Anche il Cin Cin suona male,«Buon appetito» si dice o non si dice

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Transcript Anche il Cin Cin suona male,«Buon appetito» si dice o non si dice

Anche il Cin Cin suona male
Negli ultimi anni molte persone hanno riscoperto i benefici
delle buone maniere, seppure ci sia ancora qualche distonia
tra le conoscenze teoriche e l’applicazione pratica di un
corretto comportamento. Così la maggioranza della gente è al
corrente che il bon ton rabbrividisce al suono di “Cin Cin”.
Eppure
questa
locuzione
risuona
ancora
sempre
nelle
circostanze conviviali. Cos’ha che non va?
L’espressione «cin cin», contrariamente a quanto si può
ritenere, non è la trascrizione onomatopeica del suono che
fanno i bicchieri toccandosi, bensì deriva dal cinese «ch’ingch’ing», formula di cortesia che significa «prego, prego»,
introdotta in Europa dai marinai inglesi provenienti dalla
regione di Canton, nel 1700, e il cui effetto acustico
risultava tanto allegro che fu associato al buonumore delle
bevute, e pertanto gioiosamente imitabile.
In Cina, invece, dove non si beve durante i pasti, solo alla
fine è consentito fare tutti assieme «gang bei», cioè svuotare
i bicchieri, ognuno sollevando il proprio: è il nostro
brindisi. In Giappone si fa «kanpai».
Allora, perché i manuali di Galateo della Tavola degli ultimi
decenni consigliano di non usare l’espressione «cin-cin»?
Qualcuno lo ha scoperto, lo spiega e gli altri copiano: perché
in alcune lingue orientali è nomignolo di un attributo
sessuale. In tal caso i svariati ristoranti e winebar in giro
per il mondo che hanno tale espressione nel nome aziendale,
dovrebbero arrossire …
Nel dubbio, nel nostro multietnico mondo cittadino non
vorremmo né essere derisi né offendere altre culture.
L’importante è non far schioccare i bicchieri l’uno contro
l’altro! Questo sì è un gesto poco elegante, specialmente
quando i commensali sono tanti e per raggiungere tutti si
devono fare acrobazie, sbracciandosi.
Un altro mito da sfatare è il “guardarsi negli occhi” l’un
l’altro mentre si brinda. Questo imperativo è un uso importato
dai paesi nordici, dove si fa «skaal», con un rituale tutto
speciale e molto personalizzante. Anche il «prosit», di
bavarese memoria, il termine in assoluto più usato per i
brindisi dei bevitori di birra, richiede un’attenzione
individuale con i compagni di bevuta giacché il termine deriva
pari pari dall’espressione latina “prosit”, terza persona
singolare del congiuntivo presente del verbo “prodesse”,
«essere utile, giovare», e pertanto esprime l’auspicio «ti
faccia bene». Più personale di così!
Con un discreto «salute» o un moderato «evviva», o un
estroverso «a noi!», a seconda della compagnia, in puro stile
italiano, non si sbaglia.
donna Maura
«Buon appetito» si dice o non
si dice?
Nei manuali di galateo “classici” non è contemplato, è proprio
ignorato, nel senso di ‘non preso in considerazione’, come non
rientrasse minimamente nella prassi. Invece, nella miriade di
manualetti odierni, vista la larga diffusione di tale frase
iniziale, viene caldamente sconsigliato!
La questione oggi si pone come serio problema di etichetta.
“È augurio da non pronunciare” affermano categoricamente
alcuni contemporanei, bollando l’enunciatore come maleducato,
cosicché se l’espressione ci scappa ci sentiamo cafoni,
retrivi, inadeguati, ignoranti in fatto di buone maniere.
Effettivamente, dobbiamo accettare che non si dice, come
accettiamo che non si esclama “cin cin” nel brindisi e non si
tintinnano i calici o non si augura “Salute!” quando uno
sternutisce, ma tali ‘divieti’ io li collego alle situazioni
formali, dove vige la regola della compostezza e del freddo
distacco dalle emozioni.
