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Giovedì 16 Febbraio 2017
ESTERO - LE NOTIZIE MAI LETTE IN ITALIA
Dalla casa dove abitò l’autore di Ulysses che era un centro con sue opere e manoscritti
Zurigo ha sfrattato James Joyce
Il nipote Stephen, 85 anni, ha perso la partita col comune
da Berlino
ROBERTO GIARDINA
L
a nostra Europa è fatta
anche, o soprattutto, di
testimonianze fragili,
non solo di monumenti grandiosi, ruderi e palazzi
del potere, l’Arco di Trionfo a
Parigi, Buckingham Palace,
il Colosseo, o di musei dove
spesso le opere d’arte vengono
custodite come in un cimitero.
A Parigi sopravvive Wepler, il
ristorante dove Henry Miller scrisse «Tranquilli giorni
a Clichy», a Monaco si trova
sempre l’Osteria Italiana,
dove il vegetariano Hitler
andava a gustare i suoi spaghetti al pomodoro, a Roma
c’è il Caffe Greco a cui tavoli si sedette Ludwig, re di
Baviera, quello che perse la
corona per Lola Montez, ma
altri luoghi della storia sono
andati distrutti. A Vienna
hanno saputo trasformare la
nostalgia in una fonte di reddito, altrove la memoria ha
ceduto alla speculazione.
L’Hotel Bogotà a Berlino,
nel palazzo dove Helmut
Newton imparò a fotografare, è stato chiuso.
Gli uffici sono più redditizi. Nella casa di Thomas
Mann a Lubecca, quella
dei Buddenbrook, si trova
una banca.
A Zurigo, stanno
sfrattando James Joyce, nonostante le proteste
di suo nipote Stephen,
che da tre anni sta combattendo una battaglia
difficile. La casa dove
abitò l’autore di Ulysses
era stata trasformata
nello Strauhof, un museo
letterario, dove veniva custodito il suo lascito. Ora,
seguendo la moda, lo Strauhof dovrebbe diventare un
centro, sempre culturale, ma
dove tenere più mondani e turistici convegni, e lo scomodo
irlandese sarà definitivamente sfrattato. Esattamente il
James Joyce
31 dicembre del 2013, la Neue
Zürcher Zeitung ospitò una
lunga lettera di denuncia di
Stephen Joyce, in conflitto
con le autorità cittadine e, secondo lui, la complice fondazione dedicata a suo nonno.
Stephen, 85 anni, è
rimasto vedovo ed è
senza eredi. Dal 2012,
le opere di Joyce sono di
dominio pubblico, e teme
che la sua sia l’ultima
battaglia in difesa di
uno dei più grandi scrittori del Ventesimo secolo.
I rapporti della famiglia
con Zurigo risalgono a
oltre un secolo: nel 1904,
nel viaggio verso Trieste,
Joyce e la moglie Nora, vi
fecero sosta, e vi tornano
a causa delle guerre. Nel
maggio del 1915, lo scrittore ritenne prudente
lasciare dopo dieci anni
l’austriaca Trieste per
cercare rifugio in Svizzera insieme con i figli
Giorgio (il padre di Stephen)
e Lucia. Vi tornò diverse volte
per farsi curare dall’oculista
Vogt, che gli salvò la vista,
senza mai farsi pagare. Vi si
trasferì nel 1940, con Nora,
Giorgio, e il nipotino Stephen,
fuggendo da Parigi occupata
dai nazisti.
Joyce finì in sanatorio
e morì nel 1941. È sepolto
nel cimitero di Zurigo, accanto alla moglie Nora, deceduta nel 1951. Elias Canetti
(morto nel 1994) espresse il
desiderio di venire sepolto a
sua volta accanto a Joyce, e
Stephen fu d’accordo. Ma ora
ha comunicato di non voler
finire nel cimitero di Zurigo.
Gli svizzeri si comportano
male con la sua famiglia. La
casa, nell’Augustinergasse
al numero 9, conservava il
lascito, 400 volumi di opere
di Joyce, 700 in traduzione,
2.800 saggi sullo scrittore,
200 manoscritti, e un migliaio di documenti vari, con
interviste radiofoniche, e
altro. Un centro di consultazione vitale per gli studiosi
di tutto il mondo, ma non
abbastanza importante per
la città di Zurigo.
