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Giovedì 9 Febbraio 2017
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Sono 212 mila le famiglie nel mondo che operano in questo segmento e tengono acceso il mercato
I super ricchi amano il mattone
L’epicentro è New York con punte di 70 mila euro a mq
da Parigi
GIUSEPPE CORSENTINO
U
na volta veniva chiamata la «malattia
della pietra» e i più
esposti sembravano
essere gli italiani. I ricchi, i
super-ricchi, ma anche le famiglie del ceto medio, quando
c’era ancora e aveva qualche
risorsa, pronti a qualsiasi sacrificio pur di avere una o più
case di proprietà. Baluardi di
pietra e cemento contro l’inflazione.
Ora uno studio di due società di consulenza immobiliare,
l’inglese Barnes, fondata negli
anni Novanta da una signora
londinese (Heidi Barnes) che
si era specializzata nella ricerca di dimore lussuosissime
per principi e sceicchi arabi,
e l’americana Wealth X che si
occupa di dar consigli ai supermiliardari su come investire le
proprie super-ricchezze, si apprende che anche le 212mila
famiglie di tutto il mondo che
hanno un patrimonio superiore ai 30 milioni di dollari (28
milioni di euro) soffrono della
stessa malattia.
E che, forse scoraggiati
dalle performance non eccezionali dei mercati borsistici
o semplicemente preoccupati
dalla loro volatilità, hanno deciso di investire l’8 per cento
del loro patrimonio (si tratta,
ci informano ancora i due report di Barnes e di Wealth X,
di un sistema di asset che
arriva all’incredibile livello
di 28 mila miliardi di dollari) proprio nel mercato del
mattone. Mattone hautde-gamme, si capisce: ville
lussuosissime o penthouse
strepitose all’ultimo piano
dei grattacieli. E per averne
conferma basta considerare
i dati: il 10% delle 212 mila
famiglie più ricche al mondo possiede almeno cinque
super-residenze nelle più
belle città del mondo.
Perché lo fanno? Risponde Thibaud de Saint
Vincent, il nuovo presidente mondiale del reseau immobiliare Barnes (ha preso
il posto della fondatrice):
«Le luxe s’en sort toujours,
même au plus fort de crises
il ne s’effronde pas», il lusso
è la migliore arma anti-crisi,
non perde mai valore anche
quando i mercati finanziari
sprofondano.
«Sa come si chiamano a
New York i grattacieli più
belli, stile Trump Tower, per
intenderci?» incalza Thibaut.
«Concret safes», strumenti di
difesa, muraglioni di cemento dietro i quali possono sempre rifugiarsi e proteggersi i
nostri supermiliardari (con
Thibaud de Saint Vincent
tutte le comodità del caso, si
capisce).
Grattacieli e penthouse
a New York, che è comunque
la seconda città più ambita, e
ville da nababbi a Londra, la
vera capitale immobiliare dei
super-ricchi che continua a detenere il record dei prezzi con
valori medi di 35 mila euro
al metro quadro nonostante
il Duty Stamp, una tassa del
13% che si applica ai non-residenti, abbia raffreddato un po’
gli eccessi. «Dopo la Brexit»
confessa Thibaut «i
prezzi sono scesi del
15%, ma questo ha
fatto crescere il numero dei potenziali
acquirenti».
Come a dire che,
qualunque cosa accada, Londra resta
la regina del mercato immobiliare
«haut-de-gamme»,
davanti a New York
anche se in certe
torri di Manhattan,
l’anno scorso, si è arrivati a picchi di 70
mila euro al metro
quadrato. Seguono,
nel rating di Barnes
e Wealth X, Tokio e
Sidney, ma con il limite di una certa marginalità
rispetto alle capitali occidentali.
Al quinto posto Parigi.
Con i suoi hotêl particulier,
residenze settecentesche ristrutturate che possono arrivare anche a 7 milioni di
euro come certe ville lungo
rue de Grenelle, a pochi passi dall’Ambasciata italiana
(anch’essa un hotel particulier
regalata dai vecchi proprietari allo Stato italiano durante
il fascismo). «Parigi avrebbe
tutte le carte in regola per
attirare i grandi investitori
immobiliari, forse più di Londra» spiega Nicolas Pettex,
direttore di Féau Immobilier,
un’agenzia che opera nel
segmento-lusso «ma adesso
è la città sta solo pagando la
crisi, terrorismo e instabilità
economica, di questi ultimi
anni. Ma sono sicuro che
cambierà».