A questo punto è giusto fare un po’ di luce sul significato
dell’espressione, benché sulla precisa origine non ci siano
certezze storiche.
Alcuni ritengono che l’augurio risalga alle ritrovate “buone
maniere” nella società di corte medievale, ma io ritengo
piuttosto sia originato intorno il XVI-XVII sec., quando in
Europa migliorarono notevolmente le condizioni economiche ed
alimentari delle popolazioni, dopo secoli di carestie, anche
grazie alle varietà di prodotti importati dalle Americhe, per
cui l’augurio aveva il significato di un buon auspicio a
soddisfare finalmente l’appetito e saziare lo stomaco.
Nei momenti di festa quali nozze, ricorrenza religiosa oppure
particolari celebrazioni, il nobile o il ricco possidente
offriva alla servitù o al contado dei lauti banchetti. È
lecito pensare che in tali circostanze egli augurasse ai
partecipanti di ben godere del pasto offerto, cosicché
l’espressione è rimasta legata al concetto di un favore
elargito agli inferiori.
Esclamare «Buon appetito!» tra pari suona, quindi, come un
offesa.
La famiglia borghese ha ripreso l’augurio, legato alla
presenza del cibo in tavola, non sempre scontata, e lo ha
tramandato fino ad oggi, e a molte persone non pare bello
iniziare a mangiare senza scambiare quell’auspicio, abitudine
che oggi viene snobbata.
Il pasto nella nostra società consumistica non è più
considerato un evento eccezionale, un’occasione per sfamarsi,
pertanto in presenza di ospiti non è ritenuto pertinente
augurarsi a vicenda di soddisfare l’appetito.
In ogni caso, paese che vai usanza che trovi!
Se in un ristorante il cameriere pronuncia l’augurio, per
buona educazione gli si risponde con un «grazie».
Tra commensali è molto più maleducato far notare che non si
dice o ignorarlo del tutto, piuttosto che accettare l’augurio
e rispondere con un sommesso «Anche a lei!», unito ad un bel
sorriso in direzione di chi ha pronunciato la frase, un atto
di cortesia che non costa nulla e a volte diventa il primo
approccio alla conversazione tra persone che non si conoscono.
donna Maura
La borsetta dove la metto?
Per noi signore la borsetta è un accessorio fondamentale,
utilissimo perché dentro abbiamo un po’ di tutto e più è
grande più diventa capiente di oggetti superflui, che spesso
stagnano sul fondo da sempre, anche se di borsette ne cambiamo
diverse a seconda delle occasioni e dell’abito indossato.
Ci sono donne che dentro portano mezza farmacia oltre a tutto
il «necessaire de toilette», caso mai ne urga l’uso. Il minimo
indispensabile, ad una certa età, è dato soprattutto dalle
buste per gli occhiali da vista, che non sono poco
ingombranti.
Il guaio è che nelle occasioni estremamente formali, l’abito
super elegante richiede una borsetta minuta, ridotta di
dimensioni, una borsetta in cui dentro ci stanno al massimo le
chiavi di casa e dell’auto e un fazzoletto (non l’intero
pacchettino dei quattro-strati-di-morbidezza-per-il-tuo-naso),
nemmeno il portamonete con cui andiamo a fare la spesa, pieno
gonfio di carte non solo di soldi, intendo. Figuriamoci se c’è
posto per il telefonino, inscindibile compagno! E il pacchetto
di sigarette dove lo metto?
Così eleganza e necessità fanno a cazzotti, con soluzioni che
di chic hanno ben poco.
A parte il problema di “cosa” portare, e non è poco, quando
partecipano ad una cena le signore dovrebbero domandarsi in
partenza “dove” posare la borsetta.
Infatti, questo accessorio, per quanto ridotto, è sempre un
ingombro ed è un dilemma renderlo invisibile.
A meno che non ci si trovi in un ambiente strettamente
familiare, le signore non abbandonano la borsetta né
all’ingresso né a caso in giro per gli ambienti, sa tanto di
disordine. Non c’è nessun problema nei riguardi del bon ton a
tenersela con sé, al braccio o a spalla nel corso di un
cocktail.
