più forte, dove viene stimolata la rissa tra i partecipanti e chi urla capra, capra, capra è
considerato il più intelligente. Sul confronto è prevalso l’insulto e la parolaccia. Mi ha impressionato nella campagna elettorale
americana lo spot del Clintoniano De Niro che dava del maiale e del bastardo a Trump, concludendo che lo avrebbe voluto prendere a pugni in faccia. In Italia sono stati usati toni simili nella recente campagna referendaria.
Se si pone come vero l’assioma secondo il quale il linguaggio e il pensiero si integrano in un rapporto di reciproco influenzamento
divenendo interdipendenti, bisogna dunque dedurre e non sottovalutare il peso che ha sul pensiero il linguaggio del “vaffanculo”
dell’”impiccateli” dell’insulto e dell’aggressione verbale.
Si va affermando un manicheismo (o con me o contro di me), che impoverisce e annienta con il linguaggio ogni confronto democratico delle opinioni. In questo decadimento espressivo trovo l’insidia di una deriva fondamentalista che mi sembra molto pericolosa. Non è un fastidio estetico del linguaggio aggressivo che mi turba e mi preoccupa, ma proprio l’influenza che questo
linguaggio ha sul pensiero, sui comportamenti e sulle relazioni sociali.
Caduto il tabù della parolaccia, le parole finiscono per diventare pietre da lanciare all’avversario e non strumento di dialogo. Si
stimola nell’altro una reazione istintiva e si genera una realtà in cui ciascuno eleva il proprio livello di assertività aggressiva
rendendo sempre più esangue lo sviluppo delle idee e del pensiero critico.
24
mezzocielo n° 154 inverno 2017
O
OP
PERE E BALLETTI
21 / 29 GENNAIO
Giuseppe Ver
Verrdi
d
16
6 / 19 LUGLIO - TEA
TEATRO
ATRO
TRO DI VERDURA
Adolphe-Charles Adam
MACBETH
MACB
M
ACBETH
GISELLE
Direttore Gabriele Ferro | Regia Emma Dante
*VYLVNYHÄHRicardo
*
VYLVNYHÄHRicardo Nunez | Dir
Direttore
rettorre Alexei Baklan
19 / 28 FEBBRAIO
Vincenzo Bellini
19 / 27 SETTEMBRE
Benjamin Britten
NORMA
NOR
RM
MA
M
A
A MIDSU
MIDSUMMER
UMMER
MME
MMER
NI
GHT’S DREAM
DREA
AM
A
M
NIGHT’S
Direttor
Dir
tt re Gabriele Ferro | Regia Luigi Di Gangi, Ugo Giacomazzi
19 MARZO / 1 APRILE
Giuseppe Ver
Verrdi
d
Prima esecuzione a Palermo
Direttore
Dir
ettore Daniel Cohen | Regia e scene Paul Curran
LA
L
A TRA
TRAVIATA
AVIA
V AT
VIA
TA
A
13 / 22 OTTOBRE
Francesco Cilea
In occasione della tour née in Giappone
Dirrettorre Giacomo Sagripanti, Francesco Ivan Ciampa (30.3 – 1.4)
Regia Mario Pontiggia
31 MARZO / 2 APRILE
Giacomo Puccini
TOSCA
T
OSC
CA
In occasione della tour née in Giappone
Direttore Gianluca Martinenghi | Regia Mario Pontiggia
11 / 15 APRILE
TRITTI
TRITTICO
CO CO
CONTEMPORANEO
NTEMPORANEO
Coreografie
Coreografie Jiri Kylian, Johan Inger e Matteo Levaggi
Musiche di Michael Nyman, W
Wolfgang
olfgang Amadeus Mozart,
Maurice Ravel, Arvo Pärt | Dir
ettore Alessandr
o Cadario
Direttore
Alessandro
27 / 28 APRILE
Johann Sebastian Bach
ADRIANA
AD
RIANA LECOUVREUR
Direttore
Dir
rettorre Daniel Or
Oren
ren
en | Regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
3 / 4 NOVEMBRE
Salvator
Salvatore
e Sciarrino
SUPERFLUMINA
SUPERFL
LUMINA
MIN
Omaggio a Salvator
Salvatore
re
e Sciarrino in occasione dei suoi 70 anni
ettore Tito Ceccherini | Regia Rafael V
Direttore
Dir
Villalobos
illalobos
10 NOVEMBRE
#MADREINCERTA
#M
MAD
ADREINCER
ER
RT
TA
A
Prima rappr
rappresentazione
esentazione assoluta
Regia, testo e drammatur
rgia
gi
drammaturgia
gia di Mar
Marco
co Paolini
Musiche di Maur
o Montalbetti
Mauro
Dir
rettorre e violoncello solista Mario Brunello
Direttore
PASSIONE
P
A
ASSI
SSIO
ONE
N SECONDO
SECO
ONDO
NDO GI
GIOVANNI
GO
OV
VANNI
23 / 30 NOVEMBRE
Gioachino Rossini
Versione
V
ersione in forma
for
scenica
Dir
ettore Ignazio Maria Schifani | Regia Pippo Delbono
Direttore
L’ITALIANA
L
’IT
TALIANA
ALIANA IN
N AL
