Studenti a lezione in tribunale

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Venerdì 17 Febbraio 2017
PRIMO PIANO
Ragazzi e insegnanti assistono al maxi-processo sulle infiltrazioni della criminalità in Emilia
Studenti a lezione in tribunale
Oltre 900 hanno già assistito a deposizioni e interrogatori
DI
CARLO VALENTINI
S
tudenti a lezione.
Non a scuola ma in
un’aula del tribunale. Tra i banchi degli
avvocati, le gabbie con gli
imputati, i giudici togati.
Sono già 900 i ragazzi che
per un giorno hanno vissuto
l’esperienza di un processo
per mafia. Il luogo è il tribunale di Reggio Emilia dove
è in corso il processo Aemilia, frutto delle indagini che
hanno tolto il coperchio alle
infiltrazioni della criminalità organizzata in EmiliaRomagna, facendo saltare
qualche sindaco, alcuni politici e perfino un consiglio
comunale.
In certi casi, come in
quello degli studenti del
quinto anno del liceo di Castelnovo Monti, gli studenti sono stati accompagnati,
oltre che dagli insegnanti,
anche dal sindaco. Enrico
Bini, in tribunale con la fascia tricolore, primo cittadino di Castelnovo, dice: «Molti
ragazzi pensavano che certi
fatti avvenissero solo in altre
zone del Paese. Li vedevano
attraverso i film e la tv. Ora
sono consapevoli che anche nel nostro territorio la
‘ndrangheta si è radicata e
diffusa, quindi bisogna tenere alta la guardia».
Aggiunge l’insegnante Patrizia Malagoli: «La
presenza al processo rientra
in un progetto di educazione alla legalità affinché i
ragazzi diventino cittadini
più consapevoli dei fenomeni che ci circondano. Partecipano con molto interesse e
curiosità, venendo qui hanno
scoperto un mondo nuovo».
All’inizio del processo,
il primo in regione per infiltrazioni mafiose, i legali degli imputati hanno cercato
di impedire la presenza dei
ragazzi. Quando sono arrivate le prime scolaresche
da Argenta e Portomaggiore (partite in pullman alle
6.30 per arrivare a inizio di
udienza), gli avvocati della
difesa hanno chiesto alla
Corte di allontanarle poiché l’articolo 471 del codice
di procedura penale prevede
che per assistere ai processi
bisogna essere maggiorenni. Mentre i parenti degli
imputati apostrofavano i
giovani in malo modo: «Andate a studiare invece di
stare qui a perdere tempo».
Poi il presidente del collegio
giudicante, Francesco Maria
Caruso, si è chiuso in camera di consiglio e ha deciso
l’ammissione degli studenti,
anche se minorenni: «È vero
il riferimento alla maggiore
età nell’articolo del codice
citato ma riteniamo che in
questo caso si possa derogare perché la partecipazione
degli studenti al processo è
un fondamentale ausilio alla
formazione dei giovani alla
legalità, visto anche l’interesse particolare riconosciuto al processo Aemilia».
Commenta il Garante regionale dell’infanzia
e dell’adolescenza, Luigi
Fadiga: «La partecipazione
organizzata di studenti a
un’udienza penale in cui si
dibattano questioni di grande rilevanza civile, sociale
ed etica è certamente una
preziosa occasione educativa
e formativa ed è auspicabile
che venga sviluppata».
Quasi ogni giorno la
parte dell’aula-bunker destinata al pubblico è popolata dai ragazzi. Così
quelli dell’istituto Einaudi
di Correggio hanno ascoltato le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia
Giuseppe Giglio sulle sue
frequentazioni con il clan
Grande Aracri, che dalla
Calabria aveva aperto una
succursale a Reggio Emilia.
Per i ragazzi uno squarcio
di verità quasi inaspettato.
I guadagni - ha detto Giglio
nella deposizione - dovevano
essere condivisi con il boss,
i debiti dovevano essere pagati altrimenti erano botte
da orbi e fi darsi anche dei
Nicola Gratteri
parenti poteva essere un
passo azzardato, visto che i
raggiri avvenivano anche in
famiglia.
Altra testimonianza
ascoltata nei giorni scorsi
dai ragazzi è quella di Ugo
Apuzzo, che gestiva la ristorazione in uno stabilimento
balneare in Romagna, diventato però preda ambita
del clan calabrese. «Dormivo
all’interno dello stabilimento», ha testimoniato. Una
mattina ho trovato nella sala
ristorante alcune persone
che mi hanno detto: «Siamo
venuti a prendere possesso
del nostro bene. Se non te ne
vai di qua ti impicchiamo».
Ero terrorizzato. Sono stati
i giorni più brutti della mia
vita».
Nel processo Aemilia
vi sono 147 imputati, di cui
37 devono rispondere di associazione a delinquere di
stampo mafioso, per gli altri
ci sono reati come estorsioni,
usura, danneggiamento, minacce, reimpiego di denaro
di provenienza illecita, truffa, reati ambientali, in molti casi aggravati dal metodo
mafioso.
I ragazzi ascoltano attenti e in silenzio lo svolgersi
dell’udienza. Non è una gita
scolastica. È un’incursione
in un fenomeno criminale
pericoloso. Dalle fiction alla
realtà. I ragazzi dell’istituto
superiore Canossa di Reggio Emilia ne dibatteranno
poi in classe, come spesso è
previsto nelle varie scuole.
Ascoltano la deposizione
di uno degli investigatori: «L’indagine incominciò
dall’incendio di un’auto, una
Bmw distrutta con 40 litri
di benzina, e da un esposto
anonimo in cui si denunciava un giro di false fatturazioni da parte di aziende
collegate a imprenditori di
origine cutrese. Si scoprì che
in Emilia era presente una
cellula della ‘ndrangheta
originaria di Cutro che ri-
cattava, riciclava denaro,
imponeva la propria legge,
ma senza dare nell’occhio,
cioè niente omicidi ma botte
e minacce».
