Edizione settimanale in lingua italiana

Download Report

Transcript Edizione settimanale in lingua italiana

L’Osservatore
Romano
il Settimanale
Città del Vaticano, giovedì 9 febbraio 2017
anno LXX, numero 6 (3.879)
I poveri bussano
alla nostra porta
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#editoriale
2
Ghislaine Howard
«Il Padre misericordioso»
(2014)
L
a posizione tenuta da Papa Francesco, fin dai
primi mesi del pontificato, nei confronti di
grandi temi come l’aborto, il matrimonio omosessuale, l’eutanasia, è stata ferma e coerente
con la morale cattolica, ma attenta a non legarla a scelte partitiche. In questo modo ha
cercato di strappare i cattolici dall’abbraccio
interessato delle destre. Senza deflettere dai
principi della morale cattolica, ha voluto
infatti sfuggire alla politicizzazione che queste
questioni hanno assunto nella vita di molti
paesi democratici, per non trovarsi prigioniero
di quello che stava diventando, a tutti gli
effetti, un appiattimento della Chiesa su
posizioni strettamente politiche. È stata
un’operazione non facile, che gli è costata
molte critiche, ma della quale ora si raccolgono i frutti.
La posizione della Chiesa sui due temi cruciali del nostro tempo, i migranti e la vita, è
chiara e autonoma dalla politica, tanto che
può muoversi liberamente senza timore di venire immediatamente schiacciata dal peso di
un’apparente coincidenza. Si tratta di un difficile equilibrio, che va riaggiustato di volta in
volta: più facile rinchiudersi in posizioni precostituite e in apparenza chiare. Un atteggiamento in parte nuovo, che non si può confondere con il relativismo, perché basato sulla
consapevolezza profonda che ogni volta bisogna scegliere, e che per farlo è fondamentale
muoversi a un livello più alto di quello della
polemica politica.
Del resto la Chiesa sa da tempo cosa significhi prendere le distanze da coloro che solo
esteriormente sono compagni di battaglia: Napoleone, che aveva reso molto più severa la legislazione contro l’aborto, non l’aveva certo
fatto perché mosso da motivi morali, ma per
garantire soldati al suo esercito, frutto della
coscrizione obbligatoria. E allo stesso modo si
erano comportati i governi europei dopo la
prima guerra mondiale, che aveva determinato
Al di sopra
della politica
di LUCETTA
SCARAFFIA
una ecatombe di giovani maschi. In entrambe
le situazioni la Chiesa ha saputo prendere le
distanze dalle contingenze politiche, grazie
proprio all’altezza morale con cui affrontava il
problema.
Ma soprattutto grazie al fatto che la misericordia, il perdono, fanno parte della tradizione
cattolica tanto quanto la condanna del peccato. Proprio questo particolare punto di vista
permette alla Chiesa di uscire da schematiche
equazioni, nelle quali talvolta si è trovata imprigionata.
Quando infatti è stata dimenticata questa
specifica condizione, che è proprio quella che
differenzia la posizione cattolica da qualsiasi
parte politica, la Chiesa o singoli gruppi di
cattolici hanno rischiato di essere usati, manipolati, travisati. Pagando a caro prezzo l’immersione nel gioco politico, nel quale alla fine
non hanno mai tratto niente sul lungo periodo. Ma c’è sempre chi prova, da un lato come
dall’altro, a tirare la Chiesa dalla propria parte. Ed è solo alzando il punto di vista con il
quale si interpreta il mondo che ci circonda,
ritornando allo spirito evangelico senza paura
di sembrare ingenui, che si può trovare la posizione giusta e libera con la quale guardare al
presente.
Papa Francesco lo sta facendo, con la fatica
che implica questo districarsi da mille lacci e
da mille condizionamenti, interni ed esterni. I
fedeli dovrebbero aiutarlo, facendo uno sforzo
in più per capire cosa accade, senza farsi
condizionare dalle voci che sembrano sapere
qual è la via giusta solo perché sembra la più
facile.
L’OSSERVATORE ROMANO
Unicuique suum
Non praevalebunt
Edizione settimanale in lingua italiana
Città del Vaticano
[email protected]
www.osservatoreromano.va
GIOVANNI MARIA VIAN
D irettore
GIANLUCA BICCINI
Coordinatore
PIERO DI D OMENICANTONIO
Progetto grafico
Redazione
via del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano
fax +39 06 6988 3675
Servizio fotografico
telefono 06 6988 4797
[email protected]
fax 06 6988 4998
www.photo.va
TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE
L’OSSERVATORE ROMANO
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
Abbonamenti
Italia, Vaticano: € 58,00 (6 mesi € 29,00).
telefono 06 6989 9480
fax 06 6988 5164
[email protected]
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#internazionale
C
La Francia
verso le elezioni
presidenziali
di aprile
da Parigi
CHARLES
DE PECHPEYROU
hi avrebbe mai detto, solo qualche mese fa,
che la campagna elettorale per le elezioni presidenziali in Francia avrebbe portato all’esclusione del presidente uscente e del suo predecessore? Chi avrebbe immaginato che le due
maggiori formazioni — Républicains e Partito
socialista — avrebbero presentato al primo turno candidati in tutto o in parte inattesi? Chi
poteva prevedere un successo così grande, almeno nelle intenzioni di voto, dei vari partiti
“anti-sistema” come il Fronte nazionale, ma
anche di la France insoumise, per l’estrema sinistra, e di En marche! che, nonostante la definizione di partito social-liberale, ancora occupa una posizione oscura nello scacchiere politico? Una campagna inedita, quindi, anche se
se si guarda al clamore suscitato dalle accuse
rivolte all’ex premier François Fillon, poco prima considerato il candidato favorito per diventare l’ottavo presidente della V Repubblica.
Lunedì 6 febbraio, l’esponente di centro-destra ha invece dovuto convocare una conferenza stampa per chiarire il passato professionale
dei suoi familiari.
il vincitore delle primarie socialiste Benoît
Hamon, sul quale pochi politologi avrebbero
scommesso, sta cercando di attrarre il voto con
misure come il sussidio universale garantito a
tutti i cittadini maggiorenni, provvedimento le
cui sfumature sono però tutt’altro che definite.
Per ora, prima ancora di convincere gli elettori
con il programma, il candidato deve unire la
sinistra. Una vera sfida, dato che gli ambienti
politici vicini a Manuel Valls, inaspettatamente
sconfitto da Hamon alle primarie, hanno clamorosamente sottolineato la loro diffidenza
nei confronti del candidato socialista.
Hamon gode di poco sostegno e trova alla
sua sinistra un rivale molto pericoloso, l’ex-comunista Jean-Luc Mélenchon, presidente della
France insoumise, accreditato anche del terzo
posto al primo turno delle elezioni.
Molto vicini a quelli di Donald Trump sono
stati invece i toni usati della leader dell’estrema destra Marine Le Pen: alla televisione, la
candidata del Fronte nazionale ha indicato che
la contestatissima misura del “Muslim ban”
3
potrebbe essere applicata in Francia in maniera temporanea. Il programma di Le Pen, che
ha aspettato fino all’ultimo per avviare la sua
campagna, fa eco al capo dello stato americano anche nel campo dell’economia. Intende
«liberarsi dalle costrizioni dell’Unione europea» e avvantaggiare le aziende francesi per le
ordinazioni fatte dalla pubblica amministrazione. La leader del Fronte nazionale, che i sondaggi vedono come probabile protagonista del
turno di ballottaggio, promette anche di ristabilire una «moneta nazionale», senza mai tuttavia menzionare un’uscita dall’Euro.
In mezzo a tutti, naviga l’outsider Emmanuel Macron di En marche!, che può vantare
ottimi risultati nei vari sondaggi e sale stracolme durante i comizi. Resta tuttavia da vedere
se la scelta di un profilo «anti-sistema», vicino
al popolo, alla fine sarà stata quella giusta.
La Francia sta quindi scrivendo un capitolo
inedito della sua storia politica: a poco più di
Campagna
di incertezze
due mesi dal primo turno delle presidenziali, il
principale partito di centro-destra ha visto vacillare il suo candidato. Dall’altro lato dello
schieramento, è ancora molto incerto il sostegno al candidato socialista. I sondaggi più recenti danno per certa la presenza al secondo
turno, domenica 7 maggio, di Le Pen e Macron. Ma negli ultimi mesi, le previsioni degli
istituti di analisi sono state smentite dai risultati.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#ilpunto
4
di ANTONIO
ZANARDI LANDI
L’
Europa, «così come noi la definiamo, è una
creazione del Medio Evo; una unità storica
che, come tutte le unità storiche, è fatta di diversità, di pezzi, di cocci strappati da unità
storiche anteriori, a loro volta fatte di pezzi, di
cocci, di frammenti di unità precedenti». Questa suggestiva frase di Lucien Febvre appare
nella prefazione scritta nel 2010 dal presidente
Giorgio Napolitano al volume intitolato De
Europa e dedicato a Benedetto XVI, che contiene la prima traduzione italiana dell’opera di
quel grande umanista che fu Enea Silvio Piccolomini, poi Pio II.
Sono parole a cui in questi tempi ripenso
spesso. Se è infatti vero che nel nostro mondo
europeo possiamo ancora ben distinguere le
varie provenienze di nomi, idee, istituti giuridici e concetti, è anche vero che i processi di
disaggregazione dei mondi da cui essi provengono sono stati dolorosi e traumatici. Di «cocci strappati» davvero si tratta, cocci frutto di
rotture e di traumi.
Questa immagine di frattura va accostata a
quello che ci circonda e che percepiamo spesso come un mondo in crisi e in affanno. Ma
che è anche il mondo in cui la vita media si è
allungata come non mai, la scienza ha fatto
progressi mirabili, la rapidità delle comunicazioni consente di vivere e lavorare in più parti
del globo e la conoscenza è accessibile a un
numero di persone multiplo di quello del passato.
Per noi questo mondo è normale e spesso
non realizziamo che in Europa siamo in genere molto favoriti rispetto a chi vive a sud e a
est, anche per la circostanza, forse mai verificatasi nella storia, di settant’anni di pace sostanzialmente ininterrotta. I nostri paesi hanno
conosciuto uno sviluppo economico, scientifico e umano grazie a democrazie in misura variabile aperte e inclusive, dotate di previdenza
sociale, istruzione pubblica e sanità più o meno accessibili a tutti. Ma oggi assistiamo a una
sorta di reflusso e l’occidente sembra desideroso di sbarazzarsi rapidamente delle caratteristi-
Un’Europa fatta
di frammenti
che che hanno costituito la ricetta del suo successo e dei suoi pur faticosi equilibri.
Mi chiedo peraltro se la nostra gente e la
nostra politica si rendano conto che ci troviamo di fronte a prospettive in cui altri saranno
i vincitori, altri modelli culturali si imporranno, altri interessi prevarranno. Sono questi i
processi naturali e inevitabili nella storia
dell’uomo, in cui i portatori del rinnovamento
sono stati anche quelli della distruzione e della
sopraffazione sulle civiltà precedenti. Ma vogliamo davvero che il nostro mondo, ridotto in
cocci e frammenti, divenga uno dei tanti componenti di una realtà di cui non distinguiamo
i contorni? E di cui non conosciamo i principi
cardine e le linee guida?
Ci sembra, in fondo, che il nostro modello,
fatto di cocci provenienti dalla civiltà greca, latina e araba non si sia sviluppato sino in fondo e sia ancora un’incompiuta. Solo una settantina d’anni sono trascorsi dalla Shoah e
dalla sconfitta del nazismo. Nemmeno
trent’anni fa è caduto il Muro che divideva
l’Europa in due mondi inconciliabili. In questo tempo siamo cresciuti e ci siamo aperti a
culture e influenze diverse, perdendo però alcuni dei cardini per la costruzione di una società e di un’Europa migliori.
