L`insostenibile leggerezza

Download Report

Transcript L`insostenibile leggerezza

Rivista di critica informazione.
L’insostenibile
leggerezza
n.
02
FEBBRAIO
2017
L’opinabile
è una rivista
mensile di critica
e informazione
da scaricare
gratuitamente su
pc o tablet.
L’Opinabile è un contenitore di informazione
interdisciplinare fatta di rubriche fisse tenute
da autori che – per esperienza di vita, per
passione, per preparazione accademica… –
proveranno ad accompagnarvi alla scoperta
di una polifonia tematica, dalla filosofia
del linguaggio alla cultura araba e siriana,
passando per argomenti nazional-popolari
come la cucina e il giuoco del pallone.
L’Opinabile si propone come un salotto virtuale
in cui si discute dei più svariati temi (davanti a
un tè o a un buon whisky, sta a voi deciderlo),
per divulgare e suscitare idee e contribuire alla
creazione di un dibattito. L’Opinabile è per sua
natura ipertestuale: non si sfoglia, sebbene sia
possibile farlo, ma si “naviga” dal sommario agli
articoli e viceversa, dagli articoli a link esterni.
L’Opinabile darà alla curiosità di ciascuno la
possibilità di esprimersi ed espandersi per
giungere alle proprie conclusioni.
L’Opinabile è anche un quotidiano, perché
non ce la sentiamo di lasciarvi soli dinnanzi al
flusso informativo: vi accompagneremo nella
quotidianità, pur nella nostra consapevole
opinabilità. Il progetto è quello di creare un ponte
tra informazione generalista ed autorevolezza
specialistica, aprire una porticina che dia
accesso a tutti ad argomentazioni critiche
sull’attualità, con la semplicità della cronaca
ma con la serietà dei professionisti.
L’Opinabile è tutto questo,
ma anche molto di più.
Buon viaggio!
Direttore:
Antonio Marvasi
Vicedirettore:
Rocco Di Vincenzo
Caporedazione:
Renata Gravina
Progetto grafico:
Renato Marvasi
Tutti i diritti riservati ©
2017 Rivista mensile
www.lopinabile.it
[email protected]
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
L’indice
L’Editoriale
di A. Marvasi
TiConZero
di C. Pacillo
Orienta-mentis
di R. Gravina
Social o son desto?
di M. Meloni
04
07
11
14
17
20
25
28
30
32
35
38
L’INSOSTENIBILE
LEGGEREZZA
COSMOGONIA
DI MIA NONNA
GEOGRAFIA
RUSSA
TROLLING IN
THE DEEP
Il Mitologo
di G. Iandoli
DON CHISCIOTTE
Il Muzungu
di M. Simoncelli
MACCHINA
DELL’ESTINZIONE
Una tantum
Siria una volta
Di L. Sareji
LEGGERE IL
LAVORO?
L’HAREM
EUROPEO
Calciomercanti
di R. Di Vincenzo
GLOBAL
TRANSFER
Europeide
Di V. Palladini
DIVORZIO
EUROPEO
La linguaccia
di A. Marvasi
Disertori
di C. Giauna
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
L’alternativo
10 CITTÀ IN
TRANSIZIONE
di E. B.
Grano Salis
16 LA
STRONCATURA
di E. Ceccuzzi
L’etilometro
27 L’INSOSTENIBILE
LEGGEREZZA
di G. Monteduro
DELL’INSULTO
FENOMENOLOGIA
DI TRE ELEMENTI
3
Feb. 2017
L’editoriale
di A. Marvasi
L’insostenibile leggerezza
Io non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza
esperienze personali. (Hannah Arendt, La lingua materna)
La copertina di ogni mese ha lo scopo di
ribadire sin dall’inizio di ogni numero de
L’Opinabile l’idea portante che vi sia uno
stretto legame tra mondo e arte, cioè tra
fatti e pensieri, cronaca e filosofia (notizia/
evento), e che questo legame, la critica,
ci permette di agire nel mondo col nostro
pensiero. La scelta della copertina ci serve
insomma per prendere una posizione
rispetto all’attualità e di darle corpo e
immagine. Se il tema più dibattuto di questo
mese è il linguaggio volgare e violento su
internet e in politica, se la rabbia e l’odio
sono i sentimenti che dominano l’epoca
della post-verità, la copertina che abbiamo
scelto per questo mese è “Woman Smiling”
di Augustus John, conservato alla Tate
Modern di Londra. Prendiamo posizione per
l’insostenibile leggerezza, per la capacità
di ridere e di sospettare di tutto, per non
cadere nel tranello di chi, convinto come un
mulo, attacca e insulta gratuitamente.
Vi si vede infatti una donna del popolo
che sorride divertita ma anche, in qualche
modo, irritata, come sembrano indicare le
due mani spinte sulle cosce e rivolte verso
l’interno. Sgrida benevolmente un bimbo, o
forse reagisce a una battuta malandrina di
un uomo. C’è anche un che di sensuale nel
suo sorriso. Un sorriso, infatti, più aperto,
meno misterioso, di quello della Gioconda;
che non diventa allegorico, né simbolico in
alcun modo: si tratta di un sorriso terreno,
che allude solo all’atto di sorridere, un
pomeriggio, in cucina.
