Il caporalato: problemi e prospettive Approfondimenti

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Approfondimenti
Un’analisi sociologica e normativa
Il caporalato: problemi
e prospettive
Giovanni Costa - Avvocato
Genesi e diffusione di un fenomeno
Da un punto di vista sociologico per “caporalato”
si intende un sistema di reclutamento di manodopera attuato in violazione della normativa in tema di fornitura di lavoro e nel collocamento che
comporta salari inferiori a quelli previsti dalle tariffe sindacali. Si tratta, però, di una qualificazione riferita ad un’accezione ridotta e minimale
dell’illecito che, nella pratica, si estende ad una
molteplicità di condotte abusive tra cui gravi soprusi e violenze di ogni genere a danno di persone, anche minorenni.
Il caporalato, altresì, è un fenomeno nel quale sono ricomprese sia l’attività primaria, costituita
dalla mera intermediazione illegale - cd. caporalato in senso stretto - sia altre manifestazioni illecite comprendenti anche l’uso arbitrario della
violenza, sino a giungere a vere e proprie forme
di riduzione in schiavitù - c.d. caporalato in senso lato (1).
I settori più esposti al caporalato sono l’agricoltura, dove il fenomeno è incentivato anche dalla
necessità di far fronte alla stagionalità delle colture che richiedono la concentrazione di molti
operai per periodi brevi, e l’edilizia, ma recentemente si registrano casi rilevanti anche nel settore manifatturiero, in quello turistico ed in quello
della grande distribuzione organizzata (2).
Il c.d. caporalato involge una platea di soggetti:
in primis i caporali che si occupano del reclutamento illecito della manodopera di cui le imprese
committenti necessitano per l’esercizio della propria attività di business.
Ciò fa sì che essi finiscono con l’acquisire una
posizione di forza, non solo nei confronti dei lavoratori, di cui sono i veri datori di lavoro, ma
(1) S. Negrelli, Manuale di Sociologia del lavoro, Bologna,
2015, 88 ss.
(2) III Rapporto “Agromafie e Caporalato” pubblicato in data
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anche riguardo ai committenti, verso i quali, talvolta, esercitano pressioni di tipo estorsivo per
ottenere maggiori vantaggi.
Le vittime di tale sistema sono i prestatori d’opera, sfruttati sia dall’imprenditore che dall’intermediario abusivo. I soggetti a maggior rischio di
sottoposizione al fenomeno sono poi gli extracomunitari, in particolare, gli stranieri privi di permesso di soggiorno e costretti a proteggere il loro stato di clandestinità.
Da ultimo le imprese che accettano e/o promuovono l’illegalità per trarre maggiori profitti, in totale
spregio dei diritti fondamentali dell’individuo.
I caporali, quasi sempre, reclutano la manodopera
in punti di raccolta predeterminati, noti nell’ambiente di chi è alla ricerca di lavoro, quindi, si occupano dell’accompagnamento presso i luoghi di
lavoro e provvedono al pagamento di uno scarso
compenso, di regola limitato alla giornata, sottraendo da quanto corrisposto dal committente una
quota a proprio favore. Talvolta, per incrementare
ulteriormente i loro introiti in danno dei lavoratori,
offrono dubbie sistemazioni alloggiative e vitto.
Fatti salvi i casi di tutela sanciti espressamente
dall’art. 18, Testo unico sull’immigrazione (D.Lgs.
n. 286/1998) in favore delle vittime di violenza o
sfruttamento grave (in particolare a causa di riduzione in schiavitù o tratta di esseri umani), lo straniero clandestino non è incentivato a far valere i
propri diritti in un giudizio contro il datore di lavoro o l’intermediario, per le ovvie conseguenze
espulsive che derivano dalla sua condizione.
L’offerta di lavoro irregolare costituisce il principale fattore di attrazione di cittadini stranieri e si
annovera tra le cause più rilevanti di immigrazione clandestina. Le principali forze motrici dei
flussi migratori sono, infatti, rappresentate, da un
26 maggio 2016 dall’Osservatorio Placido Rizzotto del sindacato Flal-Cgil.
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lato, dagli squilibri nei Paesi di origine, sia di natura demografica ed economica, sia di natura sanitaria o ambientale (epidemie, carestie, siccità,
ecc.), ovvero di natura politica (guerre civili,
scontri etnici, persecuzioni di varia origine, ecc.),
e, dall’altro dalla capacità attrattiva dei Paesi di
destinazione: la domanda di manodopera, la presenza di comunità straniere radicate, i legami linguistici. Il mercato, in Italia, necessita in via
principale di rapporti di collaborazione familiare
e domestica o di lavoratori senza qualifiche particolari, spesso stagionali, preferibilmente in posizione irregolare.
Le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici istruiscono e addestrano gli emigranti fornendo loro tutti gli strumenti necessari per eludere le
norme sull'immigrazione e inserirsi nel mondo
del lavoro sommerso.