Ora è necessario fermarsi e capire la portata
di quello che abbiamo e che, senza un cambio
di rotta, rischiamo di perdere. I più giovani, e
forse noi stessi, diamo per scontato cose che
purtroppo scontate non sono. Certezze che
con il dilagare dei populismi vacillano anche
in paesi simbolo di democrazia e che potrebbero essere cancellate per sempre.
Un pezzo del muro di Berlino
nel Mauerpark
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#internazionale
I
Il fenomeno
del superlavoro
tra i giovani
giapponesi
da Tokyo
CRISTIAN MARTINI
GRIMALDI
l governo giapponese ha recentemente annunciato misure per ridurre la quantità di straordinari che i dipendenti possono fare, nel tentativo di contrastare il fenomeno delle morti da
super lavoro (karoshi). Nel 2015 sono stati ufficialmente riconosciuti 2000 casi.
Ma se karoshi è diventata una parola ricorrente nei discorsi dei giapponesi lo si deve al
caso di una ventiquattrenne che si è tolta la vita prima di Natale. La giovane si era gettata
dal terzo piano della stanza del dormitorio nel
quale viveva. I media internazionali non hanno evidenziato abbastanza questo particolare.
Il luogo del suicidio la dice lunga, infatti, sul
reale significato del lavoro per un giovane
giapponese: mangiare e dormire nello stesso
posto dove si lavora (soprattutto nei primi anni dopo l’assunzione) è una prassi. Il suicidio
è avvenuto in un’azienda già tristemente famosa per il trattamento disumano dei dipendenti.
Il clamore suscitato da questo caso è dovuto
ad alcuni messaggi diventati virali sui social.
La giovane, che totalizzava una media di 105
ore di straordinari al mese, aveva infatti condiviso su Twitter il proprio stato d’animo: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare
sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo
di farla finita».
Un sondaggio del governo giapponese ha
rivelato che un quinto dei dipendenti deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro.
Il 22,7 per cento delle imprese impiegano personale che produce più di 80 ore di straordinario al mese. Queste — quattro ore al giorno
da aggiungere ai normali orari — sono ufficialmente considerate la soglia oltre la quale il rischio di morte si moltiplica. Ma nel 12 per
cento delle aziende i dipendenti producono
ben oltre le 100 ore mensili di straordinari.
Il governo sta cercando di attuare un cambiamento di mentalità. «Il Giappone ha bisogno di ridurre le ore dedicate al lavoro allo
scopo di indirizzare il tempo alla famiglia, ai
figli e anche alla cura degli anziani», ha ribadito un portavoce dell’esecutivo. Il primo ministro Shinzo Abe sta per varare un sistema
5
chiamato “Premium Venerdì”. La campagna,
guidata dalla Japan Business Federation (Jbf),
permetterà ai lavoratori di lasciare presto l’ufficio l’ultimo venerdì di ogni mese. Ma i critici
non hanno tardato a evidenziare come con
questa misura non si stabilisca un migliore
equilibrio tra ore dedicate alla vita privata e
quelle destinate al lavoro, tanto più che la Jbf
ha relativamente pochi membri: 1300 aziende
su oltre 2,5 milioni di quelle registrate. Allo
stesso tempo il Giappone si ritrova a essere
uno dei paesi meno generosi per le ferie. I dipendenti hanno mediamente diritto a dieci
giorni di ferie pagate, ma a zero festività nazionali retribuite (l’Australia, in confronto, offre 20 giorni di ferie pagate e otto giorni di festività pagate). Molti lavoratori non utilizzano
nemmeno la metà dei giorni di ferie a disposizione. Il governo giapponese punta a ridurre
la percentuale di dipendenti che lavorano più
di 60 ore alla settimana a meno del cinque per
Vittime
del karoshi
cento del totale, ed entro il 2020 (l’anno delle
Olimpiadi che si svolgeranno a Tokyo) intende convincere i lavoratori a prendersi almeno
il 70 per cento delle vacanze cui hanno diritto.
Ma il problema delle morti da superlavoro difficilmente potrà essere risolto dall’alto: attraverso una legislazione già sperimentata in passato e con scarsi risultati. Il karoshi è un problema che nasce innanzitutto dalle dinamiche
all’interno della società giapponese.
La madre di Matsuri Takahashi
e il suo avvocato mostrano le foto
della giovane impiegata
uccisasi per troppo lavoro
(foto Kyodo)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#culture
6
N
el discorso per gli auguri natalizi del 22 dicembre scorso Francesco è tornato a riflettere,
come nei precedenti due anni, sulla riforma
della curia romana. Al termine ha ricordato
che dopo il discorso del 2014, quando aveva
parlato delle «malattie curiali», un partecipante gli aveva domandato «Dove devo andare, in
farmacia o a confessarmi?» e che egli aveva risposto «Mah, tutt’e due». Ha riferito poi che,
salutando il cardinale Brandmüller, questi aveva detto «Acquaviva». E il Papa ha proseguito
nella spiegazione: «Io, al momento, non ho
capito, ma poi, pensando, pensando, ho ricordato che Acquaviva, quinto generale della
Compagnia di Gesù, aveva scritto un libro che
noi studenti leggevamo in latino. I padri spirituali ce lo facevano leggere, si chiamava così:
Industriae pro Superioribus ejusdem Societatis ad
curandos animae morbos, cioè le malattie
dell’anima». Aggiungendo subito dopo che
aveva deciso di farne dono natalizio a tutti i
presenti.
L’episodio merita di essere commentato,
perché aiuta a mettere meglio a fuoco l’altro
livello che, insieme con quelli ecclesiologico e
istituzionale, Francesco intende quando fa uso
della parola “riforma”. Intendo il livello spirituale, che fu dominante nel discorso del 22 dicembre 2014. Come ogni corpo umano — disse
il Papa — la curia «è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermità». Francesco, in verità, ne parlò non soltanto come
malattie, ma pure come «tentazioni» che indeboliscono il servizio al Signore. Propose perciò come orizzonte, nell’ultimo periodo di preparazione al Natale, la celebrazione del sacramento della riconciliazione.
Bisogna innanzitutto accennare brevemente
all’opera di padre Claudio Acquaviva (1543-
Riforma
e terapia
di MARCELLO
SEMERARO
1615), che fu il quinto preposito generale della
Compagnia di Gesù. Le Industriae (pubblicate
nel 1600 Apud Philippum Iunctam, famosa officina di Firenze) furono scritte dal generale per
i superiori della Compagnia al fine di aiutarli
ad rectam gubernationem, ossia “per il buon governo” e anche per la crescita delle comunità.
Interessante da notare è l’uso dell’espressione
cura animarum — Acquaviva alterna il termine
cura con curatio, che intende come l’esercizio
effettivo della cura — in senso non amministrativo, ma spirituale.
La cura delle malattie dell’anima è poi trattata in analogia con la cura delle malattie del
corpo; infatti, subito si legge nel proemio la
seguente affermazione: «La cura dell’anima,
che è molto più importante e più difficile della
cura del corpo, esige una sollecitudine e
un’abilità ancora maggiori». Nel capitolo secondo (intitolato De suavitate et efficacia in gubernatione coniungendis), prima di dare inizio a
una ben nutrita serie di malattie — ne sono
elencate addirittura sedici — l’autore si diffonde sull’importanza di comporre nel governo
mitezza e fermezza: fortiter in re, suaviter in
modo direbbe un gesuita ispirandosi alle Costituzioni (IX, 727).
Parlando nel 2014 di un «catalogo delle malattie», il Papa disse esplicitamente di volersi
rifare all’«esempio dei Padri del deserto».
Classici in materia sono Evagrio Pontico (345399) e Giovanni Cassiano (360 circa - 435). Il
primo nel suo Trattato pratico e il secondo nelle sue Istituzioni cenobitiche ne elencano otto:
ingordigia, fornicazione, avarizia, collera, tristezza, acedia, vanagloria e superbia. Si dirà,
in ogni caso, che per la gran parte degli autori
ascetici questi elenchi erano fatti risalire a due
“passioni madri” che sono l’ingordigia, intesa
come radicale avidità concernente le facoltà irrazionali (thymós ed epithymía), e la superbia,
che s’attacca alla parte razionale (noús). Ma
già Cicerone, nel De finibus bonorum et malorum (I, 59), aveva iniziato così il suo catalogo:
animi autem morbi sunt cupiditates inmensae et
inanes (“malattie dell’animo sono le cupidigie
smisurate e vane”).
Alla radice di tutto e causa di ogni male vi è
l’amore di sé, che i padri chiamano philautía.
Noi potremmo anche renderlo con “narcisismo”. San Massimo il Confessore la indica come la somma di tutte le passioni e descrive
analiticamente il processo che avendola come
principio prende le mosse dall’ingordigia e si
conclude nella superbia (cfr. Centurie sulla carità 3, 56-57). È il medesimo processo cui fece
Hieronymus Bosch
«Sette peccati capitali»
(1500-1525)
Nella letteratura
spirituale
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#culture
7
riferimento anche Francesco nell’omelia tenuta
a Santa Marta il 26 settembre scorso, quando
indicò nella cupidigia, nella vanità e nella superbia la radice di tutte le malattie spirituali:
alla radice però c’è la «vanità» descritta come
«osteoporosi dell’anima».
L’analogia fra le malattie del corpo e della
psiche e le malattie dell’anima, o spirituali, in
rapporto alla responsabilità di chi presiede la
comunità è poi un classico nelle regole monastiche. Nelle Regole diffuse (30), ad esempio,
san Basilio osserva che colui che presiede deve
essere convinto «che aver cura di molti significa servire molti. E come dunque chi presta le
proprie cure a molti feriti e raschia via l’infezione da ogni piaga usando i rimedi adatti al
tipo di malattia che incontra, non trova in
questo una occasione di vanto ma piuttosto di
umiltà, di lotta e combattimento, così a
maggior ragione colui al quale è stato affidato
il compito di guarire le infermità della comunità».
Similmente scrive san Benedetto nel capitolo XXVII della sua Regola: «Con ogni premurosa diligenza l’abate deve curarsi dei fratelli colpevoli, perché non hanno bisogno del medico
i sani ma gli infermi. Deve perciò comportarsi
del tutto come un sapiente medico». La figura
del sapiens medicus era cara a san Benedetto,
che v’insiste anche nel capitolo successivo nel
caso che il colpevole non si corregga, o monti
in superbia: «L’abate faccia come un esperto
medico: se ha usato i lenitivi, se gli unguenti
delle esortazioni, se i medicamenti delle divine
scritture, se infine la bruciatura della scomunica o quella delle piaghe della verga, e vede
che a nulla approdano le sue industrie, adoperi anche, ciò che ancor vale di più, preghiera
propria e di tutti i monaci per lui, perché il Signore che tutto può operi la salute del fratello
infermo. Ma se neppure in tal modo quello
guarirà, allora l’abate si serva ormai del ferro
dell’amputazione».
Anche Giovanni Climaco nel suo Sermone al
pastore paragona l’igumeno al medico e perciò
gli prescrive di avere «impiastri, polveri disseccanti, colliri, pozioni, spugne, rimedi contro la
nausea, lancette da salasso, cauteri, unguenti,
sonniferi, bisturi, bende». E subito dopo (cfr.
11-13) spiega per quali malattie dell’anima tutto
ciò deve servire.
