Diritto Civile Contemporaneo

Download Report

Transcript Diritto Civile Contemporaneo

Diritto Civile Contemporaneo
Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537
www.dirittocivilecontemporaneo.com
Anno IV, numero I, gennaio/marzo 2017
BREVI CONSIDERAZIONI A MARGINE DELL’ORDINANZA
RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE SUI «DANNI PUNITIVI»
Luca Nivarra
DI
Brevi considerazioni a margine dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni
Unite sui «danni punitivi»
di Luca Nivarra
L’ordinanza con la quale è stata rimessa al Primo Presidente della S.C. la questione
relativa alla possibilità di riconoscere ex art.64 l.n.218/1995 una sentenza straniera
di condanna al pagamento dei c.d. danni punitivi offre il destro per alcune rapide
considerazioni che hanno la sola ambizione di contribuire ad un migliore
inquadramento del problema (l’ordinanza è già stata commentata da M.
GRONDONA, L’auspicabile “via libera” ai danni punitivi, il dubbio limite dell’ordine
pubblico e la politica del diritto di matrice giurisprudenziale [a proposito del dialogo tra
ordinamenti e giurisdizioni], in Dir. civ. cont., 31 luglio 2016).
Il primo punto sul quale soffermarsi è questo. L’ordinanza accoglie una nozione
minimale di «ordine pubblico», del tutto in linea con lo spirito dei tempi. La
globalizzazione, infatti, impone il passaggio da un uso performativo del filtro ad
un suo uso, per così dire, residuale. Nella prima versione, marcatamente statalista,
l’ordine pubblico esige una almeno tendenziale corrispondenza di principi, valori,
istituti; nella seconda versione, al contrario, ci si può accontentare di una non
plateale difformità rispetto ad un nucleo duro di regole, desumibili per via diretta
o indiretta, dalla Costituzione ma anche, del tutto coerentemente, aggiunge
l’ordinanza, dai Trattati sull’UE.
Già a questo stadio, il discorso sembrerebbe avviato ad imboccare una strada
segnata. Vi è da chiedersi, infatti, cosa si opponga alla ricezione, nel nostro
ordinamento, di una sentenza di condanna al pagamento di danni
ultracompensativi se non, forse, l’art. 23 Cost., a mente del quale «nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».
Tuttavia, a ben vedere, si tratta un impedimento solo apparente o, comunque,
facilmente aggirabile proprio grazie a quell’uso minimale del filtro fatto proprio
dall’ordinanza. In un mondo nel quale l’ordine pubblico vale l’evocazione della
www.dirittocivilecontemporaneo.com
DirittoCivileContemporaneoAnnoIV,numeroI,gennaio/marzo2017
RivistatrimestraleonlineadaccessogratuitoISSN2384-8537
identità in senso forte di un sistema giuridico, le differenze tra il “riconoscere” (un
provvedimento estero) e l’ “applicare” (in sede giurisdizionale una norma di diritto
interno) si attenuano, sino a scomparire; viceversa, in un mondo nel quale l’ordine
pubblico evoca un’identità debole, direi puramente difensiva, “riconoscere” e
“applicare” si allontanano, recuperando, specie il primo dei due termini, notevoli
margini di autonomia. In questa prospettiva, la riserva di legge istituita dall’art. 23
Cost. può dirsi soddisfatta proprio dalla previsione dell’art. 64, lett.g)
l.n.218/1995, reinterpretato nella chiave globalizzatrice adottata dall’ordinanza di
rimessione. In altri termini, un ordine pubblico “pesante” imporrebbe che la «legge»
di cui parla l’art. 23 Cost. fosse cosa diversa dalla norma che subordina il
riconoscimento della sentenza straniera all’osservanza del requisito di cui
all’odierna lett.g) dell’art.64; mentre per un ordine pubblico “leggero” l’art. 64 è
sufficiente a superare l’ostacolo rappresentato dall’art.23 Cost.
La Corte, del resto, va oltre. La chiara, e condivisibile, preferenza per un ordine
pubblico “di risulta” si accompagna ad un accorto scrutinio di tutte quelle ipotesi
nelle quali già il diritto interno si mostra incline ad un uso punitivo-afflittivo della
condanna pecuniaria (personalmente nutrirei qualche dubbio sulla restituzione dei
profitti contemplata dall’art. 125 c.p.i. che mi sembra misura più prossima all’area
dell’ingiustificato arricchimento, ma la questione può qui senz’altro accantonarsi).
Tuttavia, sulla portata e sul reale significato di questo passaggio è opportuno
intendersi. La circostanza che il nostro ordinamento conosca già varie applicazioni
di una versione schiettamente sanzionatoria della condanna pecuniaria rende il
riconoscimento della sentenza estera che infligga al convenuto la pena dei “danni
punitivi” assai più agevole, specie in presenza di un filtro ammorbidito. Non si
può, però, andare oltre: non si ci si può spingere, in altre parole, nella direzione di
una lettura di questi frammenti normativi come espressioni di una regola
immanente al sistema che abiliti il giudice civile a “punire” anche in difetto di una
specifica previsione in tal senso. Esistono diversi precedenti – il più noto dei quali
www.dirittocivilecontemporaneo.com
è rappresentato certamente dal caso “Soraya”- nei quali la S.C. si è avvalsa della