È evidente che il buon funzionamento del meccanismo di gestione della domanda e dell’offerta di
lavoro è senz’altro un’arma efficace di lotta al
fenomeno del caporalato. Tuttavia, come evidente, non si è ancora giunti a trovare un equilibrio
tra domanda ed offerta che consenta di raggiungere una corretta previsione dei flussi migratori
in rapporto alla domanda di lavoro, il tutto, aggravato dalla continua e perdurante ondata di migranti in cerca di condizioni migliori di vita ed
in fuga dai loro Paesi di origine che negli ultimi
anni sta interessando il nostro Paese.
Le verifiche svolte dagli organi ispettivi del Ministero del lavoro hanno evidenziato che, nel settore agricolo, vi è un impiego diffuso, nelle regioni del sud Italia, di lavoratori stranieri magrebini e dell’Europa dell’est privi di titolo di soggiorno. Nell’Italia del nord e del centro, i settori
dell’edilizia e del manifatturiero attirano numerosi stranieri irregolari, soprattutto provenienti dall’area balcanica e dall’Europa dell’est (per l’edilizia) e dalla Cina (nel campo manifatturiero). In
Sicilia e in Sardegna si registrano situazioni significative di sfruttamento nel campo della pastorizia a danno di rumeni e di cittadini di altri
Paesi dell’Europa dell’est (3).
Anche le imprese di pulizie e quelle operanti nell’indotto turistico risultano interessate, sia pure in
modo meno esteso, da questo genere di illeciti.
In Basilicata, soprattutto nella provincia di Potenza sono stati registrati casi rilevanti di sfruttamento grave ad opera di cittadini africani nelle
attività di raccolta del pomodoro. In Campania la
presenza massiccia di extracomunitari, prevalentemente impiegati in attività agricole, edilizie e
turistico-stagionali, fa ritenere certa l’esistenza di
situazioni di sfruttamento di manodopera irregolare. In Puglia l'intermediazione illecita nel collocamento della manodopera, accompagnata da casi rilevanti di sfruttamento, è stata registrata nelle
province di Taranto, Foggia (ove il fenomeno riguarda l’intero ciclo produttivo soprattutto per la
raccolta di pomodori e di uva) e Lecce (in quest’ultima provincia, tuttavia, non sono state rilevate situazioni particolarmente gravi). In Calabria, a Cosenza sono stati registrati episodi di
sfruttamento ai danni di cittadini rumeni e polacchi, impiegati per la raccolta di agrumi, mentre
in provincia di Vibo Valentia sono stati accertati
casi di collocamento irregolare nel mercato del
lavoro in condizioni di sfruttamento di cittadini
bulgari, rumeni e ucraini per opera di connazionali. In Sicilia le aree più interessate dallo sfruttamento di manodopera nel settore agricolo risultano, principalmente, quelle della provincia di Siracusa, per la raccolta del pomodoro e delle patate, e quella di Trapani nel periodo della vendemmia o della raccolta di ortaggi; di recente, a Marsala sono stati individuati cittadini tunisini e rumeni sfruttati nel settore vitivinicolo; anche nelle
province di Enna, Catania e Ragusa gli stranieri
irregolari sono impiegati nelle campagne stagionali di raccolta di prodotti agricoli. Nel Lazio
episodi significativi di caporalato sono stati verificati in provincia di Latina.
Come anticipato, anche nell’edilizia risulta essere
diffuso l’impiego illegale di cittadini stranieri. In
particolare, in Piemonte, nelle province di Torino, Novara e Biella sono emersi casi di sfruttamento di manodopera filippina. In Lombardia, in
particolare nelle province di Varese e Milano, si
rilevano casi diffusi di lavoro nero (con sfruttamento di cittadini nordafricani e dell’est Europa
in posizione irregolare con la normativa sull'ingresso e il soggiorno di stranieri). In Friuli Venezia Giulia, soprattutto in provincia di Udine, sono stati accertati episodi significativi di impiego
(3) Cfr: Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione presso il Ministero del lavoro e delle politi-
che sociali, in www.Lavoro.gov.it/ /DG-immigrazione-e-dellepolitiche-di-integrazione.aspx.
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irregolare di cittadini dell'area balcanica. Lo stesso avviene in Liguria (soprattutto Genova, Savona e Imperia), in Emilia Romagna (Bologna, Ferrara e Forlì-Cesena) e in Toscana (in particolare,
nelle province di Firenze, Arezzo, Massa Carrara
e Lucca). Episodi rilevanti di sfruttamento di manodopera abusiva nel settore tessile (abbigliamento, pelletteria) sono stati accertati in Lombardia, Lazio e Toscana. Si tratta di imprese gestite
in modo illegale da cittadini cinesi a danno di
propri connazionali.