In salotto io la poso tranquillamente anche a terra (non porta
“sfortuna” e voglio sperare in un pavimento ben netto),
accanto ai miei piedi badando a non farci inciampare alcuno.
Sul divano su cui mi siedo non occupo con essa lo spazio per
un’altra persona, trovo molto scortese chi ha questa
abitudine, quasi voglia lanciare il messaggio “non voglio
nessuno vicino a me”.
La catastrofe del bon ton si manifesta a tavola, in casa come
in ristorante.
Certo non è piacevole per chi serve trovarsi l’ostacolo di una
borsa appesa alla spalliera della sedia, pertanto la cortese
signora avrà l’accortezza di piazzarla ben mimetizzata sotto
la sedia o sotto al tavolo o, volendo, dietro alla propria
schiena.
In anni recenti è dilagata la voga degli sfiziosi gancetti
appendi-borsette da fissare al bordo del tavolo. A parte che
andrebbero piuttosto mimetizzati sotto la tovaglia, in casa
d’altri evitiamoli!
E soprattutto non venga in mente di mettere la graziosissima
«pochette» sulla tavola, come tanti fanno con il telefonino!
Sulla mensa apparecchiata c’è posto solo per quello che è
stato predisposto ai fini della degustazione del cibo!
donna Maura
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Altri gesti stonati attorno
alla mensa
Di comportamenti scorretti che molti commensali assumono nelle
riunioni conviviali ho parlato in lungo e in largo, e l’elenco
pare non finisca mai, e non finisce qui. Nei meandri del
Galateo cosiddetto moderno sono contemplati moltissimi
dettagli che recuperano i dettami provenienti dal tempo
lontano, mostrando come siano attualissime le vecchie
raccomandazioni.
Già il mio vecchio amico Bonvesin (“Le cinquanta cortesie de
la tavola”, 1288) raccomandava attenzione a come soffiarsi il
naso, starnutire o tossire; in siffatte emergenze si usino
gesti contenuti e non plateali, adoperando il proprio
fazzoletto, senza poi guardarci dentro, e non il tovagliolo.
«Quando starnutisci o quando ti coglie la tosse, bada a quello
che fai. Voltati dall’altra parte, ispirati a cortesia, perché
non cada saliva sulla mensa», ma neanche addosso a chi ti sta
vicino! La medesima esortazione, infatti, è ripresa da
Monsignor Della Casa (“Galateo, overo de’ costumi”, 1550
circa): «anche perché in simili atti, poco discretamente
usandoli, si spruzza nel viso a’ circonstanti».
Anche chi prepara i cibi e serve in tavola deve badare a non
spargere microbi sulle pietanze!
Esentarsi dagli atti che possono richiamare l’idea di
sudiciume, ordinava Melchiorre Gioia (“Nuovo Galateo”, 1802)
e, tra gli altri gesti esecrabili specie a tavola, faceva
presente che «rodersi le unghie co’ denti e mordersi la pelle
genera negli astanti fastidio e ribrezzo, oltre d’esporre al
ridicolo chi eseguisce questi luridi atti i quali risvegliano
l’idea del cane che rode l’osso». Troppe fanciulle in attesa
della pietanza si cibano così, ed è più forte che conformarsi
alla buona creanza.
Esecrabile nel passato come ora è anche toccarsi continuamente
i capelli (abitudine molto femminile, nel senso “di donne” non
nel senso sia un gesto “sexy” mettere le mani nella chioma) o
grattarsi in testa (o spolverarsi la forfora dalla giacca,
gesti più spesso maschili).
E pure trastullarsi con cani e gatti mentre si mangia.
Evidentemente una volta era più diffuso di adesso avere
animali che gironzolano sotto i tavoli, così Bovesin
specificava che «L’uomo educato non deve accarezzare gli
animali con le mani con le quali tocca i cibi».