Insomma, ce n’è abbastanza per inserire
nell’alveo di una solida tradizione ascetica che
affonda le sue radici nei monaci del deserto
quell’immagine della Chiesa come ospedale da
campo di cui Francesco parlò nella notissima
intervista rilasciata nell’estate del 2013: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa
ha più bisogno oggi è la capacità di curare le
ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come
un ospedale da campo dopo una battaglia. È
inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le
sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto.
Curare le ferite, curare le ferite... E bisogna
cominciare dal basso».
In tema, però, di “riforma terapeutica” in
rapporto alla curia romana l’antecedente più
calzante è quello di san Giovanni Leonardi
(1541-1609), grande figura di riformatore la cui
opera risulta essere per alcuni versi affine a
quella di Papa Francesco. Si tratta del «memoriale» da lui scritto a Papa Paolo V per la riforma generale della Chiesa, conservato
nell’archivio dell’ordine dei chierici regolari
della Madre di Dio da lui fondato. Dopo avere sottolineato che quanti vogliono impegnarsi
alla riforma dei costumi degli uomini debbono
loro stessi essere «specchi di ogni virtù e come
lucerne poste sul candelabro», scrive: «Chi
vuole operare una seria riforma religiosa e mo-
rale deve fare anzitutto, come un buon medico, un’attenta diagnosi dei mali che travagliano la Chiesa per poter così essere in grado di
prescrivere a ciascuno di essi il rimedio più appropriato». È un testo, questo, che è stato citato pure da Benedetto XVI nella sua catechesi
del 7 ottobre 2009.
Bisogna ricordare che prima di essere ammesso agli ordini sacri nel suo paese di origine Giovanni Leonardi era stato farmacista.
Francesco, come si sa ha compiuto gli studi
da perito chimico, ma non è probabilmente
per questo che oggi egli parla di medicine e
di ospedali da campo. Ritengo che la ragione
sia da ritrovarsi piuttosto nel carisma ignaziano. In una meditazione dettata ai gesuiti Bergoglio (Meditaciones para religiosos, Buenos Aires, Ediciones Diego de Torres, 1982, pagine
123) riferiva loro quanto il padre Pedro de Ribadeneyra aveva annotato circa il «modo di
governare di sant’Ignazio» spiegando come
per colui che tratta con il prossimo sia molto
necessario averne cura alla maniera di un
buon medico, e che non si spaventi delle sue
infermità, né provi ripugnanza delle sue piaghe, e che soffra con pazienza e con mansuetudine le sue debolezze e inadeguatezze, e
per questa ragione lo guardi non come un figlio di Adamo o come un vaso fragile di vetro o di argilla, ma come una immagine di
Dio, acquistato col sangue di Gesù Cristo.
Secondo il modello ignaziano, dunque, vero
ministro di Dio è el que trata con los prójimos
para curarlos, “colui che tratta con il prossimo
per curarlo”.
San Benedetto
assistito dall’angelo
con il libro della «Regola»
trasmesso all’abate Giovanni
(914-934)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#catalogo
8
di ROBERTO
RIGHETTO
S
La via cattolica
all’arte
e alla bellezza
i può immaginare una polemica sull’ornamento alla vigilia della prima guerra mondiale? E
che essa si trascini fino al nascere del nazismo? Proprio questo accadde in Austria, fra
Adolf Loos, l’architetto considerato fra i padri
del funzionalismo, e lo scrittore Hermann Broch, poi noto per i romanzi I sonnambuli e La
morte di Virgilio. Il caso Loos era scoppiato attorno alla sua casa costruita a Vienna in Michaelerplatz secondo forme semplici e lineari,
priva di qualsiasi ornamento, appunto. «Non
vi accorgete — scriveva Broch nel 1911 — che
qui il pensiero dell’illuminismo si è di nuovo
messo all’opera? Che qui regna quello stesso
bon ton che ha già detronizzato Dio?». La difesa dell’ornamento, quintessenza della cultura, era contro una concezione dell’arte che voleva abbracciare i principi della società capitalistica e la funzionalità del lavoro. «Naturalmente ciò non significa parlare a favore
dell’ornamento posticcio, della decorazione.
L’ornamento non è che l’ultimo tocco,
l’espressione differenziale, in piccolo, dell’idea
unitaria e unificatrice che informa il tutto» aggiungeva lo scrittore.
Il caso si ripresenta oggi con la pubblicazione di alcuni scritti giornalistici di Loos, raccolti da Skira con il titolo Come ci si veste. Articoli divertenti e che spesso si trasformano in invettiva contro la maniera di acconciarsi dei
connazionali. Prendendo atto che «il centro
della civiltà occidentale è Londra», Loos è
convinto che dietro la moda e la sua capacità
di imporsi in maniera uniforme nella società
borghese del tempo vi sia il segno del progresso, di una globalizzazione dei costumi — la
potremmo chiamare — che andava dall’America all’Europa.
L’architetto s’interroga se preferire i pantaloni o i calzoni corti, se abolire il gilet o indossare la salopette, ma il discorso di fondo è
squisitamente culturale: «Lo sviluppo grandioso del quale la nostra civiltà ha beneficiato nel
corso di questo secolo ha portato al felice superamento dell’ornamento. Più una civiltà è
primitiva, più utilizza ornamenti. L’ornamento
va sradicato. Il papuano e il bandito decorano
la loro pelle. L’indiano ricopre il suo remo e la
sua barca di una moltitudine di ornamenti.
Ma la bicicletta e la macchina a vapore non
hanno nessun ornamento. La civiltà che si
ispira al progresso risparmia tutti gli oggetti
dal peso degli ornamenti». Concetti che torneranno in una sua opera del 1908, Ornamento e
delitto, e a cui Broch replicherà con vari saggi,
raccolti nel 1990 da Einaudi con il significativo
titolo Il Kitsch.
Come si intuisce, la discussione è tutt’altro
che di poco conto: da una parte c’è una concezione moderna dell’arte e dell’architettura,
funzionali a criteri economici e ai ritmi di produzione propri del capitalismo, dall’altra un richiamo alla tradizione e addirittura al medioevo, ove l’arte era espressione di individualità
creatrici all’interno di un progetto unitario.
Broch se la prende con il livellamento delle
cose e con l’idea che solo la macchina sia estetica: alla concezione spoglia che attribuisce al
protestantesimo contrappone la via cattolica
all’arte e alla bellezza, il cui venir meno può
dar spazio solo al Kitsch, al gusto per l’effetto
e la riproduzione.
Nerone e Hitler — scriverà negli anni cinquanta Broch dopo essersi rifugiato in Ameri-
Adolf Loos in un ritratto
di Oskar Kokoschka (1909)
Com’erano kitsch
Nerone e Hitler
ca per le sue radici ebraiche — sono i veri rappresentanti del Kitsch, di questa linea malefica
che ha avvelenato la cultura europea. E lasciano davvero l’amaro in bocca le parole conclusive di un articolo di Loos del 1898 rivolte al
poeta americano Walt Whitman: «Scorre sempre in noi il vecchio sangue germanico pronto
a marciare. Questo nostro sangue lo utilizzeremo per trasformare il mondo inattivo e pigro
in un mondo di lavoro e in marcia».
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#culture
9
I
A colloquio
con Giorgia ospite
al festival
di Sanremo
di ELENA BUIA RUTT
n una carriera musicale in continua ascesa, iniziata a Sanremo nel lontano 1994, ha venduto
sette milioni di dischi, ha vinto i premi più
prestigiosi, ha duettato con i mostri sacri della
musica mondiale, ha cantato due volte per
Giovanni Paolo II. Nata nel 1971, Giorgia (al
secolo Giorgia Todrani), ospite del sessantasettesimo festival della canzone italiana nella serata dell’8 febbraio, è una delle cantanti più
note e apprezzate dal pubblico italiano e sulla
scena internazionale.
Oronero (Michroponica, distribuito da Sony
Music), il suo decimo album, recentemente
uscito, contiene quindici canzoni capaci di restituire l’immagine di una donna che con autenticità si pone in ricerca, che con sincerità si
interroga, che con umiltà si mostra. I testi,
scarni, sobri, essenziali, sono quasi tutti scritti
dalla stessa Giorgia, che con noi ne ripercorre
il sofferto cammino esperienziale. In tutte le
canzoni di questo album, il dolore infatti sembra essere lo sfondo di partenza, il grado zero
da cui iniziare una tenace risalita volta alla
conquista delle vette della chiarezza e della fiducia.
Per non pensarti è una canzone incentrata su
un lutto ancora insuperabile, la morte di una
persona cara, che si spera di incontrare nuovamente, in un’altra vita. La morte, la finitezza,
sono misteri che pongono domande: «La perdita è uno dei temi della condizione umana —
riflette Giorgia — forse il più difficile da elaborare e comunque resta razionalmente ingiustificabile. Ma per assurdo, i momenti di lutto, di
un dolore che appare infinito sono anche occasioni per accedere a risorse personali ancora
sconosciute. Il decidere di sopravvivere e passarci attraverso richiede l’apertura di porte
nuove, lo svelamento di risposte diverse da
quelle in cui credevamo fino a poco prima. È
uno di quei momenti in cui ci si avvinghia
all’anima per ascoltare attraverso di lei l’eco di
chi non c’è, e sentire che la morte non è una
fine ma un passaggio».
Eppure in Amore quanto basta Giorgia canta
il desiderio di sentirsi «libera da ogni strappo
che ho addosso», facendo i conti con un pas-
sato il cui peso rischia di diventare insopportabile, compromettendo il presente, paralizzando
il futuro. Gli errori, gli sbandamenti, i dolori
della propria vita divengono pietre miliari di
un cammino duro, ma necessario, volto alla
costruzione di un’individualità finalmente decisa a spiccare il volo: «Il passato, o meglio le
esperienze fatte, ovviamente aiutano a definirci. Voltarsi indietro e guardare può rafforzare,
ma può anche essere l’inizio di una libertà
nuova: libertà da ciò che si è stati prima, una
libertà comunque all’insegna del cambiamento. Il sentirsi “liberi dagli strappi addosso” è
questo: corrisponde cioè a quei rari momenti
di grazia in cui il passato diventa spinta e non
àncora. Davvero rari!». Il cambiamento, al
centro di Credimi si cambia, ha come suo motore l’amore: «Sempre si cambia per amore —
commenta Giorgia — ma non necessariamente
per amore verso qualcun altro, bensì per uno
stato di amore cellulare direi, che non ha pretese e non ha giudizio, ma che ci appartiene
Alla ricerca
di un senso
intimamente». Un amore disinteressato, fraterno, smisurato, che non è solo un sentimento,
ma una virtù, uno stato spirituale: un amore
gratuito da parte di chi dona se stesso, senza
prevedere o pretendere nulla in cambio, ed è
perciò incondizionato e assoluto. Una postura
esistenziale che richiede un atteggiamento,
non sempre scontato, di ascolto e di apertura:
«Credimi si cambia / Ogni cosa che sfiori ti
cambia / Ogni voce che sogni nel buio/ Ti
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#culture
10
parla». Continua Giorgia: «A volte abbiamo il
coraggio di morire e rinascere nel percorso di
una vita, di distruggere e ricostruire la nostra
personalità, a volte riusciamo, nel caos della
vita quotidiana, a coltivare la nostra vita interiore, a volte intuiamo di essere parte di un
tutto, a volte, cioè in quelle occasioni che generano terreno fertile per la capacità di credere, riusciamo ad affidarci, senza pretesa o condizioni. È in quel momento che guardiamo alla realtà relativizzandola all’insegna di un sen-
so più grande». Il bisogno di affidamento diviene centrale per mettersi radicalmente in gioco, rompendo così le chiusure di un ego barricato in se stesso, nelle proprie sterili ma coriacee convinzioni, incapace dunque di aprirsi
per accogliere l’altro. «La parola “credo” —
spiega Giorgia — con le sue implicazioni è forse una delle più difficili da pronunciare in
questo tempo, dove i valori cambiano di continuo e in cui a volte vale tutto e niente vale. La
capacità di credere, di provare fede in sé,
nell’altro, nell’oltre, è invece una conquista.