Anche nel settore della collaborazione domestica
o nello svolgimento delle mansioni di badanti,
sono stati evidenziati casi di sfruttamento nei
confronti di cittadini dell’Europa dell’est. In
Friuli Venezia Giulia, in Veneto, in Umbria e in
Sicilia sono state individuate organizzazioni criminali dedite all’impiego irregolare di badanti.
Nel settore dell’allevamento di bestiame fenomeni di sfruttamento sono emersi principalmente
nelle province di Nuoro, Sassari e Cagliari (in
Sardegna) e in provincia di Enna (in Sicilia).
Per quanto riguarda il settore dell’edilizia, l‘impiego di cittadini stranieri privi di permesso di
soggiorno o non in regola con la legislazione sul
lavoro si estende, soprattutto nei centri urbani,
senza carattere di stagionalità e riguarda indistintamente imprese di grandi dimensioni impegnate
in opere importanti e piccole imprese a conduzione familiare.
Nel settore agricolo, si registrano differenze a seconda delle colture, che possono variare da tutto
l’anno (ad esempio per i fiori o gli ortaggi), ai
periodi estivi (per la frutta e i pomodori) o autunnali (cereali, olive, uva), o per i mesi invernali
(carciofi, agrumi).
Le aree dalle quali provengono gli stranieri sono
quelle dell’Europa dell’est (circa il 70 % sul totale), seguite dai Paesi del Nord Africa (16%) e
dell’estremo oriente (14%) (4).
L’art. 1655 c.c. definisce l’appalto come il “contratto col quale una parte (l’appaltatore) assume,
con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in
danaro”. Il requisito fondamentale del contratto
d’appalto lecito, quindi, è che l’appaltatore sia a
tutti gli effetti un imprenditore e non un semplice
intermediario, impieghi una propria organizzazione produttiva ed assuma i rischi della realizzazione dell’opera o del servizio appaltati. Nella
quasi totalità degli appalti di manodopera dietro
cui si trincera l’illecito penale non esiste, invece,
autonomia imprenditoriale e nemmeno il rischio
d’impresa. I soci lavoratori di false cooperative
di facchinaggio vengono, spesso, gestiti e organizzati dal personale dell’azienda committente.
Spesso i datori di lavoro, o i suoi responsabili e
capo reparto, ne regolano le assunzioni e i licenziamenti dei soci lavoratori delle cooperative appaltatrici.
Come noto, fino a non molti anni addietro, sussisteva un sostanziale monopolio pubblico sul mercato del lavoro, cui conseguiva il divieto di ogni
forma di intermediazione e di somministrazione
di manodopera, la cui violazione integrava i reati
previsti dapprima dall’art. 27, legge 29 aprile
1949, n. 264 e successivamente dagli artt. 1 e 2,
legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (che sanzionavano penalmente la condotta di chi, oltre ad agire
come intermediario non autorizzato sul mercato
del lavoro, favorendo l’incontro tra domanda e
offerta di manodopera nella fase “genetica” del
contratto, si interponeva illecitamente tra lavoratore e datore di lavoro per l’intera durata del rapporto, mantenendo fittiziamente alle proprie dipendenze il personale utilizzato e lucrando in
modo parassitario sulle retribuzioni).
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta
tale assetto è stato progressivamente modificato
dall’introduzione del lavoro interinale ad opera
della legge n. 196/1997 e, successivamente, dal
più generale riordino della disciplina del mercato
del lavoro da parte del D.Lgs. 10 settembre
2003, n. 276. Quest’ultimo intervento normativo,
in particolare, ha eroso il monopolio pubblico di
cui si è detto, consentendo tra l’altro l’intermediazione nella prestazione di lavoro e la somministrazione di manodopera, seppure nell’ambito
di una precisa cornice di regole. A tutela del ri-
(4) Cfr: Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione presso il Ministero del lavoro e delle politi-
che sociali, in www.Lavoro.gov.it/ /DG-immigrazione-e-dellepolitiche-di-integrazione.aspx.
La manifesta inadeguatezza
della normativa previgente in tema
di caporalato
A) Dalla legge n. 1369/1960
al D.Lgs. n. 276/2003
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spetto di tali regole l’art. 18 del menzionato decreto ha configurato alcune ipotesi contravvenzionali, che hanno sostituito quelle previgenti
(contestualmente abrogate) sanzionando penalmente l’esercizio della mediazione e della somministrazione di lavoro ove attuato al di fuori dei
limiti soggettivi e oggettivi previsti dalla riforma.
L’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003, poi, sotto la rubrica Appalto, stabilisce al comma 1 che “ai fini
della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e
regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione
di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o
del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio
del potere organizzativo e direttivo nei confronti
dei lavoratori utilizzati nell’appalto ,nonché per
la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Il D.Lgs. n. 276/2003, dunque, allarga ulteriormente le “maglie” per l’appalto di prestazioni lavorative, pur essendo, tuttavia, richiesto, che
l’appaltatore, assuma il rischio d’impresa e l’organizzazione dei mezzi necessari nell’esercizio e
per l’esercizio della propria attività, che, tuttavia,
per i settori cc.dd. “labour intensive” può anche
risultare dal mero esercizio del potere direttivo
nei confronti dei lavoratori.