«Male fanno similmente coloro che ad ora ad ora si traggono
una lettera della scarsella e la leggono», scriveva Della Casa
e non vi sembra che il riferimento d’oggi sia ai telefonini,
tablet vari, che la gente non solo tiene in tasca ma posa in
bella vista sulla tovaglia, accanto al piatto quasi fossero
arredo della mise en place? È una bella cosa messaggiare con
altri lontani mentre ci sono dei simpatici vicini con cui fare
conversazione?
Sempre il Monsignore scriveva «peggio ancora fa chi, tratte
fuori le forbicine, si dà tutto a tagliarsi le unghie, quasi
che egli […] si procacci d’altro sollazzo per trapassare il
tempo […] non curante d’altrui», beh, forbicine non ho ancora
visto, ma qualche limetta sì, perché la povera unghia
dell’elegante signora si era scalfita, non so come,
pasteggiando.
donna Maura
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L’egocentrico a tavola
Tra le varie categorie di persone che ci capitano come
commensali, una in particolare si nota immediatamente:
l’egocentrico, colui che è convinto il mondo ruoti attorno a
lui e le sue esigenze personali valgano di più rispetto a
quelle degli altri.
Tale personaggio può essere scambiato per un insofferente,
quando in ristorante si comporta apparentemente “in
rappresentanza” degli altri commensali, scegliendo il posto a
sedere per sé e indicando dove il resto della comitiva può
sistemarsi, o richiamando l’attenzione del personale per
sollecitare il servizio, o brontolando per un disguido oppure
un ritardo.
In realtà, egli pensa solo a sé stesso, volendo accanto a sé
chi gli fa comodo.
Ed è un buon narcisista. Si fa consegnare primo tra tutti la
carta dei vini, decide e poi si aspetta di venir lodato per la
scelta. Se qualcuno obietta qualcosa, sommerge costui e la
tavolata intera con le proprie conoscenze enologiche.
Spesso è un “pensatore” solitario, si estranea dalla
conversazione, quando l’argomento non lo tocca, e si assume
una tale aria che per gentilezza qualche persona cortese alla
fine gli rivolge la parola. E potrebbe uscire un fiume di
malinconie e di sventure che solo a lui sono capitate.
A tavola si sta «come si conviene, cortese, gentile, allegro e
di buon umore e vivace; non devi stare pensieroso né
corrucciato» è la quinta “Cortesia della tavola” di Bonvesin
da la Riva, esponente della letteratura didascalica del 1200,
che ben tre secoli prima di Mons. Della Casa ha scritto un
manuale della buona creanza a tavola. Con ciò voleva dire che
una positiva predisposizione d’animo contribuisce all’armonia
della compagnia, una negativa, rivolta alle proprie disgrazie
o semplicemente alla preoccupazione di cosa verrà servito e se
piacerà, disturba gli altri commensali.
Già, perché l’egocentrico in questione osserverà per bene i
piatti di chi è servito prima di lui, e avrà sicuramente
qualcosa di far osservare sia sul servizio sia sulle pietanze.
La diciannovesima cortesia di Bonvesin, ancora valida nel
Galateo moderno, era questa: «non biasimare i cibi quando
partecipi ai banchetti, ma dì che sono tutti buoni. Ho già
trovato molti uomini con questa cattiva abitudine, che dicono:
questo è mal cotto o questo è mal salato».
Ognuno pensi per sé e non influenzi i gusti dei vicini di
mensa né biasimi pubblicamente il cibo e chi lo ha preparato,
non è proprio educato.
Pure quest’altra cortesia, la quindicesima, è di estrema
attualità: «anche se arriva qualcuno, non alzarti da tavola,
se non per un motivo importante. Finché mangi a tavola non è
lecito muoversi neppure per far convenevoli con quelli che
sopraggiungono». In effetti, anche il galateo moderno dice che
l’alzarsi per andare a salutare un personaggio adocchiato
nella sala, palesa una indifferenza verso i compagni di
tavolata.
Nessuno può essere più importante di quelli con cui condividi
il desco, ma per l’egocentrico conta niente questa sia
considerata scorrettezza, a lui sta a cuore farsi gli
interessi propri e la persona da andare a riverire è molto più
considerevole degli amici presenti!
