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Gigi Simoni 23/02/2017

Abbiamo affrontato, con Luca Carmignani, il percorso degli allenatori dagli anni ’50 in poi, lasciando una finestrella aperta per gli ultimi venti anni. Luca ha scritto da poco una biografia di Gigi Simoni, “Simoni si nasce. Tre vite per il calcio”, assieme a Luca Tronchetti e al buon sull’immagine per aprire il link): Rudi Ghedini . La biografia, edita da Goalbooks, potete acquistarla su diversi siti internet tra cui Amazon (cliccate Il contatto diretto ci ha permesso di avere un contenuto in esclusiva: Gigi Simoni si è prestato alla scrittura di un breve articolo per ilMalpensante.com. Argomento: gli allenatori dal ’90 in poi, con delle chicche sull’allenatore Simoni.

Allenatore che io ho amato moltissimo. Credo che sia uno dei torti più grossi del nostro calcio, e dell’Inter in particolare, quello di non aver permesso a Simoni una carriera più lunga ad alti vertici.

La sua squadra più famosa, l’Inter che vinse la Coppa Uefa del 1997-98 e fu fermata in campionato da… Iuliano e Ceccarini, era una squadra di buona levatura, con un incredibile sbilancio di talento tra attacco e difesa: se davanti c’era un quintetto d’archi interessante (Djorkaeff, Zamorano, Moriero e un giovanissimo Chino Recoba a spalleggiare il migliore di tutti, Ronaldo), in difesa Zanetti, Fresi, Colonnese, West, Galante, Sartor etc… non erano il massimo della affidabilità: per dire, la Lazio in finale schierò Nesta, Favalli, Negro e Grandoni. Eppure, quella squadra si difendeva benissimo, per qualcuno pure troppo: merito di una metà campo che tutt’oggi sarebbe tra le top in Serie A (Simeone, Winter, Ze Elias, Cauet etc…) ma soprattutto di Simoni.

Quell’Inter non era solo Ronaldo. Talvolta se ne faceva un ricorso esagerato (e chi non l’avrebbe fatto?), ma il segno di quella squadra era il modo di difendere tutti insieme… tranne uno (in realtà due, considerando anche Recoba). Simoni, da straordinario artigiano, aveva messo in piedi un meccanismo quasi perfetto, in cui emergeva un’amalgama speciale: l’Inter finirà il campionato come

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miglior difesa, 27 reti (una in meno della Juventus), avendo subito soltanto 3 volte più di 1 gol.

L’esonero di Simoni è una delle pagine più tristi e ingiuste della storia nerazzurra. Una cantonata, una vera “papera”, un abbaglio clamoroso che si pagò amarissimamente, con troppi allenatore, subendo l’onta Lippi e l’ignominia Tardelli. E, per vedere una squadra così compatta e unita, i tifosi interisti hanno dovuto aspettare il secondo anno del primo Mancini.

Credo che Gigi Simoni sia rimasto nel cuore di tutti i tifosi: non solo per quella splendida Coppa e quel campionato che avremmo meritato, ma anche per l’eleganza, la signorilità, lo stile e l’educazione di una persona speciale. Averlo ospite tra queste pagine è un grande privilegio.

GIGI SIMONI E GLI ALLENATORI POST ’90

di Gigi Simoni

Ho il piacere di scrivere un articolo sull’evoluzione del ruolo di allenatore nel corso dei decenni.

Dopo che Luca Carmignani ha ripercorso gli anni ’50 ’60 nel primo articolo e gli anni ’70 ’80 nel secondo, a me rimane da analizzare il periodo dagli anni ’90 ad oggi.

Tatticamente, il calcio, dai primi anni ’90 a oggi, non è cambiato granché. Attaccanti che rientrano?

Lo facevo già io quando giocavo: Edmondo Fabbri talvolta mi chiedeva di sacrificarmi anche in copertura. Forse l’aspetto più rilevante, come differenza, è quello atletico che consente un pressing più “asfissiante”. Ma siamo lì.

Il Leicester di Claudio Ranieri, ad esempio, non ha utilizzato (come erroneamente affermato da alcuni addetti ai lavori) alcuno schema innovativo: giocavo così con il mio Pisa, lo dico senza alcuna presunzione, basta riguardare quelle partite. Sia chiaro, non voglio togliere nulla alla grandissima impresa compiuta da Ranieri. Mi ha fatto molto piacere la vittoria del Leicester e ancora di più il fatto che alla guida ci fosse stato un tecnico di scuola italiana, che si meritava ampiamente quel trionfo. Questa in fondo, a ben guardare, è l’ennesima dimostrazione che gli allenatori italiani sono fra i più preparati al mondo.