Nel mio caso, questo è un passaggio fondamentale con cui mi confronto ogni giorno; un
passaggio che richiede un processo di rinascita, frutto della conoscenza e anche della messa
in discussione di sé: e come ogni nascere, porta con sé un’immancabile sofferenza».
Giorgia è mamma di un bambino di 7 anni,
che ogni giorno accompagna e riprende a
scuola, insieme al suo compagno, senza delegare mai a tate o nonni. Più che mai, dopo la
nascita di suo figlio, la necessità di ridefinire i
propri desideri e scopi le si è rivelata pressante: «Quando arriva un figlio, tutto si scompone, le priorità cambiano radicalmente e bisogna dunque reimpostarsi come persona. Un figlio lo richiede, perché sa arrivare nei punti
più fragili e incerti di te; bisogna riprogrammare anche la vita di coppia, che non sarà più
quella di prima, ma sarà una vita rinnovata,
spesa nel grande privilegio di assistere alla crescita di una persona nuova». Di nuovo ricorre
nelle parole di Giorgia, come anche nei suoi
testi, l’intuizione di un «arretramento personale» come possibilità di crescita e di maturazione. La nascita di un figlio o la volontà di vivere un rapporto di coppia solido e duraturo
(come in Scelgo ancora te), la costringe a ridefinire la portata della propria libertà, constatando come questa si realizzi solo in relazione alla
libertà delle persone amate: «Sono cresciuta
con due genitori folgorati da un amore passionale e contraddittorio, che a volte si trasformava in una guerra; da qui ho capito invece che
l’amore richiede impegno, volontà, scambio alla pari. In un’ottica forse molto femminile,
penso che ci si debba rinnamorare di continuo
della stessa persona, e che non si debba mai
darla per scontata: il tempo che passa è un valore aggiunto al rapporto solo se diviene
un’occasione quotidiana di rinnovare la promessa, e a volte ciò non è facile mentre la vita
corre».
In tutto l’album di Giorgia si dispiega a
gran voce una critica allo stile e ai ritmi di vita
della società attuale basata su falsi valori,
sull’egoismo, sull’avere anziché sull’essere, come nella canzone Vanità: «Vanità racconta appunto le cose vane, le illusioni a cui ci appendiamo per sentirci accettati o integrati in una
società che vive di modelli di inconscio collettivo, e ne siamo vittime anche senza accorgercene, tanto che anche la spiritualità viene travolta dalle “esigenze del mercato” o diventa
strumento di potere: l’amore viene facilmente
confuso con altro, ma poiché continua a essere
chiamato amore, diventa un imbroglio». Il titolo dell’album, Oronero, ben stigmatizza il
concetto che ciò che nasce come risorsa può
diventare invece veleno: «Così come il petrolio
è risorsa per la terra, ma usato male diventa
potere, guerra e morte, così la relazione con
gli altri, che nasce come scambio gratuito, diventa veleno se, nell’illusione di elevare noi
stessi, giudichiamo l’altro, lo distruggiamo».
Come acrobati dà voce alla reazione di Giorgia
a questo stato di cose: qui la percezione di
una precarietà esistenziale è unita alla fiducia
nelle proprie forze e il bene provato è frutto di
un entrare in relazione («Sarò sole e vento tra
la gente che si sente sola»). Il proprio talento
artistico, lungi da essere vissuto come vanità e
autoreferenzialità, viene messo al servizio delle
altre persone: «Avere un dono comporta responsabilità e libertà. Responsabilità di sviluppare questo dono, farlo progredire, e libertà di
esprimersi. Per questo ogni lavoro interiore influisce sulla mia espressione artistica e la alimenta. Comunque quando compongo, non mi
fermo a pensare a un probabile influsso sui
pensieri degli altri, altrimenti mi blocco dalla
paura di sbagliare e sbagliare è inevitabile!
Spero solamente, con tutte le mie forze, di riuscire ogni tanto a provocare un’emozione, e
questo si può definire dono, il dono di cui si è
tramite, non proprietari».
Le canzoni di Giorgia nascono nei modi più
vari: «Parto da un beat di basso e batteria e ci
faccio sopra una melodia, oppure riadatto canzoni in inglese, oppure lavoro su basi di altri,
o ancora su accordi di pianoforte che suono
d’istinto. Lavoro anche col mio compagno e
con lui c’è una grande sinergia». Eppure esiste
un momento in cui il potere creativo e la spinta comunicativa delle sue canzoni raggiungono
l’apice: «La vera magia succede quando in
qualche misterioso modo ci si ritrova connessi
con l’alto, per cui si diventa strumenti di qualcosa di già scritto che va colto con un volo
d’anima senza la mente, e allora sai che nella
canzone c’è qualcosa che dev’essere raccontata.
Per parlare di noi, di come soffriamo i sentimenti, del tempo che viviamo, dell’ansia che
condividiamo, e della speranza che, anche davanti alle peggiori brutture, l’essere umano
possa ritrovare se stesso».
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#copertina
11
I poveri bussano
alla nostra porta
Bambini yazidi
in fuga da Sinjar (Reuters)
LA PAROLA È UN D ONO.
L’ALTRO È UN D ONO
Cari fratelli e sorelle,
La Quaresima è un nuovo inizio, una strada
che conduce verso una meta sicura: la Pasqua
di Risurrezione, la vittoria di Cristo sulla morte. E sempre questo tempo ci rivolge un forte
invito alla conversione: il cristiano è chiamato
a tornare a Dio «con tutto il cuore» (Gl 2, 12),
per non accontentarsi di una vita mediocre,
ma crescere nell’amicizia con il Signore. Gesù
è l’amico fedele che non ci abbandona mai,
perché, anche quando pecchiamo, attende con
pazienza il nostro ritorno a Lui e, con questa
attesa, manifesta la sua volontà di perdono
(cfr. Omelia nella S. Messa, 8 gennaio 2016).
La Quaresima è il momento favorevole per
intensificare la vita dello spirito attraverso i
santi mezzi che la Chiesa ci offre: il digiuno,
la preghiera e l’elemosina. Alla base di tutto
c’è la Parola di Dio, che in questo tempo siamo invitati ad ascoltare e meditare con maggiore assiduità. In particolare, qui vorrei soffermarmi sulla parabola dell’uomo ricco e del
povero Lazzaro (cfr. Lc 16, 19-31). Lasciamoci
ispirare da questa pagina così significativa, che
Nel messaggio
per la quaresima
il Papa rilegge
e attualizza
la parabola
di Lazzaro
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#copertina
12/13
A sinistra:
Willy Fries
«Lazzaro
e l’uomo ricco»
di lato: mendicanti
indiani
Guardando questo personaggio, si comprende perché il Vangelo sia così netto nel condannare l’amore per il denaro: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà
l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non
potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24).
La Parola è un dono
ci offre la chiave per comprendere come agire per raggiungere
la vera felicità e la vita eterna, esortandoci ad una sincera conversione.
Sono minori
la metà
dei migranti
nel mondo
«Metà dei rifugiati sono
minori». È quanto denuncia
l’Unicef, ricordando che nel
mondo «circa 50 milioni di
bambini sono stati sradicati
dalle loro case per conflitti
o povertà». Il più grande
numero di bambini rifugiati
proviene dalla Siria, cioè
oltre 2,3 milioni di piccoli:
Poi c’è l’Afghanistan con 1,3
milioni. Ma in generale
nelle varie aree del mondo
sono 28 milioni i bambini
che hanno lasciato le
proprie terre. L’agenzia
dell’Onu per l’infanzia ha
lanciato un video che
presenta in parallelo le
storie di un giovane
rifugiato siriano e quello di
un uomo, anch’egli rifugiato
da bambino durante la
seconda guerra mondiale.
L’altro è un dono
La parabola comincia presentando i due personaggi principali, ma è il povero che viene descritto in maniera più dettagliata:
egli si trova in una condizione disperata e non ha la forza di risollevarsi, giace alla porta del ricco e mangia le briciole che cadono dalla sua tavola, ha piaghe in tutto il corpo e i cani vengono a leccarle (cfr. vv. 20-21). Il quadro dunque è cupo, e l’uomo degradato e umiliato.
La scena risulta ancora più drammatica se si considera che il
povero si chiama Lazzaro: un nome carico di promesse, che alla
lettera significa «Dio aiuta». Perciò questo personaggio non è
anonimo, ha tratti ben precisi e si presenta come un individuo
a cui associare una storia personale. Mentre per il ricco egli è
come invisibile, per noi diventa noto e quasi familiare, diventa
un volto; e, come tale, un dono, una ricchezza inestimabile, un
essere voluto, amato, ricordato da Dio, anche se la sua concreta
condizione è quella di un rifiuto umano (cfr. Omelia nella S.
Messa, 8 gennaio 2016).
Lazzaro ci insegna che l’altro è un dono. La giusta relazione
con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore. Anche il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita. Il primo
invito che ci fa questa parabola è quello di aprire la porta del
nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto. La Quaresima è un tempo
propizio per aprire la porta ad ogni bisognoso e riconoscere in
lui o in lei il volto di Cristo. Ognuno di noi ne incontra sul
proprio cammino. Ogni vita che ci viene incontro è un dono e
merita accoglienza, rispetto, amore. La Parola di Dio ci aiuta
ad aprire gli occhi per accogliere la vita e amarla, soprattutto
quando è debole. Ma per poter fare questo è necessario prendere sul serio anche quanto il Vangelo ci rivela a proposito
dell’uomo ricco.
Il peccato ci acceca
La parabola è impietosa nell’evidenziare le contraddizioni in
cui si trova il ricco (cfr. v. 19). Questo personaggio, al contrario
del povero Lazzaro, non ha un nome, è qualificato solo come
“ricco”. La sua opulenza si manifesta negli abiti che indossa, di
un lusso esagerato. La porpora infatti era molto pregiata, più
dell’argento e dell’oro, e per questo era riservato alle divinità
(cfr Ger 10,9) e ai re (cfr. Gdc 8, 26). Il bisso era un lino speciale che contribuiva a dare al portamento un carattere quasi sacro. Dunque la ricchezza di quest’uomo è eccessiva, anche perché esibita ogni giorno, in modo abitudinario: «Ogni giorno si
dava a lauti banchetti» (v. 19). In lui si intravede drammaticamente la corruzione del peccato, che si realizza in tre momenti
successivi: l’amore per il denaro, la vanità e la superbia (cfr.
Omelia nella S. Messa, 20 settembre 2013).
Dice l’apostolo Paolo che «l’avidità del denaro è la radice di
tutti i mali» (1 Tm 6, 10). Essa è il principale motivo della corruzione e fonte di invidie, litigi e sospetti. Il denaro può arrivare a dominarci, così da diventare un idolo tirannico (cfr. Esort.
ap. Evangelii gaudium, 55). Invece di essere uno strumento al
nostro servizio per compiere il bene ed esercitare la solidarietà
con gli altri, il denaro può asservire noi e il mondo intero ad
una logica egoistica che non lascia spazio all’amore e ostacola
la pace.