Sorridere il pomeriggio in redazione ci
sembra l’unico modo possibile per gestire
un progetto come L’Opinabile, che è
ironico sin dalla testata, e “in formazione”
4
per definizione. Si tratta del carattere della
rivista in quanto tale: non siamo noi a
essere necessariamente ironici negli articoli,
bensì è il progetto editoriale in sé, l’idea
su cui si fonda la rivista nel suo insieme,
in quanto oggetto, ad avere qualcosa di…
leggero. In primo luogo: abbiamo scelto di
non stampare la rivista. A dire il vero, non
abbiamo neanche una redazione, lavoriamo
via internet da luoghi diversi del mondo. Ma
soprattutto, aprire la ricerca universitaria
a un discorso più immediato, trovare un
legame col giornalismo, provare, di fatto,
a inventare il linguaggio di una sorta di
“accademia applicata”, implica una dose
di autoironia, anzi meglio, di simpatia, dal
greco συμ-πάθεια, “che condivide il pathos”,
il sentimento. Viviamo ad occhi aperti e
partecipiamo emotivamente al mondo che ci
circonda, ne facciamo esperienza personale
proprio perché siamo capaci di quella
leggerezza che ci fa sentire il legame tra la
nostra esistenza e le leggi dell’universo.
Oggi diremmo empatia. Il che non toglie che
siamo anche arrabbiati; anzi, lo implica. Lo
siamo per vari motivi, in primo luogo proprio
perché oltre a sentire, pensiamo, e non poco.
Ma soprattutto lo siamo perché la rabbia è
il sentimento dominante di questo tempo,
a partire dagli haters e i troll, tanto che si
passa dall’odio all’ammirazione e viceversa
senza soluzione di continuità; lo siamo
proprio perché viviamo nel mondo, oggi,
e ne subiamo l’atmosfera, condividiamo il
pathos. Anche chi ci legge, che lo sappia o
no, è incazzato nero. In fondo, non sono stati
proprio i simpatici a portarci a questo punto?
Berlusconi forse ha sconvolto la percezione
stessa della parola “simpatico” per gli
italiani. All’epoca spuntò fuori Travaglio, che
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
L’EDITORIALE
probabilmente non sta simpatico nemmeno a
sua moglie, a prescindere dalle sue qualità di
giornalista. Poi Mario monti, anti-patico come
un robot, poi Renzi, tra Mr bean e Fonzie.
C’è oggi una rabbia che monta, palpabile, in
tutto occidente (come minimo) e cominciano
a vedersi gli antipatici alla riscossa. Il
prossimo forse è Grillo, passato da comico
a politico, o dal simpatico all’antipatico, con
Dibba e Di Maio, che sono praticamente lo
stereotipo dell’antipatia. Per non parlare di
Salvini, che fa dell’antipatia il tratto distintivo del
suo personaggio. O di Trump, Putin, Le Pen,
Orban e tutti i leader emergenti nel mondo.
Pesanti, antipatici, dico, non tanto nel senso
comune, ma nel senso che sembrano
incapaci di provare empatia verso chi gli sta
intorno, accecati dall’immagine di se stessi
e della loro ragione. O torto. La rabbia di chi
attacca i migranti, di chi sfrutta, di chi uccide
uomini animali e ambiente: quella è antipatia,
nel senso etimologico del termine. E voler
costruire muri, il ritorno al nazionalismo, al
provincialismo e all’indipendentismo, al di là
delle singole cause, è in generale mancanza
di empatia. Ci opponiamo a tutto questo in
modo radicale, cioè a partire dalla condotta:
sorridiamo. La nostra posizione è quindi
fondata, se si vuole, su considerazioni
inattuali: richiamarsi alla leggerezza è fuori
dal tempo, e risulta oggi “insostenibile”.
Inattuali eppure dovute proprio al confronto
col presente: ne risulta che oggi sorridere,
saper(si) prendere in giro, è l’atto necessario
a una prospettiva critica seria, che possa
salvarsi dalla crisi nervosa che prende al
mondo. Critica consapevole di sé, e quindi,
anche degli altri. Poiché se la rabbia è
emotività allo stato puro – tanto che “si perde il
controllo” – il riso, anzi, il sorriso, presuppone
un intervento di testa non da poco: ciò che
fa ridere, fa ridere a pensarci. Come i veri
insulti. Se le parolacce e le volgarità intasano
le reti sociali, noi rievochiamo l’antica e
raffinatissima arte dell’insulto, che enumera
esponenti del calibro di Shakespeare e
Dante, e che passa anche per un sorriso o
un silenzio ben piazzati.
C’è come una voglia di tragedia in tutto
occidente, di divisioni nette e fisse, di durezza.
Ma Edipo ne esce cieco dalla sua tragedia,
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
mentre noi vogliamo vedere. Cerchiamo
allora la commedia, come “atto” di libertà,
facciamo un’indagine simile a quella del
protagonista del Nome della Rosa, in cerca
del libro perduto di Aristotele, contro il parere
di tutta l’epoca. E se qualcuno obietterà
che solo la tragedia è seria, accusandoci di
essere superficiali, risponderemo che dalla
superficie, da una vista “aerea” e geografica,
c’è molto di profondo da imparare. La nostra
leggerezza, d’altronde, è tutt’altro che
superficiale; si tratta, come si è già capito,
di quella leggerezza che caratterizza il
Cavalcanti descritto nella nona novella della
sesta giornata del Decameron, che insulta
– ma in modo tanto raffinato che gli insultati
non capiscono – chi lo infastidisce, prima di
volare via, leggero, con un balzo.