© Riproduzione riservata
NEL 2016, 4 MLN DI VISITATORI (+13%) PER UN GETTITO DI 2,65 MLD
Bangladesh, Cambogia, Vietnam, Birmania
Turismo record a Cuba, ma gli hotel
devono migliorare aprendo ai privati
Cinesi producono
dove costa meno
DI
MAICOL MERCURIALI
I
l turismo di Stato cubano è davanti
a un bivio: lasciare definitivamente
spazio ai privati oppure restare in
un limbo che non consente al comparto di dare un pieno contributo all’economia dell’isola caraibica? La patria di
Fidel Castro nel 2016 ha fatto segnare
un record, ospitando 4 milioni di turisti,
un aumento di ben 13 punti percentuali rispetto all’anno precedente. L’Avana
attira, la meta è densa di
fascino e non solo per le
belle spiagge. Però, come ha
fatto notare recentemente
l’Agenzia France Presse in
un suo servizio, la capacità
ricettiva cubana rischia di
deludere le aspettative dei
turisti occidentali.
Da una parte prezzi
alti come quelli richiesti
a Parigi, dall’altra servizi
non all’altezza. Nemmeno
nei cinque stelle, sempre di
proprietà statale, si è completamente al riparo da delusioni. L’offerta è limitata,
le lamentele sui disservizi
degli hotel all’ordine del
giorno. Il ministero del turismo, però, si
è accorto che qualche cosa non fila per il
verso giusto e non si può attendere oltre:
la concorrenza di altre mete caraibiche,
come Bahamas e Repubblica Dominicana è forte, ma soprattutto quel gettito da
2,65 miliardi di euro che il turismo ha
garantito nel 2016 non può essere messo
a rischio.
Il turismo è la vera industria per gli
11 milioni di abitanti di Cuba, una risorsa
troppo importante per venire trascurata.
E così, all’inizio dell’anno, il viceministro
del turismo Mayra Alvarez ha preso un
impegno: «Bisogna lavorare per migliorare le strutture alberghiere, innalzarne gli
standard e fornire gli hotel di operatori
turistici ben formati».
Insomma, i cubani devono andare a
scuola di turismo e il governo di Raul Castro promette di fare la sua parte. Il potere comunista già dal 1997 aveva lasciato
Mayra Alvarez
un po’ di spazio all’iniziativa privata, con
le casas particulares: oggi, come ricorda
l’Afp, valgono 16 mila camere, contro le
70 mila delle strutture alberghiere. Nelle
casas un turista se la può cavare anche
con meno di 30 euro a notte, ma ce ne
sono pure alcune rifinite di tutto punto,
in perfetto stile coloniale, in cui si possono spendere diverse centinaia di euro
per un pernottamento. Lo Stato potrebbe
imparare da loro.
© Riproduzione riservata
DI
GIOVANNI GALLI
P
enalizzata dal dollaro
forte e dai salari in
crescita, la Cina produce meno abbigliamento per l’export in Europa
dove l’import di moda dall’ex
Impero di Mezzo ha registrato il calo dell’8%, in valore, nel
2016, secondo i dati Eurostat
riportati da Le Figaro. E questo nonostante le esportazioni
cinesi verso l’Europa
siano cresciute, in
volume, dello 0,6%
nel 2016. Eppure
i cinesi mantengono la propria mano
sul settore grazie
a una realtà molto
complessa. La Cina
e Hong-Kong restano i primi fornitori
di moda. Le industrie cinesi
sono state le prime a delocalizzare nei paesi vicini, dove i
salari sono più bassi. Le confezioni cinesi si realizzano in
Bangladesh, secondo fornitore
dell’Europa dove le sue importazioni sono cresciute dell’8%;
in Cambogia, quarto fornitore
dell’Europa (export Ue +13%);
in Vietnam (esportazioni Ue
+7,2%); in Myanmar (ex Birmania) che ha visto l’export
avanzare del 63,5% nella Ue. In
Cambogia, l’80% delle imprese
di abbigliamento sono cinesi e
queste sono molto presenti anche in Myanmar e in Vietnam,
secondo i dati del Circolo euromediterraneo del settore tessile-abbigliamento. In questi
paesi asiatici alcuni accordi
preferenziali permettono ai
cinesi di esportare senza pagare diritti di dogana verso
la Ue che, invece, incidono
in media per il 12% sui prodotti esportati direttamente
dalla Cina. Le imprese cinesi
hanno dei limiti e non hanno
ancora investito nei paesi del
Mediterraneo come Turchia,
Tunisia, Marocco (tranne che
in Egitto, dove non si pagano
diritti doganali verso gli Usa)
e neppure in quelli dell’Est
come l’Albania, e BosniaErzegovina, che offrirebbero ai paesi Ue il vantaggio
di un approvvigionamento
di prossimità limitando al
massimo il magazzino. Ebbene, nonostante questo, i
cinesi stanno aumentando
la propria importanza anche
investendo nell’acquisizione
di marchi, come Sandro e
Maje in Francia.
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