La parabola ci mostra poi che la cupidigia del ricco lo rende
vanitoso. La sua personalità si realizza nelle apparenze, nel far
vedere agli altri ciò che lui può permettersi. Ma l’apparenza
maschera il vuoto interiore. La sua vita è prigioniera dell’esteriorità, della dimensione più superficiale ed effimera dell’esistenza (cfr. ibid., 62).
Il gradino più basso di questo degrado morale è la superbia.
L’uomo ricco si veste come se fosse un re, simula il portamento
di un dio, dimenticando di essere semplicemente un mortale.
Per l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze non esiste altro
che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non
entrano nel suo sguardo. Il frutto dell’attaccamento al denaro è
dunque una sorta di cecità: il ricco non vede il povero affamato, piagato e prostrato nella sua umiliazione.
Il Vangelo del ricco e del povero Lazzaro ci aiuta a prepararci bene alla Pasqua che si avvicina. La liturgia del Mercoledì
delle Ceneri ci invita a vivere un’esperienza simile a quella che
fa il ricco in maniera molto drammatica. Il sacerdote, imponendo le ceneri sul capo, ripete le parole: «Ricordati che sei polvere e
in polvere tornerai». Il ricco e il povero, infatti, muoiono entrambi e la parte principale della parabola si svolge nell’aldilà. I due
personaggi scoprono improvvisamente che «non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via» (1 Tm 6, 7).
Anche il nostro sguardo si apre all’aldilà, dove il ricco ha un
lungo dialogo con Abramo, che chiama «padre» (Lc 16, 24.27),
dimostrando di far parte del popolo di Dio. Questo particolare
rende la sua vita ancora più contraddittoria, perché finora non
si era detto nulla della sua relazione con Dio. In effetti, nella
sua vita non c’era posto per Dio, l’unico suo dio essendo lui
stesso.
Solo tra i tormenti dell’aldilà il ricco riconosce Lazzaro e vorrebbe che il povero alleviasse le sue sofferenze con un po’ di
acqua. I gesti richiesti a Lazzaro sono simili a quelli che avrebbe potuto fare il ricco e che non ha mai compiuto. Abramo,
tuttavia, gli spiega: «Nella vita tu hai ricevuto i tuoi beni, e
Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu
invece sei in mezzo ai tormenti» (v. 25). Nell’aldilà si ristabilisce una certa equità e i mali della vita vengono bilanciati dal
bene.
La parabola si protrae e così presenta un messaggio per tutti
i cristiani. Infatti il ricco, che ha dei fratelli ancora in vita, chiede ad Abramo di mandare Lazzaro da loro per ammonirli; ma
Abramo risponde: «Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro» (v.
29). E di fronte all’obiezione del ricco, aggiunge: «Se non
ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se
uno risorgesse dai morti» (v. 31).
In questo modo emerge il vero problema del ricco: la radice
dei suoi mali è il non prestare ascolto alla Parola di Dio; questo
lo ha portato a non amare più Dio e quindi a disprezzare il
prossimo. La Parola di Dio è una forza viva, capace di suscitare
la conversione nel cuore degli uomini e di orientare nuovamente la persona a Dio. Chiudere il cuore al dono di Dio che parla
ha come conseguenza il chiudere il cuore al dono del fratello.
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima è il tempo favorevole per
rinnovarsi nell’incontro con Cristo vivo nella sua Parola, nei Sacramenti e nel prossimo. Il Signore – che nei quaranta giorni
trascorsi nel deserto ha vinto gli inganni del Tentatore – ci indica il cammino da seguire. Lo Spirito Santo ci guidi a compiere
un vero cammino di conversione, per riscoprire il dono della
Parola di Dio, essere purificati dal peccato che ci acceca e servire Cristo presente nei fratelli bisognosi. Incoraggio tutti i fedeli
ad esprimere questo rinnovamento spirituale anche partecipando alle Campagne di Quaresima che molti organismi ecclesiali,
in diverse parti del mondo, promuovono per far crescere la cultura dell’incontro nell’unica famiglia umana. Preghiamo gli uni
per gli altri affinché, partecipi della vittoria di Cristo, sappiamo
aprire le nostre porte al debole e al povero. Allora potremo vivere e testimoniare in pienezza la gioia della Pasqua.
Dal Vaticano, 18 ottobre 2016
Festa di San Luca Evangelista
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#dialoghi
14
di ANNA
FOA
S
ul rifugio dato agli ebrei da chiese e conventi
nell’Italia occupata dai nazisti, si è molto dibattuto per mettere in discussione, di volta in
volta, il numero degli ebrei salvati o il livello
del coinvolgimento delle gerarchie ecclesiastiche nell’opera di salvataggio.
Domande importanti, naturalmente, ma ce
ne sono altre, altrettanto importanti, che non
sono state poste quasi da nessuno. Cosa comportò, innanzitutto, il fatto che ebrei e sacerdoti, ebrei e monache convivessero negli stessi
luoghi, si parlassero?
Una convivenza forzata, certo, frutto della
caccia selvaggia all’ebreo che fascisti e nazisti
conducevano a Roma come nel resto dell’Italia
occupata. Ma per una straordinaria eterogenesi dei fini, questa convivenza ebbe esiti positivi. Sto parlando, naturalmente, non della convivenza fra ebrei e cristiani, realizzata ovunque
e da sempre, fin dai secoli dei ghetti, ma di
quella che metteva insieme, nello stesso luogo,
durante l’occupazione, ebrei e religiosi cattolici. Due mondi che non erano mai stati abituati a frequentarsi, che non erano privi di diffidenza l’uno nei confronti dell’altro e che ora si
ritrovavano, obbligatoriamente, a stare insieme, a difendersi dallo stesso nemico.
Da parte ebraica, radicata era la diffidenza
nei confronti dei religiosi, possibile veicolo di
conversioni, e se ne ritrovano tracce nelle testimonianze di ebrei che hanno preferito non ricorrere alla Chiesa per averne protezione.
Da parte cattolica, nulla aveva fino ad allora
incrinato l’antigiudaismo tradizionale, che dopo la caduta dei ghetti si era anzi approfondito. E ora, ebrei e donne e uomini di chiesa si
parlavano nelle lunghe ore del coprifuoco,
quando tutti erano obbligati a stare rinchiusi,
salvatori e salvati.
Scoprirsi
insieme alleati
Nella chiesa di San Benedetto al Gazometro, a Roma, don Giovanni Gregorini, il parroco che aveva accolto molte famiglie di ebrei,
chiacchierava con i suoi protetti del Dio dei
cristiani e di quello degli ebrei, forse, chissà,
davanti a un bicchiere di vino. E le donne e le
bambine ebree aiutavano, in un’altra ala della
chiesa, le religiose che facevano scuola ai bambini.
Quanti casi del genere in tutta Italia e in
particolare a Roma, dove conventi e chiese
erano pieni di ebrei? Come è cambiato il modo di intendersi, di pensarsi, fra ebrei e cristiani? Quanto quell’esperienza è stata d’aiuto
all’abbattimento delle barriere che è sfociata
nel cambiamento del concilio Vaticano II?
Anche in Germania, alcune almeno delle radici del movimento ecumenico, nato è vero
all’inizio del secolo ma debole e marginale fino al secondo dopoguerra, affondano nella comune necessità di opporsi al nazismo di cattolici e protestanti della Chiesa confessante,
nell’invio di entrambi nei lager. Come nel caso
degli ebrei, così anche fra le diverse confessioni cristiane le barriere si cominciano ad abbattere nella comunanza forzata, nel dialogo che
nasce di necessità dal trovarsi dalla stessa parte
della barricata, dal subire le medesime persecuzioni.
E non solo per i teologi come Bonhoeffer o
per i ragazzi della Rosa Bianca, ma per i fedeli qualunque, che ritrovavano nella persecuzione lo stesso Dio. Così, nella lotta per la libertà
e in quella per la salvezza degli oppressi, si
cambiavano gli animi e si smorzavano gli odi
e le diffidenze del passato. Un passo anche
questo in direzione del grande cambiamento
che sarebbe venuto con il Concilio.
La parrocchia romana
di San Benedetto al Gazometro
distrutta dal bombardamento
del 3 marzo 1944
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#religioni
15
I
Giornata
mondiale
contro
la tratta
di ANNA POZZI
l tema scelto per la terza giornata mondiale di
preghiera e riflessione contro la tratta di persone, che si è celebrata l’8 febbraio, si ispira al
messaggio di Papa Francesco per la giornata
dei migranti, dedicata ai minori. «Specialmente quelli soli», scrive il Pontefice che sollecita
tutti «a prendersi cura dei fanciulli che sono
tre volte indifesi perché minori, perché stranieri e perché inermi, quando, per varie ragioni,
sono forzati a vivere lontani dalla loro terra
d’origine e separati dagli affetti familiari».
Sono soprattutto loro, infatti, che rischiano
di finire nelle più cupe zone d’ombra del grave sfruttamento che coinvolge, nel mondo, dai
21 ai 35 milioni di persone, costrette a prostituirsi o ai lavori forzati, ma anche “usate” per
espianto illegale di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimoni precoci,
adozioni illegali, gravidanze surrogate e reclutamento di bambini-soldato. Sono loro i nuovi
schiavi del XXI secolo.
Per questo — su sollecitazione di Papa Francesco che infaticabilmente denuncia quello che
definisce «un crimine contro l’umanità» — è
stata creata nel 2015 la giornata mondiale ecclesiale contro la tratta, che viene promossa a
livello internazionale da Talitha Kum (UisgUsg), la Rete internazionale della vita consacrata contro la tratta di persone, in coordinamento con i dicasteri vaticani per la vita consacrata, per il servizio dello sviluppo umano
integrale, l’accademia delle scienze insieme
con Caritas internationalis, l’unione internazionale delle associazioni femminili cattoliche
(Wucwo) e il gruppo di lavoro contro la tratta
della commissione giustizia e pace delle unioni
internazionali delle superiore e dei superiori
generali.
«Ufficialmente la schiavitù è stata abolita
due secoli fa — ricorda suor Gabriella Bottani,
missionaria comboniana, coordinatrice del comitato per la giornata —. Di fatto, però, non
abbiamo mai avuto tanti schiavi nel mondo
come oggi. E tra questi, circa un terzo sono
minori. Un fenomeno in continua crescita,
estremamente preoccupante e drammatico».
Si calcola infatti che, negli ultimi trent’anni,
circa trenta milioni di bambini siano stati coinvolti nella tratta. E ancora oggi, nel mondo,
ogni due minuti, una bambina o un bambino
sono vittima di sfruttamento sessuale. Mentre
sono più di duecento milioni quelli costretti a
lavorare, spesso in gravi condizioni di sfruttamento. Per un giro d’affari illegale stimato
globalmente attorno ai 150 miliardi di euro.
Un business enorme, che in alcune regioni del
pianeta, compresa l’Europa, rende di più del
traffico di droga e di armi.
«Questo terribile fenomeno ci deve riguardare e preoccupare per via della nostra fede,
ma anche semplicemente perché siamo umani», ha fatto notare suor Carmen Sammut,
presidente dell’Unione internazionale delle su-
periore generali (Uisg). «Penso che se si incontra qualcuno che è stato trafficato, non si
possa dormire tranquilli fintanto che non si è
fatto qualcosa. L’incontro anche solo con una
persona vittima di tratta deve cambiare la nostra vita».
È lo scopo anche di questa giornata contro
la tratta: creare più consapevolezza attorno a
questo drammatico fenomeno e riflettere sulla
situazione globale di violenza e ingiustizia che
colpisce tante persone, che non hanno voce,
non contano, non sono nessuno: sono semplicemente schiavi.