Se questa è l’epoca della post-verità, delle
notizie false che confermano le nostre false
convinzioni, allora riconoscere l’importanza
del riso ci rende capaci di percepire la
possibilità che i nostri schemi cerebrali
possano ingannarci, ci permette di non
cadere nel tranello di un Don Chisciotte che
non sospetta che i giganti possano essere
mulini a vento, che si prende troppo sul serio,
con spirito tragico. Ci permette di mettere in
luce tutta la carica di ridicolo, diciamo pure
tragicomico, che aleggia su quest’epoca.
Non è tragicomico, a pensarci, che se
col 2016 è finita l’epoca venuta dopo la
caduta del muro di Berlino (e di diversi muri
social-culturali), questo 2017 ha aperto il
ventunesimo secolo con l’annuncio di un
nuovo muro, non più in Europa, ma nel
nuovo mondo, dove Trump si è già messo
all’opera per rialzare tutti quei muri appena
crollati? In verità, i muri nel mondo sono
aumentati drasticamente nell’epoca della
globalizzazione ; mai come oggi le frontiere
sono sorvegliate speciali. La maggior parte
delle morti, è bene ricordarlo, avvengono
sulle frontiere dell’Unione Europea, già
multiculturale (la seconda lingua più diffusa
in Germania è il turco) e in piena crisi
identitaria, in cerca di un nuovo rapporto con
l’altro da sé, che per l’europeo è innanzi tutto,
da sempre, il temutissimo mussulmano.
Impossibile sapere con certezza se l’Europa
sia in grado di affrontare il nuovo panorama
5
L’EDITORIALE
Feb. 2017
geopolitico che si sta disegnando.
Ma il futuro viene dalle nostre spalle, e non
ci resta che vivere il presente con passione,
proprio per capirlo. È questa l’idea stessa
che abbiamo di critica, poiché siamo convinti
che sia solo attraverso una partecipazione
emotiva e artistica che le idee della ragione
possano portarci non solo a capire meglio
il mondo che ci circonda, ma a viverlo
meglio. Per questo rivendichiamo il legame
con l’arte, in quanto spazio dove riflessione
e partecipazione si incontrano. Tramite
l’arte, nel romanzo, possiamo trovare la
dimensione umana di fenomeni sociali,
come il precariato, e capirli in profondità, non
come numeri e dati impaginati sui giornali.
Se siamo così inattuali, e se il solo fatto di
pubblicare in rete implica il rischio di essere
insultati da masse informi al limite della
persecuzione, chi ce lo fa fare? Una sorta
di senso del dovere. Non abbiamo paura di
esporre le nostre idee, le nostre critiche, e non
perché siamo convinti di avere ragione, ma
perché non abbiamo paura di avere torto. Il
nostro rivendicare partecipazione al mondo,
significa anche che siamo consapevoli di
poterci sbagliare, e siamo pronti a cambiare
idea; siamo pronti, sempre, a scegliere.
Significa anche che la nostra leggerezza ci
permetterà sempre di rispondere a eventuali
commenti volgari in quel luogo di morte
dell’intelligenza che è il web, qualcosa come
“Signori, voi potete dire in casa vostra ciò
che vi piace”.
6
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
TiConZero
di Costantino Pacilio
Cosmogonia di mia nonna
Ovvero di come mio cugino pensava che nostra nonna non fosse mai
nata, e di come invece la Scienza pensa che l’Universo sia nato. E di
come entrambi hanno cambiato idea.
La mia conversazione più divertente la ebbi,
mi sembra di ricordare nove o dieci anni fa,
con mio cugino, che allora era un bambino di
due o tre anni. Mentre gli stavo spiegando che
nostra nonna non era sempre stata vecchia,
ma che era stata piccola come lui e poi giovane
come me, i suoi occhi si illuminarono di un’idea
che prese a spiegarmi con molto entusiasmo.
“Lo so come continua” – mi diceva – “nonna
diventerà sempre sempre più vecchia. Poi
però ad un certo punto si fermerà e inizierà
a diventare di nuovo giovane, finché sarà di
nuovo piccola piccola.” – e avvicinava le mani
per disegnare nell’aria la forma di un neonato
– “E di nuovo crescerà, diventerà vecchia e
così via per sempre.” Credo che lo guardai
con un misto di tenerezza e di stupore.
Allora non avevo ancora studiato Fisica
all’Università, e non avevo neanche ancora
letto Esiodo, ma col senno di poi posso
dire che mio cugino aveva tracciato una
cosmogonia di mia nonna. Cosmogonia
è una parola che viene dal mito. Si
riferisce ai miti, ai poemi e alle dottrine
che raccontano l’origine dell’Universo.
A differenza che nel mito, nella Scienza
l’origine dell’Universo non è stata sempre
un problema o una domanda da porsi. Ci si
interrogava sulla formazione dei pianeti, delle
stelle, dei sistemi solari; ma l’Universo non
era che l’eterno teatro di questi mutamenti.
La nonna – per capirci – era sempre
esistita ed era sempre stata vecchia.
Ma oggi nella Scienza la si pensa ancora così?