Un altro gesto ad un egocentrico riesce spontaneo: piantare la
compagnia per andare a fumare tra una portata e l’altra, senza
nemmeno scusarsi e senza cercare un compagno di fumata, non ha
bisogno di una vicinanza umana. Il suo “io” gli basta.
donna Maura
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Gesti
tavola
di
insofferenza
a
A osservare bene il comportamento altrui a tavola, ma anche il
proprio, non poche volte si colgono comportamenti che
risaltano come “stonati”, non perfettamente consoni ai dettami
della buona educazione o del bon ton, molti dei quali
appartengono alla sfera della gestualità involontaria e
sfuggiti alla disciplina dell’autocontrollo.
Delle mani e dei loro movimenti ho già parlato in aprile di
quest’anno, ora vediamo cosa siamo capaci di fare con le gambe
e con tutto il corpo.
A tavola si sta composti è la regola numero uno che ci è stata
tramandata e trasmettiamo ai nostri figli. Non è che dobbiamo
trasformarci in rigide marionette, ma dovrebbe risultare
“normale” esercitare un controllo su movimenti e gesti in
tutte le fasi del pasto.
Dimenarsi sulla seggiola è da sempre considerato comportamento
sconveniente. Anche accavallare le gambe mentre si mangia non
è corretto, lo dice pure la scienza medica che così si
ostacola la digestione.
Se il busto è eretto, le gambe sono spontaneamente in
posizione rilassata con i piedi ben poggiati per terra. Non si
allungano le gambe né all’infuori né sotto il tavolo.
Al massimo è concesso spostare un piede dietro all’altro quasi
incrociando le caviglie, però c’è addirittura chi abbarbica i
piedi alle gambe della sedia e certo non è un bello spettacolo
esibire la suola delle scarpe. Con tale gesto il linguaggio
del corpo svela che costui non si sente a suo agio nel
consesso.
Se nell’accomodarvi meglio, nella insofferenza della
posizione, avete dato un calcio a qualcosa di duro, non
guardate sotto la tovaglia per sincerarvi chi avete colpito,
la gamba del tavolo o l’arto del dirimpettaio oppure del
vicino, scusatevi rapidamente senza confezionare una farsa. La
prossima volta starete composti come si deve.
Siete seduti in ristorante e nessun cameriere si avvicina, che
fate? Vi agitate sventolando la mano per richiamare
l’attenzione di qualcuno? schioccate le dita? urlate
“cameriereee”? Non si può fare. Non siete invisibili, loro
sanno che esistete, vi danno solo il tempo di sistemarvi per
bene, scambiarvi le prime chiacchiere, godere dell’atmosfera
dell’ambiente, e arriveranno.
Ecco che, dopo l’ordinazione o tra una pietanza e l’altra, vi
trovate in attesa di essere serviti: vi rendete conto di stare
tambureggiando con le dita sulla tovaglia in gesto impaziente?
Buttatevi nella conversazione piuttosto! Lasciate in pace le
posate, perché le sistemate di continuo? E perché giocate con
la mollica del pane facendone palline? Non è creanza!
Abbiate pazienza, ci si raduna intorno alla tavola non solo
per saziare lo stomaco ma soprattutto per godere della
compagnia immergendosi in un’atmosfera idilliaca
predisponga tutti i sensi al miglior godimento.
che
Maura Sacher
[email protected]
Scegliersi il posto a tavola
Dove mi metto? è la domanda che spesso esce spontanea davanti
alla mensa imbandita. Il prendere posto è un momento di
incertezza per tante persone bene educate, si arriva nei
pressi e ci si blocca facendo gruppo, in attesa di
indicazioni, infatti nessuno dovrebbero piazzarsi di propria
iniziativa dove vuole lui, a meno che non stia in trattoria.
Se il convivio ha una certa solennità, chi organizza ha
predisposto i segnaposto con il nome degli ospiti davanti a
ciascun piatto e trova il modo di preannunciarlo ai
commensali, così ognuno è preparato e cerca discretamente la
propria postazione e, raggiuntala, dovrebbe restare in piedi
dietro la sedia, finché la persona più autorevole non si è
accomodata. Ciò vale in una sala con cento persone in presenza
di autorità, come per ogni singolo tavolo.