«Le religiose sono coinvolte a diversi livelli
— precisa suor Sammut —: identificazione e
aiuto alle vittime, promozione delle loro capa-
Sono bambini
non schiavi!
cità di ottenere giustizia, protezione dei gruppi
più vulnerabili, istruzione, educazione, sensibilizzazione, attività di lobbying. Ma dobbiamo
diventare più consapevoli anche di come ciascuno di noi può diventare complice della tratta e delle nuove schiavitù attraverso le proprie
abitudini di vita e di consumo. E ricordare
quanto ci dice Papa Francesco, ovvero che
“l’acquisto non è solo un fatto economico, ma
anche un’azione morale”».
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#francesco
16
P
ensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi
tre cose. La prima riguarda il denaro. È molto
importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili.
L’economia di comunione è anche comunione
dei profitti, espressione della comunione della
vita. Molte volte ho parlato del denaro come
idolo. [...] Il denaro è importante, soprattutto
quando non c’è e da esso dipende il cibo, la
scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo
quando diventa il fine. [...]
Quando il capitalismo fa della ricerca del
profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare
una struttura idolatrica, una forma di culto. La
“dea fortuna” è sempre più la nuova divinità
di una certa finanza e di tutto quel sistema
dell’azzardo che sta distruggendo milioni di
famiglie del mondo, e che voi giustamente
contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni...) invecchiano e si consumano,
ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.
Si capisce, allora, il valore etico e spirituale
della vostra scelta di mettere i profitti in comune.
[...]
La seconda cosa... riguarda la povertà... Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e
private, per combattere la povertà. E tutto ciò,
da una parte, è una crescita in umanità... Oggi
abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della
Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di
quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche
in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere
atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso. Ma il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi
vorrebbe curare. Il principale problema etico
di questo capitalismo è la creazione di scarti
per poi cercare di nasconderli o curarli per
non farli più vedere. Una grave forma di po-
Un’altra economia
è possibile
vertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i
suoi poveri... Gli aerei inquinano l’atmosfera,
ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte
del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le
imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine...
L’economia di comunione, se vuole essere
fedele al suo carisma, non deve soltanto curare
le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia
produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola
persona scartata, la comunione non è ancora
realizzata. [...]
Infine, la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad
un piccolo numero di imprese, piccolissimo se
confrontato al grande capitale del mondo. Ma
i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri.
[...] Non occorre essere in molti per cambiare
la nostra vita: basta che il sale e il lievito non
si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è
cercare di non perdere il “principio attivo” che
li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta
salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua
qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli
e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il
mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto
strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché
tutto decade con il passare del tempo. Come
fare per non perdere il principio attivo, l’“enzima” della comunione? Quando non c’erano i
frigoriferi, per conservare il lievito madre del
pane si donava alla vicina un po’ della propria
pasta lievitata, e quando dovevano fare di
nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta
lievitata da quella donna o da un’altra che lo
aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La
comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane,
di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo
solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore
è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele.
Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo
per noi, ammuffisce e muore. [...]
Dan Nuttall
«Competitive exclusion» (2016)
Ai partecipanti
a un simposio
del movimento
dei Focolari
incontrati
il 4 febbraio
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#francesco
A
A una delegazione
della Chiesa
evangelica
in Germania
ricevuta
il 6 febbraio
bbiamo lo stesso Battesimo: dobbiamo camminare insieme, senza stancarci!
È significativo che, in occasione del 500° anniversario della Riforma, cristiani evangelici e
cattolici colgano l’occasione della commemorazione comune degli eventi storici del passato
per mettere nuovamente Cristo al centro dei
loro rapporti. Proprio «la questione su Dio»,
su «come poter avere un Dio misericordioso»
era «la passione profonda, la molla della vita e
dell’intero cammino» di Lutero. Ciò che animava e inquietava i Riformatori era, in fondo,
indicare la strada verso Cristo. È quello che
deve starci a cuore anche oggi, dopo aver nuovamente intrapreso, grazie a Dio, una strada
comune. Quest’anno di commemorazione ci
offre l’opportunità di compiere un ulteriore
passo in avanti, guardando al passato senza
rancori...: proprio ciò che i Riformatori ai loro
tempi volevano stimolare. Il fatto che la loro
chiamata al rinnovamento abbia suscitato sviluppi che hanno portato a divisioni tra i cristiani, è stato certamente tragico. I credenti
non si sono più sentiti fratelli e sorelle nella
fede, ma avversari e concorrenti; per troppo
tempo hanno alimentato ostilità e si sono accaniti in lotte, fomentate da interessi politici e
di potere, talvolta senza nemmeno farsi scrupolo nell’usare violenza gli uni contro gli altri,
fratelli contro fratelli. [...]
Vi sono grato perché, con questo sguardo,
avete intenzione di accostarvi insieme, con
umiltà e franchezza, a un passato che ci addolora, e di condividere presto un importante gesto di penitenza e di riconciliazione: una funzione ecumenica, intitolata “Risanare la memoria — testimoniare Gesù Cristo”. Cattolici
ed Evangelici in Germania, potrete così rispondere, nella preghiera, alla forte chiamata
che insieme avvertite nel Paese originario della
Riforma: purificare in Dio la memoria per essere rinnovati interiormente e inviati dallo Spirito a portare Gesù all’uomo di oggi. Con
questo segno e con altre iniziative ecumeniche
previste quest’anno — come il comune pellegrinaggio in Terra Santa, il congresso biblico
17
congiunto per presentare insieme le nuove traduzioni della Bibbia e la giornata ecumenica
dedicata alla responsabilità sociale dei cristiani
— avete in animo di dare una configurazione
concreta alla “Festa di Cristo” che, in occasione della commemorazione della Riforma, intendete celebrare insieme. [...]
Nella realtà dell’unico Battesimo che ci rende fratelli e sorelle e nel comune ascolto dello
Spirito, sappiamo, in una diversità ormai riconciliata, apprezzare i doni spirituali e teologici che dalla Riforma abbiamo ricevuto. A
Lund, il 31 ottobre scorso, ho ringraziato il Signore di questo e ho chiesto perdono per il
passato; per l’avvenire desidero confermare la
nostra chiamata senza ritorno a testimoniare
insieme il Vangelo e a proseguire nel cammino
verso la piena unità. [...]
Le differenze in questioni di fede e di morale, che tuttora sussistono, rimangono sfide sul
percorso verso la visibile unità, alla quale ane-
Lo stesso
battesimo
lano i nostri fedeli. Il dolore è avvertito specialmente dagli sposi che appartengono a confessioni diverse. In modo avveduto occorre
che ci impegniamo, con preghiera insistente e
con tutte le forze, a superare gli ostacoli ancora esistenti, intensificando il dialogo teologico
e rafforzando la collaborazione tra noi,
soprattutto nel servizio a coloro che maggiormente soffrono e nella custodia del creato minacciato. [...]
Curtis Verdun, «L’incontro»
(particolare)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#catechesi
18
Nicole Whittaker
«Speranza di pace»
C
ari fratelli e sorelle, buongiorno!
Mercoledì scorso abbiamo visto che san
Paolo, nella Prima Lettera ai Tessalonicesi,
esorta a rimanere radicati nella speranza della
risurrezione (cfr. 5, 4-11), con quella bella parola «saremo sempre con il Signore» (4, 17).
Nello stesso contesto, l’Apostolo mostra che la
speranza cristiana non ha solo un respiro personale, individuale, ma comunitario, ecclesiale.
Tutti noi speriamo; tutti noi abbiamo speranza, anche comunitariamente.
Per questo, lo sguardo viene subito allargato
da Paolo a tutte le realtà che compongono la
comunità cristiana, chiedendo loro di pregare
le une per le altre e di sostenersi a vicenda.
Aiutarci a vicenda. Ma non solo aiutarci nei
bisogni, nei tanti bisogni della vita quotidiana,
ma aiutarci nella speranza, sostenerci nella speranza. E non è un caso che cominci proprio
facendo riferimento a coloro ai quali è affidata
La speranza
crea ponti
la responsabilità e la guida pastorale. Sono i primi ad essere chiamati ad alimentare la speranza, e questo non perché siano migliori degli
altri, ma in forza di un ministero divino che va
ben al di là delle loro forze. Per tale motivo,
hanno quanto mai bisogno del rispetto, della
comprensione e del supporto benevolo di tutti
quanti.
L’attenzione poi viene posta sui fratelli che
rischiano maggiormente di perdere la speranza, di
cadere nella disperazione. Noi sempre abbiamo notizie di gente che cade nella disperazione e fa cose brutte... La disperazione li porta a
tante cose brutte. Il riferimento è a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e
non riesce più a sollevarsi. In questi casi, la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono
farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono
assumere la forma squisita della compassione,
che non è avere compatimento: la compassione è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarmi a chi soffre; una parola, una carezza,
ma che venga dal cuore; questa è la compassione. Per chi ha bisogno del conforto e della
consolazione. Questo è quanto mai importante: la speranza cristiana non può fare a meno
della carità genuina e concreta. Lo stesso Apostolo delle genti, nella Lettera ai Romani, afferma con il cuore in mano: «Noi, che siamo i
forti — che abbiamo la fede, la speranza, o
non abbiamo tante difficoltà — abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza
compiacere noi stessi» (15, 1). Portare, portare
le debolezze altrui. Questa testimonianza poi
non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore
anche al di fuori, nel contesto sociale e civile,
come appello a non creare muri ma ponti, a
non ricambiare il male col male, a vincere il
male con il bene, l’offesa con il perdono — il
cristiano mai può dire: me la pagherai!, mai;
questo non è un gesto cristiano; l’offesa si vince con il perdono —, a vivere in pace con tutti.
Questa è la Chiesa! E questo è ciò che opera
la speranza cristiana, quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore.
L’amore è forte e tenero. È bello.
Si comprende allora che non si impara a
sperare da soli. Nessuno impara a sperare da
solo. Non è possibile. La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, nel quale le varie membra si sostengono e
si ravvivano a vicenda. Questo allora vuol dire
All’udienza
generale
il Papa ricorda
che il cristiano è
chiamato a vivere
in pace con tutti
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#catechesi
19
che, se speriamo, è perché tanti nostri fratelli e
sorelle ci hanno insegnato a sperare e hanno
tenuto viva la nostra speranza. E tra questi, si
distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli
emarginati. Sì, perché non conosce la speranza
chi si chiude nel proprio benessere: spera soltanto nel suo benessere e questo non è speranza: è sicurezza relativa; non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi
si sente sempre a posto... A sperare sono invece coloro che sperimentano ogni giorno la
prova, la precarietà e il proprio limite. Sono
questi nostri fratelli a darci la testimonianza
più bella, più forte, perché rimangono fermi
nell’affidamento al Signore, sapendo che, al di
là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la
sua, e sarà una parola di misericordia, di vita e
di pace. Chi spera, spera di sentire un giorno
questa parola: «Vieni, vieni da me, fratello;
vieni, vieni da me, sorella, per tutta l’eternità».
Cari amici, se — come abbiamo detto — la
dimora naturale della speranza è un “corpo”
solidale, nel caso della speranza cristiana questo corpo è la Chiesa, mentre il soffio vitale,
l’anima di questa speranza è lo Spirito Santo.
Senza lo Spirito Santo non si può avere speranza. Ecco allora perché l’Apostolo Paolo ci
invita alla fine a invocarlo continuamente. Se
non è facile credere, tanto meno lo è sperare.