No, oggi la si pensa molto diversamente. La
storia della nascita dell’Universo è diventata
così popolare che non ci sarebbe bisogno di
chi sa quali presentazioni. Si chiama teoria
del Big Bang, ed è la teoria secondo cui tutto
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
il contenuto dell’Universo, alcuni miliardi di
anni fa, era condensato in uno spazio molto
più piccolo della vastità che vediamo oggi
nel cielo; e ci sarebbe stato addirittura un
momento in cui tutto era contenuto in un
punto geometrico.
Un punto geometrico – così mi hanno
insegnato a scuola e così la penso ancora
– non ha lunghezza, larghezza e altezza, e
quindi non ha spazio. Il punto geometrico è
un concetto primitivo [1] di cui ci serviamo per
limitare confini di spazio, ma non contiene
esso stesso alcuno spazio. Ci vuole un po’
di immaginazione per adattarsi all’idea, ma
ne occorre ancora di più per adattarsi al Big
Bang. Infatti al Big Bang anche lo scorrere
del tempo perde significato: al Big Bang il
tempo e lo spazio non ci sono. Per usare
un linguaggio più moderno, ma comunque
non sconosciuto alla letteratura popolare,
diremmo che il Big Bang è un confine dello
spazio-tempo, cioè è un punto che segna il
limite di un mondo che ha quattro dimensioni:
lunghezza, larghezza, altezza e tempo.
In Tutto in punto, dall’antologia di racconti
fantascientifici umoristici Le cosmicomiche
di Italo Calvino, lo strampalato personaggio
Qfwgq ci racconta la sua personalissima
versione del Big Bang: “Si capisce che si
stava tutti lì,— fece il vecchio Qfwfq,— e dove,
altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio,
nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem:
cosa volete che ce ne facessimo, del tempo,
stando lì pigiati come acciughe? Ho detto
«pigiati come acciughe» tanto per usare
una immagine letteraria: in realtà non c’era
spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto
d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di
ognuno degli altri in un punto unico che era
TiConZero
quello in cui stavamo tutti.”
Ma come si è giunti a pensare il Big Bang?
Cosa si è imparato di nuovo sull’Universo,
che ha spinto i fisici a rivederne la propria
concezione di teatro eterno del mondo? Si
è imparato che l’Universo è in espansione:
questo significa che le altre galassie si stanno
allontanando progressivamente dalla nostra.
Ma anche un ipotetico abitante di un’altra
galassia vedrebbe che noi, insieme a tutte
le altre galassie, ci stiamo allontanando da
lui. Il principio dell’espansione dell’Universo
è che non esiste un centro immobile, rispetto
a cui le galassie si allontanano, bensì tutti si
allontanano da tutti. È come se le galassie
fossero disegnate sulla superficie di un
palloncino, e qualcuno stesse gonfiando il
palloncino. Chi?
La domanda va posta alla teoria della
Relatività Generale di Einstein. Questa è la
teoria che viene tutt’ora usata dai fisici per
descrivere la fisica degli oggetti molto grandi,
dalle mele di Newton alle galassie di Hubble,
passando per i Buchi Neri di Hawking.
( Tutto il resto della Fisica si occupa di
elettroni, neutrini e altre particelle; quindi sì,
la mela è un oggetto molto grande! ) Questa
8
Feb. 2017
teoria funziona come una macchina che
predice il passato e il futuro, una volta che
gli diciamo come è fatto il presente. E così,
quando diciamo alle equazioni di Einstein
cosa c’è nell’Universo, queste ci rispondono
che allora l’Universo si espanderà. [2] Non
c’è bisogno di una bocca che soffi, o di un
braccio che tiri: l’Universo trova in se stesso
la giustificazione della propria espansione,
e questa giustificazione è l’obbedienza alle
leggi della Relatività Generale. La stessa
teoria – e qui veniamo al Big Bang – che
predice un Universo in espansione, predice
anche che se ne ripercorressimo la storia
indietro nel tempo lo vedremmo contrarsi
sempre di più, fino a che le sue dimensioni
si annullerebbero in un punto.
La Fisica ci racconta una sua cosmogonia, che
non è meno affascinante delle più tradizionali
cosmogonie mitiche. Diversamente che nel
mito, nella cosmogonia scientifica l’Universo
non nasce per mano di un creatore, né da
elementi che si muovono secondo cause
finali, come se fossero animati da sentimenti
simili a quelli degli uomini. La Scienza coltiva
la prospettiva materialistica di un mondo
che basta a se stesso. Ma più ancora, la
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
TiConZero
conoscenza scientifica è molto provvisoria.
Le teorie possono essere sbagliate, e
tali si sono rivelate in passato, e questa
provvisorietà si riverbera su tutte le loro
previsioni. Così vale per il Big Bang, che è
una previsione della Relatività Generale:
se la Relatività Generale non fosse così
giusta quanto crediamo che sia, o se la
nostra conoscenza del presente fosse meno
completa di quanto supponiamo, il risultato
di questa previsione potrebbe cambiare,
anche drasticamente.