tecnica del collage per argomentare nel senso della rintracciabilità, tra le pieghe
dell’ordinamento, di un principio, di un valore o, come appunto nel 1974, di un
diritto soggettivo (quello alla riservatezza) presenti al solo stato di latenza. Quando
questo è accaduto, tuttavia, la Corte di Cassazione ha sempre potuto appoggiarsi
ad un precetto di rango costituzionale (ad es., l’art. 2) che funzionasse da coagulo
di quelle “sparse membra”. Non mi sembra, però, che nel caso dei danni punitivi
una manovra di questo tipo sia riproponibile: infatti, altro è dire che il nostro
sistema è permeabile ad un provvedimento estero di natura afflittiva, altro è dire
che al nostro sistema sia immanente una regola che legittimi il giudice ad irrogare
condanne punitive al di fuori dei casi espressamente contemplati dalla legge (così
come richiesto proprio dall’art. 23 Cost.). Si ripropone, così, la distinzione tra
“riconoscere” ed “applicare” alla quale ho già accennato più sopra, nel senso che
gli argomenti addotti a sostegno del primo non possono essere trasferiti
automaticamente sul secondo, il quale, viceversa, necessiterebbe di un proprio
autonomo sostegno normativo, allo stato non disponibile in nessuna forma.
Aggiungo, per completezza, che, con ogni verosimiglianza, una ipotetica norma di
legge che generalizzasse l’impiego in chiave afflittiva della condanna pecuniaria
sarebbe compatibile con il diritto italiano. Ma, appunto, è necessario che il
legislatore si pronunzi espressamente al riguardo, così come esige l’art. 23 Cost.
Quanto osservato da ultimo mi offre lo spunto per introdurre la seconda
questione evocata dall’ordinanza. Come ho già detto, non mi sembra che sia
rinvenibile, tra le pieghe dell’ordinamento, una regola che possa ergersi a presidio
di un rimedio punitivo generalizzato. Certamente, almeno a mio parere, non può
essere chiamato a svolgere questa funzione il principio di effettività, là dove
quest’ultimo implica una forma di tutela già nota al sistema, della quale vanno
corrette le insufficienze proprio allo scopo di renderla effettiva, ovvero di metterla
nelle condizioni di assicurare al titolare del diritto la piena attuazione del suo
interesse (caso classico, quello dell’astreinte rispetto all’azione di adempimento delle
obbligazione di fare e di non fare: e, a proposito dell’astreinte, non si può fare a
www.dirittocivilecontemporaneo.com
DirittoCivileContemporaneoAnnoIV,numeroI,gennaio/marzo2017
RivistatrimestraleonlineadaccessogratuitoISSN2384-8537
meno di rilevare come, pur trattandosi di una misura puramente accessoria, essa
sia stata introdotta nel sistema sulla base di una norma di legge, e ciò proprio in
omaggio al disposto dell’art. 23 Cost.)
Venendo, poi, a quello che sembrerebbe essere il leit motiv della discussione
nostrana in punto di danni punitivi (basti pensare ai precedenti “negativi”
richiamati dalla stessa ordinanza), ovvero alla (im)possibilità di piegare la
responsabilità civile a finalità sanzionatorie, debbo dire che a me la questione
sembra impostata piuttosto male. Infatti, anche a voler immaginare che
“risarcimento” (e i suoi derivati) abbia un significato plurivoco, è fuori discussione
che “danno” (a meno di non sottrarsi a frate Occam e al suo rasoio), in materia
extracontrattuale, denoti ciò che per “danno” intende l’art. 1223 c.c. in quanto
richiamato dall’art. 2056 c.c.: il danno emergente e il lucro cessante, ossia la
perdita patrimoniale accertata sulla base di questi due criteri. Il danno, in quanto
risarcibile, non il danno in quanto ingiusto (che, nell’ottica dell’art. 2043 c.c, è solo
una funzione del primo), rappresenta le colonne d’Ercole dell’illecito civile che
non possono essere superate senza snaturare irrimediabilmente la fisionomia
dell’istituto. Discorso molto diverso vale per l’art. 2059 c.c. (come, del resto, sia
pure approssimativamente, avevano intuito le sentenze di S. Martino, istituendo il
doppio regime – tipico/atipico- per il danno non patrimoniale e per quello
patrimoniale) il quale, del resto, nasce come emanazione della potestà punitiva
dello Stato: ma qui il vero problema è rappresentato dalla sua applicabilità ai soli
danni non patrimoniali anche se, ripeto, l’art. 2059 c.c. si presenta, almeno sotto il
profilo funzionale, come quanto di più vicino ad un rimedio sanzionatorio
generale offra attualmente l’ordinamento.
Per concludere. L’ordinanza in commento merita un’adesione convinta quanto
alla piena ammissibilità del riconoscimento della sentenza straniera punitiva.
Sarebbe tuttavia un vero fuor d’opera voler ricavare da essa indicazioni nel senso
www.dirittocivilecontemporaneo.com
di un pieno sdoganamento anche endogeno dei danni punitivi, per i quali, almeno
per come la vedo io, siamo ancora in attesa dell’omologo dell’art. 614-bis c.p.c..
———————————————-
Questa Nota può essere così citata:
L. NIVARRA, Brevi considerazioni a margine dell’ordinanza di rimessione alle
Sezioni Unite sui «danni punitivi» , in Dir. civ. cont., 30 gennaio 2017
www.dirittocivilecontemporaneo.com