Portare i ragazzi nell’aula del tribunale servirà come
prevenzione? Riuscirà a dare
maggiore consapevolezza in
modo da riuscire ad arginare
eventuali nuovi tentativi di
insediamenti mafiosi?
A parlare con gli studenti è venuto anche il procuratore capo della repubblica di
Catanzaro, Nicola Gratteri.
Parole choccanti: «Purtroppo la ‘ndrangheta è una
minaccia presente da decenni al Nord ma qui si è presa consapevolezza solo negli
ultimi anni. Non basta dire
«noi abbiamo gli anticorpi»,
non basta dire «noi abbiamo
combattuto i nazisti e i fascisti quindi siamo in grado di
combattere la mafia». Le mafie sono un’altra cosa. Perché
vivono tra di noi, nel tessuto
sociale, si nutrono e cambiano
insieme alla società, non sono
un corpo estraneo. Le mafie
hanno trovato pieno accesso
qui al Nord, e sono sorpreso
di come siano riuscite a fare
affari con gli imprenditori
emiliani».
Twitter: @cavalent
Botta e risposta sulla sindacalista
che è stata licenziata dal sindacato Usb
ItaliaOggi, con firma Carlo Valentini ha pubblicato un articolo intitolato
«La sindacalista licenziata dal sindacato». Vogliamo in merito fare queste
precisazioni:
La signora Rossella Lamina
non ha mai svolto la funzione di
«Responsabile dell’Ufficio comunicazione» ma quello di addetta stampa.
ItaliaOggi fa riferimento ad una dichiarazione del «Segretario di Stampa
Romana, Lazzaro Pappagallo, - «…
è il brusco epilogo giunto dopo mesi
di mobbing, durante i quali la dignità
professionale e umana di Rossella è
stata mortificata... -». La dichiarazione è assolutamente falsa.
Nell’articolo si scrive «Rossella Lamina fu al centro di polemiche
qualche tempo fa quando sul suo blog
pubblicò un intervento dal titolo: Caccia agli sfigati. Dove gli sfigati sono
quella parte di pubblico reclutata dai
talk show per illustrare storie o porre domande teleguidate. Lei mise a
nudo i meccanismi dei talk ma questa
operazione-verità non fu ben vista dal
sindacato e incominciarono le incomprensioni».
In realtà fu proprio il sindacato Usb
a decidere di non «fornire» più pubblico per i talk show e di richiedere la
partecipazione diretta di rappresentanti sindacali.
Non è vero che Maria Teresa Turetto sia una sindacalista di Usb, così
come è stato presentato da ItaliaOggi
«... dell’Usb di Vicenza, dissenziente
rispetto a questa decisione …..».
È falsa la rappresentazione delle modalità di un licenziamento in
tronco. Nel caso specifico è stata conclusa presso l’ispettorato del lavoro
tutta la procedura di conciliazione
prevista dalla legge.
Non è vera la posizione attribuita all’Usb: «... bisogna risparmiare
sul costo del lavoro e siccome con te
abbiamo qualche incomprensione abbiamo deciso di lasciarti a casa...». Il
contratto con la signora Lamina non è
stato risolto per «incomprensioni» ma
esattamente per le ragioni indicate
nella lettera.
Usb è un sindacato indipendente e democratico che fa della
difesa e della rappresentanza corretta e radicale dei diritti dei lavoratori la propria pratica quotidiana.
La responsabilità sulla gestione dei
soldi delle quote che ci assegnano i
lavoratori impongono talvolta delle
scelte difficili ma necessarie come
quella che abbiamo dovuto assumere
in questo caso.
Fabrizio Tomaselli
Esecutivo nazionale Usb
Risponde Carlo Valentini, autore dell’articolo:
1. Prendo atto che la sindacalista
licenziata era addetta stampa e non
responsabile dell’ufficio comunicazione. Errore grave?
2. Se ci sono critiche alla dichiarazione del segretario di Stampa Romana, vanno a lui dirette. Tra l’altro
si tratta di un documento ufficiale,
trasmesso agli organi d’informazione,
da me fedelmente riportato.
3. A suo tempo vi furono polemiche,
rimbalzate su alcuni quotidiani, per
le affermazioni contenute nel Blog
della licenziata che ho trascritto correttamente.
4. Da Vicenza il licenziamento è
stato duramente criticato, la persona
citata appartiene al Comitato unitario di base considerato vicino a Usb.
5. La licenziata è stata avvertita
bruscamente con lettera e le è stata
immediatamente oscurata la posta
elettronica. In pratica, messa alla
porta senza tanti complimenti. Ci
mancherebbe che non venisse neppure applicato il contratto di lavoro.
6. In molte delle dichiarazioni e
testimonianze su questa vicenda che
ho raccolto si parla di incomprensioni
tra il vertice del sindacato e la licenziata. Non solo. Il quotidiano il manifesto, che non può essere accusato
di antisindacalismo, ha scritto, senza
ricevere smentite: «L’organizzazione
di base dà il benservito all’unica giornalista del suo ufficio stampa: “Ragioni economiche e organizzative”.
Ma lei denuncia “mesi di mobbing”.
Appello della Fnsi e petizione online
dei lavoratori».
Conclusione: Non mi sembra di essere incorso in scorrettezze, ho virgolettato documenti e dichiarazioni
che gli autori confermano e ricostruito una vicenda piuttosto singolare
e certamente poco piacevole per la
licenziata.