ALGERI
G
GERI
26 MAGGIO / 1 GIUGNO
Jules Massenet
WERTHER
WER
RTHER
TH
THER
Dir
Direttore
ettore Omer Meir W
Wellber
ellber | Regia Giorgia Guerra
Direttore
Dir
ettore Paolo Carignani | Regia Maurizio Scaparr
Scaparro
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17 / 28 DICEMBRE
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Coreografia
Cor
reografia Matteo Levaggi | Dir
Direttore
rettorre Farhad Mahani
Orrchestra, Coro, Coro di voci bianche,
Corpo di ballo e T
Tecnici
ecnici del Teatr
Teatro Massimo
Call center 091 84.86.000 (tutti i giorni dalle 9.00 alle 20.00)
teatromassimo.it
Biglietteria del T
Teatr
ea
atrro Massimo / Tutti i giorni dalle 9.30 alle 18.00
Piazza Verdi - 90138 Palermo
Fotografie di Antonio Gervasi, 2016
Ulisse tra noi
Nicola Cipolla*
Odisseo arriving alone, è stata una iniziativa corale proposta dalla scuola d’italiano per stranieri dell’Università di Palermo (ItaStra).
Si è pensato, ed è risultato vero, che la storia di Ulisse potesse essere accostata all’esperienza di ogni clandestino approdato sulle
nostre coste. Da questa idea è nato un laboratorio che, attraverso un percorso maieutico che ha utilizzato lettura, disegno, canto
e recitazione, ha aiutato i minori a raccontare e a raccontarsi. L’esperienza aveva una duplice finalità: la prima il desiderio di
giocare con le due espressioni artistico-grafica e drammatica, l’altra di scoprire le storie e le emozioni dei migranti in modo traslato,
attraverso la sovrapposizione tra il loro viaggio e quello di Odisseo. I testi selezionati sono stati vari ed hanno cercato di colmare
l’intero viaggio di Odisseo attraverso otto episodi: Kalipso, Nausica, Alcinoo, Polifemo, Il regno dei morti, Le sirene, e Il ritorno ad
Itaca. Si è pensato che la stessa storia di Ulisse potesse essere accostata alla storia dei clandestini che, come naufraghi o viaggiatori
obbligati approdano sulle nostre coste, motivati ad ottenere un ruolo nella società: da qui il titolo Odisseo arriving alone. Una
particolarità è stata aver tradotto singoli brani dell’Odissea sia in inglese sia nelle lingue africane, organizzando poi letture collettive.
È sembrato un fatto curioso e strano, in una scuola d’italiano per stranieri, fare tradurre l’Odissea in lingue africane. Ma traducendo
brani tratti dall’Odissea nelle loro lingue madri (wolf, bambara, pular, arabo-egiziano, bangka) gli immigrati hanno avuto l’opportunità di familiarizzare col testo omerico e la lingua italiana; noi – insegnanti e volontari – abbiamo scoperto nuove lingue e nuovi
alfabeti. Alla narrazione è stato accostato un lavoro grafico. Sono stati distribuiti matite colorate e carboncini, sollecitando l’emergere di ricordi. Ad esempio: dopo che era stato recitato nelle lingue madri l’episodio di Ulisse agli inferi, si è chiesto ai partecipanti
di disegnare una persona cara defunta, che, con uno sforzo di immaginazione, poteva apparire loro nella mente. Si è così creato
un caleidoscopio di lingue, un reticolato di ricordi e desideri: un’opera d’arte collettiva.
Il laboratorio è stato realizzato in collaborazione con l’associazione “Nuvole incontri d’arte”; due artisti, Gaetano Cipolla e Igor
Scalisi Palminteri, hanno vissuto tutta l’esperienza; poi, con l’aiuto dei manufatti e disegni dei migranti, hanno realizzato le loro
opere. Il fotografo Antonio Gervasi ha realizzato numerosi ritratti. Il lavoro, durato tutta l’estate, si è concluso a dicembre con
una mostra collettiva, la presentazione di un libro di racconti, uno spettacolo. Un libro, stampato dall’Università, raccoglie tutti
i materiali creati ed è reperibile presso Nuvole (tel. 091 78321299), ItaStra (tel. 091 23869601) e nelle librerie cittadine.
*Collaboratore volontario del gruppo di lavoro “Narrazione e racconti della lunga distanza”