Nodi teologici del dialogo ecumenico

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Nodi teologici del dialogo ecumenico
Cattolici e protestanti a 500 anni dalla Riforma
Abbiamo tutti imparato, negli ultimi decenni del secolo scorso,
che il pensare teologico è contestuale. Poiché ciò è comunque
vero, tanto vale prenderne coscienza e includere il contesto nella
propria riflessione. Per il protestantesimo italiano, certo,
l'ambito ecumenico è sempre stato spontaneamente contestuale:
la piccola minoranza, il ruolo del cattolicesimo nella società
italiana, la difficile eredità storica...
Per la verità, ed è bello poterlo ricordare in questo momento, non è mancato chi si è impegnato a
fondo per qualificare il contesto italiano anche in un senso più positivo. Penso a un'iniziativa per
certi aspetti unica in Europa, come il Segretariato per le Attività Ecumeniche, che con grande
tenacia ha tenuto alta la bandiera del dialogo anche nei tempi più difficili; o a centri come l'Istituto
di Studi Ecumenici di Venezia, dove non si è mai smesso di lavorare insieme. In questi mesi e anni,
tuttavia, sembra anche a noi, in Italia, di avere di fronte un'occasione particolare, quella di dare,
partendo dalla nostra situazione locale, un impulso, forse piccolo, ma non privo di significato, al
dibattito ecumenico nel suo insieme.
È del tutto evidente che il dibattito ecumenico è da tempo concentrato sulle tematiche
ecclesiologiche, in particolare sulla questione del ministero, che ha ricadute dirette sulla possibilità
di reciproco riconoscimento e, a quanto pare, anche su quella dell'ospitalità eucaristica. La
Commissione Fede e Costituzione del CEC ha recentemente elaborato un importante documento
ecclesiologico, sul quale le chiese dovrebbero esprimersi entro quest'anno.
La Comunione di Chiese Protestanti in Europa e il Pontificio Consiglio per l'Unità del Cristiani
conducono da anni una consultazione, che forse potrà sfociare in un vero e proprio dialogo teologico
sui temi di dottrina della chiesa. Mi chiedo: quale può essere il nostro compito ecumenico, a livello
locale, italiano? Evidentemente, non si tratterà di riprodurre itinerari e riflessioni svolte in altra
sede, spesso anche con il nostro contributo. Dovremmo però impegnarci per individuare forme di
utilizzazione di questi testi nel lavoro di formazione ecumenica di base e chiunque abbia provato a
farlo sa che non è affatto un compito semplice. Parallelamente, mi sembra urgente affrontare
altre tematiche, sempre strettamente collegate e quelle ecclesiologiche, ma nelle quali i grandi temi
della comunione vengono affrontati da punti di vista specifici, abbastanza strettamente collegati al
vissuto delle comunità e delle persone. Il pontefice romano, nei suoi incontri con noi, in questi ultimi
anni, ne ha menzionati due, che vorrei riprendere e sottoporre alla vostra attenzione,
aggiungendone poi un terzo, sul quale sono anzitutto gli evangelici a porre una domanda critica.
Si tratta delle differenze antropologiche ed etiche», menzionate da Francesco a Torino; del
cosiddetto «proselitismo», più volte evidenziato come punto sensibile; e del tema delle donne nella
chiesa, con particolare riferimento al ministero ordinato.
Antropologia ed etica
Il significativo dissenso su temi etici tra la Chiesa cattolica e una parte del protestantesimo, che
viviamo in questi anni, rappresenta una relativa novità in ambito ecumenico. La Riforma ha insegnato
a pensare la problematica etica secondo direttrici marcatamente diverse da quelle che sono state
accolte in ambito cattolico e che hanno orientato il magistero.
Tali differenze, unite, appunto, al diverso modo di vivere la chiesa, hanno certamente determinato
conseguenze di rilievo nella pastorale e nel counseling etico. Fino alla Seconda Guerra Mondiale,
tuttavia, queste differenze sull'etica fondamentale e sulla comprensione dell'imperativo etico si
sono accompagnate a un accordo piuttosto largo in molti ambiti specifici.
Tra i temi oggi oggetto di drastico dissenso, forse solo l'atteggiamento nei confronti del divorzio e
delle nuove nozze è tradizionalmente diverso; moltissimi contenuti di etica sessuale erano
sostanzialmente condivisi, compresi, nell'insieme, quelli relativi alla condizione omosessuale; lo
stesso può dirsi degli orientamenti fondamentali sulle questioni relative alla fase iniziale della vita
da una parte e a quella terminale dall'altra.
Nel secondo dopoguerra, la posizione di alcuni settori protestanti è cambiata.
È giusto, in primo luogo, sottolineare che si tratta solo di alcuni settori (a volte maggioritari nelle
singole chiese nazionali, ma non sempre) di alcune chiese protestanti tradizionali (luterane,
riformate, in parte metodiste e battiste) del Nord del mondo. In esse si è aperta una riflessione,
che ha investito dapprima l'ambito della sessualità, proprio mentre la chiesa di Roma si sentiva in
dovere di ribadire, ad esempio, la propria posizione sulla contraccezione artificiale, con l'enciclica
Humanae Vitae.
In seguito, le stesse chiese si sono schierate, nei rispettivi paesi, a favore della regolamentazione
giuridica dell'interruzione volontaria della gravidanza; su molte delle nuove questioni poste dagli
sviluppi della medicina, esse hanno assunto posizioni assai diverse da quelle del cattolicesimo; infine,
la discussione sulla condizione omosessuale ha, se così si può dire, spettacolarizzato il dissenso.
In Italia, la tensione è ancora più vistosa che altrove e investe anche altri temi, come il rapporto
chiesa-società nelle sue valenze giuridiche: è piuttosto frequente che quando l'opinione pubblica si
divide tra posizioni filocattoliche e «laiche», le chiese evangeliche si collochino in questo secondo
schieramento.
Ripetiamolo: non sono stati, e non sono, solo il cattolicesimo e l'ortodossia a considerare con
perplessità questa evoluzione: preoccupazioni analoghe (o, per essere più schietti, analoghe
condanne) si riscontrano nelle chiese protestanti sorelle del sud del mondo e nel vasto arcipelago
evangelicale. In Italia, per fare un solo esempio, la decisione del Sinodo delle Chiese Metodiste e
Valdesi del 2010 relativamente alla benedizione di unioni omoaffettive ha suscitato vivaci
resistenze nella componente africana (ma anche in quella ispano-americana) delle nostre chiese.
Insomma: la parte di protestantesimo del Nord del mondo che ha avviato questo percorso etico si
trova in netta minoranza nell'ecumene cristiana. Naturalmente, come è stato spesso rilevato (non
solo da parte protestante), la verità non dipende dalle maggioranze. È vero però che una simile
situazione, diciamo statistica, deve contribuire a suscitare in chi si trova in minoranza una
riflessione molto seria sui propri percorsi.
La posta in gioco, infatti, è elevatissima: si tratta, né più né meno, della testimonianza cristiana
nella società. Stiamo parlando, naturalmente, di temi tra loro assai eterogenei. Alcuni riguardano,
propriamente, l'atteggiamento politico a proposito di leggi specifiche. La valutazione etica della
legge 194, ad esempio, non coincide simpliciter con quella dell'aborto in quanto tale. Altri dibattiti
sono invece anzitutto di carattere, appunto, antropologico ed etico: ad esempio quelli riguardanti il
complesso di domande relative alla condizione omosessuale. Dal punto di vista ecumenico, tuttavia,
temi così diversi presentano una problematica ricca di elementi comuni.
Il disaccordo sulla legge 194, ad esempio, non è normalmente presentato in termini soltanto politici.
Il linguaggio utilizzato nelle discussioni in materia pone, a mio avviso, una domanda abbastanza
drastica: chi, come me, e come la grande maggioranza dei valdesi, dei metodisti e dei battisti
italiani, ha voluto la legge 194 e oggi la difende, va considerato «contro la vita» e dunque, «per la
morte»?
Se così fosse, evidentemente, le conseguenze sul piano del dialogo ecumenico dovrebbero essere
immediate. Io, lo confesso, non vorrei celebrare la settimana di preghiera per l'unità della chiesa
insieme al dott. Mengele. La materia sessuale è forse meno drammatica, ma anch'essa seriamente
divisiva. Che dire, cristianamente parlando, di una chiesa che ha scelto (perché di questo si tratta)
di invocare il nome di Dio su un'unione omoaffettiva? Un teologo cattolico, commentando alcune mie
riflessioni in proposito, ha parlato di una «parodia blasfema del messaggio di Cristo». Nessuno
dovrebbe scandalizzarsi di un linguaggio così diretto: esso esprime il disorientamento di molti
cattolici, ortodossi ed anche evangelici.