Nel passaggio dalla legge n. 1369/1960 al D.Lgs.
n. 276/2003 (5) si è, tuttavia, assistito ad un depotenziamento degli strumenti di contrasto al fenomeno. Ed infatti, l’art. 18, comma 5-bis, prevede che “Nei casi di appalto privo dei requisiti
di cui all’articolo 29, comma 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all’articolo 30, comma 1,
l’utilizzatore e il somministratore sono puniti con
la pena della ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione”. Solo in caso di sfruttamento dei minori, la
pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo. La risposta
sanzionatoria, dunque, non è certo afflittiva, in
quanto assolutamente priva di effetto deterrente.
Nella normalità dei casi, infatti, essendo prevista
la sola pena dell’ammenda, il contravventore può
accedere all’oblazione prevista dall’art. 162 c.p.
e, quindi, ha il diritto (non potendo il giudice opporvisi) di estinguere comodamente il reato mediante il pagamento di una somma di denaro pari
alla “terza parte del massimo della pena stabilita
dalla legge per la contravvenzione commessa”.
Ciò ha sicuramente incentivato gli appalti irregolari, lo sviluppo di questo nuovo caporalato, accompagnato anche dall’inesistenza di controlli su
questo fenomeno che hanno dato forza e sicurezza ai nuovi “caporali”.
Per quanto concerne, poi, lo sfruttamento del lavoro “nero” degli immigrati clandestini extracomunitari, esiste già una fattispecie normativa
contenuta all’art. 12, comma 3-ter, del D.Lgs. 25
luglio 1998, n. 286, che prevede la pena detentiva (reclusione da cinque a quindici anni e multa
di 15.000 euro per ogni persona), aumentata da
un terzo alla metà (e si applica la multa di
25.000 euro per ogni persona) se la promozione,
direzione, organizzazione, finanziamento o effettuazione del trasporto di stranieri nel territorio
dello Stato ovvero il compimento di altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato (ovvero di altro Stato del quale
la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente) è commessa “al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo
ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo
sfruttamento” oppure se i medesimi fatti “sono
commessi al fine di trame profitto, anche indiretto”.
Pur in presenza di una giurisprudenza di legittimità che ha escluso come l’abrogazione delle
norme incriminatici contenute nelle leggi n.
264/1949 e n. 1369/1960 abbia comportato l’abolizione dei reati posti a tutela del mercato del
lavoro e dalle stesse previsti (6), lo strumentario
(5) La giurisprudenza è, peraltro, costante nell’affermare la
continuità normativa tra le fattispecie della somministrazione
non autorizzata di cui all’art. 18, D.Lgs. n. 276/2003 e del divieto di fornitura di mere prestazioni di manodopera di cui all’art.
2, L. n. 1369/1960; in tal senso v. ex plurimis: Cass. Sez. IV, 3
febbraio 2006. In dottrina, sull’argomento mi sia consentito il
rinvio a: G. Costa, Solidarietà e tutele negli appalti, in Variazioni
su Temi di Diritto del Lavoro, Torino, n 2/2016, 382; idem, Soli-
darietà e codatorialità negli appalti, in WP CSDLE “Massimo
D’Antona”, n. 302/2016,8; M.T. Carinci.-L. Imberti., La tutela
dei lavoratori negli appalti dopo il D.Lgs. n. 251/2004, in., 91; I.
Alvino, Il confine fra appalto e interposizione nel D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2005,
1048-1049.
(6) Atteso che le rispettive fattispecie devono ritenersi rivivere nelle disposizioni del menzionato art. 18, D.Lgs. n.
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Non era più differibile, pertanto, la previsione di
un intervento legislativo che, partendo dalla configurazione giuridica di questo reato arrivasse a
contrastare, senza ulteriori indugi, questo grave
fenomeno. Il legislatore, così, interviene introducendo la nuova fattispecie penale dell’art. 603bis c.p (7), riconoscendo l’esistenza di una lacuna
nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro ed individuando la mancanza di
un’incriminazione in grado di intercettare quei
comportamenti che non si risolvono nella mera
violazione delle regole poste dal D.Lgs. n.
276/2003.
La norma, nella versione ante lege 29 ottobre
2016, n. 199, puniva, “salvo che il fatto costituisca più grave reato“, chiunque svolgesse un’attività organizzata di intermediazione, reclutando
manodopera o organizzandone l’attività lavorativa
caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza,
minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.
Il reato di cui all’art. 603-bis c.p. era pertanto
configurabile solo nel caso in cui la condotta vie-
tata fosse posta in essere in forma “organizzata”.