Ahimè, non tutti gli uomini sanno che a loro tocca sedersi
dopo le signore, sempre e ovunque, nelle case quanto nelle
trattorie: l’educazione non varia a seconda del locale!
E ci si deve ben guardare dal rimuovere le targhette coi nomi,
qualora ci si trovasse collocati lontano da persone di proprio
gradimento o vicino a sconosciuti! Quanto detesto questi
“furbetti”. Quanto scompiglio portano.
Inoltre, è davvero maleducato far spostare chi è già seduto
per chiedere di liberare una sedia.
Nei ritrovi informali, invece, non sono opportuni i segnaposto
ma ovviamente i posti in casa mia li assegno io secondo i
criteri ben noti e indico cortesemente ad ognuno la sua sedia.
In questo adotto una accortezza: se ho degli invitati con
minor confidenza con la mia casa, riservo loro il lato della
tavola che guarda lo spazio aperto, non quello che li
costringerebbe ad avere davanti la parete.
Anche in ristorante il posto migliore è quello rivolto alla
sala.
Ma anche in ristorante, per un’occasione speciale, un
particolare festeggiamento, spetta all’anfitrione, cioè a
colui/colei che ha promosso il banchetto, distribuire i posti,
come in casa, secondo i crismi dell’etichetta.
Ci sono persone che hanno fissata nel dna la difficoltà a
stare composti e compassati in un consesso dove si deve
restare seduti per ore e forse sono gli stessi che in un
pranzo che va per le lunghe soffrono visibilmente se non si
possono muovere.
Ed ecco che in una folta tavolata scelgono una seduta
all’estremità o vicina alla porta o comunque in una postazione
agevole alle sue abitudinarie alzate. Se ciò non altera
l’armonia della compagnia e ci si accontenta di stare
defilati, anche spesso dalla conversazione, al Galateo poco
importa, quello che invece al Galateo disturba è l’imposizione
del posto ad altri, al partner, all’amico o all’amica,
scegliendosi il compagno a fianco, “siediti qui, siediti là”,
solo per non sentirsi soli, cosicché ad altri può essere
precluso il posto che preferirebbero.
Una tavolata è armonica quando c’è equilibrio di vicinanza tra
persone con condividono almeno qualche interesse in comune, il
che favorisce la conversazione, e si gusta meglio il cibo.
Maura Sacher
[email protected]
Quante cose sbagliate con la
bocca
Se desideriamo sentirci adeguati ad ogni situazione, in grado
di “stare al mondo” anche in ambienti e consessi non abituali,
bisogna che riflettiamo criticamente su come ci comportiamo in
tali ambiti e la tavola è il primo banco di scuola, anche
perché essa è uno spazio dove ognuno si rivela per quello che
è e per quello che sa.
I figlioli si ricordano bene le raccomandazioni delle mamme
“soffia che scotta”, e infatti le mamme soffiano sempre sul
cucchiaio della minestrina prima di imboccare la prole, ma poi
da grandi gli si dice che non sta bene in pubblico soffiare
per raffreddare brodo o il risotto. Non sta bene nemmeno far
girare la posata a mulinello nella pietanza attendendo che
raggiunga la temperatura giusta per il palato.
E tantomeno infilare in bocca una cucchiaiata o forchettata di
cibo bollente per poi, apriti cielo, rimetterlo nella posata e
quindi riporlo nel piatto, o trattenerlo nelle fauci facendolo
roteare tra smorfie e rumoracci.
Infatti il Galateo dice che non sta bene nessuno di questi
gesti.
Il consiglio è di aspettare un poco prima di avventarsi sul
cibo, meglio nel frattempo intrattenersi in una conversazione,
tanto bisogna aspettare che tutti siano serviti, prima di
impugnare le posate.
Coloro che avvicinano la bocca al piatto o risentono delle
sgridate ricevute nell’infanzia per aver sbrodolato sulla
tovaglia o sono così ingordi d’indole che si tuffano sul
piatto a guisa di animale sulla ciotola (Mons. Della Casa
scrisse «a guisa di porci col grifo nella broda»). Invece, è
la posata che va alla bocca e non viceversa!