Che cosa significa discutere questi temi sul piano ecumenico? Intanto, è presto detto che cosa non
può significare: non è realistico, in questo momento, aspirare a un consenso. Si tratta, invece, di
offrire una valutazione teologica del dissenso. Finora, il giudizio sulle posizioni evangeliche
controverse è stata articolata, in sintesi, come segue: si tratta di un cedimento catastrofico alla
secolarizzazione e al relativismo occidentali. Un certo tipo di protestantesimo, cioè, si sarebbe
piegato, in modo pavido e servile, alle istanze secolari, rinunciando al dovere cristiano di annunciare
la critica di Dio nei confronti della «mentalità di questo secolo».
La valutazione etica si intreccia qui con l'ecclesiologia: una simile abdicazione al compito ecclesiale,
infatti, snatura fino alla radice la comunità cristiana. Dal punto di vista di chi è investito da questa
critica, posso affermare che tutte le discussioni sul ministero ecclesiale, il famoso dibattito
sull'essere o meno quelle evangeliche chiese «in senso proprio», a motivo della concezione
dell'episcopato, e simili, mi sembrano del tutto secondarie se confrontate a questa accusa di molle
e opportunistica abdicazione alla responsabilità elementare della chiesa, quella che la rende tale:
cioè, ripeto, la testimonianza alla parola di Dio nella società del proprio tempo.
La radicalità di questa critica viene spesso rimossa, da entrambe le parti, nell'incontro quotidiano,
forse perché si coglie che, se presa sul serio, essa potrebbe l'interruzione immediata di ogni
dialogo. Le chiese evangeliche «sotto accusa», da parte loro, ritengono di star compiendo un
cammino di discernimento in obbedienza a Gesù. Esse sostengono la legge 194 perché pensano che si
tratti, con tutti i limiti, di uno strumento per combattere l'aborto, meno inefficace di altri; esse
benedicono unioni omoaffettive perché ritengono che esse possano costituire un segno della fedeltà
dell'amore di Dio, in analogia a quanto accade per unioni eterosessuali.
Si tratta, cioè, di percorsi che intendono essere di fede. Anche le chiese evangeliche,
evidentemente, elevano critiche consistenti per quanto riguarda le posizioni opposte alle loro:
bisogna riconoscere, tuttavia, che tali critiche, anche le più severe, non mettono in discussione la
ricerca di fedeltà dell'altra chiesa. Siamo di fronte (non è l'unico caso) a una certa asimmetria: le
critiche nei nostri confronti mettono in discussione la fondamentale fedeltà al messaggio biblico; le
critiche che noi rivolgiamo agli interlocutori su questi temi sono, in genere, di portata più
circoscritta.
Mi chiedo: il cammino fin qui compiuto e la reciproca fiducia che si è instaurata o si sta instaurando
tra le nostre chiese possono consentire una valutazione ecumenica dei nostri dissensi? Vorrei
tentare di essere più preciso. Probabilmente, un confronto spregiudicato su questi temi
richiederebbe un provvisorio passo indietro, un ritorno, cioè, a quella che costituisce sempre la fase
iniziale del dialogo ecumenico. È necessario, cioè, che ci esponiamo reciprocamente, in modo
organico, le rispettive posizioni.
Tale lavoro descrittivo non è superfluo. È vero, infatti, che molto, forse quasi tutto, ci è già noto,
ma è anche vero che quello che sappiamo dell'altro è stato appreso nel quadro di una comunicazione
parziale e non orientata ecumenicamente. Il solo fatto di disporre il materiale in vista di un dialogo
del genere aiuta a mettere ordine nelle proprie idee e a vedere meglio i problemi aperti anche dal
proprio punto di vista. Si tratta di un compito estremamente impegnativo, già dal punto di vista
psicologico.
Poiché siamo abbastanza spaventati dall'entità del dissenso, e del tutto impreparati a un ascolto, se
non simpatetico, almeno minimalmente aperto del punto di vista dell'altra chiesa, abbiamo preferito
rimuovere questi temi. Sappiamo che ci sono, ma preferiamo non parlarne. La fase di reciproca
conoscenza dovrebbe sfociare in una ricognizione propriamente teologica dei problemi. Francesco
ha parlato di differenze di carattere «antropologico».
È effettivamente così? Il dissenso verte cioè sul modo di intendere l'essere umano in quanto
creatura di Dio? Se la risposta fosse affermativa: in che consiste, esattamente, tale dissenso e
quali ne sono le conseguenze? E in caso contrario: è possibile riformulare il disaccordo in termini
ecumenicamente compatibili (significa: tali da non compromettere l'obiettivo di una testimonianza
comune nella società)?
Proselitismo
Ecumenismo e proselitismo sono alternativi: Francesco lo ha ripetuto più volte ed è in buona
compagnia. Le chiese ortodosse hanno sempre condotto una severa polemica nei confronti di
atteggiamenti occidentali (sia cattolici, sia di matrice evangelica, soprattutto evangelicale)
qualificati come “proselitismo”; ma anche la letteratura ecumenica è ricca di messe in guardia nei
confronti di un simile atteggiamento.
Che cosa, precisamente, si intende condannare? La definizione di “proselitismo” prevalente nei
dizionari (“L'atteggiamento di chi cerca di fare proseliti”; o simili) è evidentemente insufficiente.
Qualunque discorso propositivo intende convincere e, almeno in questo senso, “fare proseliti”. Il
proselitismo che viene criticato è una concorrenza tra chiese cristiane, nella quale una tra esse
intende convincere membri dell'altra a lasciare la chiesa di appartenenza originaria, passando a
quella “proselitista”.
Il proselitismo, pare, si distingue dalla missione in quanto quest'ultima ha di mira la proclamazione
dell'evangelo a chi non è cristiano o lo è in forma ormai nominale; il proselitismo, invece, si rivolge a
chi è consapevolmente membro di una chiesa al fine di intaccare le convinzioni di questa persona. Se
i termini della questione sono quelli che ho esposto, è difficile non associarsi alla critica del
proselitismo: suggerire a membri di una chiesa di passare ad un'altra è evidentemente in contrasto
con un dialogo fraterno e sororale con quest'ultima.
Se però consideriamo la questione più da vicino, tale evidenza risulta un poco problematizzata. In
primo luogo, il rifiuto del proselitismo presuppone un''ecclesiologia non esclusiva: la convinzione,
cioè, che la propria chiesa non sia l'unica a essere tale in senso proprio. Se penso il contrario, che
cioè, ad esempio, la mia chiesa è l'unica a disporre della pienezza dei mezzi di grazia, allora invitare
chi fa parte di una chiesa che non ne dispone a emigrare è quasi un dovere cristiano.
Perché privare il prossimo di doni così rilevanti? Il rifiuto del proselitismo implica la convinzione
che le diverse chiese sio collochino, in ordine alla salvezza, sullo stesso piano. Dispongano cioè di
dono in parte diversi, ma in definitiva complementari. Per questo motivo, la propaganda
confessionale non ha senso.
Mi chiedo: questa ecclesiologia non esclusiva è quella oggi condivisa dallìe diverse chiese? Se non lo
fosse (ed è inutile negarlo: non lo è: non è, ad esempio, quella cattolico-romana) proprio il rifiuto del
proselitismo costituirebbe uno stimolo ad approfondire i nostri presupposti ecclesiologici. Evitare il
proselitismo ha senso solo se si considera l'altra chiesa come tale, nel senso più stretto e più pieno
del termine.
La mia seconda interrogazione riguarda direttamente la chiesa della quale faccio parte e, in un
certo senso, anche la mia biografia. Una parte dei protestanti italiani sono ex cattolici, che per
ragioni diverse hanno ritenuto di vivere la fede cristiana in un diverso contesto ecclesiale. In questi
casi, le chiese valdesi e metodiste riconoscono senz'altro il battesimo a suo tempo celebrato nel
contesto della chiesa cattolica: riconoscono cioè che quella che si verifica non è una “conversione”,
bensì, appunto, una diversa contestualizzazione ecclesiale della fede.
Personalmente, ho conosciuto anche almeno un caso di passaggio nell'altra direzione. Come
dobbiamo valutare tali situazioni dal punto di vista ecumenico? Non sono sicuro che sia una domanda
banale. Non lo è dal punto di vista statistico. Nelle chiese evangeliche italiane, il numero di questi
casi è certo microscopico in senso assoluto, ma rilevante rispetto ai numeri di tali chiese, e ancor
più rispetto a quello dei membri consapevoli delle comunità (chi compie un simile percorso,
normalmente è motivato e dunque attivo nella chiesa nella quale entra). Ma non lo è nemmeno dal
punto di vista teologico e canonico.