È, dunque, evidente che non avrebbe potuto essere penalmente perseguibile il “caporale” che
avesse svolto in proprio l’attività illecita, senza
alcuna organizzazione, situazione, peraltro, più
ipotetica che reale, considerato che, di regola,
chi svolge tali attività illecite “dipende” da
un’organizzazione criminale.
Invero, un primo dubbio interpretativo riguardo
la formulazione della norma poteva, innanzitutto,
porsi laddove il legislatore faceva riferimento alla nozione di “organizzazione” dell’attività di intermediazione, con tutte le ambiguità che ne derivano. A parere di chi scrive, l’espressione “attività organizzata” di intermediazione evoca l’esercizio non occasionale della suddetta attività attraverso l’impiego di mezzi necessari atti a garantirne l’effettività.
L’organizzazione, ai fini della perseguibilità penale dei fatti, avrebbe potuto essere anche rudimentale, purché idonea per la realizzazione delle
attività criminose contemplate dalla nuova fattispecie penale. È, dunque, evidente l’intenzione
del legislatore di colpire le organizzazioni criminali che si arricchiscono con il business del caporalato e di restringere l’ambito applicativo dell’incriminazione nella preoccupazione che la
nuova fattispecie potesse prestarsi ad interpretazioni estensive che trascendessero l’effettivo
obiettivo di tutela prefissato.
Una seconda criticità riguardava la nozione di
“sfruttamento” della manodopera. Il legislatore
non si è preoccupato affatto di definire tale
aspetto, sicché è utile richiamare l’etimologia del
termine: l’approfittare senza scrupoli di altre persone per il proprio utile (8).
Altri aspetti rimasti inesplorati dal legislatore
hanno riguardato i concetti di violenza, minaccia
ed intimidazione, che potevano ricorrere alternativamente, e quello di approfittamento dello stato
di bisogno o di necessità dei lavoratori, individuato in un apposito ed autonomo inciso della
norma.
276/2003, quantomeno nei limiti in cui le condotte di intermediazione e somministrazione sono considerate illecite da quest’ultimo (cfr., in dottrina M.T. Carinci-L. Imberti, La tutela dei
lavoratori negli appalti dopo il D.Lgs. n. 251/2004…cit., 101; I.
Alvino, Il confine fra appalto e interposizione nel D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2005,
1048-1049. Nello stesso senso v. in giurisprudenza, ex plurimis
Cass. Sez. IV, 20 ottobre 2010, in Ced Cass., 248861Sez. III,
11 novembre 2003, M., cit.
(7) Cfr. l’art. 12, comma 1, D.L. n. 138/2011 convertito con
modifiche nella legge n. 148/2011.
(8) Da il Sabatini-Coletti, Dizionario della Lingua Italiana,
edizione on line: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/S/
sfruttamento.shtml.
a disposizione del giudice penale appariva modesto. In tal senso la mediazione non autorizzata e
il c.d. pseudo-appalto di manodopera hanno continuato e continuano ad avere rilevanza penale,
ma la costante previsione di mere fattispecie contravvenzionali si è rivelata insufficiente ad arginare le forme più gravi e sistematiche di sfruttamento del lavoro.
Il problema, nella prassi applicativa, è stato talvolta affrontato ricorrendo alla contestazione del
reato di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), in
grado però di intercettare solo quei fatti caratterizzati da un marcato sfruttamento della vittima
e, dunque, inidoneo a fronteggiare compiutamente il fenomeno del caporalato; parimenti non risolutivo, ancorché per motivi diversi, si è rivelato il tentativo di ricondurre lo stesso fenomeno
nell’alveo delle fattispecie di estorsione e di violenza privata.
B) La legge n. 148/2011
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Come noto, il requisito della “violenza” si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente il lavoratore della libertà di determinazione e di azione, ben potendo trattarsi di violenza
fisica, propria, che si esplica direttamente nei
confronti della vittima o di violenza impropria che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà del
lavoratore impedendone la libera determinazione.
Quanto, poi, al requisito della “minaccia”, la
condotta minatoria necessaria ad integrare l’elemento oggettivo della fattispecie penale de qua
poteva consistere, in generale, in qualsiasi comportamento deciso, perentorio e univoco dell’agente che fosse astrattamente idoneo a produrre
l’effetto di turbare o diminuire la libertà psichica
e morale del lavoratore sfruttato (9).
Infine, quanto al concetto di “intimidazione”, un
utile parametro normativo di riferimento può essere costituito dalla nozione contemplata dall’art.416-bis c.p. (10), sicché l’intimidazione contemplata dall’art. 603-bis c.p. risultava dalla capacità di suscitare terrore scaturente dall’esercizio dell’attività illecita in forma organizzata, che,
pertanto, dev’essere dotata di specifica potenzialità atta a ingenerare uno stato di sudditanza psicologica, indipendentemente dal compimento di
particolari atti di violenza o minaccia, posto che
l’effetto intimidatorio fa parte di qualsiasi attività
criminosa svolta in forma organizzata (11).