Dalla scoperta dell’espansione dell’Universo
e dalla previsione del Big Bang sono
trascorsi quasi novant’anni: decenni in cui
si sono accumulate molte conferme, ma
anche svariati problemi. Ci sono problemi
nella matematica della teoria, e problemi
quando la si confronta
con le osservazioni,
che appaiono insolubili
se
non
mettendo
nuovamente mano alla
nostra immagine del
mondo. Sotto questa
luce il Big Bang appare
oramai più come un
esercizio matematico che
come una vera e propria
previsione. Il disincanto
nei riguardi del Big Bang
apre lo spazio per altri
scenari
cosmogonici,
che risultano dai tentativi
— finora soltanto ipotetici
— di modificare le teorie
che descrivono l’Universo.
Uno di questi è il modello dell’Universo
emergente. Perché emergente? Ricorrendo
a una similitudine, l’Universo emergente
inizia come la superficie calma di un lago,
percorsa da onde così flebili che ci sembra
perfettamente liscia; queste piccole onde
lentamente si fanno più crespe, mentre la
superficie si espande, finché, se abbiamo
la pazienza di aspettare sufficientemente
a lungo, potremmo tracciare una geografia
acquatica di valli e di montagne. Fuor di
similitudine, la superficie del lago è lo spaziotempo, e la sua geografia è il mondo di buchi
neri, stelle e pianeti che vediamo oggi. Ma
quanta pazienza avrebbe avuto l’Universo
emergente? In altre parole, quanto tempo ci
separerebbe dall’inizio dell’Universo, se questo
fosse realmente emergente? La risposta, molto
sorprendente, è: un tempo infinito.
Sembra paradossale: infatti, se davvero
l’Universo impiegasse un’infinità di tempo
per arrivare al punto in cui è oggi, sarebbe
impossibile che noi fossimo già qui a
raccontarlo. Prendendo sul serio il significato
di tempo infinito, non ci dovremmo essere
mai! La soluzione è che il modello di
Universo emergente ci sta dicendo che
l’Universo esiste sì da un tempo infinito,
e più guardiamo indietro nel tempo, più
somiglia alla superficie calma di un lago; ma
per quanto indietro riusciamo a guardare,
l’immagine di una superficie perfettamente
liscia non ci apparirà mai: sarà sempre come
un orizzonte, il limite di una successione di
immagini che sono l’una
più nel passato rispetto
all’altra. Così, se per il
Big Bang l’origine è un
confine del tempo, qui ne
è l’eterno orizzonte del
passato.
I
cambiamenti
del
significato abituale delle
parole giocano un ruolo
nella formulazione di idee
alternative, tanto quanto
lo giocano le nuove
scoperte. In un futuro
che non sembra più
tanto lontano potremmo
assistere alla scoperta
di una nuova particella,
o alla modificazione della teoria di Einstein,
così come quella di Einstein aveva modificato
la teoria della gravitazione di Newton. E chi sa
che queste novità non ci facciano raccontare,
citando ancora le parole di Qfwfq, una nuova
cosmogonia di “tutto il materiale che sarebbe
poi servito a formare l’universo, smontato
e concentrato in maniera che non riuscivi
a riconoscere quel che in seguito sarebbe
andato a far parte dell’astronomia (come la
nebulosa d’Andromeda) da quel che era
destinato alla geografia (per esempio i Vosgi)
o alla chimica (come certi isotopi del berillio).”
Forse è un bene che non impariamo tutto
da subito. Forse dobbiamo apprezzare
molto la nostra ignoranza, al pari degli
sforzi che facciamo per colmarla; e anche
9
La Scienza coltiva
la prospettiva
materialistica di
un mondo che
basta a se stesso.
Ma più ancora,
la conoscenza
scientifica è molto
provvisoria
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
TiConZero
la provvisorietà della conoscenza, che ci fa
compiere previsioni sbagliate. Così abbiamo
l’opportunità di esplorare mondi possibili, che
magari non sono reali, ma ci raccontano storie
interessanti che altrimenti non avremmo
avuto l’opportunità di ascoltare. Questo
Feb. 2017
vale anche per mio cugino, che oramai avrà
imparato che si nasce e si muore, ma che
nell’ignoranza della sua infanzia mi raccontò
una non meno affascinante storia del ciclo
della vita.
[1] Un concetto primitivo è un concetto che, per la sua semplicità, non può essere definito mediante altri concetti già noti, ma che si
descrive indirettamente attraverso le sue relazioni con altri concetti. Nella geometria euclidea sono concetti primitivi il punto, la retta e il
piano.
[2] Per essere più precisi, le equazioni ci rispondono che si espanderà o che si contrarrà, ed entrambi gli scenari sono ammessi. Per
risolvere l’ambiguità della soluzione, dobbiamo aggiungere il dato empirico che oggi osserviamo che l’Universo si espande.
BIBLIOGRAFIA PARZIALE:
Teoria del Big Bang e alcune possibili alternative:
•
S. W. Hawking, Dal big Bang ai buchi neri
•
C. Rovelli, Sette brevi lezioni di Fisica
•
R. Penrose, La strada che porta alla realtà
Universo emergente:
•
Ellis, George FR, and Roy Maartens. “The emergent universe: Inflationary cosmology with no singularity.” Classical and
Quantum Gravity 21.1 (2003): 223.