Ho visto con i miei occhi una notifica di scomunica (non l'originale, per la verità: solo la trascrizione
del testo) redatta da una curia diocesana nei confronti di una persona diventata evangelica, alcuni
anni fa. Sono certo che molti cattolici considerino problematico un documento del genere; altri, non
senza ottime ragioni, lo considererebbero praticamente dovuto.
Tornando al proselitismo: la condanna riguarda la “proposta” di tale passaggio? Le chiese, cioè,
potrebbero solo “accoglierlo”, ma non in incentivarlo? Oppure “proselitismo” è solo “un certo tipo” di
proposta, quella che discredita l'altra chiesa ed esercita forme di pressione spirituale o addirittura
(è accaduto anche questo) economica? Credo che discutere con serenità un tema di questo tipo,
molto concreto, potrebbe aiutarci anche sulle grandi questioni teologiche sulla chiesa.
Donne e ministero ordinato
Diciamolo subito: le chiese evangeliche che non fanno discriminazioni di genere per quanto riguarda
l'ordinazione sanno di essere, anche su questo, in minoranza, all'interno della cristianità. Esse sono
anche consapevoli che l'ordinazione delle donne non può essere considerata semplicisticamente
come la soluzione al millenario problema della discriminazione della donna nella chiesa; e che la loro
stessa storia recente non cancella una vicenda lunghissima e non positiva, che esse hanno in comune
con le altre famiglie cristiane.
Tuttavia: credo non sia esagerato affermare che l'esperienza delle chiese protestanti che, a
partire dalla seconda metà del XX secolo, hanno esteso alle donne la possibilità dell'ordinazione, sia
stato un grande dono di Dio e uno dei maggiori (e, va detto, misconosciuti) contributi protestanti
all'ecumene cristiana.
Nello stesso protestantesimo, il processo di scoperta delle potenzialità innovative di questa scelta
è solo all'inizio. L'intera teologia del ministero va riletta tenendo conto di questo fattore e si
tratta di un impegno non da poco. Una sana teologia del ministero, tuttavia, non riposa su se stessa,
bensì si radica nella dottrina dello Spirito santo: la discussione che chiamiamo “sul ministero
femminile” investe dunque, piuttosto direttamente, la stessa pneumatologia.
Ci rendiamo tutti ben conto dell'esigenza di non “bruciare” un confronto potenzialmente ricchissimo
con attese premature o, peggio ancora, assumendo la postura di chi rimprovera all'altro una
effettivi o presunti ritardi o inadeguatezze: poiché, come evangelici, ci capita a volte di subire
questo atteggiamento, dovremmo aver imparato che esso non sempre aiuta. Il nostro compito
immediato è più semplice: si tratta di scambiarci esperienze, riflessioni e, anche, aspirazioni
(perché, lo so per certissimo, ve ne sono molte, anche in ambito cattolico).
È prevedibile che la chiesa evangelica scopra, in un simile confronto, di essere molto. Ma molto più
“indietro” di quanto pensasse e di non aver sempre valutato appieno le potenzialità teologiche di
scelte per altro verso compiute con coraggio. La chiesa romana, poi, può offrire al protestantesimo
la propria esperienza «universale», una cattolicità planetaria che, su questo come su altri punti,
favorisce l'emergere di prospettive robustamente diverse.
Anche qui sono in gioco questioni antropologiche: e per un evangelico è sempre assai interesse, e
anche motivo di una certa ammirazione, osservare come la chiesa cattolica riesca, certo con fatica
e non senza contraddizioni, a portare avanti un cumenismo «interculturale», che nel XXI secolo
costituisce forse la principale sfida per tutta la cristianità Non tocca a me, invece, immaginare che
cosa potrebbe scoprire, in un simile dibattito, l'interlocutore cattolico (o l'interlocutrice, appunto!).
La mia frequentazione di quella chiesa, però, è sufficientemente intensa da rendermi certo del
fatto che non si tratta di un dibattito superfluo. La mia, certo, è anche una frequentazione
forzatamente selettiva: è quella di un cattolicesimo dialogante, ecumenico, critico, che certamente
non esaurisce l'ampiezza delle posizioni presenti.
Anche questa, tuttavia, è una caratteristica del nostro tempo: esiste anche un ecumenismo ad intra,
che va insieme a quello ad extra e che, anche questo va riconosciuto, qualche volta confonde e
intreccia i fronti. Lo ripeto in conclusione: i dissensi etici e il tema del proselitismo, ricordati da
Francesco; e le problematiche di genere nella chiesa e in particolare per quanto attiene al ministero
ordinato, non ci allontanano dall'ecclesiologia, al centro dei grandi dialoghi internazionali.
Al contrario, proiettano quel tema nel vissuto quotidiano delle comunità. Nel nostro dialogo italiano,
appena iniziato, non ci è chiesto di risolvere I problemi che a tal proposito si aprono. Iniziare a
saminarli nel loro spessore costituisce, di per sé, un compito spirituale impegnativo e anche molto
affascinante.
Fulvio Ferrario
decano della Facoltà Valdese di teologia di Roma
Se uno è in Cristo, è una nuova creatura / 1 Cattolici e protestanti a 500 anni dalla Riforma
14 Infatti l'amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì
per tutti, quindi tutti morirono; 15 e ch'egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più
per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. 16 Quindi, da ora in poi, noi non
conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un
punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così. 17 Se dunque uno è in Cristo, egli è una
nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove.
Che cosa ci muove come chiese e come singoli? Che cosa ci ispira? Cosa determina le nostre scelte,
le nostre priorità? Cosa ci rende perseveranti in alcune situazioni e anche con grandi costi personali
ci spinge a non mollare? Cosa ci porta invece altre volte a cambiare radicalmente strada, idee,
comportamenti? Cosa ci tiene identici a noi stessi e cosa invece ci trasforma al punto che dopo anni
o mesi, o soltanto giorni, stentiamo a riconoscerci tanto siamo cambiati?
E se pensiamo alle nostre chiese di appartenenza cosa le fonda? Ma più che questo, quale la
motivazione non per esistere quanto per continuare (o magari interrompere) il cammino? C’è una
forza che ne determina la direzione giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio,
secolo dopo secolo? Possiamo individuare questa forza? Ce n’è una o ce ne sono tante, diverse e
forse inconciliabili? C’è una motivazione comune per ciascuna famiglia di chiese o per più famiglie di
chiese insieme?
Ci poniamo queste domande perché siamo confrontati con una frase che troviamo al versetto 14 del
capitolo 5 della seconda lettera di Paolo ai corinzi. Il contesto è quello di un appello accorato
dell’apostolo alla comunità di Corinto a restituirgli la fiducia che era stata scossa e messa in
discussione da interventi e critiche esterni alla comunità.
Paolo che era stato il fondatore della loro chiesa, sperava che essi potessero di nuovo andar fieri di
lui, apprezzarne la vita, la vocazione, il ministero, seguire di nuovo il sentiero da lui tracciato. La
frase è questa:
L’amore di Cristo ci costringe (Nuova riveduta)
L’amore di Cristo ci spinge (TILC)
L’amore di Cristo ci possiede (Bibbia di Gerusalemme).
Questo è quello che dice Paolo parlando di se stesso. Il plurale intende includere forse anche i suoi
collaboratori nella diffusione del Vangelo, ma Paolo sostanzialmente parla di sé. Il verbo greco
“συνέχω” è un verbo piuttosto raro nel Nuovo Testamento.
Lo usa oltre Paolo due volte, quasi soltanto Luca (9 volte) nel Vangelo e negli Atti degli apostoli. Il
senso è quello di “essere stretto”, dominato totalmente, soggiogato addirittura. Ecco che le
traduzioni hanno: costringe, spinge, possiede. Paolo non avrebbe avuto dubbi a rispondere alla
domanda che ho posto all’inizio di questo intervento: cosa ti muove, Paolo? Cosa ti ha costretto a
cambiare radicalmente il corso della tua vita? Cosa determina giorno per giorno le tue decisioni?
Cosa ti spinge a non mollare una chiesa così complicata e conflittuale come quella di Corinto?
Cosa ti ha reso così ostinato e instancabile nonostante hai cinque volte ricevuto dai tuoi oppositori
38 colpi in pubblico, nonostante tu sia stato tre volte battuto con le verghe, affrontato varie volte
tu, innocente, la prigione, sopportato minacce di morte, una volta perfino scampato a una
lapidazione, tre volte fatto naufragio, e infinite volte affrontato pericoli, patito fame e freddo (II
Cor 11, 23-33)? Tu, cittadino romano per diritto di nascita, membro di una famiglia importante della
città di Tarso?