Da ultimo, a completamento degli elementi oggettivi normativamente richiesti per la configurabilità dell’illecito penale in commento, era altresì
necessario che l’attività illecita descritta fosse
svolta “approfittando dello stato di bisogno o di
necessità dei lavoratori”, dovendosi intendere
per stato di necessità qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del
soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale: in altri termini, la nozione di
stato di bisogno o di necessità coincide con la
definizione di “posizione di vulnerabilità“ indicata nella decisione quadro dell’Unione Europea
del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli es-
seri umani, alla quale la legge 11 agosto 2003, n.
228 ha voluto dare attuazione.
Quanto, poi, alla definizione dello stato di “approfittamento” dei lavoratori, la nozione richiama
alla mente il ben noto delitto di usura. In tal senso, mutuando l’esegesi operata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al delitto di
cui all’art. 644 c.p., esso deve intendersi quale
esigenza impellente che, limitando la volontà del
lavoratore, lo induca ad accettare lo svolgimento
di una prestazione lavorativa sottopagata o, comunque, in condizioni lavorative deteriori rispetto a quelle di mercato, in condizioni di sfruttamento (12).
(9) G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, parte speciale,
Bologna, 2015, 632-634.
(10) In questo senso v. A. Giuliani, I reati in materia di caporalato, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova, 2015, 55.
(11) V., ad es., per il requisito della forza intimidatrice nel
delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, Cass.
pen., Sez. I, 15 dicembre 1986, A., in Ced Cass. 174637.
(12) Cfr. ex plurimis, per la nozione di stato bisogno con riferimento al delitto di usura, Cass. pen., Sez. II, 10 dicembre
2010, n. 43713,G., in Ced. Cass. 248974.
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La nuova legge 29 ottobre 2016, n. 199
Con la legge n. 199/2016 recante “Disposizioni
in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro
nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura
e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, sono state introdotte nell’ordinamento nuove
misure destinate a colpire con maggior rigore il
fenomeno del caporalato.
In particolare, le principali novità del provvedimento possono riassumersi come di seguito:
1) Modifica dell’articolo 603-bis c.p.- (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro)
La nuova norma non modifica affatto l’impianto
fondamentale della fattispecie, ma va a meglio
identificare gli aspetti critici della precedente, aumentandone, altresì, il rigore sanzionatorio. È così, attualmente, prevista la pena della reclusione
da 1 a 6 anni e della multa da 500 a 1.000 euro
per ciascun lavoratore reclutato, nei confronti di
chiunque recluti manodopera, allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei
lavoratori; ovvero, chiunque utilizzi, assuma o
impieghi manodopera, anche mediante l’attività
di intermediazione di cui sopra, sottoponendo i
lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Costituiscono, alternativamente, indice di sfruttamento, la sussistenza di una o più delle seguenti
condizioni:
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• reiterata corresponsione di retribuzioni in modo
palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni
sindacali più rappresentative a livello nazionale,
o comunque sproporzionato rispetto alla quantità
e qualità del lavoro prestato;
• reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo
settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
• sussistenza di violazioni delle norme in materia
di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
• sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono, poi, aggravanti specifiche, che
comportano l’aumento della pena da un terzo alla
metà, il fatto che il numero dei lavoratori reclutati sia superiore a tre; che uno o più soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa, l’aver
commesso il reato esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da
svolgere e delle condizioni di lavoro.
2) Previsione dell’arresto obbligatorio (e non
più facoltativo come in precedenza) in flagranza
di reato ai sensi dell’art. 380 c.p.p.
3) Introduzione dei numeri 1. e 2. all’art. 603 bis
che comporta l’applicazione di un’attenuante
da un terzo ai due terzi della pena in caso di
collaborazione con le autorità giudiziaria o di
polizia.
4) Rafforzamento dell’istituto della confisca dei
beni che sono serviti o sono stati destinati a
commettere il reato, e, delle cose che ne costituiscono il prezzo, il prodotto od il profitto, che può
essere disposta anche per equivalente, allorquando non sia possibile soddisfarsi sui beni di cui il
reo ha la disponibilità.
5) Inclusione del reato di caporalato trai i
cc.dd. reati presupposto, ai sensi del D.Lgs. n.
231/2001, per la responsabilità amministrativa
dell’ente, con una sanzione pecuniaria prevista
da 400 a 1.000 quote (l’importo di una quota varia da un minimo di 258 a un massimo di 1.549
euro).
6) Adozione di misure cautelari relative all’azienda in cui è commesso il reato (c.d. controllo
giudiziario dell’azienda). Nello specifico qualora
ricorrano i presupposti indicati nel comma 1 dell’articolo 321 c.p.p., il giudice dispone, in luogo
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del sequestro, il controllo giudiziario dell’azienda
presso cui è stato commesso il reato, qualora
l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa
comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico
del complesso aziendale.