Non è forse vero che tra le prime raccomandazioni ricevute
riguardo al cibo ricordiamo: “Non fare bocconi così grandi”,
“Mastica bene prima di inghiottire”, “Non parlare con la bocca
piena”, “Mangia con la bocca chiusa”, “Pulisciti la bocca
prima di bere”, e allora perché tanti adulti non le osservano?
Da grandi si sono dimenticate? O forse non sono state
insegnate …
È tanto difficile “non succhiare dal cucchiaio”, quando la
pietanza è liquida, o “non aspirare aria” quando si beve? C’è
persino chi risucchia platealmente l’ultima goccia di caffè
nella tazzina.
È così spiacevole vedere in tavola piena una sfilza di
bicchieri con gli orli insudiciati da ditate e da impronte di
labbra, giacché sono molti i commensali che si scordano del
tovagliolo.
La pezza serve per pulire non tanto le dita delle mani ma gli
angoli delle labbra, prima di bere e dopo aver bevuto. E non
va impiegato per strofinarsi la bocca intera avanti e
indietro, fino alle guance (come tanti uomini), e nemmeno i
denti (come tante signore) a labbra aperte per non guastare il
residuo di rossetto che sia rimasto.
Per i denti, c’è invero anche chi – ancora! – chiede uno
stuzzicadenti, ignorando che il Galateo lo proibisce proprio
(mai è messo in una tavola elegante) già nel Medioevo, non
solo con Monsignor Della Casa. Ed è inutile coprirsi la bocca
con la mano per queste operazioni, tutti vedono bene l’atto!
Sullo scorretto impiego della bocca, inoltre, ci sarebbero
tante cose da dire riguardo alla conversazione … ma questo è
un altro tema.
donna Mimosa
I bambini
grandi
alla
tavola
dei
E’ bello vedere famiglie riunite attorno ad una tavola
imbandita, ma non sempre aleggia un’aria di allegria, di
complicità, di armonia. Per la maggior parte i figli non sono
più abituati ai princìpi del “mangiare tutti assieme”,
nell’orario in cui rincasa il padre, e nemmeno del “mangiare
come gli altri”, ossia cibarsi di pietanze uniche per tutti e
stare composti a tavola come gli adulti.
Il risultato è che tutto viene fatto ruotare intorno a loro.
Invece, bisogna prepararli fin da piccoli ad adeguarsi al
sistema dei “grandi”, spiegando loro che sarà utile nel
futuro. Bene allora è invitare frequentemente amici a pranzo o
cena a casa e far accomodare bambini e ragazzi alla medesima
tavola, e anche andare tutti insieme a mangiare fuori casa.
Forse lo scoglio principale è costituito dall’approccio dei
bambini al cibo. Certo, fin da piccoli si mostrano
predilezioni e rifiuti verso certe pietanze, ci si forma nei
gusti (ricerche serie che lo attestano), del resto anche tra
noi adulti c’è chi non mangia neanche morto la verdura cruda
oppure la carne al sangue. Ciò non toglie che in certe
occasioni si debba fare buon viso e assaggiare almeno un
boccone di quanto ci è servito. Ai figli per prima cosa
bisogna insegnare che il cibo nel piatto non si spreca e non
si disprezza.
Non va bene far finta di niente se risputano nel piatto il
boccone masticato, perché non gli piace o non riescono a
deglutirlo. E non va neanche bene che la mamma lo prenda in
mano e se lo metta in bocca lei … Persino a questo mi è
toccato assistere!
In qualunque casa o ristorante ci si trovi, non va bene che i
genitori tagliuzzino le pietanze nel piatto ai figlioli né li
imbocchino, se non sono neonati.
Non si devono fare drammi ed alzare la voce o umiliare il
bambino nei modi che solo le mamme sanno fare, se si rifiutano
di mangiare. Non c’è niente di più biasimevole che far
piangere i bambini a tavola.