Lui, da noi interpellato avrebbe risposto semplicemente, come disse alla sua comunità: “L’amore di
Cristo mi spinge, mi costringe, l’amore di Cristo mi possiede, mi governa. C’è qualcosa superiore alle
mie forze che domina la mia volontà. Non posso agire altrimenti. Questa forza è l’amore di Cristo”.
Un’altra volta aveva parlato Paolo ai corinzi, esprimendo in modo simile questa necessità interiore.
In quel caso egli esplicitò anche l’obiettivo di questa forza e la motivazione. Leggiamo infatti al
capitolo 9, versetti 16 e 17 di Prima Corinzi: “Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è
una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio volenterosamente,
ne ho ricompensa, ma se non lo faccio volenterosamente è sempre un’amministrazione che mi è
affidata”.
Nel nostro testo l’amore di Cristo è la forza che muove l’apostolo, lo costringe, lo possiede, lo
domina. In quell’altro è detto che questa forza più forte di lui si concretizza nell’affidamento di un
incarico, l’incarico di annunciare il Vangelo. L’annuncio del Vangelo era talmente centrale e
dominante da indurlo a rinunciare ad ogni diritto, a vivere la libertà di cui godeva per nascita e
vocazione, rinunciandovi, facendosi liberamente servo.
Ascoltiamolo: “Qual è dunque la mia ricompensa? Questa: che annunciando il Vangelo io offra il
Vangelo gratuitamente, senza valermi del diritto che il Vangelo mi dà. Poiché pur essendo libero da
tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero; con i giudei mi son fatto
giudeo, per guadagnare i Giudei; con quelli che sono sotto la legge mi sono fatto come uno che è
sotto la legge (benché io stesso non sia sottoposto alla legge), per guadagnare quelli che sono sotto
la legge; con quelli che sono senza legge, mi sono fatto come se fossi senza legge (pur non essendo
senza la legge di Dio, ma essendo sotto la legge di Cristo) per guadagnare quelli che sono senza
legge.
Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per
salvarne ad ogni modo alcuni. E faccio tutto per il Vangelo, al fine di esserne partecipe insieme ad
altri”. (I Cor 9, 18-23). Dunque la forza che possiede, spinge, muove l’apostolo ad offrire a tutti il
Vangelo gratuitamente a costo di rinunciare – ed ecco il paradosso – a costo di rinunciare
liberamente al bene più prezioso quello di se stesso e della sua libertà, questa forza più forte di lui
è l’amore di Cristo.
Nel nostro testo Paolo dice di essere arrivato a questa considerazione - che sembra la conclusione
di una lunga meditazione durata anni – “che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono e che egli
morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto ed è
risuscitato per loro”.
Il compito di ogni generazione e di ogni credente è fare lo stesso percorso che Paolo fece, cioè
cercare di comprendere quella piccola frase dove è racchiuso tutto il Vangelo, l’annuncio buono:
“Uno solo morì per tutti”, e da questa comprensione lasciare sgorgare tutto il resto, così come
accade quando si trova una fonte limpida e cristallina, fresca e abbondante capace di donare agli
assetati, alla terra come agli animali, agli uomini come alle donne vita e fecondità.
“Uno solo morì per tutti”. Comprendere questa affermazione è il nostro compito come fu per
l’apostolo Paolo e la sua generazione. Paolo stesso aveva ricevuto questa verità di fede da coloro che
erano stati in Cristo prima di lui. Comprendere prima e poi far conoscere questa verità di fede a
tutti era diventato, come abbiamo visto, lo scopo stesso della vita.
“Uno solo morì per tutti”. Come comprese Paolo questa verità? Fu su questo che rifletté quando,
come racconta egli stesso nell’epistola ai cristiani e alle cristiane di Galazia, egli si ritirò in Arabia
subito dopo la sua conversione? Fu in questo campo la rivelazione che ricevette anni dopo quando
decise di confrontarsi in privato con gli altri apostoli?
Dall’insieme degli scritti di Paolo e dalla ricchezza e dalla varietà dei linguaggi che Paolo utilizzò per
parlare della morte di Gesù sulla croce nelle sue lettere possiamo dedurre varie cose. Prima di tutto
per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento la morte di Gesù ebbe carattere storico e
non mitologico.
La morte di Gesù fu una morte reale come Gesù fu un uomo reale, ebreo, nato di donna (Gal 4, 4),
della stirpe di Davide (Rom 1, 3). La tradizione dell’ultima cena con il suo carico tragico di
tradimento e di presagio di morte fu parte integrante del Vangelo che Paolo insegnava e tramandava
alle sue chiese.
Possiamo dunque dedurre che Paolo fu reso pienamente consapevole da coloro che furono apostoli
prima di lui che Gesù fu storicamente vittima innocente di un processo ingiusto, che visse come
testimone dell’amore e della verità di Dio e non tentò mai l’ascesa politica o militare, che nessuno
riuscì a farlo deviare da questo itinerario neanche le minacce di morte, e che ciò per cui Gesù visse,
fu anche ciò per cui Gesù morì.
E sappiamo anche che la verità spiazzante di un messia crocifisso fu rivelata attraverso
l’esperienza di coloro a cui Gesù apparve vivo nei giorni successivi. Fu la notizia della risurrezione
che cambiò tutto. Gesù non era stato allora soltanto una delle tante vittime innocenti dell’impero
del momento ma il Messia d’Israele atteso, il figlio di Dio.
Nella vicenda di Gesù cioè era entrato Dio, dunque era già coinvolto prima, Dio che aveva fatto
risorgere Gesù e lo aveva ripresentato al mondo come suo Figlio. Fu la visione del Gesù tornato in
vita per non più morire che aveva spinto i suoi discepoli a riflettere sul significato della sua morte e
a ritroso, della sua intera vita.
La morte di Gesù doveva avere un significato non solo per lui (chi era dunque Gesù?) ma anche per
chi aveva creduto in lui e lo aveva seguito (qual sarebbe stata da allora in poi la loro missione?). La
risurrezione di Gesù dava una legittimazione divina alle parole di Gesù e diceva qualcosa di
fondamentale sul Dio che Gesù aveva annunciato.
Il fatto storico della croce di Cristo doveva essere dunque investigato, interpretato, capito, per
essere annunciato a tutto il mondo, agli ebrei prima e poi anche al grande popolo pagano. Questo era
il primo compito della chiesa che nasceva e cominciava a muovere i primi passi. Paolo ricevette
questa verità e ne divenne un grande interprete.
La prima fonte per interpretare la morte di Gesù fu il ricordo di quello che lo stesso Gesù aveva
detto ai suoi nel prevedere la sua propria morte. E aveva detto che lui sarebbe morto a
Gerusalemme come profeta (Luca 13, 31-35). Poi durante la cena prima del suo arresto egli, sempre
secondo Luca, parlò di se stesso ai discepoli che litigavano su chi di loro fosse il maggiore,
paragonandosi ad un servo: “Sono in mezzo a voi come colui che serve” (Luca 22, 26-27).
Questa parola di Gesù sul servizio nell’imminenza della sua morte – che Giovanni espresse poi con
l’atto del maestro del lavare i piedi ai discepoli - serbata nella memoria dei suoi, avrebbe poi
richiamato la figura del “servo del Signore” che compare in molti testi della seconda parte del libro
di Isaia. Gesù e non Israele (o non solo Israele e il suo profeta) adempieva e rendeva comprensibile
ciò che era stato detto del servo del Signore, il prescelto sul quale il Signore aveva messo il suo
Spirito (Isaia 42, 1-7).
Questo servo disprezzato, abbandonato, uomo di dolore, spregiato “dopo l’arresto e la condanna fu
tolto di mezzo”, secondo il capitolo 53 di Isaia. Quel testo fu richiamato esplicitamente e per
esteso nel libro degli Atti 8, 32-33 per parlare di Gesù e della sua morte, ma implicitamente anche
in altri testi del NT, compresi gli scritti paolini come l’inno di Filippesi 2 che esprime
l’abbassamento del Figlio di Dio secondo le categorie del servo: “spogliò se stesso prendendo forma
di servo” (v. 7). E in questo testo profetico di Isaia 53 ci sono alcune affermazioni che formeranno
la base delle successive interpretazioni della morte di Gesù. Eccone alcune:
“Egli era strappato alla terra dei viventi e colpito a causa dei peccati del mio popolo” (v. 8) “Dopo
aver dato la sua vita in sacrificio per il peccato egli vedrà una discendenza, prolungherà i suoi
giorni” (v. 10)
“Dopo il tormento dell’anima sua vedrà la luce, e sarà soddisfatto, per la sua conoscenza, il mio
servo, il giusto, renderà giusti i molti, si caricherà egli stesso delle loro iniquità” (v. 11).
