versione in pdf

Download Report

Transcript versione in pdf

16 febbraio 2017 delle ore 21:04
Lavoro in video
Dal nord al sud del mondo, scelto o imposto, tragico o blasonato. Il lavoro come pilastro del nostro
tempo. In una mostra dalle molteplici letture
Il MAST, questa volta, lo fa in video. Per
l'esattezza sono diciotto, di quattordici artisti
differenti, per provenienza geografica e per
poetica, anche se la tematica è sempre la stessa:
il lavoro e la sua percezione, tra chi lo produce,
chi lo osserva e la società in cui si sviluppa. Ed
è da questi presupposti che è nata la mostra
"Lavoro in Movimento” che fino al 17 aprile
accompagnerà i visitatori della Fondazione
creata da Isabella Seragnoli a Bologna. "
Mediante l'interpretazione filmata della realtà,
lo sguardo della telecamera testimonia la
mutabilità di un mondo – quello del lavoro e
della produzione – in rapida metamorfosi,
descrivendo in modo immediato e coinvolgente
cambiamenti, evoluzioni e rotture”, scrive nel
catalogo il curatore Urs Stahel, che ha
presentato l'esposizione lo scorso 25 gennaio in
compagnia di alcuni artisti. Ad aprire le danze
un video lirico che va a braccetto con l'idea della
percezione del momento produttivo, che in
questo caso però è dato solo da uno sguardo
esterno, e in un tempo passato: parliamo di
Wille Doherty, che con la sua proiezione Empty,
2006, scandaglia in otto minuti la vita di un
edificio in disuso, un tempo "covo” di uffici,
nella periferia irlandese. Il grigio del cielo, i
cambiamenti climatici, il selciato bagnato, i
muri perimetrali, sono scanditi e alternati dalle
lamiere blu che sovrastano il "building”,
strappate della loro vernice originaria dal tempo
che è passato, lasciando qui l'idea di un
capitalismo fallito o reso improduttivo
dall'avanzata tecnologica, a cui non tutte le
realtà riescono a sopravvivere.
Di Yuri Ancarani, unico italiano presente in
mostra, possiamo riscoprire la trilogia del
lavoro, composta da Il Capo, ovvero
un'abbacinante lettura dell'estrazione del
marmo nelle cave del Monte Bettogli, in
provincia di Carrara; Piattaforma Luna, sul
lavoro di sei sommozzatori a cento metri di
profondità nel mare; Da Vinci, in cui un medico
esegue un'intera operazione chirurgica tramite
un braccio robotico che cattura le immagini
dell'interno del corpo. Senza dubbio fa un certo
effetto vedere tutta riunita questa produzione
che negli ultimi anni è stata promossa in lungo
e in largo, ed è anche un modo per tracciare le
somme: Il Capo, che per quindici minuti dà
indicazioni precisissime tramite un linguaggio
di segni a cavatori e conducenti di mezzi pesanti
sugli strapiombi delle Alpi Apuane è
sicuramente il più bel ritratto del lavoro della
trilogia. Una performance in una landa assolata
e desolata, dove la polvere e il sudore diventano
elementi inscindibili di una professione
meticolosa, appartenente solo a una ristrettissima
area geoeconomica. Un lavoro delicato e
ancestrale sul filo di quella che sarà l'evoluzione
del mercato del marmo. Sincopato invece O.K.
di Ali Kazma, video del 2010 in cui, attraverso
un loop vorticoso riprodotto in sette schermi si
mette in scena la timbratura di una serie di
documenti. È l'uomo a fare il lavoro o è il lavoro
ad appropriarsi dell'uomo, a snaturarne i gesti
e a renderlo automa e automatico?
consapevoli del loro ruolo, così come lo sono
gli uomini d'affari (o politici, o manager) che ci
mostra Julika Rudelius nel video Rites of
Passage: il potere qui viene passato di testimone
alle generazioni più giovani, e si mostra come
seducente, e puro concetto vestito da leader,
composto di slogan. Un’esposizione che
dimostra come il lavoro che si sceglie, che ci fa
"disporre” dell'altro, che si accetta, che si
conquista, o si rifiuta, è ancora – questo sì - una
dichiarazione d'intenti tra noi e il mondo.
Matteo Bergamini
Ce lo racconta bene anche la mezz'ora di film
muto (con intervalli fotografici) di Chen ChienJen (in scena anche al MAXXI nella mostra
"Please come back”), che racconta del declino
di una fabbrica di Taiwan, e allo stesso tempo
dei solidi rapporti personali costruiti tra le ex
operaie: due figure che si ritrovano nello
stabilimento abbandonato, replicando i gesti
che avevano scandito la loro quotidianità e che,
in questo caso, assumono connotati al limite di
una nevrosi: che senso ha rifare la stessa azione
quando il contesto non lo richiede più? A quale
grado di assuefazione porta il lavoro? Perché il
lavoro muta il nostro corpo? Perché gli è stato
permesso? E in nome di quale "produzione”? A
ben guardare, infatti, oltre alla fascinazione per
la macchina e per l'intelligenza programmatrice
dell'uomo c'è che, molto spesso, il lavoro a cui
ci si piega credendo di fare il bene della propria
comunità può provocare emorragie insanabili
dall'altra parte del mondo: Pieter Hugo ci porta
ad Accra, Capitale del Ghana, dove nella più
grande discarica di rifiuti tecnologici del
mondo – che arrivano per la maggior parte
dell'Europa – gli uomini bruciano computer,
televisioni, cavi elettrici, cellulari e tutto
l'armamentario "indispensabile” per la vita
occidentale, per recuperarne rame, ottone,
alluminio, zinco, con risultati per se stessi e per
l'ambiente circostante a dir poco pestilenziali.
Anche il resoconto che dà Ad Nuis
dell'Azerbaijan è fortemente politico, infatti ci
racconta come nel Paese con l'oleodotto più
lungo del mondo, l'idea di avere una ricchezza
smisurata e inesauribile produce uno stile di vita
che inevitabilmente andrà a scontrarsi con la
finitudine delle energie non rinnovabili. E poi
Thomas Vroege che ci mostra gli spettrali
manager della City londinese in metropolitana,
con gli sguardi persi nel vuoto e forse ben
pagina 1