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L’attività riqualificatoria ex art.20 TUR non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta
inquadrabile
di Valeria Mastroiacovo, 7 febbraio 2017
1 (Corte di Cassazione civile, Sezione V, sentenza 27 gennaio 2017, n. 2054)
Serve attendere la “purezza degli innocenti” per rivelare la nudità dell’imperatore.
E’ così che con la sentenza n.2054 del 27 gennaio 2017 i Supremi giudici, in un caso di operazione
triangolare (pertanto con conferimento di azienda “non passante”), hanno concluso – conformemente al
parere del PG – per il rigetto del ricorso dell’Agenzia delle entrate, confermando l’annullamento, già accordato
dai due precedenti gradi di giudizio, dell’atto di liquidazione, motivato sulla base dell’art.20 del testo unico
dell’imposta di registro, volto al recupero di un’imposta per una “artificiosa costruzione di una fattispecie
imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”.
L’innocenza delle colombe si accompagna, tuttavia, come noto, all’astuzia dei serpenti.
La sentenza nel citare numerosi precedenti (sentt. n.23584/2012, n.6835/2013, n.17965/2013,
n.3481/2014) precisa infatti che “il Collegio non ignora il costante indirizzo di questa Corte secondo cui, in tema
di interpretazione degli atti ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, il criterio fissato dall’art.20 del d.p.r.
n.131/1986 impone di privilegiare l’intrinseca natura e gli effetti giuridici, rispetto al titolo e alla forma
apparente degli stessi, con la conseguenza che i concetti privatistici relativi all’autonomia negoziale
regrediscono, di fronte alle esigenze antielusive poste dalla norma, a semplici elementi della fattispecie
tributaria, per ricostruire la quale dovrà, dunque, darsi preminenza alla causa dei negozi giuridici”.
“Tuttavia non è necessario ripercorrere le strade del dibattito sulla portata quale norma antielusiva
generale dell’art.20 per risolvere il caso di specie”.
“Nessuna elusione appare infatti caratterizzare quest’ultimo che appare piuttosto come un’ipotesi di
legittima scelta di un tipo negoziale invece che un altro”.
A un lettore neanche particolarmente attento non sfugge, infatti, come le sentenze citate siano, in
effetti, in qualche misura “datate” rispetto a quello che si potrebbe definire il “costante indirizzo della Corte”. In
particolare manca tra esse la pronuncia (Cass. n.24594/2015) che a ragione ha portato acuta dottrina a
interrogarsi sulla teoria della metempsicosi in materia tributaria (Tabet, L’art.20 della Legge di Registro e la
dottrina della metempsicosi, in GT, 2016, 589). Proprio tale sentenza muovendo dalla stessa citazione testuale
dei precedenti di cui sopra circa “le esigenze antielusive poste dalla norma” concludeva che l’assimilabilità, ai
fini dell’imposta di registro (i.e. ai sensi dell’art.20), di due operazioni (nella specie, cessione totalitaria delle
partecipazioni e cessione di azienda) non rende necessario che l’Agenzia delle entrate fornisca in giudizio la
prova certa dell’intento elusivo. “Non era difficile prevedere che questa massima segnava il passaggio, di
stampo pretorio, da un criterio legale di categorizzazione degli atti fondato sulla sussunzione rispetto a
predeterminati modelli di riferimento, ad uno empirico, incentrato sulla sintesi degli interessi reali perseguiti e
realizzati” (così Tabet, op. cit., 591).
La negazione della natura antielusiva dell’art.20, contraddittoria sia con la premessa che con il metodo
argomentativo utilizzato, apriva un argine che sembrava lentamente destinato a cedere tenuto conto delle
successive pronunce. Questa interpretazione giurisprudenziale finalizzata ad assoggettare a imposizione il
contenuto intrinseco dell’atto o degli atti di cui si assume sussistere una relazione in forza di un vincolo
funzionale di preordinazione ha trovato il suo culmine proprio nell’ultimo anno, quando la Corte, andando oltre
le argomentazioni riconducibili agli elementi estrinseci dell’atto, al collegamento negoziale e alla causa
concreta, ha utilizzato l’art. 20 per operare una “sostituzione di fattispecie” secondo uno schema interpretativo
in tutto corrispondente a quello che legittima l’accertamento antielusivo (cfr. in particolare Cass.
n.25005/2015, n.9582/2016).