Anche nelle parole dell’ultima cena, Gesù, secondo le formule tramandate dalla tradizione, indirizzò
i suoi verso una simile interpretazione quando spezzando e distribuendo pane e vino si riferì al suo
corpo come “il mio corpo dato per voi” e al “calice del nuovo patto nel mio sangue”.
Un banchetto sacrificale aveva suggellato il primo patto (vedi Esodo 24, 4-11), un diverso ma per
alcuni aspetti simbolici analogo banchetto suggellò anche il nuovo patto, questa volta nel sangue di
Cristo. Nel testo di Isaia la causa della morte del servo era indicata nei “peccati del suo popolo”, e
definita in termini di “sacrificio” con un valore vicario (muore lui giusto per rendere giusti molti).
Questo riferimento profetico al sacrificio poteva essere comprensibile sia nel contesto ebraico che
in quello pagano. Entrambi i contesti conoscevano infatti i rituali sacrificali. Ma soltanto il linguaggio
sacrificale di matrice ebraica, poteva essere veramente utile per spiegare alcuni aspetti della croce
di Cristo.
Il linguaggio del sacrificio rituale venne associato alla morte di Cristo relativamente a due diverse
tradizioni dell’Antico Israele: l’agnello pasquale e il sacrificio del grande giorno dell’espiazione.
L’interpretazione di Gesù come agnello pasquale, sviluppato dal quarto evangelista, partiva
soprattutto dalla coincidenza di date: Gesù era stato ucciso proprio durante la festa di Pasqua.
Anche Paolo ne accenna in I Corinzi 5, 7. Usando il linguaggio cultuale Paolo parlò anche di
espiazione (Rom 3, 25). Il linguaggio del sacrificio fu utile per interpretare la morte di Gesù perché
si sapeva che l’animale sacrificato era sempre innocente (Gesù era innocente), e perché la sua morte
era collegata alla salvezza (il sangue dell’agnello pasquale segnava le porte degli ebrei ai quali così
veniva risparmiata la piaga della morte dei primogeniti) o al perdono dei peccati.
Su animali sacrificati, particolarmente nel grande giorno dell’espiazione, lo Yom Kippur, cadeva
ritualmente la colpa del popolo e dello stesso sommo sacerdote. Similmente Gesù era il Salvatore e
portava il perdono dei peccati. Nell’epistola agli ebrei poi, la morte in croce di Gesù assunse anche
una valenza storica: chiuse per sempre il tempo dei sacrifici.
Quello di Gesù venne presentato come un sacrificio diverso da tutti gli altri, che ebbe carattere
definitivo. In esso Gesù fu al contempo vittima e sommo sacerdote. Paolo riprende nei suoi scritti
queste interpretazioni che in embrione appartenevano già alla tradizione che aveva ereditato
sviluppando il linguaggio giuridico parlando di giustificazione del peccatore.
Il colpevole viene “graziato” perché qualcun altro – Gesù - ha preso su di sé quella che altrimenti
sarebbe stata la giusta condanna. Ma usa anche il concetto di redenzione (Rom 3, 24), anche questo
tradizionale, che sembra aver ripreso l’antico costume giudaico del riscatto dei prigionieri di guerra
che nella prigione erano diventati schiavi e che poi ricevevano nuovamente la libertà e i diritti civili.
Questo linguaggio esprimeva bene il fatto che per operare la liberazione degli schiavi qualcuno
doveva agire dall’esterno, la persona da sola non avrebbe avuto modo di liberarsi. Il linguaggio del
sacrificio fu dunque uno dei linguaggi usati allora con grande efficacia per comunicare cosa era
successo in forza di quella morte in croce inattesa e imprevista.
Le categorie rituali furono intrecciate con i concetti di giustizia e giudizio, anch’essi centrali e
vivacemente discussi nella fede d’Israele. Il rituale sacrificale era basato sulla logica dello scambio
fra il colpevole (l’uomo, la donna, il sacerdote, il popolo tutto) e l’innocente (l’animale ritualmente
perfetto). La colpa e quindi il giudizio e la condanna passavano ritualmente dall’uno all’altro. Il
perdono dei peccati e la purezza rituale erano conseguenza di questo scambio.
La morte di Gesù sulla croce però mentre veniva annunciata e compresa usando, come abbiamo visto
anche categorie prese in prestito dal linguaggio rituale, contemporaneamente ne aveva scardinato
per sempre la validità. Secondo il racconto evangelico, infatti, ciò che storicamente portò alla
condanna e alla morte di Gesù furono proprio alcune sue azioni simboliche e affermazioni sul tempio
che ebbero il peso maggiore nella decisione di mandarlo a morte.
Questo ci deve mettere in guardia dallo spingere troppo il linguaggio sacrificale che presenta dei
limiti che non devono essere oltrepassati. Dobbiamo stare attenti a non far passare l’idea che la
sofferenza di Gesù serviva per espiare i peccati, come una sorta di pagamento a Dio, quasi che l’ira
di Dio dovesse essere placata con sangue umano e quindi con la tortura e la sofferenza atroce
inflitta a suo Figlio.
Questa è un’idea che dà un’immagine falsata di Dio che invece, sin dalla legge sinaitica aveva sempre
dichiarato un abominio i sacrifici umani. Il “passare per il fuoco” i propri figli erano rituali idolatrici
che avevano sempre suscitato orrore fra i fedeli al Dio d’Israele. Possiamo dire che nella morte di
Gesù attraverso la sua risurrezione Dio condanna il peccato che quella morte mette a nudo ma
contemporaneamente rinuncia al giudizio definitivo su quell’umanità che aveva rifiutato e ucciso suo
Figlio e a partire da questa rinuncia rinnova la sua alleanza.
La giustizia di Dio è un concetto di relazione. E’ Dio che nella sua fedeltà alla antica e ora rinnovata
alleanza si prende cura del suo popolo prima, e del mondo intero poi, nonostante il suo peccato. E’
Dio che in Cristo rivela e conferma la sua attitudine a perdonare e a salvare. E’ Dio che prende
l’iniziativa e fa giustizia della morte di Gesù facendolo risorgere. Qualche versetto più avanti nel
nostro testo si scrive esplicitamente che fu Dio a riconciliare con sé il mondo per mezzo di Cristo
(II Cor 5, 19a).
Insomma come efficacemente affermò Eichholz: “Dio non può offrire un sacrificio a se stesso!” (La
teologia di Paolo, Queriniana 1977, p. 210). Possiamo dire allora che Gesù fu sacrificato? Possiamo
affermarlo a patto che diciamo che fu sacrificato dagli uomini. Fu sacrificato sull’altare della ragion
di Stato, fu sacrificato sull’altare idolatrico del potere, fu sacrificato sull’altare mai sazio di
sangue del fanatismo religioso.
Abbiamo accennato prima che la morte di Gesù fu storicamente conseguenza delle sue scelte di vita
alle quali rimase fedele fino alla fine e che quindi ciò per cui Gesù visse, fu anche ciò per cui Gesù
morì. Gesù visse per amore, un amore particolarmente rivolto verso quelli che non erano amati, che
erano disprezzati, considerati indegni, quelli che non contavano nulla.
Con loro viveva, mangiava e a loro rivolgeva il suo annuncio che si può riassumere in questa frase:
“Dio si è avvicinato a voi!” “Voi siete il sale della terra”, voi valete e valete tanto agli occhi di Dio.
Per questa scelta di campo che Gesù diceva non essere sua personale ma di Dio stesso, Gesù si
attirò l’odio di chi invece aveva potere e prestigio sociale e politico.
Per aver predicato un Dio che amava e serviva gli ultimi, lui divenne ultimo insieme a loro. Per
innalzare e guarire loro, Gesù abbassò se stesso e fu ucciso. La gloria della sua risurrezione
anticipava e rivelava la gloria della dignità restituita agli ultimi, il compimento anticipato delle
beatitudini annunciate che presto si sarebbero pienamente adempiute.
Questo linguaggio dell’amore è il linguaggio più importante usato per comprendere la morte di croce
di Gesù ed è un linguaggio disseminato in tutti gli scritti neotestamentari. Il quarto Vangelo lo
sceglie come quello principale e attraverso di esso parla anche di scambio. Ad esempio lo scambio
fra la guarigione, anzi la risurrezione di Lazzaro e la decisione di uccidere Gesù (Giovanni 11).
Nel quarto vangelo i discorsi d’addio di Gesù cominciano con questa affermazione: “Or prima della
festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo
amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (13, 1). Ma ne parla anche Paolo in Romani 5,
7-8 quando dice:
6 Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. 7
Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il
coraggio di morire; 8 Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che,
mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Dunque il linguaggio del dare la vita per amore è il linguaggio più diffuso nel Nuovo Testamento.