L’amministratore giudiziario affianca l’imprenditore nella gestione dell’azienda ed autorizza lo
svolgimento degli atti di amministrazione utili all’impresa, riferendo periodicamente al giudice.
Infine, egli è deputato al controllo del rispetto
delle norme e delle condizioni lavorative la cui
violazione costituisce, ai sensi dell’articolo 603bis c.p. indice di sfruttamento lavorativo, procede
alla regolarizzazione dei lavoratori che al momento dell’avvio del procedimento per i reati
previsti dall’articolo 603-bis prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare
contratto e, al fine di impedire che le violazioni
si ripetano, adotta adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall’imprenditore o
dal gestore, per evitare che si verifichino ulteriori
situazioni di sfruttamento lavorativo.
7) Si prevede, poi, l’estensione alle vittime del
caporalato delle provvidenze del Fondo antitratta. Tale fondo, operativo dal 2000 e coordinato dal Dipartimento per le pari opportunità, garantisce assistenza, ai sensi dell’art. 13, legge n.
228/2003, alle presunte vittime di tratta e a quelle già identificate come tali, per un periodo minimo di tre mesi, prorogabile di altri tre. Le persone prese in carico da enti pubblici o del privato
sociale hanno diritto ad adeguate condizioni di
alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria. Al termine di questo periodo, i beneficiari potranno,
comunque, fruire, ai sensi dell’art. 18, D.Lgs. n.
286/1998, di una serie di ulteriori servizi ed attività quali accoglienza residenziale, counselling
psicologico, assistenza legale, mediazione linguistico-culturale, accompagnamento ai servizi socio-sanitari, formazione professionale, supporto
nella ricerca del lavoro, per un periodo di 12 mesi.
8) Potenziamento della Rete del lavoro agricolo
di qualità, cui possono aderire attraverso apposite convenzioni, gli sportelli unici per l’immigrazione, le istituzioni locali, i centri per l’impiego,
nonché i consorzi tra aziende agricole in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura. Attraverso il potenziamento della Rete si potrà finalmente attestare il
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percorso delle verifiche effettuate dagli enti competenti, individuando e valorizzando le aziende
che risultino essere in regola con le leggi ed i
contratti di lavoro.
9) Graduale riallineamento delle retribuzioni
nel settore agricolo, che potrà avvenire anche
solo tramite contratto aziendale, purché l’accordo
di recepimento dell’accordo provinciale di riallineamento venga sottoscritto dalle stesse parti che
hanno stipulato quell’accordo.
Possibili linee di intervento
e considerazioni conclusive
Prima facie il nuovo assetto normativo non appare dirompente: con la legge n. 199/2016 il legislatore ridefinisce la disciplina del delitto di intermediazione illecita, con l’intento di migliorarne la formulazione lessicale e con essa l’efficacia
applicativa.
Ed invero, numerose sono le novità apportate: i
12 articoli del nuovo testo normativo ampliano la
platea dei destinatari delle sanzioni afflittive: non
più soltanto l’intermediario, ma anche il datore
di lavoro, sia esso persona fisica o giuridica, arrivando a prevedere l’arresto obbligatorio in flagranza e la confisca dei beni. Inoltre il nuovo art.
603-bis c.p. rimodula i suoi presupposti applicativi; sparisce il riferimento all’”organizzazione”
dell’attività di intermediazione (che, come evidenziato, è stato foriero di numerose difficoltà
interpretative per gli operatori del diritto), sparisce la condizione dell’approfittamento dello stato
di necessità del lavoratore e, l’impiego della violenza o della minaccia viene scorporato, e non
più richiesto quale requisito necessario, ai fini
della configurazione della fattispecie incriminatrice: in buona sostanza oggi la consumazione
del reato non è più legata a forme di organizzazione o condotte violente o intimidatorie, essendo sufficiente che vi sia il reclutamento o l’utilizzo di manodopera in condizioni di sfruttamento.
Semmai, il ricorso alla violenza o alla minaccia
darà luogo ad un inasprimento della pena, sì che
appare manifesto come le condotte incriminate
siano oramai del tutto distinte (13).
(13) Cfr. art. 603-bis, comma 1, n.1 e n.2.
(14) Sino all’approvazione della legge n. 199/2016, invece,
la violazione della normativa in materia di salute e sicurezza
sui luoghi di lavoro era riconosciuta quale indice di sfruttamento, soltanto qualora dalla violazione derivasse un “pericolo per
la salute, la sicurezza o l’incolumità personale” del lavoratore,
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Anche l’individuazione degli indicatori di sfruttamento risultano essere modificati, comparendo
il riferimento ad una “reiterata corresponsione di
retribuzioni in modo palesemente difforme dai
contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro
prestato”, in precedenza inesistente, e precisando
che la violazione della normativa in materia di
sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro denota, in
ogni caso, sfruttamento del lavoro (14).