L’alternativo
Il movimento Città in Transizione
nato un
Kofi per L’Opinabile
o e del riscaldamento globale, è
roli
pet
del
co
pic
del
e
ion
taz
sta
Di fronte alla con
ietà a sopportare le
di resilienza : la capacità di una soc
tivo
trut
cos
e
vo
atti
,
ivo
lett
col
so
aginario
proces
itano a riconquistare il nostro imm
inv
”
ale
loc
re
agi
e,
bal
glo
re
nsa
crisi. Con il motto “pe
permettere di
Questo pensiero globale dovrebbe
te.
cre
con
oni
azi
le
del
rso
ave
collettivo attr
ali e politiche.
ti individuali e/o a delle istanze leg
ges
dei
a
e
ion
l’az
più
e
itar
lim
non
Il movimento Transition Town è nato in Gran Bretagna nel 2006, nella cittadina di Totnes
(8000 anime). Si ispira ai corsi di sostenibilità applicata dell’insegnante di permacultura
Rob Hopkins, che iniziò il modello di Transition con i suoi studenti in Irlanda. Questo
movimento apolitico di appena 10 anni è federativo, e si trovano ormai migliaia di iniziative
cittadine e collettive in 50 paesi del mondo. (Transition Network).
Così, dei cittadini si riuniscono in
assemblea e decidono insieme, con
l’aiuto di animazioni
ludiche, sulla loro volontà di azione
. I risultati sono vari e particolarm
ente incoraggianti : per
esempio la creazione e intrattenim
ento di migliaia di orti condivisi, gru
ppi di compravendita,
diverse monete locali, spazi di sca
mbio di beni di prima necessità, ser
vizi, riciclo e riutilizzo.
Oltre a sostenere e valorizzare
i lavoratori locali e le loro associ
azi
oni, favoriscono la
convergenza delle iniziative dal bas
so con le azioni del potere pubblic
o sul territorio. Ecco
come a partire da un modello isp
irato alla permacultura, si arriva
a delle sperimentazioni
multiple in cui dei collettivi di cittadi
ni decidono e agiscono per e da
se stessi.
e troppo tardi; se agiamo individualmente, sarà
«Se aspettiamo il governo, sarà troppo poco
li, forse sarà abbastanza, e forse in tempo.»
troppo poco; se agiamo in quanto comunità loca
10
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Orienta-mentis
di Renata Gravina
Geografia e geopolitica russa
La geografia, disciplina quasi abbandonata in favore di un rinnovato
interesse per la geopolitica è tuttavia il punto di partenza pivotale
per un discernimento tra le componenti che insieme compongono il
comportamento del del territorio e della comunità. Esso è la cifra per la
comprensione dei grandi temi globali. Ciò sembra valevole per la Russia,
così come per l’Europa
La geografia umana quale scienza che studia
il territorio e la relazione che su di esso hanno
le comunità è una chiave per comprendere
la complessità della geografia politica della
Russia e naturalmente dell’Europa che con
essa ha avuto una continua relazione di
scontro dialettico.
Secondo Massimo Cacciari non è possibile
considerare l’Europa senza il confronto di
essa con la vicina Russia. L’idea che esse
si sono costruite di sè si è infatti forgiata
dall’autoalimentazione del confronto con l’Altro.
Già Carl Schmitt considerava l’iconografia
regionale di uno studioso e metodologo di
geografia politica, Jean Gottmann , quale
chiave di lettura nell’ambito del dialogoscontro tra Oriente e Occidente. In sostanza
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
l’iconografia regionale, concetto secondo il
quale la differenziazione socio-culturale che
separa le popolazioni tra di loro si stratifica
nel tempo e costituisce un regionalismo
sia fisico che mentale, sarebbe applicabile
a tutte le regioni del mondo e sarebbe
particolarmente profonda in alcune, come
quella russa. Se il nodo gordiano di Carl
Schmitt equivale alla contrapposizione tra
due atteggiamenti umani fondamentali: da
un lato l’ermetismo, l’arcano, la magia, la
sacralità del sapere e del potere; dall’altro
lo spirito libero, la circolazione delle idee, la
mobilità, un potere temperato dalla ragione
e dal diritto, a questa visione “polare”
Schmitt oppone una concezione dialettica.
Nell’ambito di tale dialettica, la categoria di
ORIENTA-MENTIS
iconografia regionale gottmaniana appare
sostitutiva del concetto polarizzato di
ideologia. Il fattore psicologico o iconografico, sistema
di simboli vari nei quali la popolazione crede è
il fattore più resistente ai cambiamenti, poiché
è determinato da una mistica del legame
comunitario. Spesso le differenti comunità si
distinguono per i valori in cui credono e per
come designano le diverse iconografie (nel
caso della Russia in particolare, i conflitti
locali erano storicamente risolti sotto l’egida
delle icone).
Il fattore psicologico sembra essenziale per
la comprensione della compartimentazione
del mondo, l’iconografia è infatti la
somma delle credenze, dei simboli, delle
immagini
desiderate
che rappresentano la
comunità
stessa.
La
definizione, per antitesi
con l’Altro, si basa sulla
esclusione
di
coloro
che non si riconoscono
in tale sistema. Infatti i
simboli costitutivi della
iconografia appartengono
a tre ambiti essenziali: la
religione, il passato politico
inteso come memoria, e
l’organizzazione sociale.
Così per contrapposizione
all’Altro diverso da se’ e
rafforzamento dei legami
interni alla comunità si formano i regionalismi,
così come le minoranze etniche o etno-regionali.