2
In effetti, l’elisione, solo formale, del riferimento alle “esigenze antielusive” era stata maliziosamente
ricondotta da taluni Autori (Gallo, La nuova frontiera dell’abuso in materia fiscale, in Rass. Trib., 2015, 1317,
nt.7; Tabet, L’applicazione dell’art.20 t.u. registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. Trib.,
2016, 913; sia inoltre consentito il riferimento a Mastroiacovo, La nuova disciplina dell'abuso del diritto e
dell'elusione fiscale nella prospettiva dell'imposta di registro, in Riv. not., 2016, 31) all’esigenza della
giurisprudenza di rendere l’imposta di registro “prospetticamente” impermeabile alla nuova disciplina
dell’abuso del diritto o dell’elusione d’imposta di cui all’art.10 bis dello Statuto dei diritti del contribuenti, più
garantista quanto alla definizione della fattispecie e alla procedura di accertamento.
La Cassazione, dunque, con la sentenza n.2054/2017 fa un passo indietro e riparte proprio da dove
quell’argine era stato, non senza resistenze, violato (pare infatti il caso di ricordare che dalla sentenza
n.24594/2015 risulta che “all’esito del deposito della relazione ex art.380 bis c.p.c.” la causa era stata discussa
nella Camera di consiglio, in cui il Collegio era pervenuto ad una decisione difforme dalla proposta del relatore).
Affermata l’ultroneità di un dibattito sulla natura antielusiva dell’art.20 (ma, e qui sta l’ambiguità della
decisione, solo in ragione delle specifiche caratteristiche del caso), la Suprema corte in questa occasione non
devia – come invece la recente giurisprudenza – per la china della rilevanza dell’intrinseco, che conduce
appunto alla sostituzione di fattispecie, ma definisce in modo rigoroso la valenza dello stesso art.20 affermando
che “se è indubitabile che l’Amministrazione in forza di tale disposizione non è tenuta ad accogliere
acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti (…), è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non
può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di
una fattispecie diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”. Ed infatti, “ancorché da un
punto di vista economico si possa ipotizzare che la situazione di chi cede l’azienda sia la medesima di chi cede
l’intera partecipazione, posto che in entrambi i casi si monetizza il complesso dei beni aziendali, si deve
riconoscere che dal punto di vista giuridico le situazioni sono assolutamente diverse”.
L’argine appare dunque ricomposto nella sua integrità. “Così posta la questione” – osserva la Suprema
corte in motivazione – la censura del disegno elusivo prospettata dell’Agenzia delle entrate implica una
questione di merito e in quanto tale è rimessa esclusivamente al giudice del merito che, nella specie, ha, con
motivazione non censurabile sia sul piano logico che giuridico, “dato ampia contezza di come non si ravvisi il
collegamento negoziale preordinato ad eludere la tassazione dell’imposta di registro”.
In altri termini, in mancanza della prova dell’Agenzia delle entrate dell’elusione d’imposta (anche
eventualmente in ragione del collegamento negoziale), l’art.20 non consente all’Ufficio di riqualificare la
fattispecie imponibile, con conseguente applicazione delle regole impositive ordinariamente previste per la
tassazione dei singoli atti. La rilevanza fiscale dei singoli atti, in luogo di quella unitariamente riferibile alla
fattispecie riqualificata, comporta inoltre, che il termine per l’accertamento, previsto a pena di decadenza
dall’art.76 del testo unico dell’imposta di registro, decorra dalla data di registrazione del singolo atto oggetto di
controllo (risultando fuori termine – come nel caso di specie – l’avviso notificato dall’Ufficio sulla base del
computo decorrente dall’ultimo atto registrato nell’assunto della riqualificazione della fattispecie imponibile).
La sentenza n.2054/2017 suscita allora interesse anche per ciò che non dice, ma che lascia intravedere
come fondamento del ragionamento su cui si basa. Se, dunque (in netto contrasto con la citata Cass.
n.24594/2015) la Cass. n.2054/2017 conclude che l’elusione è questione di fatto, che deve essere provata
dall’Agenzia delle entrate, la quale non può validamente operare attraverso l’art.20 quella sostituzione di
fattispecie tipica dell’accertamento antielusivo, allora l’accertamento antielusivo in materia di imposta di
registro può avere luogo ma, ratione temporis, sulla base dei principi elaborati dalla giurisprudenza di
legittimità a Sezioni unite (Cass. SS.UU. n.30005/2008) e a quelli cristallizzati nell’art.10 bis dello Statuto dei
3 contribuenti, sia per quanto attiene la disciplina sostanziale che procedimentale.
Chissà se la, per nulla irrisoria, condanna alle spese di giudizio potrà far riflettere l’Agenzia delle entrate per
l’avvenire e chissà se questo precedente possa già essere di per sé rilevante ai fini di una successiva rimessione
della questione alle Sezioni unite della Cassazione circa la corretta interpretazione dell’art.20.