Deflazionare l`appello

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DEFLAZIONARE L’APPELLO
premiando non castigando
di Tommaso Servetto
“Con i temp d’la giustissia el birbant la pasa liscia” (con i tempi della giustizia il birbante se la
passa liscia).
Così tanti anni fa il mio saggio nonno mi rappresentava il notevole lasso di tempo necessario per
avere giustizia.
Da ciò deduco che il fenomeno non è dei giorni nostri ma è ben radicato negli anni.
Ho di recente letto ed ascoltato le proposte più varie formulate da Eminenti Rappresentanti della
Magistratura sia requirente che giudicante, finalizzate ad ovviare il problema, che si possono
condensare in tre proposte:
1) eliminare o allungare i tempo della prescrizione;
2) eliminare il divieto di reformatio in peius per l’appello;
3) impugnazione delle sentenze di primo grado anche da parte della Procura per consentire al
Giudice di appello una riforma in peggio della sentenza.
Non mi pare che nessuna delle tre proposte contribuisca ad abbreviare i tempi dei processi.
Non la prima, che semmai porta ad un effetto contrario, cioè all’allungamento poiché se il tempo
necessario a prescrivere il reato è più lungo (o addirittura sospeso dopo il primo grado come
vorrebbe taluno), determina un rallentamento, atteso che non incombe più la prescrizione: si può
fare con più calma.
Nemmeno le altre due proposte incidono sul tempo del processo, dal momento che mirano
unicamente a disincentivare l’appello contro la sentenza di primo grado paventando la possibilità di
un peggioramento in appello.
Non credo che con il restringimento dei diritti dell’imputato si possa giungere ad una deflazione dei
ricorsi in appello.
Occorre non sottovalutare il dato statistico dal quale si desume che il 70-80% delle sentenze di
primo grado vengono riformate, parzialmente o totalmente, in appello. Questo dato avrà pure un
significato e non può essere obliterato. Tale percentuale deve far riflettere semmai sul perché un
elevato numero di sentenze di primo grado vengano riformate e bisognerebbe trovare una soluzione
ai problemi che probabilmente si annidano del giudizio di primo grado. La soluzione non può essere
quella semplicistica di comprimere il secondo grado sotto pena del castigo di una pena più elevata
solo perché l’imputato si è permesso di appellare.
E quando ad appellare, anziché l’imputato, è il Pubblico Ministero quale sarebbe la sanzione
disincentivante all’appello della Procura?
Quando è il Pubblico Ministero ad appellare la sentenza di assoluzione, quale sarebbe il rischio che
corre, diversamente dall’imputato che rischierebbe una riforma in peggio?
Così facendo la bilancia della giustizia, che già non è perfettamente tarata, si sbilancerebbe
eccessivamente in favore dell’accusa.
Onestamente bisogna ammettere che alcune volte, non così spesso come si vorrebbe fare intendere,
l’appello ha un mero scopo dilatorio, sovente è una speranza di riduzione di pena; ebbene sono
questi, a mio avviso, gli appelli che occorre disincentivare cambiando però filosofia.
Si potrebbe proporre a questo fine una sorta di effetto premiale, anziché minacciare un castigo
peggiore, per chi accetta la sentenza di primo grado.
Effetti premiali che sono già ben noti nel nostro ordinamento processualpenalistico come la
diminuente per il decreto penale o per il patteggiamento.
Così per esempio si potrebbe pensare ad un sistema secondo il quale, se la sentenza di condanna
non viene appellata, in sede di esecuzione si potrà avere automaticamente una riduzione di 1/3 o di
1/4 della pena inflitta o, magari, l’estensione delle misure alternative al carcere, ampliando il
termine della sospensione condizionale o altri modi ancora che mettano il condannato in condizione
di scegliere se guadagnarsi il beneficio accettando la sentenza di primo grado oppure rischiare di
vedersi confermata la pena.
Si obietterà che così facendo si inciderebbe negativamente sui patteggiamenti perché l’imputato
tenderebbe ad avere una sentenza senza pregiudicare la sua difesa.
A mio avviso non è così sia perché con il patteggiamento la pena è concordata con il Pubblico
Ministero (e quindi nota) mentre con la sentenza la sanzione è irrogata dal giudice alla fine del
processo (quindi ignota) sia perché il patteggiamento prevede ulteriori benefici rispetto alla
sentenza di condanna. Del pari non bisogna trascurare tutti coloro che scelgono il dibattimento nella
convinzione di poter dimostrare la loro non colpevolezza e quindi non patteggiano una pena “per
principio”.
Per cambiare lo stato delle cose ritengo sia necessario un cambio di filosofia che potrebbe portare
risultati positivi perché è con il premio che si ottengono vantaggi, non con la minaccia di un castigo
peggiore poiché come mi insegnava il mio saggio nonno “tuti a veulu avèj rason, anche col ch’a l’è
an përzon” (tutti vogliono avere ragione anche quello che è in prigione)