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SEMINARIO DI FORMAZIONE:
ABORTO E OBIEZIONE DI COSCIENZA:
SITUAZIONE PRESENTE E PROSPETTIVE DI INTERVENTO
Relatrice Assuntina Morresi
I dati del Ministero della Salute contenuti nelle relazioni annuali al Parlamento
sull’attuazione della L.194 mostrano che da oltre 30 anni a questa parte l'aborto in Italia è in
continua e costante diminuzione. Siamo l’unico paese europeo ad avere questo andamento.
Diciamo subito che non è dovuto alla legalizzazione in sé – se così fosse in ogni paese in cui
l’aborto è diventato legale avremmo dovuto avere lo stesso fenomeno, invece altrove gli aborti,
solitamente, sono aumentati in trenta anni, e non diminuiti. Né possiamo chiamare in causa la
contraccezione chimica come prevenzione dell’aborto: la pillola anticoncezionale in Italia ha una
diffusione di gran lunga inferiore rispetto agli altri paesi europei con cui di solito ci confrontiamo
(Francia, Gran Bretagna, per esempio).
In sintesi, in Italia si usa molto meno la pillola
anticoncezionale, l’aborto è in costante diminuzione, e così anche le nascite.
Come spiegare questi tre dati?
La diminuzione costante del numero di aborti osservata dal 1982 (234.801) ad oggi
( 87.639 nel 2015, di cui 60.384 da italiane e i restanti da cittadine straniere), confermata anche
confrontando tassi e rapporti di abortività, oltre che i numeri assoluti, è il risultato di diversi
fattori: sicuramente pesa molto il calo della natalità (meno concepimenti, meno aborti, meno
nascite), ma è importante tenere conto anche di una sostanziale tenuta, almeno finora – chissà
fino a quando – della rete dei rapporti familiari. Se la famiglia è solida, se il rapporto fra genitori
e figli e parenti prossimi è forte (si va via da casa ad un’età più avanzata che in altri paesi, ad
esempio), ci sarà una maggiore propensione all’accoglienza di un figlio “non programmato”: in
una famiglia solida, un figlio inaspettato di solito non diventa un problema insormontabile.
E per quanto riguarda la legge, in Italia non è possibile avere margini di guadagno sugli
interventi abortivi: le donne che vogliono abortire non possono scegliere se andare da un
medico privatamente, pagandolo personalmente, o rivolgersi al servizio pubblico, come
succede per tutte le prestazioni sanitarie (pensiamo all’oculista, al dentista, per esempio). Si può
abortire solamente nelle cliniche pubbliche o private convenzionate, per le quali lo stato
rimborsa quote fisse a seconda degli interventi effettuati. Questo fatto, pressochè unico in
occidente, ha impedito che si formasse un mercato intorno all’aborto – come invece avviene
per la fecondazione assistita, dove accanto alle strutture pubbliche esiste una rete robusta di
privati – e per esempio ha impedito l’arrivo in Italia di cliniche private (penso a quelle affiliate
alla Planned Parenthood, per esempio) con forti interessi economici. Non a caso, in paesi dove
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nonostante la forte denatalità gli aborti sono aumentati negli anni, come ad esempio la Spagna,
circa il 90% degli aborti si effettua in cliniche private, che non hanno interesse a diminuirne il
numero.Ma è anche per questo motivo che si pone in Italia la questione dell’obiezione di
coscienza, e solo in Italia: se non è possibile rivolgersi al privato, allora spetta alle strutture
pubbliche garantire il “servizio IVG”, insieme al diritto all’obiezione di coscienza, come prescrive
la legge 194.
Ma esiste veramente un problema di eccessiva numerosità di obiettori di coscienza, che
impediscono l’accesso all’aborto alle donne che rientrano nei termini di legge?
Dai dati che le regioni hanno comunicato al Ministero, la risposta è no. I dati nazionali ci
dicono che, in media, ciascun ginecologo non obiettore effettua 1.6 aborti a settimana, in 44
settimane lavorative in un anno. E se si va a vedere cosa succede nelle singole regioni, fino alle
singole Asl, si vede che anche nei pochi casi in cui il numero di aborti settimanali è di molto
superiore alla media (3 Asl su 140, per la precisione, dove si va da 12 a 15 aborti a settimana
circa), si tratta di un “carico di lavoro” che non occupa più di due mezze giornate lavorative, e
quindi anche nelle situazioni più lontane dalla media nazionale, non è vero che i ginecologi non
obiettori sono costretti a occuparsi solamente di aborti. A maggior ragione, se si prende in
considerazione il dato nuovo raccolto quest’anno, nella relazione trasmessa al parlamento lo
scorso dicembre, da cui risulta che a livello nazionale l’11% dei non obiettori non è assegnato
dalle proprie amministrazioni al servizio IVG: in altre parole l’11% dei ginecologi non obiettori,
cioè di ginecologi che hanno dichiarato la propria disponibilità a effettuare aborti, è stato
incaricato dalla propria amministrazione di occuparsi di altro. Evidentemente, quindi, in molte
amministrazioni il personale non obiettore è considerato di gran lunga più che sufficiente per le
richieste di aborti, tanto che una parte di quelli disponibili talvolta sono addirittura destinati ad
altre attività.
Forse allora il problema dei non obiettori non è tanto nella numerosità degli aborti che
eseguono, ma nella gravosità dell’intervento abortivo. Forse per molti di loro effettuare un
intervento abortivo non è proprio come un qualsiasi altro intervento chirurgico in ginecologia.
Ma se questo è il problema, allora di questo si dovrebbe parlare, innanzitutto all’interno degli
ordini professionali: è chiaro che se il 70% dei ginecologi è obiettore, non si tratta di motivi
religiosi – i cattolici praticanti in Italia sono meno del 30%, e sicuramente non raddoppiano fra i
ginecologi – ma professionali.
L’Italia ha portato questi dati al Consiglio d’Europa – la sottoscritta ha rappresentato il
nostro paese in alcune sedi istituzionali – e il Consiglio li ha accolti con favore (letteralmente, dal
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testo della risoluzione più recente: tutto il contenzioso con il Consiglio d’Europa è riportato nella
relazione al parlamento): a questo proposito è bene ricordare che non c’è stata alcuna
condanna da parte dell’Europa nei confronti dell’Italia, a proposito dell’accesso ai “servizi IVG”.
Detto ciò, non possiamo certo stare tranquilli perché ci sono “solo” 87.000 aborti in Italia.
Il numero accettabile di aborti per noi è zero, e per arrivare a questo traguardo dobbiamo
lavorare.
Nell’ultimo anno, molto probabilmente, al calo degli aborti effettuati negli ospedali ha
contribuito la vendita senza ricetta della cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo” (circa
145.000 confezioni vendute nel 2015). Sappiamo che, nonostante il nome, non si tratta di un
semplice contraccettivo, ma di un composto che, in presenza di un embrione già formato, può
avere un effetto antinidatorio, cioè provocare un aborto precoce. E’ un fenomeno che proprio
per le modalità in cui avviene, non possiamo quantificare con precisione. Si apre a questo punto
anche un ulteriore problema educativo, specie per le minori.
Estratto dal seminario, Assisi – Domus Pacis 4 febbraio 2017
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