Il mio modulo preferito è il 4-3-3 con tutte le sue varianti, ma ho giocato in moltissimi modi: dipendeva dai giocatori che avevo a disposizione. Ho sempre avuto particolare cura nel mettere le persone giuste nel posto giusto, in fondo il calcio è semplice. Saper tenere il gruppo unito e valorizzare il capitale tecnico e umano che hai a disposizione: questi i compiti principali dell’allenatore. Il resto viene da sé.

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Difficile, al giorno d’ oggi, con tutta le tecnologia e lo staff di esperti che le squadre professionistiche hanno a disposizione, trovare una squadra che non faccia correttamente la preparazione atletica (a parte l’Inter questa estate… oops mi è scappata…), oppure che siano tatticamente poco accorte.

Condivisione degli obiettivi, serietà, impegno e massima attenzione ad utilizzare bene i giocatori nel loro ruolo: questa è la chiave di volta. Impiegavo tutta la preparazione estiva a cercare il miglior assetto e il modo migliore per schierare i miei giocatori, per questo le mie squadre, quasi sempre facevano un precampionato poco brillante. Ma poi i risultati venivano. Anche all’Inter nel 1997 ’98 fu così.

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Segui @Alberto_Di_Vita Vorrei porre a tutti i lettori una domanda: pensate che il campionato di Serie A sia più difficile da vincere che non un campionato di Serie B? Se la vostra risposta è “sì”, vi devo confessare che per me è “no”. Atleticamente e tatticamente, c’è pochissima differenza, se non addirittura nessuna.

Qualitativamente, è ovvio, c’è differenza. I giocatori più “forti”, che hanno più classe, generalmente li trovi in Serie A.

Ma vincere è ugualmente difficile, anzi forse è più difficile farlo in Serie B. Mi si potrebbe dire: “Certo Gigi, lo dici perché tu hai il record assoluto di vittorie in Serie B e, dunque, tiri acqua al tuo mulino”. Non è così ve lo garantisco. Il fatto è che la vita mi ha (quasi) sempre proposto due alternative: allenare per vincere in Serie B o per salvarsi in Serie A. Ho generalmente preferito la prima soluzione. Prova ne sia che spesso, dopo la promozione in A, andavo ad allenare un’altra formazione di B. E ottenevo un’altra promozione!

Una sola volta, mi è stata data l’occasione di allenare una squadra di vertice in Serie A. Una sola volta: l’Inter nel 1997-98. Vi stupirà, forse, sapere che quella, per me, fu la più facile delle gestioni di tutta la mia carriera. Mai un problema, né con la società, né con i tifosi, né tantomeno con i giocatori. E abbiamo vinto, tutti insieme, una Coppa Uefa disputata magnificamente; in campionato abbiamo ottenuto un secondo posto, dietro una Juve, va riconosciuto, fortissima. Inutile tornare su quel campionato, chi ha voluto vedere ha visto, chi non ha voluto vedere, non vedrà mai. Lascio ai posteri, che potranno analizzarlo senza la cecità derivante dal tifo, il compito di capire cosa accadde realmente. Noi lo sappiamo già, senza dubbio alcuno.

Fatto è che vincemmo ugualmente e questa per me è la dimostrazione che se vinci (ripetutamente) in Serie B, puoi farlo ovunque.

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Il gruppo dicevamo. Ecco, per me è fondamentale la gestione dei giocatori. Ogni allenatore dovrebbe riuscire a ottimizzare le risorse che ha a disposizione. È una lezione che ho imparato dai miei maestri: Rocco, Bernardini e Fabbri in primis.

Vi porto un esempio. L’estate che fui scelto come allenatore dell’Inter, Massimo Moratti mi disse che potevo scegliere fra Batistuta e Bierhoff. Non avevo dubbi: Batistuta. Bierhoff era forte, ma per me Batistuta è stato uno dei più grandi centravanti di sempre, non per nulla l’ho messo nella mia formazione più forte di tutti i tempi. Poi il Presidente mi disse che forse potevamo arrivare ad un altro giocatore: Ronaldo.

Andai a visionarlo a Barcellona e la mia relazione non poteva essere che una sola: prendiamolo se è possibile. Un vero fenomeno, unico, inarrivabile. Faceva ad altissima velocità numeri che sarebbero stati difficili per chiunque a una velocità nettamente inferiore. Ma Ronnie, non si limitava ad essere il numero uno in campo; era un ragazzo splendido. Mai una polemica, mai un rimprovero a un proprio compagno per un passaggio sbagliato.

