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Giovedì 9 Febbraio 2017
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Cgil, Cisl e Uil disertano il vertice con la Madia. Furlan e Camusso a palazzo Chigi
Sindacati-governo ai ferri corti
Statali, rischia di saltare l’accordo fatto con Renzi sugli 85 €
DI
ALESSANDRA RICCIARDI
I
l ministro, Marianna
Madia, è sempre lo
stesso. Il governo pure,
in netta continuità con
il precedente, come ripete il
premier Paolo Gentiloni
a ogni occasione. Eppure la
pace suggellata dall’esecutivo con i sindacati sugli statali alla vigilia del referendum del 4 dicembre scorso
è a un passo dall’andare in
crisi. L’accordo, sottoscritto il 30 novembre, in cui il
governo Renzi prometteva
di alleggerire il peso della
legge rispetto al contratto,
di rivedere i poteri unilaterali dei dirigenti rispetto ai
lavoratori, di ripristinare la
contrattazione, dalla disciplina dell’organizzazione del
lavoro al salario accessorio,
e soprattutto di dare 85 euro
di aumento medi mensili a
dipendente, potrebbe saltare.
Oggi Cgil, Cisl e Uil non
andranno alla riunione informale convocata dalla Madia alla Funzione pubblica
per esaminare il decreto
legislativo attuativo della
riforma della p.a. con le nuove regole sui licenziamenti e
l’assenteismo (si veda ItaliaOggi di ieri). Inutile andare,
è il ragionamento, se la proposta è peggiorativa della
situazione attuale. Il primo
passo, questo sì formale,
di un cambio di atteggiamento dopo mesi di attesa.
Nelle stesse ore si vedranno
invece i segretari generali di
Cgil, Cisl e Uil per decidere
la linea di azione e ottenere da Gentiloni il rispetto
dell’accordo sottoscritto dal
suo predecessore.
A
partire
dall’impegno di
dare 85 euro di
aumento mensili a
decorrere dal 2016 a
testa. Un impegno il
cui rispetto per tre
anni, aveva stimato
il ministro Madia,
costerà allo stato
circa 5 miliardi di
euro. A più di due
mesi dalla firma
dell’intesa, sul contratto non c’è nessuna novità, nessuna
direttiva che apra
almeno la trattativa all’Aran sulla
parte normativa, in
attesa che poi con
la prossima legge di
Stabilità si integri il
fondo per garantire
gli aumenti. E intanto, ci sono
invece le nuove norme sul Testo unico del pubblico impiego
e i licenziamenti. Insomma,
l’aria che tira è pesante.
Tanto che nei giorni
scorsi il numero uno della
Cisl, Anna Maria Furlan, è
salita a Palazzo Chigi per un
colloquio con Paolo Gentiloni.
Ieri sera dalla presidenza del
consiglio si rendeva noto un
incontro anche con il segretario della Cgil, Susanna
Camusso. In ballo ci sono gli
statali, e poi il nodo delle pensioni, le politiche attive... tutti i dossier lasciati in sospeso
da Renzi e che attendono di
Vignetta di Claudio Cadei
essere definiti.
«Non passa giorno che
l’informazione non punti il
dito contro furbetti del cartellino, malati da perseguire
e licenziamenti nel pubblico impiego... Non vogliamo
difendere chi sbaglia, ma è
inaccettabile che tutto si concentri solo su questi aspetti»,
spiega Antonio Foccillo,
segretario confederale della
Uil, «prima si ringraziano
quei dipendenti pubblici,
come vigili del fuoco, forze
di polizia, medici, infermieri, insegnanti, che lavorano
quotidianamente al servizio
del paese, poi, quegli stessi
lavoratori pubblici
vengono offesi da
campagne di odio.
Si rispettino la loro
professionalità e dignità di lavoratori.
E lo faccia per primo il governo».
Ha bollato come
«scappatoia» il decalogo della Madia
sui licenziamenti
disciplinari, la Camusso: «La cosa che
non si capisce invece, e che mi sembra
molto più importante, è come intendono attuare l’accordo
del 30 novembre per
dare effettivamente
il via al rinnovo dei
contratti pubblici,
cancellando quelle
parti di legislazione, in particolare la legge Brunetta e la
Buona Scuola, che hanno sottratto materia alla contrattazione, ma soprattutto ha sottratto la capacità di rendere
la pubblica amministrazione
aderente alla realtà». E poi,
«chiediamo anche, come prevede l’intesa del 30 novembre,
la semplificazione del sistema
dei fondi di contrattazione di
secondo livello, la previsione
di nuovi e differenti sistemi di
valutazione della produttività e la riduzione delle forme
di precariato», sottolinea il segretario della Uil, Carmelo
Barbagallo.