Tale ragionamento è facilmente mutuabile
dagli scritti di pensiero politico di CharlesLouis de Secondat di Montesquieu che
già evidenziava una costante attenzione
all’influenza di fattori fisici sul comportamento
dell’uomo e sui fenomeni politici. Secondo
Montesquieu il comportamento dell’uomo
è determinato da una molteplicità di cause
differenti e dal modo in cui esse interagiscono
tra loro. Tuttavia, l’infinita varietà di cause è
riconducibile a due categorie principali: quelle
“fisiche” e quelle “morali”. È interessante
sottolineare che, per Montesquieu, alcuni
comportamenti politici sono determinati
dall’interazione tra fenomeni fisici e culturali
che si presentano in un preciso territorio.
L’interazione di queste due cause produce
12
Feb. 2017
quello spirito generale di un popolo. Tale
idea è ripresa dalla geografia gottmaniana
che attribuisce i caratteri distintivi di un
territorio alle peculiarità culturali molto più
che all’ambiente geografico naturale.
Per quanto riguarda l’impero russo, in
tutta la sua storia il punto critico e fattore
strategico è stato rappresentato dal fattore
fisico, inteso come grande spazio e come
natura selvaggia. Il territorio vasto, isolato,
desertico, caratterizzato dal predominio
della foresta e della steppa ha determinato
al contempo la chiusura forzata e la salvezza
della popolazione russa.
Durante gli stadi della storia e della civiltà russa
secondo Gottmann il delinearsi del perenne
pericolo di un attacco esterno ha modificato la
forma mentis della Russia.
Il dibattito e divergenza
geopolitica e geoculturale
che si è consumata tra
Russia ed Europa tra
Ottocento e Novecento
ha avuto diverse matrici
autoalimentatesi
anche
grazie
agli
stereotipi
culturali e politici, stereotipi
che hanno forgiato le menti
della comunità.
La Russia ha osservato a
esempio con apprensione
la costante espansione
dell’impero
britannico
nell’Asia
meridionale,
avvenuta con il grande gioco ottocentesco.
Gli stessi stereotipi che hanno agito in Europa
forgiando la genealogia della russofobia,
hanno agito anche in Russia, laddove essa
ha modificato la propria politica estera nelle
diverse fasi della storia.
Due caratteri peculiari della politica estera
russa che hanno riflesso le iconografie
interne sono stati il panslavismo e
l’eurasismo, infatti il panslavismo ha riflettuto
i caratteri culturali e iconografici slavi, mentre
l’eurasismo quelli asiatici. Il panslavismo si
è originato dalle idee di Nicolaj Danilevskij
del XIX secolo ed è stato proiettato verso
una unione di tutti i popoli slavi sotto l’egida
russa. La distruzione di Bisanzio, coeva alla
liberazione della Russia dal giogo tartaro
ha condotto in seguito alla formulazione
dell’idea di Mosca come terza Roma, erede
Gli stessi
stereotipi che
hanno agito in
Europa forgiando
la genealogia
della russofobia,
hanno agito
anche in Russia
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
ORIENTA-MENTIS
della sacralità cristiana e unica superstite
delle distruzioni scismatica e ottomana. La
funzione messianica della Russia è stata
metabolizzata quale idea iconograficofideistica propria dei russi. Il paesaggio
russo si è dunque configurato attraverso
l’espansionismo generatosi a partire dalla
Moscova e dall’autorappresentazione di
culla della cristianità in contrapposizione alla
secolarizzazione dell’Europa- Occidente.
L’eurasismo di Vernadskij è stato invece
l’approdo ultimo del retaggio mongolo della
espansione nell’Asia centrale, unico modo
per affermare il prestigio russo nei confronti
dell’impero britannico dopo la guerra di
Crimea. Nel XX secolo alla tendenza
eurasista di Vernadskij è stato un esodo
verso oriente, caratteristico dell’asiatismo
imperialistico e manifesto di una nuova idea
dello spazio russo che si è spostato dall’unità
slava al recupero del retaggio mongolo.
Poiché l’espansionismo russo e il declino
europeo hanno convissuto, secondo Albert
Demangeon il paesaggio europeo ‘civilizzato’
è declinato allorquando è passato dall’unità
alla pluralità, dalle economie nazionali
all’economia degli altri popoli, secondo una
tendenza che in definitiva ha condotto alla
sostituzione della vecchia Europa dal suo
ruolo universale.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
I geografi umani che avevano percepito
le intuizioni di Alexis de Tocqueville erano
arrivati a preconizzare la conquista dello
spazio da Est a Ovest e l’oscuramento
dell’Europa dalla propria posizione d’impero,
iniziato dopo il 1815. L’Europa in sostanza
covava già in sè il germe del suo declino,
una inversione della gerarchia di potere
determinata dalla mancanza [1] nello spazio
fisico delle risorse necessarie agli europei.
Il cambio continuo nell’organizzazione
degli spazi aveva determinato infatti una
ripartizione delle risorse monca. Secondo
tale
reinterpretazione,
l’oscuramento
dell’Europa- Occidente e l’emersione della
Russia- Oriente sono state semplicemente
coeve ma nessuna ha fagocitato l’altra.