Gesù soffre e muore per coerenza d’amore e nella morte condivide la sofferenza dei sofferenti, il
senso di abbandono di chi si vede abbandonato, il senso di fallimento di chi sente di aver fallito
tutta la sua vita.
La croce può apparire la fine di tutto e la sconfitta dell’amore, anche dell’amore di Dio, ma la
risurrezione riporta tutto in gioco, illumina la vita e le scelte di Gesù di nuova forza, dichiara che
Gesù era davvero il Figlio di Dio e che nel suo amore noi tutti che crediamo in lui non siamo figli di
nessuno, ma figli di Dio.
Questo è l’Evangelo della grazia che dobbiamo portare dovunque. Quello dell’amore che non tradisce
è il linguaggio più vicino a noi, un linguaggio che tutti possono comprendere. Spiega che siamo amati
e per questo diventiamo amabili, nonostante colpe, brutture, fallimenti. L’amore avvicina. L’amore di
Cristo conquista e dona speranza.
L’amore di Cristo se ci afferra ci trasforma dall’interno e ci fa provare gioia, gioia profonda, un
sentimento nuovo che non conoscevamo. In questo linguaggio, quello dell’amore donato si collegano
strettamente le parole di Gesù, il suo intero insegnamento di vita e la sua morte. Nell’amore che
vince sulla morte e sul peccato c’è la radice della vera speranza. Per tutti. Nessuno escluso.
L’amore di Cristo ci possiede, scrisse Paolo ai suoi fratelli e sorelle della chiesa di Corinto. Sarebbe
bello che ciascuno e ciascuna di noi, che ognuna delle nostre chiese e le nostre chiese insieme
potessero fare questa stessa dichiarazione. Poter affermare con Paolo che l’amore di Cristo ci
muove, ci motiva, ci fa esistere e andare avanti, ci costringe a servire, ad accompagnare, ad
accogliere senza riserve.
Se Dio ci ha già accolti alla sua presenza pienamente insieme a Cristo, Suo figlio, nostro fratello, noi
allora facciamo lo stesso e siccome Lui ama davvero e non guarda alle nostre mancanze, anche noi
guardiamo gli uni alle altre come un dono prezioso che riceviamo dalle Sue mani.
Questo amore sconfinato attraverso lo Spirito Santo ha una grande potenza rigeneratrice. Come
Paolo stesso dice: “Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono
passate: ecco, sono diventate nuove”. Diremo tante cose in questa meravigliosa assise. Parleremo di
tanti fattori che concorsero 500 anni fa alla nascita e alla diffusione del movimento ricco e
composito che chiamiamo Riforma.
Magari ascolteremo che la forza di cui aveva parlato Paolo alle origini della fede cristiana, l’amore
di Cristo, fu anche quella che costrinse tanti in quegli anni a rischiare la propria vita e a fare scelte
coraggiose. Questo avvenne davvero per tantissimi. Solo di alcuni di loro potremo fare memoria
perché di molti di essi non si conosce il nome. Ma Dio ricorda tutti loro.
Ma diremo e ascolteremo anche che non sempre e non per tutti fu l’amore di Cristo la forza
propulsiva. Nulla di ciò che è umano è privo di contraddizioni. Vorrei poter dire che l’amore di Cristo
costringe, possiede anche noi personalmente, e le chiese che rappresentiamo e certo non direi
bugie.
Posso infatti dirlo: questa forza, l’amore di Cristo, motiva ancora oggi, mette in cammino e ispira
decisioni di vita di milioni di persone in ogni angolo del pianeta e la chiesa di Gesù Cristo è viva solo
per questo. Ed è oggi anche piena di martiri di cui in gran parte ignoriamo il nome. Dio li conosce. Ma
sappiamo anche che non sempre è così, né per noi né per le nostre chiese.
A volte non l’amore di Cristo ci possiede, ma sono altre le forze a dominare le nostre esistenze e le
nostre istituzioni. A volte per esempio è la paura, altre volte l’attaccamento alle nostre tradizioni o
il desiderio di non perdere le nostre posizioni di prestigio. Non c’è riforma, non c’è rinnovamento
vero, e potremo dire oggi, non c’è neppure adeguata celebrazione di 500 anni di storia di fede,
senza una nuova conversione, un ritornare a Dio. Ma questa volta possiamo farlo tutti insieme, a
mani vuote.
Abbiamo percorso molte strade, a volte siamo stanchi, anche stanchi di noi stessi e delle nostre
chiese, e delusi. In quei momenti se siamo veramente onesti sappiamo nel profondo del nostro cuore
che siamo mendicanti, mendicanti bisognosi di perdono e non desideriamo altro che qualcuno ci
accolga e ci faccia riposare. Abbiamo bisogno di Vangelo. Abbiamo bisogno di sentirci dire di nuovo
che Cristo ci ama appassionatamente così come siamo. E ci basterà.
Ci sono altri momenti in cui quest’amore di Cristo risplende luminoso anche in noi, riscalda i nostri
cuori e traspare dai nostri occhi. Dono puro di grazia. Era quello che forse intendeva Paolo quando
diceva di non conoscere più nessuno in modo umano, paradossalmente neppure Cristo. La visione del
mondo nuovo che è anticipata nella luce della risurrezione squarcia il cielo e ci raggiunge. In quei
momenti tutto torna, l’amore di Cristo prende di nuovo possesso di noi e noi ci lasciamo condurre
per mano, sorridendo. Beati siete voi…
Anna Maffei
pastora battista
Se uno è in Cristo, è una nuova creatura / 2 Cattolici e protestanti a 500 anni dalla Riforma
Che la seconda lettera ai cristiani di Corinto sia o meno tutta autenticamente paolina, poco importa,
come non è qui fondamentale decidere per la sua unità o, al contrario, per il suo carattere
composito. Sta di fatto che la seconda lettera ai Corinti fa parte di un carteggio tra l’apostolo Paolo
e una delle comunità più esuberanti e, al contempo, più problematiche tra quelle da lui fondate.
Tanti sono i problemi che i cristiani di Corinto incontrano per riuscire a tradurre il kerigma ricevuto
in forme di vita ad intra e in forme di testimonianza ad extra che ne siano espressione efficace.
Sappiamo tutti quali fossero i problemi che agitavano i cristiani di Corinto. Di essi, Paolo viene a
conoscenza (1Cor 1,11; 7,1) durante il suo soggiorno a Efeso nel corso del suo secondo viaggio
missionario, forse verso l’anno 54. Su di essi, egli prende posizione in una prima lettera alle diverse
comunità presenti in quella ricca città dell’Impero.
Da questo scritto traspare quanto Paolo sia convinto del fatto che la sua autorità apostolica sia
ancora necessaria e non possa né debba essere messa in discussione. Nel lasso di tempo tra la prima
e la seconda lettera, però, il rapporto tra i cristiani di Corinto e l’apostolo, che Paolo sperava
potesse essere di reciproco vanto «nel giorno del Signore nostro Gesù» (1,14), si era andato
logorando.
Anche a causa dell’intervento di alcuni “avversari” che Paolo non si fa scrupolo di bollare come
“superapostoli”, ai quali egli ritiene di «non essere in nulla inferiore» (11,5), o come «falsi apostoli,
lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo» (11,13). Da parte di Paolo, la
tensione per questa presa di distanza dei cristiani di Corinto da quanto avevano ricevuto grazie al
suo ministero apostolico è giunta ormai all’estremo ed egli arriva perfino ad affermare: «Sono
diventato pazzo; ma siete voi che mi avete costretto.
Infatti io avrei dovuto essere raccomandato da voi, perché non sono affatto inferiore a quei
superapostoli, anche se sono un nulla» (12,11). Tutto questo porta Paolo a cancellare dai suoi viaggi
le due previste soste a Corinto e a scrivere quella che è stata chiamata la “lettera delle lacrime”
(2,4), che alcuni ritengono sia andata definitivamente perduta, altri pensano sia stata invece almeno
parzialmente incorporata a quella che ci è pervenuta come seconda lettera e ne costituisca l’ultima
parte (cc. 10-13).
Ho preso le mosse da questa considerazione di insieme su 2Cor perché la ritengo di capitale
importanza. Il testo che è stato scelto come incipit per queste giornate di dialogo teologicoecclesiale che si svolgono all’inizio di un giubileo importante per le chiese cristiane, quello della
Riforma, fa infatti parte di una lunga e intensa riflessione di Paolo sul ministero apostolico.
Una riflessione profondamente carica di tristezza e che non rinuncia a forti toni apologetici. Paolo
sa, e lo ricorda ai cristiani di Corinto fin dall’inizio della sua seconda lettera, di essere «chiamato a
essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio» (2Cor 1,1), come aveva già definito se stesso nel
proemio della 1Cor (1,1).