La richiesta che sta
emergendo dal fronte sindacale è che si innalzi il livello del confronto, che entri in campo direttamente
palazzo Chigi. Che dovrà
a quel punto decidere se e
come affrontare un dossier
molto spinoso, con risvolti finanziari pesanti, il costo del
rinnovo del contratto degli
statali e la riforma del comparto, avendo dietro l’angolo
una manovra correttiva dei
conti pubblici. Quale strada
imboccare dovrà deciderlo
anche il Partito democratico,
che alla vigilia del referendum costituzionale si spese
molto perché l’accordo sugli
statali si facesse.
Il referendum è andato
come è andato, e proprio gli
statali e i dipendenti della
scuola sono indicati tra
quanti hanno votato contro
la riforma di Matteo Renzi.
Decidere ora di giocarsi alle
prossime elezioni ancora la
carta dell’investimento sul
pubblico impiego, con tutto
quello che costa, non è affatto scontato.
© Riproduzione riservata
GRAZIE AL NO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE. MA ADESSO NON SI SA PROPRIO CHE COSA FARGLI FARE
Il Cnel defunto è sopravvissuto
Il suo personale inutile andrebbe collocato altrove
DI
L
CESARE MAFFI
a ripulsa referendaria della riforma costituzionale ha
mantenuto in vita il Consiglio
nazionale dell’economia e del
lavoro.
Se il quesito unico fosse stato spacchettato, così che gli elettori si fossero
potuti esprimere singolarmente sulla
soppressione del Cnel, è facile prevedere che avrebbero sancito la sparizione
di un ente di cui, dopo la scomparsa di
Giulio Andreotti, non si riesce più a
trovare un sostenitore. Dopo il referendum, invece, il mondo politico avrebbe
da curarsi del destino di questo ente
normalmente catalogato come inutile.
Si sono già avuti tentativi per
comprimerne le competenze, ma
con legge ordinaria. Anche dallo stesso Cnel giungono segnali per rivederne
funzionamento e attività. L’assenza del
numero legale dei consiglieri fa ritenere arduo che l’organismo possa lavorare ancora. Restano così dipendenti e
strutture, che meglio potrebbero essere
utilizzati con altri scopi, in altra forma,
in altri enti.
La soluzione logica sarebbe
l’approvazione di una legge costitu-
zionale che sopprima il Cnel. Sul piano vo richiederebbe un percorso goverpolitico, non si dovrebbero rilevare op- nativo, culminante in un decreto del
posizioni di sorta. Semmai, il problema presidente della Repubblica: l’attuale
è dato dai tempi: pur se teoricamente consiglio è in regime di proroga già dal
sarebbe possibile votare nella pre- luglio 2015.
sente legislatura questa
leggina (il diminutivo è
SCOVATI NELLA RETE
conseguente all’obiettiva
indifendibilità del Cnel e
al generale disinteresse
per il suo mantenimento
in attività), è palese che
soltanto dopo il rinnovo
delle camere si potrebbe
trovare un’intesa per un
celere passaggio parlamentare. Una volta che il Cnel
fosse affossato con legge
costituzionale, una legge
ordinaria disporrebbe sulla sua eredità: personale,
archivi, sede.
Nel frattempo, bisogna procedere col
mancato rinnovo dei
consiglieri, senza sostituire dimissionari, decaduti,
morti.
Gli attuali componenti
sono 25, su un plenum di
64. La procedura di rinno-
A proposito d’inerzia nelle nomine,
si può ricordare un precedente: l’Alta
corte per la Regione siciliana, composta
da otto giudici, metà di nomina parlamentare nazionale, metà di nomina
siciliana.
Nonostante il teorico
permanere nell’Alta corte
di una competenza originaria
(in materia penale), le camere
smisero nel 1957 di procedere
alle nomine di spettanza. Il
presidente della camera, come
presidente del parlamento in
seduta comune, rinviò l’elezione
di due giudici dell’Alta corte, su
richiesta del capo dello stato.
Il rinvio operò in assoluto,
perché il parlamento non fu
più riunito per integrare l’Alta
corte, finché nel 1970 una sentenza della Corte costituzionale
provocò la completa scomparsa dell’Alta corte dagli organi
giurisdizionali. Si potrà, analogamente, non procedere né a
integrazioni né a rinnovi del
Cnel, fin quando non intervenga una legge costituzionale di
soppressione.
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