Un’altra novità con forte potenziale deterrente è,
poi, l’introduzione della responsabilità amministrativa dell’ente ove l’illecito de quo venga
commesso da un soggetto (dipendente od anche
terzo estraneo alla società) nell’interesse dell’impresa (15); pertanto, sarà necessario che l’impresa si doti di un efficace modello organizzativo
anche relativamente a tale aspetto per evitare di
incorrere in pesanti sanzioni.
Sul punto, il legislatore ha stabilito una soluzione
alternativa, facoltativa, per il giudice: infatti, fermo restando la possibilità del “commissariamento giudiziale”, come disciplinata dal D.Lgs. n.
231/2001, che, tuttavia, rischia di pregiudicare
l’attività produttiva in grave danno dei livelli occupazionali, il nuovo impianto normativo prevede il “controllo giudiziario dell’azienda” (di cui
peraltro non viene in alcun modo indicato un
dies ad quem entro il quale il provvedimento dovrebbe concludersi), che si realizza mediante un
amministratore giudiziario, il cui compito non è
quello di sostituirsi all’imprenditore, ma di affiancarlo, consentendo la prosecuzione dell’attività d’impresa ed assicurando la rimozione delle
condizioni dello sfruttamento lavorativo.
La nuova legge ha, poi, finalmente previsto un
fondo per le vittime del caporalato e la creazione
di un percorso sociale e di protezione, in precedenza del tutto assente (16).
Ma se da un lato, la nuova normativa è stata salutata con favore da tutte le realtà associative e
sindacali del settore, a parere di chi scrive percon tutti i conseguenti problemi in ordine all’onere probatorio.
Cfr. art. 603-bis, comma 2, n. 3.
(15) All’uopo vi è stata la modifica dell’art. 25-quinquies,
D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
(16) Cfr. § 3, 12, n. 7.
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mangono alcuni dubbi sulla reale efficacia di
contrasto al fenomeno del c.d. caporalato.
Difatti, sebbene il caporalato, in molte realtà territoriali costituisce diretta espressione della criminalità organizzata, non necessariamente si
identifica con essa: basti pensare al triste e noto
caso di Paola Clemente, regolarmente assunta
con contratto tramite Agenzia per l’impiego, retribuita 7 euro/h, ma costretta a lavorare in condizioni di sfruttamento, che l’hanno portata a
morire d’infarto all’età di 49 anni nelle campagne di Andria il 13 luglio 2015.
Se si vuole porre fine a questo fenomeno è bene
ripensare all’intero sistema agro-alimentare (ma
non solo dato che come abbiamo visto il caporalato riguarda anche altri settori economici), posto
che la grande distribuzione organizzata impone
un sistema di acquisto estremamente al ribasso
rispetto al quale le aziende agricole sono vittime,
rifacendosi sui soggetti ancora più deboli, ovvero
le persone bisognose di lavorare.
Occorrerebbe, pertanto, ridefinire l’intero sistema
delle politiche agricole, introducendo, ad esempio, il ricorso agli indici di congruità, strumento
approvato dalla Regione Puglia nel lontano
2006, riconosciuto come buona pratica europea,
ma mai attuato per l’opposizione delle associazioni datoriali. Tale strumento consentirebbe di
calcolare quanto prodotto si può ricavare su una
determinata estensione di terreno in relazione al
numero di lavoratori che si dichiara di aver impiegato: se il quantitativo prodotto non risulta essere coerente rispetto ai coefficienti indicati con
gli indici di congruità dovrebbero scattare le
ispezioni ed eventualmente le sanzioni, similmente a quanto, peraltro, previsto in materia di
appalti edili in virtù dell’Avviso comune sottoscritto in data 13 aprile 2013 dalle Parti sociali.
Altresì, se si vuole debellare tale fenomeno non
può essere secondario il ruolo di monitoraggio
degli organi di vigilanza, che devono essere dotati di tutti gli strumenti e delle risorse economiche
ed umane necessarie, coerentemente al fine preposto.
Basti pensare che persino il sistema dei voucher,
ideato per contrastare il ricorso al lavoro nero, finisce con il minare le fondamenta stesse della
lotta all’evasione contributiva, proprio perché i
voucher sono spesso usati con finalità elusive e
fraudolente dai committenti (17).
Il tema dei controlli è, dunque, un elemento necessario per perseguire l’obiettivo di un lavoro
dignitoso che sia motore di uno sviluppo economico sostenibile come prevede l’Agenda ILO
dello sviluppo 2030 (18), dando, altresì, concreta
attuazione all’art. 35 della nostra Carta costituzionale che prevede la tutela del lavoro in tutte
le sue forme ed applicazioni.
(17) Peraltro, sul punto, si ricordi che lo scorso 11 gennaio
2017 la Corte costituzionale ha dichiarato l’ammissibilità del
referendum abrogativo sui voucher promosso dalla Cgil.
(18) Cfr. Obiettivo n. 8.5 dell’Agenda ILO dello sviluppo
2030.
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