Lo ribadisce negli stessi termini ma, nel frattempo, ha dovuto però sperimentare tribolazione e
rifiuto: «Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci
perdiamo d’animo. Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci
con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci
davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio» (4,1-2).
Il nostro testo, dunque, risente di questo clima tutt’altro che irenico che pervade l’intera lettera e
che connota anche i versetti che fanno da introduzione all’inno all’amore di Cristo, che la pastora
Anna Maffei ci ha appena commentato. Un inno che, lo ricordiamo, è impregnato di forte carica
kerigmatica. Il pressante invito ai cristiani di Corinto a lasciarsi riconciliare con Dio non va isolato,
insomma, dal contesto che ne determina il livello di significato più specifico.
A parte il riferimento alle vicende che hanno contrassegnato la sua attività apostolica, a cui Paolo
fa riferimento nei primi due capitoli della lettera, l’apostolo ci tiene a invitare i suoi interlocutori a
riflettere su cosa significhi il ministero apostolico in quanto tale, se capito e interpretato, cioè,
nell’orizzonte «di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito» (3,6).
Non entriamo qui nella questione quanto mai complessa e difficile del rapporto di Paolo e, dopo di
lui, di tutta la tradizione cristiana con quello che, proprio in questo contesto, egli chiama «ministero
della morte» (3,7), riferendosi a Mosè e alle pietre della legge o anche al velo che «rimane, non
rimosso, quando si legge l’Antico Testamento» (3,14).
Diciamo solo che, forse, una delle prime cose che insieme, riformati e cattolici potremmo e
dovremmo fare è ripensare a fondo il rapporto con Israele. In piena responsabilità e senza
accontentarci solo di una contrizione ex post dai toni politically correct. Siamo forse ancora ben
lontani, infatti, da una coraggiosa chiarificazione di quanto obbliga e obbligherà per sempre ebrei e
cristiani ad accettare che le loro strade non possano in nessun modo, almeno in alcuni tratti,
riuscire a incontrarsi.
E potremmo imparare a portare insieme il peso di un’elezione difficile. Quanto qui ci interessa più
da vicino, comunque, è l’attenzione che Paolo riserva al «ministero dello spirito» di cui, lungo un
intero capitolo, tesse, con grande realismo, l’apologia. Egli sa molto bene, infatti, che si tratta di un
ministero che, benché riceva la sua forza originaria e originante dalla «misericordia che ci è stata
accordata» (4,1) richiede comunque coraggio perché è come un «tesoro in vasi di creta» (4,7) ed è
costantemente minacciato.
Come, d’altra parte, mostra in tutta chiarezza la parabola apostolica di Paolo stesso: «In tutto,
infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non
abbandonati; colpiti, ma non uccisi …» (4,8s). Se però nel c. 4, quando parla del «ministero dello
spirito» e delle sue difficoltà, Paolo pensa essenzialmente al suo ministero, all’inizio del c. 5 l’uso del
pronome “noi” ha portata generale e accomuna all’apostolo tutti i credenti. Con toni lirici, infatti,
Paolo proietta il suo discorso verso il momento in cui si compirà la sorte a cui tutti sono stati
chiamati.
Quando, finalmente terminato l’esilio nel corpo, «riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non
costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (5,1ss). In realtà, però, subito dopo, nella nostra
pericope di 5,11-21, è di nuovo il suo ministero che torna al centro dell’attenzione. Il suo e quello di
coloro che, come lui, hanno ricevuto il ministero della riconciliazione. Un ministero che ha come
scopo la persuasione (vv. 11-12) e l’esortazione (vv. 20-21), ma la cui origine e il cui fondamento
stanno, però, nel kerigma (vv. 14-19).
È su questo che vorrei fermarmi a riflettere con voi. Cioè sul fondamento kerigmatico della
«diaconia della riconciliazione» e della «parola della riconciliazione». Mi sembra sia opportuno che
necessario, infatti, visto che il preciso contesto in cui questo testo oggi si fa per noi parola che
interpella è quello della ricerca di uno “sguardo comune sull’oggi e sul domani”, una ricerca fatta
insieme, donne e uomini delle diverse chiese, all’inizio di un anno in cui la memoria di un evento di
inequivocabile portata storico-ecclesiale come la Riforma ci impegna a ripensare dove le nostre
chiese stanno andando e chi scelgono come compagni di strada.
So benissimo che, se volessimo ragionare sui diversi modi in cui, all’interno della nostra unica
tradizione cristiana, è stato capito il ministero apostolico, non soltanto nelle diverse confessioni
cristiane, ma anche nelle diverse epoche che hanno scandito la vita di ciascuna di esse, il lavoro da
fare sarebbe enorme. Forse, però, l’attuale predisposizione degli animi e delle intelligenze lo
renderebbero entusiasmante per tutti.
Per quanto riguarda la mia chiesa, il concilio Vaticano II aveva auspicato un ripensamento sistemico
della struttura ministeriale. Su fondamento neotestamentario e in prospettiva ecumenica. Ed è
stato chiaro, almeno per coloro che di quel Concilio hanno colto lo spirito e attentamente recepito la
lettera. Sappiamo anche quanto grande sia stato nell’immediato post-concilio l’apporto dato
dall’esegesi biblica, ormai finalmente disincagliata dalle secche controversistiche, perché
l’auspicato ripensamento partisse dal dato neotestamentario ma, soprattutto, dall’esperienza delle
prime chiese di cui il dato neotestamentario è autorevole attestazione.
Sappiamo altrettanto bene però che, nella storia, i processi, soprattutto quelli che innescano un
rinnovamento, non sono mai brevi né, tanto meno, lineari. Non so come stia la cosa nelle altre chiese.
Ma, per quanto riguarda la mia, posso porre la domanda con assoluta parresia: perché lo sforzo di
tanti esegeti e teologi del postconcilio per ripensare il significato dell’espressione “chiesa
apostolica” e, soprattutto, del suo ordinamento ministeriale non è stato accolto? perché, pur
vedendone il rischioso anacronismo, abbiamo continuato a inseguire modelli di ministero vincolati a
scelte del passato invece che accogliere la sfida di pensare il futuro? Non pretendo risposte.
Vorrei solo dire che, quando Paolo riconosce, anche di fronte ai suoi avversari, che a lui è stata
affidata la «diaconia della riconciliazione» dice qualcosa che deve obbligare anche noi a un’apertura
di prospettiva. Cosa ci chiede oggi, in questo mondo reale, amato da Dio non meno di quello delle
altre epoche storiche e per il quale Cristo è morto e risorto, cosa ci chiede oggi esercitare il
ministero apostolico come «diaconia della riconciliazione»? Cosa vuol dire cioè annunciare che uno
morì in favore di tutti perché tutti possano vivere per lui che è morto ed è stato risuscitato per
loro?
Il ministero della riconciliazione può partire solo dal fatto di essere una “diaconia”, un servizio che,
come Paolo dice a chiare lettere, quel Dio che ha operato in Cristo la nostra riconciliazione ha
affidato a noi: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha
affidato a noi il ministero della riconciliazione» (v. 18). La terminologia «ha dato a noi » è tipica di
una formula di affidamento, come in Gal 2,9, dove Paolo afferma che, all’assemblea di Gerusalemme,
Giacomo, Cefa e Giovanni hanno riconosciuto «la grazia a me data», oppure quando, in Rm 12,3,
l’apostolo fonda il suo compito parenetico su «la grazia che mi è stata data» o infine quando, in Ef
3,2, Paolo riafferma che il ministero nei confronti dei pagani «era stato a me affidato da Dio
stesso».
La diaconia della riconciliazione è dunque affidata, è un compito. Ciò non comporta però in nessun
modo che essa abbia valore di mediazione. Nessuno è riconciliatore tra Dio e gli uomini, e l’apostolo
altri non è che l’ambasciatore che ha il compito di persuadere ed esortare. Solo Dio rende attuale
quanto ha compiuto in Cristo, cioè la sua opera di riconciliazione: «Vi supplichiamo in nome di Cristo:
lasciatevi riconciliare con Dio» (v. 20).
E l’esperienza apostolica fa dire a Paolo, all’inizio della lettera, quale sia l’atteggiamento apostolico
che tutti dovremmo assumere: «Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede» (1,24a).
Nessuno è padrone della fede di un altro ma, soprattutto, nessun ministro può permettersi di “fare
da padrone” della fede di altri.
