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PRIMO PIANO
Venerdì 17 Febbraio 2017
Che erano graditissimi a Bersani quando, da segretario del partito, le scelte le faceva lui
Nel Pd il nodo sono i nominati
È il punto dolente. Sarà quindi affrontato da ultimo
DI
PUNTURE DI SPILLO
MARCO BERTONCINI
L’
attesa dell’assemblea
del Pd condiziona pure
il processo per la riforma elettorale. Va da sé
che, più zeppe s’incontrano nel
percorso, più prende quota la
prospettiva della riforma nulla
o inconsistente. Intanto, i democratici sono divisi non soltanto
sul segretario, sulle dimissioni,
sui tempi del congresso, sulle
candidature per la segreteria,
sul possesso del simbolo: non
sono d’accordo nemmeno sulla
legge elettorale. È chiaro che,
in tali condizioni, non si comprende come il partito potrebbe trattare con gli interlocutori
esterni. Al Senato, in particolare, occorrerebbe trovare una
solida base di consensi (ma c’è
chi già congettura di ricorso
alla fiducia).
Formalmente, il partito
possiede un progetto, tale
da raccogliere sulla carta adesioni estese: il mattarellum.
Si sa bene, però, come sovente
la proposta ufficiale mascheri
una diversa se non opposta
realtà. Caso tipico, il sistema
francese, doppio turno in collegi uninominali. L’intero Pd si
schierò a favore: non se ne fece
nulla. Ovviamente la responsabilità poteva essere addossata
al patto del Nazareno allora in
auge; ma di fatto si rivelarono
ambasce, incertezze, difformità
intestine.
Adesso viene fuori di
nuovo il mattarellum. Tuttavia, a molti nel Pd non sta
affatto bene: per più motivi.
C’è chi l’osteggia per timore
che i grillini (giudicati in discesa per le vicende capitoline, però non in crisi) possano
conquistarsi una buona fetta
di collegi maggioritari. C’è chi
Prima hanno voluto gonfiare l’Inps
e adesso si lamentano che è diventato obeso
DI
GIULIANO CAZZOLA
I
eri a pranzo un amico ha sostenuto l’opportunità che il M5S vada al
governo così ci togliamo il pensiero.
Tanto, ha aggiunto, dureranno poco.
Io gli ho risposto che il suo era più o meno
lo stesso ragionamento che fece Vittorio
Emanuele III quando, all’indomani della
Marcia su Roma (28 ottobre 1922), diede
l’incarico di formare il governo a Benito
Mussolini.
***
Non sono in grado di giudicare se siano
state le agenzie di stampa ad amplificare
le osservazioni della magistratura contabile sul bilancio dell’Inps. Ma l’allarme
sociale che ne è derivato a me pare è assai ingiustificato. Soprattutto, mi è sembrato singolare che la terapia suggerita
per affrontare una situazione finanziaria
ritenuta grave, si limitasse a chiedere
un’urgente riforma della governance che
liberasse l’Istituto da una gestione sostanzialmente monocratica.
Per quanti danni possa aver fatto il presidente Tito Boeri e per quanto sia in ritardo l’integrazione degli enti incorporati
è una forzatura ritenere che il ripristino
del consiglio di amministrazione e il conferimento di maggiori poteri al direttore
non gradisce tornare agli accordi con i minori alleati, che
fra l’altro costavano cessioni di
posti sicuri nelle zone rosse. C’è
chi teme di trovarsi catapultato
in una candidatura di sconfitta
certificata. Molti, invece, specie
quanti contano su solidi pacchetti locali, preferirebbero il
proporzionale, con preferenze.
Non lo confessano, per timore
generale - come suggerisce la Corte - possano risanare il bilancio più grande dopo
quello dello Stato. Absit iniuria verbis, ma
nella relazione si avvertono gli echi della
polemica in atto da tempo tra gli organi
dell’Inps e tra la presidenza e la Corte.
***
I tg hanno riferito che sarebbe stata
la prima volta di una situazione patrimoniale negativa da quando è stato
istituito l’Inps. Al che quanti un po’ se
ne intendono hanno fatto un salto sulla
poltrona, dal momento che l’Istituto è
nato nel 1933 (sia pure in presenza di
enti e casse risalenti alla fine del secolo
precedente).
Senza andare troppo indietro, nel dopoguerra vi sono stati momenti in cui il
«rosso» dei conti era assai più sfavillante
di adesso. Si pensi che, alla fine degli anni
90 e in vista dell’ingrasso nel club della
moneta unica, venne cancellato un debito di 160 mila miliardi di lire che l’Inps
aveva con lo Stato. È evidente allora che
l’istituto di cui parla la Corte dei conti
nella sua relazione non può che essere il
SuperInps, risultante dall’incorporazione dell’Inpdap e dell’Enpals, a partire dal
2012 in seguito alla riforma Fornero.
***
Qualche inventore di acqua calda
di passare da servi di Silvio
Berlusconi, divenuto il più
acceso e loquace fra i proporzionalisti.
La vera questione, tuttavia, è molto semplice: i capilista bloccati. Per i deputati e i
senatori non renziani tutto si
può discutere, dalle soglie, al
premio, dalle coalizioni, ai collegi, ma non è tollerabile che
farà notare che la situazione dell’Inps
(versione super) dipende dal passivo
dell’Inpdap (il quale ha comunque dei
motivi non sempre riconducibili all’istituto) e accuserà l’ente di previdenza del
pubblico impiego di aver contaminato
l’integrale purezza dell’Inps. Ma se anche l’Inpdap fosse rimasto autonomo
non è che sul piano della spesa pensionistica le cose sarebbero cambiate.