È più difficile sperare che credere, è più difficile. Ma quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è Lui a farci capire che non
dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si
prende cura di noi; ed è Lui a modellare le
nostre comunità, in una perenne Pentecoste,
come segni vivi di speranza per la famiglia
umana. Grazie.
Una preghiera per i rohingya
«Crimine vergognoso e inaccettabile»: nella
giornata di preghiera e di riflessione contro la tratta
il Papa è tornato a denunciare il dramma di quanti,
soprattutto bambini, vengono «schiavizzati e
abusati», incoraggiando «tutti coloro che in vari
modi» li «aiutano a liberarsi da tale oppressione».
L’appello è risuonato nell’Aula Paolo VI durante
l’udienza generale di mercoledì 8 febbraio, festa di
santa Giuseppina Bakhita, con l’auspicio «che
quanti hanno responsabilità di governo combattano
con decisione questa piaga, dando voce ai nostri
fratelli più piccoli, umiliati nella loro dignità».
Con in mano un opuscolo dedicato alla santa, il
Papa ha aggiunto al testo preparato il ricordo della
vicenda umana di questa «ragazza schiavizzata in
Africa, sfruttata, umiliata», che però «non ha perso
la speranza e ha portato avanti la fede» finendo
«per arrivare come migrante in Europa», dove
«sentì la chiamata del Signore e si fece suora». Da
qui l’invito a pregarla «per tutti i migranti, i
rifugiati, gli sfruttati che soffrono tanto» e «in
modo speciale per i nostri fratelli e sorelle
rohingya»: donne e uomini — ha affermato —
«cacciati via dal Myanmar», che «vanno da una
parte all’altra perché non li vogliono». Si tratta, ha
assicurato, di «gente buona, pacifica» che soffre da
anni. E vengono «torturati, uccisi, perché portano
avanti le loro tradizioni, la loro fede musulmana».
Da qui l’invito rivolto dal Pontefice ai presenti a
recitare il Padrenostro per questo popolo e a levare
un applauso per santa Giuseppina Bakhita.
All’udienza il Papa ha anche ricordato la
beatificazione, svoltasi il giorno precedente a Osaka
in Giappone, di Justo Takayama Ukon, fedele laico
morto martire a Manila. «Piuttosto che scendere a
compromessi, — ha detto — rinunciò ad onori e
agiatezze accettando l’umiliazione e l’esilio».
Al termine dell’incontro, Francesco ha salutato con
un particolare abbraccio sei famiglie siriane
cattoliche, con dodici bambini, che da tempo hanno
ottenuto asilo in Austria. Le accompagnava
l’oratoriano Florian Calice, parroco di San Rocco e
San Sebastiano a Vienna. Trenta persone, spiega il
sacerdote, che testimoniano la tragedia della loro
gente, ma che sono anche un segno di speranza e
comunicano, con tutto il loro essere, la possibilità di
rinascita. Mentre a presentare a Francesco
l’iniziativa “My Saviour”, promossa per far
conoscere in India la figura di Gesù, sono stati
alcuni dei centocinquanta artefici, con il carmelitano
Alex Praikalam. Significativo, inoltre, l’incontro del
Papa con la delegazione della Fundación líderes
globales par el fomento de los gobiernos, giunta dal
Costa Rica, il cui obiettivo è di mettere in comune
esperienze per sostenere soprattutto le persone più
deboli.
Lezioni a cielo aperto
per i bambini rohingya rifugiati
in Bangladesh (Reuters)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#7giorniconilpapa
20
I grandi eventi sportivi dimostrano che è possibile
costruire una cultura di incontro e un mondo di pace
Possa il Super Bowl
essere un segno di amicizia e solidarietà
”
Videomessaggio per la finale
giocata il 5 febbraio
GIOVEDÌ 2
Il videomessaggio
per il Super Bowl
Vincere «la tentazione della sopravvivenza»
che inaridisce i cuori e li priva della capacità
di sognare: è l’impegno che il Papa ha chiesto
ai religiosi e alle religiose durante la messa vespertina celebrata nella basilica di San Pietro.
Nel giorno in cui la Chiesa fa memoria della
festa della presentazione di Gesù al tempio —
alla quale da ventuno anni è legata la giornata
mondiale della vita consacrata — il Pontefice
ha invitato a fare «memoria di come sognarono i nostri anziani, i nostri padri e madri» e a
riscoprire il «coraggio per portare avanti, profeticamente, questo sogno». Un atteggiamento, questo, che consente di mantenere «feconda» la scelta della consacrazione e di non
mortificare «la creatività profetica» del carisma
che dovrà eleggere il nuovo Gran maestro» —
scrive il Pontefice — il sostituto della Segreteria di Stato «agirà in stretta collaborazione»
con il luogotenente interinale Ludwig Hoffmann von Rumerstein «per il maggior bene»
dello Smom «e la riconciliazione tra tutte le
sue componenti, religiose e laicali». Inoltre
nella missiva il Papa raccomanda di stabilire
«le modalità di uno studio in vista dell’opportuno aggiornamento della Carta costituzionale
dell’ordine e dello Statuto Melitense». In particolare, il sostituto è chiamato a curare «tutto
ciò che attiene al rinnovamento spirituale e
morale» dello Smom «specialmente dei Membri professi» e «fino al termine del mandato,
cioè fino alla conclusione del capitolo» elettivo, egli «sarà esclusivo portavoce» del Pontefice «in tutto ciò che attiene alle relazioni tra
questa Sede apostolica e l’ordine». Pertanto il
Papa delega al sostituto «tutti i poteri necessari». Nella mattina del 4 Francesco ha anche ricevuto in udienza la comunità dei gesuiti e
l’équipe formativa del Pontificio seminario
campano interregionale.
D OMENICA 5
originario. Il rischio, per il Papa, è quello di
«diventare reazionari, paurosi», chiusi «nelle
nostre case e nei nostri schemi», in cerca di
«scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi
bussano alle nostre porte». Questo atteggiamento, ha proseguito, «inaridisce il cuore dei
nostri anziani, privandoli della capacità di sognare» e «sterilizza la profezia che i più giovani sono chiamati ad annunciare e realizzare».
Per evitarlo Francesco ha indicato la missione
di «mettere Gesù in mezzo al suo popolo», facendosi carico ogni giorno della «croce dei
nostri fratelli». Una missione da realizzare
«non come attivisti della fede» — ha spiegato
— ma «come uomini e donne che sono continuamente perdonati».
SABATO 4
La lettera
all’arcivescovo Becciu
È stata resa nota la lettera, datata 2 febbraio, con cui Francesco ha nominato l’arcivescovo Angelo Becciu suo delegato speciale
presso il Sovrano militare ordine di Malta
(Smom). «In vista del capitolo straordinario
«Ogni vita è sacra»: lo ha ribadito il Pontefice ricordando all’Angelus la celebrazione in
Italia della giornata per la vita, sul tema: Donne e uomini per la vita nel solco di santa Teresa di Calcutta. Francesco si è unito ai vescovi
italiani «nell’auspicare una coraggiosa azione
educativa in favore della vita umana». E ha invitato a portare «avanti la cultura della vita
come risposta alla logica dello scarto e al calo
demografico; stiamo vicini — ha detto — e insieme preghiamo per i bambini che sono in
pericolo d’interruzione della gravidanza, come
pure per le persone che stanno alla fine della
vita, perché nessuno sia lasciato solo». In precedenza, Francesco aveva commentato il vangelo domenicale — che proponeva il cosiddetto
Discorso della montagna, riportato da Matteo
— per i fedeli presenti in piazza San Pietro.
L’Angelus del
5 febbraio
Nella mattina di lunedì 6
il Papa ha ricevuto in udienza
i vescovi della Chiesa patriarcale
di Alessandria dei copti, in visita
«ad limina Apostolorum»
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#santamarta
21
6 FEBBRAIO
Due meraviglie
LUNEDÌ
Le omelie
del Pontefice
Con la certezza che «Dio lavora sempre», non
bisogna aver paura di vivere il dono dell’amore e della libertà, mettendo da parte una volta
per tutte le false sicurezze che vengono dalle
rigidità. È il suggerimento spirituale proposto
dal Papa nella messa di lunedì 6. Per la sua
meditazione, Francesco ha preso le mosse dal
salmo 103 e ai testi proposti dalla liturgia della
parola, tratti dal libro della Genesi (1, 1-19) e
dal vangelo di Marco (6, 53-56).
«Perché Dio ha voluto creare il mondo?»:
questa, ha riconosciuto il Pontefice, fa parte
delle «domande difficili». Confidando anche
che una volta un bambino lo ha messo in difficoltà facendo questa domanda: «cosa faceva
Dio prima di creare il mondo, si annoiava?».
Per rispondere a quel bambino, ha raccontato Francesco, «il Signore mi ha aiutato e ho
detto la verità: Dio amava, nella sua pienezza
amava; nella sua comunicazione, fra le tre Persone, amava e non aveva bisogno di più». È
una risposta che, ha proseguito, suscita un’altra domanda: ma se Dio «non aveva bisogno,
perché ha creato il mondo?». In tal caso si
tratta, ha confidato ancora Francesco, di una
questione posta non da un bambino ma che
«si facevano i primi teologi, i grandi teologi».
E la risposta è questa: «Per avere qualcuno al
quale dare e col quale condividere la sua pienezza». Insomma “per dare”. «La stessa domanda — ha detto ancora il Papa — possiamo
farla nella ri-creazione: perché lui ha inviato
suo Figlio?». Lo ha fatto «per condividere,
per ri-sistemare». E «così nella prima creazione, come nella seconda, lui fa del caos un cosmo, del brutto un bello, dell’errore un vero,
del cattivo un buono». E «in Gesù si vede
chiaramente: col suo corpo dà la vita totalmente». Tanto che «quando Gesù dice: “Il Padre sempre opera e anche io opero sempre”, i
dottori della legge si scandalizzarono e volevano ucciderlo perché non sapevano ricevere le
cose di Dio come dono», ma «soltanto come
giustizia», arrivando persino a pensare: i comandamenti «sono pochi, facciamone di
più!». Così, ha proseguito Francesco, «invece
di aprire il cuore al dono, si sono nascosti,
hanno cercato rifugio nella rigidità».
Ecco dunque, ha affermato Francesco, le
«due meraviglie del Signore: la meraviglia della creazione e la meraviglia della redenzione,
della ri-creazione; quella dell’inizio del mondo
e quella, dopo la caduta dell’uomo, di ripristinare il mondo e per questo ha inviato il Figlio: è bello!». Certo, «possiamo domandarci
come io ricevo queste meraviglie, come io ricevo questo che Dio mi ha dato — la creazione
— come un dono». E «se lo ricevo come un
dono, amo la creazione, custodisco il creato
perché è stato un dono». In definitiva, ha concluso Francesco, è opportuno domandarsi «come io ricevo la redenzione, il perdono che Dio mi ha dato, il farmi
figlio con suo Figlio, con amore,
con tenerezza, con libertà». Senza
mai nascondersi nella rigidità.
7 FEBBRAIO
Questione di dna
MARTEDÌ
Ritorno alle origini per capire chi è l’uomo
agli occhi di Dio. Seguendo i suggerimenti
della liturgia della parola, Papa Francesco, si è
soffermato sulla creazione e sul grande amore
che il Signore nutre per l’umanità.