Per questo, la «diaconia della riconciliazione» comporta innanzi tutto che l’annuncio del kerigma sia
chiamata alla libertà. E molte sono le forme di imposizione possibili. Non si tratta di ingabbiare
uomini e donne con una disciplina asfissiante o con una dottrina che serve solo a se stessa, perché
affermata, ma non condivisa. Si tratta, piuttosto, di accompagnare uomini e donne verso ciò a cui
sono chiamati: diventare creature nuove grazie «alla riconciliazione con Dio per mezzo di Cristo» (v.
17s).
Uomini e donne di culture diverse, che vivono in mondi tra loro distanti non solo in termini di
chilometri, che hanno esigenze e bisogni, ma anche ideali e speranze diversi Quale altro può essere
allora il senso della chiamata al ministero della riconciliazione se non questo impulso missionario che
prorompe dal kerigma della risurrezione? E’ vero: il ministero apostolico ha significato troppo
spesso voler fare da padroni della storia della salvezza, come anche delle vite e delle coscienze di
infiniti uomini e, soprattutto – mi sia permesso ricordarlo con forza – di ancor più infinite donne.
E per questo, forse, proprio sul ministero apostolico le chiese sono chiamate ad avere il coraggio di
esercitare, continuamente, vigilanza critica. Non era stato proprio Paolo, in fondo, a chiedere ai
Corinti di promuovere l’armonia del corpo di Cristo in tutte le sue membra mettendo al primo posto
non un unico carisma, ma la vitale sinergia tra apostoli, profeti e maestri, che «Dio ha posti nella
chiesa» (1Cor 12,27s).
Nella speranza, appunto, che nessuno pensi di poter far da padrone sulla fede delle comunità. Ciò
comporta, allora, che le nostre chiese dovrebbero avere la massima cura di quanto è stato loro
affidato, cioè il ministero della riconciliazione. Esse devono investire nella formazione dei loro
ministri, investire in ricerca teologica, aprire spazi di confronto e di dialogo in cui la sinodalità tra
chi evangelizza, chi profetizza e chi insegna sia la garanzia del carattere unicamente kerigmatico
dell’ordinamento comunitario e della missione ecclesiale.
Che insomma, in quanto fondato sul kerigma, il ministero della riconciliazione porti in sé la forza di
una Parola che è fatta di parole, parole che dovrebbero indurre stupore e meraviglia: «Tutti
costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria
lingua nativa?» (At 2,7s).
In quante “lingue native” il kerigma deve ancora essere ascoltato e deve aprire all’accoglienza della
riconciliazione che Dio opera «in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe» (5,18)? Non si
tratta, evidentemente, di pensare solo a una propagazione missionaria verso chi ancora non ha mai
sentito parlare del Dio della riconciliazione. Ogni esistenza, ogni persona, ogni gruppo umano ha,
infatti, una sua “lingua nativa”. E, come insiste Paolo, non è forse il mondo, il kosmos tutto, che Dio
ha riconciliato con sé in Cristo (5,19)?
Accanto al lemma «diaconia della riconciliazione» Paolo utilizza anche l’espressione «parola della
riconciliazione». Anch’essa ci è stata affidata (è stata posta in noi). Si tratta, in fondo, di due
espressioni analoghe, con buona probabilità tra loro sovrapponibili, ma questa ulteriore sfumatura
mi induce un’ultima considerazione.
Il kerigma non ha la rigidità delle formule. La sua fissazione in formule è stata ed è certamente
utile, anche necessaria, ma rischia di essere pericolosa. Molte infatti possono e devono essere le
parole per fare della riconciliazione un annuncio capace di aprire a una relazione. Perché la
riconciliazione è innanzi tutto una relazione. Di appartenenza nella libertà, perché finalmente
liberati dal peso delle colpe, perché finalmente restituiti alla verità più vera di se stessi.
Mi sia permesso, allora, affermare che quanto le nostre chiese hanno vissuto il 31 ottobre scorso
nella cattedrale di Lund è stata una di queste possibili “parole della riconciliazione”, una parola che
abbiamo pronunciato insieme. È stato un momento in cui, insieme, ci siamo lasciati riconciliare con
Dio. Lo abbiamo mostrato con l’ascolto e la preghiera, con la richiesta di perdono e l’intercessione.
L’abbiamo mostrato con quel gesto, che diceva più di un trattato teologico, di raccogliere in un unico
battistero le nostre acque battesimali. Ma lo abbiamo mostrato soprattutto nel rendimento di
grazie.
Paolo, lo sappiamo bene, non ha mai voluto essere un ministro del culto: non battezza, non celebra la
cena. Il suo “sacerdozio” è l’evangelizzazione, la sua “diaconia” è la colletta. All’inizio di tutte le sue
lettere, però, l’apostolo celebra la sua personale liturgia eucaristica perché rende grazie a Dio per
le sue comunità. E ci insegna così che questa è l’eucaristia che nasce dal ministero della
riconciliazione: il rendimento di grazie a Dio per quanto compie nella storia riconciliando a sé tutto il
cosmo.
Nella dichiarazione congiunta di Lund, noi questa forma di eucaristia l'abbiamo celebrata perché
siamo stati capaci di esprimere “gioiosa gratitudine” perché ci siamo dichiarati insieme
“profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma”, perché
l'abbiamo vissuta come un'occasione propizia per esprimere “la nostra gratitudine ai fratelli e alle
sorelle delle varie Comunioni e Associazioni mondiali...”.
Quando Paolo, all’inizio delle sue lettere, celebra il rendimento di grazie per le sue comunità sa
molto bene quanti e quali siano i problemi, quante e quali siano le fragilità, quante e quali siano le
colpe. Ma il rendimento di grazie che nasce dall’esercizio del ministero della riconciliazione non è
rivolto alle comunità, ma a Dio per aver riconciliato a sé tutti in Cristo non imputando loro le colpe.
Il rendimento di grazie, dunque, è una delle parole della riconciliazione ed è un'eucaristia che
nessuno ci può impedire di celebrare insieme. Anche in questi giorni.
Concludo. Vorrei prendere a prestito le parole di Paolo che mi sono state affidate perché, in questo
inizio di cammino comune, esercitassi in mezzo a voi la diaconia della parola, per fare come lui, cioè
persuadervi ed esortarvi. Persuadervi ed esortarvi a credere con tutte le vostre forze, come
l’apostolo ci ha insegnato, che «se uno è in Cristo, è una nuova creatura…» (5,17).
Vorrei esortarvi a crederlo riguardo a ciascuno di voi, a ciascuno dei vostri fratelli e delle vostre
sorelle di chiesa, ma anche a chiunque altro che, grazie al nostro ministero apostolico, riceverà il
kerigma della riconciliazione. Vorrei persuadervi ed esortarvi a crederlo però anche per ciascuna
delle nostre chiese.
Oggi viviamo uno di quei momenti della storia in cui le chiese, tutte, sperimentano, a volte
addirittura con crudezza, di portare il tesoro del ministero della riconciliazione «in vasi di creta».
In questi momenti sono chiamate a purificare se stesse e a riconoscere che proprio questa
debolezza rende manifesto che la «straordinaria potenza» del kerigma della misericordia
«appartiene a Dio, e non viene da noi» (4,7).
Sono del tutto convinta però che, se è in Cristo, anche una chiesa, come ogni credente, è una nuova
creatura. Che la memoria della Riforma, ma anche quella di tante riforme silenziose, di riforme
fallite, di riforme ancora latenti, di riforme ancora germinali rappresenti allora per le nostre chiese
un tempo favorevole. Non soltanto per ripensare, nella lode e nella gratitudine come nella vergogna
e nella contrizione, la nostra storia e le nostre storie, ma anche per guardare all’oggi e al domani di
ciascuna di esse nella fiducia che Dio non addebita loro le loro cadute, ma ha posto in loro la parola
della riconciliazione.
Forse solo se le nostre chiese impareranno a incoraggiarsi l’un l’altra e spingersi reciprocamente ad
annunciare il kerigma della riconciliazione a un mondo che, in Cristo, Dio vuole riconciliare con se
stesso, finalmente capiremo e sentiremo che il peccato delle nostre divisioni ci è stato perdonato.
Forse, solo quando in ciascuna delle nostre chiese l’esercizio del ministero apostolico contemplerà il
riconoscimento e la gratitudine per quanto Dio ha operato e opera in ogni chiesa, quando essa è
fedele al vangelo di Gesù, forse solo allora saremo pronti a prendere posto intorno alla stessa
tavola sulla quale il rendimento di grazie è promessa del Regno. Rendimento di grazie non per quanto
noi facciamo, ma per quanto Dio compie in mezzo a noi. Perché anche per quel che riguarda le nostre
chiese potremo finalmente dire: «le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove»
(5,17b).
Marinella Perroni
professoressa di NT al Pontificio Ateneo S. Anselmo