Il coro “il fenomeno ce l’abbiamo noi”, nacque nello spogliatoio. Lo cantavano Zamorano, Djorkaeff, Simeone, Javier persino il capitano Bergomi. Tutti insomma e questo fatto è poco conosciuto.

Come feci per inserirlo in squadra? Semplice. A Ronaldo piaceva molto bere la Coca Cola, personalmente non volevo che i miei giocatori la bevessero, era una fra le bevande che vietavo, ma a lui piaceva moltissimo. Così, riunii tutti i giocatori nello spogliatoio e dissi: “per me siete tutti uguali, tranne uno”. Tutti risero e capirono. E da quel giorno Ronaldo bevve la Coca Cola.

Ma torniamo agli allenatori dagli anni ’90 a oggi, e all’evoluzione del ruolo.

Escludo, per ovvi motivi, me stesso dagli allenatori “simbolo” di quegli anni. Ne cito alcuni, senza per questo voler “sminuire” nessuno. L’allenatore che più mi piace, attualmente, è Carlo Ancelotti.

Serio, preparatissimo sia tatticamente che nella gestione del gruppo.

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Un allenatore che forse mi assomiglia è Roberto Donadoni. Anche lui giocava da ala destra come me e si è “accentrato” con il passare degli anni. Allenatore serio, un giocatore fortissimo (come del resto lo è stato Ancelotti) che ha saputo portare sulla panchina tutto quello che ha imparato da calciatore.

Lo cito perché è, a mio avviso, un grande allenatore al quale non viene data, non so perché, una vera opportunità in una squadra di club con grandi ambizioni. Da allenatore della Nazionale Italiana ha ben fatto, sicuramente, molto meglio di altri.

Fra gli allenatori simbolo, non posso non citare il mio amico Trapattoni. Il Trap è un allenatore vecchia scuola e anche negli anni ’90 ha ottenuto grandissimi risultati, allenando il Bayern Monaco (e vincendo anche lì), la Nazionale Italiana e persino quella Irlandese, portandola alla fase finale degli Europei (e non si qualificò ai Mondiali di Calcio perché, nello spareggio con la Francia, Gallas fece gol dopo il tocco di Henry con la mano…). La dimostrazione di quanto da me affermato inizialmente: tatticamente dagli anni ’90 poco è cambiato e gli allenatori che “furoreggiavano” negli anni ’70 ’80, hanno continuato a farlo anche dopo.

Debbo citare Guardiola e Mourinho. Il primo è un maestro di tattica, il secondo un motivatore incredibile e anche un grandissimo comunicatore: le loro squadre hanno espresso, ed esprimono, un grande calcio. Ma non dobbiamo mai dimenticare che hanno gli interpreti migliori. Veri campioni, quando non addirittura fuoriclasse. Allenatori vincenti sono senz’altro anche Lippi, Conte e Allegri.

Quest’ultimo è un ragazzo anche molto simpatico e brillante.

Se l’Inter del ’88 – ’89 chiude il ventennio ’80 ’90, potremmo dire che il Milan ’89 – ’90 apre il calcio dal ’90 in poi. Rosa molto ampia, abbondanza di grandissimi calciatori e campioni, vincitrice della Coppa Campioni con un calcio molto bello. Il calcio che diventa sempre più spettacolo televisivo da proporre in qualsiasi giorno della settimana e a qualsiasi ora.

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molto preparato.

Gigi Simoni 23/02/2017

Vi lascio, dandovi quello che per me è un metro di valutazione della capacità di un allenatore (ma vale la stessa cosa anche per un giocatore e, più in generale, per qualsiasi ruolo). Un allenatore può dirsi “un grande” solo quando vince in diverse realtà e, soprattutto, vince “nel tempo”. Avere un ciclo, per quanto importante, di vittorie, ma limitato nel tempo può essere dovuto alla concomitanza di eventi favorevoli: squadra molto forte etc… etc… ma anche “dove vinci” e “come vinci” conta… Infine, chiudendo l’argomento allenatori, mi permetto di parlare brevissimamente di me. La cosa di cui vado più fiero è l’aver lavorato sempre da spirito libero, da uomo libero. Senza essermi mai legato a un gruppo, diciamo così, di potere. Non ho mai avuto un procuratore o qualcuno che difendesse i miei interessi. Non ho mai chiesto un giocatore perché aveva un procuratore piuttosto che un altro. Di questo vado più fiero e, poi, di essere riuscito a gestire la vittoria e la sconfitta con uguale equilibrio.

Senza sentirmi un fenomeno quando vincevo, senza sentirmi un uomo privo di valore nella sconfitta.

Sembra una cosa da poco, ma non lo è …

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