«Dio dà tutto all’uomo. E la creazione
dell’uomo e della donna è l’incoronazione di
tutta la creazione del mondo, è il fine», ha
esordito il Pontefice. Ma, si è chiesto, «cosa ci
dà Dio? Prima di tutto — ha risposto — ci ha
dato il dna, cioè ci ha fatto figli, ci ha creati a
sua immagine, a sua immagine e somiglianza,
come lui». Si tratta di un legame che resta. E
così «se il figlio diventa buono, il padre è orgoglioso di quel figlio» Ugualmente, se il figlio «è un po’ bruttino», il padre comunque
dirà: «è bello!», perché «il padre è così, sempre». E ancora: «se è cattivo, il padre lo giustifica, lo aspetta...». Lo stesso Gesù, del resto,
«ci ha insegnato come un padre sa aspettare i
figli». Addirittura possiamo dire: «Siamo “come dei”, perché siamo figli di Dio». E Dio «è
contento, perché ha sulla terra un figlio, come
ne ha un altro in cielo». Ma il «dono» è anche un «compito». Cioè, ha spiegato Francesco, Dio «ci ha dato tutta la terra». Ma questa
signoria comporta «il compito di portare avanti il Creato», cioè «un lavoro». Il Pontefice si
è soffermato su quest’ultimo aspetto: «Come
lui ha lavorato nella creazione, ha dato a noi il
lavoro, ha dato il lavoro di portare avanti il
creato. Non di distruggerlo; ma di farlo crescere, di curarlo, di custodirlo e farlo portare
frutto avanti».
Infine Dio ha dato all’uomo l’amore. Dice
infatti: «Non è buono che l’uomo viva da solo. E ha fatto la compagna». A tale proposito
Papa Francesco ha confidato che a volte,
ascoltando «qualche musica che cerca di dire
questo», gli «piace pensare» come potrebbe
essere stato «quel primo dialogo, quando tutti
e due si guardavano; il dialogo tra l’uomo e la
donna, il dialogo dell’amore». Riassumendo,
Dio ha detto all’uomo: «Tu sei il figlio, devi
fare questo: custodire il creato, lavorare. E
amare. Perché io sono amore». Di fronte a ciò
viene da esclamare con la Scrittura: «Sei grande, Signore, sei grande!». Insomma — ha commentato il Pontefice — «ci ha dato l’identità:
abbiamo la stessa identità di Dio, siamo figli.
Siamo stati creati a sua immagine e somiglianza. Ci ha dato il dono della terra, del creato:
“Tutto è vostro, ma per custodirlo, non per distruggerlo!”». E «questo si fa con il lavoro: il
lavoro è un dono di Dio e quando una persona non ha lavoro, si sente senza dignità, le
manca qualcosa che viene da Dio». Infine «ci
ha dato l’amore: l’amore che incomincia qui,
nell’uomo e nella donna». Perciò, ha concluso,
«ringraziamo il Signore per questi tre regali
che ci ha dato: l’identità, il dono-compito e
l’amore. E chiediamo la grazia di custodire
questa identità di figli, di lavorare
sul dono che ci ha dato e portare
avanti con il lavoro questo dono,
e la grazia di imparare ogni giorno ad amare di più».
Émile Bernard
«Adamo ed Eva» (1888)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#meditazione
22
di ENZO
BIANCHI
L’amore
per il nemico
D
19 febbraio
VII domenica
del Tempo
ordinario
Matteo, 5, 38-48
opo le prime quattro antitesi annunciate da
Gesù nel Discorso della montagna, ecco le ultime due, nelle quali appare ancora la “differenza” richiesta da Gesù ai suoi discepoli rispetto alla Legge di Mosè, confermata ma approfondita e reinterpretata.
In questo caso viene messa a fuoco la violenza: come arginarla? Come rispondere a essa?
Certo, nella Torah si trova scritta la “legge del
taglione”, della reciprocità tra chi ha offeso e
chi è stato offeso (cfr. Esodo, 21, 24; Levitico,
24, 20; Deuteronomio, 19, 21), legge data per
impedire il deflagrare degli eccessi della violenza, che facilmente viene moltiplicata per ripagare l’aggressore. Si ricorda, ai primordi
dell’umanità, il canto selvaggio e barbaro di
Lamek, che si vantava di vendicarsi non sette
volte, come Caino, ma settanta volte sette (cfr.
Genesi, 4, 24). Dunque la legge del taglione è
un limite, un argine alla violenza: «Occhio per
occhio e dente per dente». Non scandalizziamoci di fronte a questa ingiunzione, perché
ancora oggi siamo testimoni di fenomeni di
vendetta moltiplicata, come la faida o la rappresaglia nelle guerre, nelle lotte razziali, nella
violenza terroristica.
Ebbene, con la sua autorità Gesù può dire
anche in questo caso: «Ma io vi dico di non
resistere al malvagio», proponendo una pratica
di non violenza che è un nuovo modo di resistenza attiva, una resistenza inaudita perché
mite, umile, misericordiosa. Solo così si può
arrestare la reazione a catena della violenza. È
in questa logica di non violenza che Gesù propone dei casi, degli esempi di violenza subita,
indicando come rispondervi. «Se uno ti percuote con uno schiaffo», fatto quotidiano anche nella vita familiare, «se tu vuoi essere discepolo porgi l’altra guancia». Linguaggio semitico, per noi forse eccessivo, che non vuole
suggerire un’esecuzione materiale del comando, ma piuttosto indica lo “spirito” che deve
ispirare l’atteggiamento verso l’aggressore.
Non a caso, secondo il quarto vangelo, dopo
aver ricevuto uno schiaffo da una delle guardie del sommo sacerdote, Gesù non gli porge
l’altra guancia, ma replica con assoluta mitezza: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il
male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Giovanni, 18, 23). Questo comando ri-
volto personalmente a ogni discepolo non esige ingenuità né passività di fronte alla violenza, ma richiede di essere sempre «artefici di
pace» (Matteo, 5, 9). E nel caso di un pignoramento, se viene tolta la tunica, Gesù chiede di
dare anche il mantello, che la Legge vieta di
togliere al povero (cfr. Esodo, 22, 25-26; Deuteronomio, 24, 10-13).
Ma ripeto: Gesù non predica rassegnazione,
non chiede di lasciare che l’ingiustizia trionfi,
ma chiede un atteggiamento creativo, sempre
capace di toccare l’aggressore, di fargli ascoltare una domanda che egli non si pone. In ogni
caso, davanti all’ingiustizia patita, occorre non
tacere mai, non fuggire, ma intervenire, pur rinunciando sempre all’offesa e alla violenza.
Sempre si tratta di «vincere il male con il bene» (cfr. Romani, 12, 21). Ciò è richiesto al discepolo anche quando è costretto a fare strada
da qualcuno, a quei tempi spesso l’occupante
romano: accetti di camminare più di quanto
gli è richiesto… Perché la logica evangelica è
rispondere al male facendo il bene, rispondere
positivamente a chi ha bisogno.
Segue la sesta e ultima antitesi: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” (Levitico, 19, 18) e odierai il tuo nemico, ma io vi
dico…». Nella Torah non sta scritto material-
Dyanne Fiorucci
«Porgi l’altra guancia»
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 febbraio 2017
#meditazione
mente da nessuna parte di odiare il nemico,
ma resta vero che nelle Scritture vi sono testi
che non solo giustificano l’odio per il nemico,
ma lo richiedono, soprattutto se il nemico personale è sentito anche come nemico di Dio. Al
riguardo, va denunciato un vizio tipico delle
persone religiose: quando hanno un nemico
personale, facilmente, pensando che Dio sta
dalla loro parte, si sentono autorizzate a odiarlo a nome di Dio, pregando addirittura contro
di lui salmi di imprecazione: «Non devo forse
odiare chi ti odia, detestare i tuoi avversari, Signore? Li odio con odio implacabile, li ritengo
miei propri nemici!» (Salmi, 139, 21-22). Sì, le
persone religiose odiano più intensamente delle altre, ritenendosi giustificate e appoggiate
da Dio!
Ecco perché Gesù toglie ogni possibilità a
questa deriva e non asseconda neppure il linguaggio immaginifico di cui vi sono tracce negli scritti di Qumran: «Amerai i figli della luce
e odierai i figli delle tenebre». Al contrario,
egli comanda: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano». Parole scandalose, inaudite, che sembrano trascendere le
nostre capacità umane. Eppure questa è per
Gesù nient’altro che l’interpretazione del comandamento: «Amerai il prossimo tuo come
te stesso». Ovvero, lo amerai sempre, in ogni
situazione, anche quando ti è nemico, anche
quando ti fa del male; anzi, simultaneamente
all’offesa ricevuta, continuerai ad amare di un
amore che si spinge fino a pregare, a chiedere
a Dio il bene per il persecutore. Può forse un
cristiano classificare come nemiche e odiare
quelle persone alle quali Dio, Padre di tutti,
concede senza alcuna discriminazione il sole
(la vita) e la pioggia (la fecondità), i beni della creazione?
Il discepolo di Gesù capovolge la logica
delle Scritture dell’Antico Testamento. Se nei
Salmi è richiesto di pregare contro i nemici
(cfr. per esempio 17, 13; 28, 4; 69, 23-29), Gesù
invece chiede di pregare per il loro bene, di
benedire chi maledice (cfr. Luca, 6, 28). Se
egli lo chiede, è perché questo è l’atteggiamen-
23
to di Dio, come l’apostolo attesta nella lettera
ai Romani: «Dio dimostra il suo amore verso
di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora
peccatori, Cristo è morto per noi … Quando
eravamo nemici, siamo stati riconciliati con
Dio» (5, 8.10). Questa è la «differenza cristiana», la differenza del discepolo di Gesù rispetto a giudei o pagani, indifferenti o non credenti. Amare l’altro nella sua irriducibile alterità, al di fuori di ogni logica di reciprocità,
che richiede il contraccambio e il riconoscimento reciproco dei diritti. Spetta dunque al
cristiano vincere la paura del diverso, avere il
coraggio di opporre il bene al male, assumere
un comportamento pieno di amore gratuito
verso i nemici, chiedere a Dio il bene, la felicità, la vita dell’aggressore. David Flusser, un
grande studioso ebreo che pure era affascinato
e in attento ascolto di Gesù, diceva che questo
suo comando era l’unico che non poteva trovare realizzazione, ma era destinato a restare
utopia. Eppure la storia testimonia di discepoli e discepole che, come Stefano, il primo martire cristiano, hanno vissuto questo comando
fino alla morte, invocando il perdono (cfr. Atti
degli apostoli, 7, 60), come Gesù aveva fatto
sulla croce (cfr. Luca, 23, 34).
Chi pratica questo comandamento di Gesù
sperimenta il compimento della promessa di
«essere figlio del Padre che è nei cieli», il quale ama tutti di un amore che non va meritato e
che non dipende dall’essere buoni o malvagi,
giusti o ingiusti. Così si può essere téleioi,
“completi”, nella pienezza dell’amore, come
«Dio è amore» (1 Giovanni, 4, 8.16). Se nella
Torah il comando era: «Siate santi, perché io,
il Signore, vostro Dio, sono santo» (Levitico,
19, 2; cfr. 1 Pietro, 1, 16), nelle parole di Gesù
esso è interpretato come «Siate perfetti, capaci
di una giustizia superiore, come Dio, il Padre». E significativamente in Luca (6, 36) diventerà: «Siate misericordiosi, come il Padre
vostro è misericordioso», come già interpretava
la parafrasi aramaica del Targum (su Levitico,
22, 28): «Dice il Signore: Come io sono misericordioso nei cieli, così voi sarete misericordiosi sulla terra».
Anne Cameron Cutri
«Perché mi percuoti?»
#controcopertina
Invito a pregare, per intercessione della nostra
santa Madre, per tutti gli ammalati, specialmente
per quelli più gravi e più soli,
e anche per tutti coloro che se ne prendono cura.
(11 febbraio, giornata mondiale del malato)