E non è nemmeno il caso di giustificare gesti e comportamenti
del proprio pargoletto di fronte agli astanti.
I figli di qualunque età dovrebbero stare seduti a tavola,
come tocca a noi adulti, per tutta la durata del pasto, non è
ammissibile concedergli di scorazzare per il locale e tra i
tavoli o di andare a giocare tra il primo e il secondo. Ci
andranno dopo il dessert, quando gli adulti si alzeranno per
soddisfare il vizioso fumare …
Ovviamente
bisogna
dar
loro
il
buon
esempio,
ed
è
indispensabile preparati adeguatamente non solo a stare in
mezzo “ai grandi” bensì a stare “in mezzo alla gente”.
Anche per loro deve essere una festa mangiare, tocca a noi
genitori far sì che lo sia.
donna Maura
[email protected]
Altri orari per invitare
Intendiamoci, quando si intende invitare qualcuno a casa
propria non ci dovrebbero essere limiti di orario se non
quelli del buon senso, sono affari privati, ma siccome qui
siamo nel campo del Galateo dell’Ospitalità permettetemi di
raccontarvi cosa è previsto per non mancare di stile, secondo
i canoni.
Accogliere ospiti in casa si rifà ad un antico rituale di
doveri. L’ospite è “sacro”, va trattato con tutti i crismi,
quindi dobbiamo metterlo a suo agio, scegliendo un orario che
vada bene per lui, oltre ai tempi fissi per pranzi e cene
esposti nell’articolo precedente.
Parliamo sempre di orari “canonici” indicati dal bon ton.
Per bere in compagnia un caffè nella mattinata le 10,30-11 di
solito vanno bene per tutti, sia per ricevere in casa sia per
un appuntamento al bar.
Per il caffè “dopo mangiato” l’incontro andrebbe fissato per
le 14,30-15, in casa o fuori.
È chiaro che se si invita a casa propria, la cucina deve
essere sgombra e linda, già riassettata, non si può ricevere
qualcuno e mettersi a svolgere le incombenze casalinghe. Sì,
perché anche il caffè è un rito che si svolge accanto alla
caffettiera!
L’ora per un tè rimane sempre quella classicamente inglese:
alle 17. Sembra ormai fuori moda e fuori tempo avanzare un
invito del genere ad amiche o coppie di amici, a meno che non
si sia nel mezzo dell’inverno. Ad ogni modo, qualora si
intenda invitare qualcuno il pomeriggio, questo è l’orario
consigliato. Si proporrà prima di tutto un tè, ma anche una
tisana, o come gustosa alternativa una cioccolata calda,
lasciando agli invitati la scelta. La riunione durerà al
massimo fino alle 18,30.
Il Galateo della buona società di un tempo fissava l’orario
anche per i «cocktail», eventi mondani da tenersi nel tardo
pomeriggio (ore 18 d’inverno, ore 19 d’estate), una sorta di
ricevimento dove soprattutto venivano serviti alcolici con
stuzzichini, appuntamenti ora caduti in disuso, sostituiti dai
più giovanili «happy hour» in giro per i locali.
Il “dopocena” è forse il tipo di invito che rende molti
insicuri sull’orario per organizzarlo; sicuramente dopo le 21
ma è anche vero che al giorno d’oggi non tutti riescono a
rincasare dal lavoro, cenare, rinfrescarsi, mettersi in tiro e
arrivare a casa dell’invitante in tale orario, infatti alcuni
esperti consigliano di proporre le 22.
È assolutamente vietato arrivare prima dell’orario indicato,
anche solo dieci minuti, cosa che del resto vale tutti gli
inviti: o puntuali o cinque minuti dopo. Il dopocena è l’unico
caso in cui è fortemente sconsigliato persino giungere in
orario: ottimali sono dieci-quindici anche venti minuti di
ritardo (ovviamente avendo dato assicurazione ai padroni di
casa della presenza, altrimenti potrebbero pensare che nessuno
si presenti). Si può restare a chiacchierare fino a mezzanotte
e mezza, all’una di notte tutti dovrebbero lasciare la casa.
donna Maura
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