Pettex e i suoi colleghi
immobiliaristi sperano su
un unico, vero cambiamento: l’elezione alla presidenza
della Repubblica del candidato repubblicano François
Fillon che ha promesso di
cancellare la famosa (o famigerata, a seconda dei punti
di vista) Isf, l’imposta sulla
fortuna, la patrimoniale che
colpisce la ricchezza oltre
il milione di euro, immobili
compresi. Senza Isf, Parigi
batterebbe tutti le capitali
del mondo. Parola d’immobiliarista.
@pippocorsentino
© Riproduzione riservata
È QUESTA L’ESSENZA DELLA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA CHE VA SOTTO IL NOME DI INDUSTRIA 4.0
Macchine che controllano le macchine
Per farle funzionare servono però dei cybertecnici e non più gli operai
DI
I
ANTONIO QUAGLIO
ndustria 4.0: una scommessa di
politica economica da 18 miliardi; l’unico movimento strategico
della legge di stabilità 2017, il
solo a prova di eurocrati. Ma sarà
davvero capace di spingere pil e occupazione, di produrre «nuovo sviluppo Italiano»? La risposta giunta
dal summit indetto da Ucimu, l’associazione delle imprese produttrici
di macchine utensili, è stata molto
netta.
Il presidente Massimo Carboniero, pochi minuti dopo l’avvio dei lavori, è andato subito al punto: «I benefici fiscali sono molto importanti,
ma se ci fermassimo al loro utilizzo
nel breve periodo saremo miopi.
Industria 4.0 offre, a noi imprenditori dei sistemi per produrre,
condizioni favorevoli perché sosteniamo nel tempo la competitività nostra e dell’Azienda-Italia,
calando la digitalizzazione nei
nostri processi e nei nostri prodotti. Super-ammortamento e
iper-ammortamento sono strumenti efficaci (un investimento
può costare il 36% in meno) ma il
valore aggiunto lo dovremo creare
noi, l’obiettivo lo dobbiamo raggiungere noi».
La politica industriale «4.0» è
quella che, nel 2017, seleziona il merito di poche centinaia di industriali,
che producono 8 miliardi di Pil e ne
esportano più di 3, si battono in Usa fabbrica, Industria 4.0 vince se voi
e Cina e si confrontano alla pari con riuscirete a cambiare i vostri modelli
la Germania. Miliardi che valgono d’impresa».
Prima del botta e risposta opedoppio, perchè generati dalla tecnologia, dall’innovazione. Il governo rativo, non è mancato il tempo di un
ha preso sulla parola il loro modo di brainstorming ai limiti della provocavedere la crisi italiana: rilanciamo zione, da parte di Roland Berger, il
gli investimenti privati in sistemi consulente globale di Mise e Ucimu.
produttivi, svecchiando il parco-mac- Un video silenzioso inquadra una selchine; creiamo nuovi cyber-distretti va di robot in azione. È la catena di
fra chi progetta, costruisce e poi se- montaggio «4.0» di una grande mulgue in remoto l’intero ciclo di vita tinazionale metalmeccanica italiana.
di una macchina e chi
quella macchina deve
SCOVATI NELLA RETE
utilizzare al meglio e
al massimo per dare
sostanza ai vari Made
in Italy.
Di fronte a Carboniero, c’erano due
terzi abbondanti degli associati Ucimu,
convenuti a Milano
per un faccia a faccia
con Stefano Firpo,
il direttore generale
del Mise, primo collaboratore del ministro
Carlo Calenda nella
stesura di Industria
4.0. Il tecnocrate tiene
il punto fra domande
a raffica su commi e
tabelle, ma ogni cinque minuti ripete: «La
vostra è una sfida culturale, non state cambiando le macchine in
«Vedete? Non c’è più alcun umano al
lavoro, ma, dentro quei robot, è probabile ci siano componenti prodotte da
qualche associato Ucimi qui in sala»,
dice Paolo Massardi, partner Roland Berger. Cattiva notizia per chi
ancora spera che l’occupazione (giovanile) in Italia possa ripartire da
qualche postazione di lavoro «generica», alla catena di montaggio. Sfida,
invece, e potenziale buona notizia per
diplomati di nuovi Its meccatronici o
ingegneri assortiti.
Industria 4.0 ha bisogno di loro, tanti, brillanti, subito. «Connettività» è il
nuovo mantra. In fabbrica
devono imparare a «lavorare assieme» macchine che
non l’hanno fatto finora. Le
macchine di una fabbrica
devono imparare a controllare le macchine di un’altra
fabbrica. Le macchine, tutte,
devono imparare a fornire
agli engineer il massimo dei
dati possibili e gli engineer
devono imparare a usarli
quelle miniere di dati nel
modo migliore: per alzare
l’efficienza delle macchine
esistenti, per disegnarne di
nuove e più evolute. A lot
to do: c’è un sacco da fare,
dentro e attorno a Industria
4.0. E c’è un sacco di lavoro:
in Italia.
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