Anche la previdenza dei travet entra a
far parte del conto complessivo.
***
L’operazione superInps si sta rivelando sbagliata da un altro punto di vista. Il suo gigantismo (sostanzialmente
di matrice ideologica) ne ha reso più
difficile l’operatività, tanto che l’integrazione è ancora di là da venire.
***
Un’altra stranezza del nostro sistema di sicurezza sociale sta nel fatto
che, a fronte di un «mostro» amministrativo come il superInps, resta una
vera e propria balcanizzazione delle
Casse dei liberi professionisti, mentre
sarebbe logico e necessario promuovere
dei processi di razionalizzazione e di
unificazione anche in questo delicato
e importante settore.
Formiche.net
permangano i capilista con
elezione garantita. La faccenda era già emersa in direzione,
è tornata nell’assemblea del
gruppo, resterà, si può star sicuri, come indefettibile motivo
di polemica e di rottura per le
minoranze.
Ovvio che al momento
essa venga, non già soppressa, ci mancherebbe, bensì sem-
plicemente rinviata. Una volta
deciso il destino del congresso,
si affronterà anche la questione
dei nominati, che era graditissima a Pier Luigi Bersani
quand’era lui a scegliere alcune
centinaia di parlamentari e che
oggi gli suona detestabile, perché a deciderne cento sarebbe
il suo successore.
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REGGE LA MINORANZA DEM, SOMMOVIMENTI NELL’AREA CENTRISTA CON IL SOTTOGRUPPO DELL’UDC
Gentiloni, al senato la fiducia è in calo
Sul Milleproroghe incassa 153 voti favorevoli, erano 169 all’insediamento di due mesi fa
DI
I
ALESSANDRA RICCIARDI
l senato è sempre stato il barometro della tenuta dei governi.
Per Gentiloni, a poco più di due
mesi dal suo insediamento, il
tempo minaccia brutto. Ieri Anna
Finocchiaro, ministro dei rapporti
con il parlamento, ha posto la questione di fiducia sulla conversione
del decreto Milleproroghe:153 i sì,
99 i no. I voti contrari sono gli stessi
della scorsa settimana, quando la
Finocchiaro ha posto un’altra questione di fiducia, sul dl Salva banche. A cambiare sono i voti a favore:
in quel caso sono stati 157. Al suo
insediamento, l’esecutivo di Paolo
Gentiloni aveva incassato 169 sì,
facendo l’en plein.
È pur vero che il voto di ieri
si è celebrato di giovedì, a ridosso
della chiusura della settimana lavo-
rativa dei parlamentari che tradizionalmente finisce nel pomeriggio. E
che il grosso era stato ormai decisi
in commissione. Ma anche l’allentamento della tensione è interpretato
nel palazzo come una delle crepe della tenuta della maggioranza di cui
preoccuparsi.
Se al momento della fiducia ha
retto la minoranza dem, defezioni
si sono registrate dall’area centrista
che appoggia il governo. Con una
lettera datata 15 febbraio scorso,
il gruppo Misto ha comunicato l’ingresso di quattro nuovi senatori: si
tratta di Antonio De Poli e Giuseppe Esposito che hanno abbandonato Area popolare per aderire all
componente Udc del gruppo misto.
Due voti persi per la maggioranza a
favore della componente di Lorenzo
Cesa, in queste ore oggetto di corteggiamento da parte di Silvio Berlu-
sconi. E sarebbe solo l’inizio. Cesa
che ha incassato anche l’adesione di
Riccardo Conti, e Giuseppe Ruvolo provenienti da Ala.
Il Pd ora deve stare attento
a fare i propri conti, visto che tra
l’altro è venuto meno il sostegno di
Denis Verdini dopo la rottura sulla
composizione del governo e il riposizionamento che è nell’aria a seguito
delle prossime scelte elettorali. «Le
cose sarebbero andate diversamente se il governo avesse accolto la richiesta di modifica, avanzata anche
da due senatori del Pd in commissione e appoggiata da Forza Italia,
sull’età pensionabile dei magistrati»,
spiegava Ciro Falanga, senatore di
Ala, motivando il voto contrario del
gruppo e accusando il governo di
«arroganza » e di «comportamenti
scostumati». Esce dall’aula al momento del voto Vincenzo Cuomo,
senatore dem, che imputa al governo «mancanza di buonsenso», dalla
proroga delle concessioni demaniali
alla navigazione dei marittimi, per
finire con la vicenda che riguarda
proprio il trattenimento in servizio dei magistrati. L’emendamento sull’innalzamento a 72 anni
dell’età del pensionamento delle
toghe non è stato l’unico elemento di frizione di un provvedimento
che ha visto le proteste di piazza
dei tassisti per la norma su Ncc e
Uber della dem Linda Lanzillotta. Divisioni ci sono state anche
sul fronte della vivisezione. «Diciamo sì alla fiducia ma con disagio
per i test sugli animali», scrivono
in una nota le senatrici democratiche Silvana Amati, Monica
Cirinnà, Manuela Granaiola e
Daniela Valentini.
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