Secondo Gottmann il declino dell’Europa
non si è configurato semplicemente verso
un futuro a Oriente bensì verso una somma
di pluralità che di volta in volta si sono
costituite e si costituiranno e sfalderanno
sempre seguendo il movimento di fissità e
circolazione, il nodo di gordio si lega e si
scioglie inevitabilmente.
[1] V. T. R. Malthus, Essay on the principle of
population. 1= London, John Murray, C Roworth,
1826
13
SOCIAL O SON DESTO?
di Marco Meloni
Trolling in the deep? I nuovi
meccanismi di ascesa social
Viviamo in una realtà social(e) in cui si è più famosi per le cose negative che
dicono su di noi piuttosto che per quelle positive. Imparare a difendersi, o
a sfruttare questa “pubblicità” diviene quindi fondamentale per non farsi
travolgere e, allo stesso tempo, emergere dalle ceneri del trolling come
moderne fenici.
Siete famosi sui social? Siete in grado di
mobilitare folle oceaniche per un vostro
evento? Ogni vostro status, post o foto del gatto
raggiunge rapidamente i 500 like? Vuol dire poco
o nulla. Si, certo, come nell’episodio Nosedive
di Black Mirror, il vostro punteggio va dalle 4
alle 5 stelle, e anonimi non siete. Ma quello che
distingue una vera celebrità online da qualcuno
belloccio o con un bel sorriso sono gli haters.
Persone che qualsiasi cosa diciate, facciate o
condividiate dovranno sputare odio, cattiverie
gratuite, negatività sul vostro conto. Quelli che
non lasceranno in pace nemmeno una foto di voi
bimbi a cavallo di un pony, quelli che se siete
troppo magri vi definiranno anoressici o se siete
in carne degli obesi. Quelli che dovranno sempre
e comunque rompere. Peggio degli zampognari
a Natale o degli amici che vi iniziano a chiedere
del Capodanno il 15 agosto.
Partiamo da una precisazione obbligatoria:
il trolling spietato può avere conseguenze
devastanti su persone fragili o che sentono il
peso di quest’astio nei loro confronti. Nessuno,
certamente, dovrebbe perciò subire questo tipo
di violenza mediatica laddove sorga spontanea,
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
non richiesta, incontrollata. Ci sono tuttavia delle
persone che sono riuscite ad accettare questi
insulti come un rovescio della medaglia della
fama, e hanno saputo trarne beneficio e una
potenzialità. Oscar Wilde sosteneva non fosse
importante come si parlava di qualcosa, ma che
se ne parlasse sempre e comunque. Questo,
nei social media, è molto vero. E se qualcuno sa
sfruttare al meglio l’onda d’urto degli haters, può
fare di essi il suo successo.
Il discorso ha diverse declinazioni, tutte interessanti.
Il confine esistente fra bene e male, infatti, è
oggi più risicato che mai: una persona passa
rapidamente dagli insulti alla fama, dalla
galera alle serate in discoteca, dal dileggio alla
consacrazione. Lungi da me celebrare persone
che hanno commesso reati e che hanno poi
trasformato la loro fama in un business, ma
esistono delle zone grigie in cui troviamo
personaggi “scomodi”, polemici, per qualsiasi
motivo invisi a parte della comunità social(e) che
possono e devono trarre il massimo vantaggio
da commenti astiosi o dalla presa in giro nei
loro confronti. Il successo, in una società basata
su indici quantitativi, ha poco a che fare con la
Feb. 2017
SOCIAL O SON DESTO?
qualità di ciò che si analizza.
Pensiamo alla riscoperta di alcuni programmi
storici, reality, trasmissioni date per morte e oggi
in grande ripresa di ascolti. La loro fortuna non è
nell’innovazione, o nel fatto che qualcuno si ritrovi
ancora nel loro contenuto. In realtà, pensando
a Sanremo, mia madre lo guarda ancora per i
vestiti e le canzoni di Massimo Ranieri. Ma lei
fa parte di una sparuta minoranza, come coloro
che al mare usano il pantaloncino al ginocchio o
bevono il succo di pomodoro a colazione.
Quello che oggi garantisce a questi programmi
una nuova linfa vitale è la
costruzione di un linguaggio
parallelo, una sorta di metatrasmissione che viaggia
su
Twitter,
Facebook,
Whatsapp, in cui gli utenti
reinterpretano, dileggiano,
trasformano il contenuto che
osservano. Essenzialmente
odiano ciò che vedono, lo
demoliscono ma per avere
argomentazioni
devono
seguirlo,
appassionarsi,
alzare lo share. Ecco così
che gli autori chiudono
uno o entrambi gli occhi
su ciò che passa su questi
mezzi, decidendo financo
di alimentare polemiche e
tweet al vetriolo. In una sala
da pranzo virtuale si torna a
discutere delle trasmissioni,
a dare voti o preferenze,
questa volta, però, in buona
parte scontenti di ciò che si
sta vedendo. Il divertimento
nasce dalla condivisione
della negatività, dal sentirsi
parte di una comunità più intelligente che irride
l’uomo medio e le sue miserie. Non rendendosi
conto pienamente che questo atto di superiorità,
in realtà, alimenta proprio ciò che si sta
demolendo.
Molto diverso, almeno in apparenza, è il discorso
degli haters dei singoli personaggi pubblici.
Giornalisti, opinionisti, “vip” presenti sui social
che sono attaccati in ogni modo, per ogni azione
compiuta, senza nessuna vera capacità analitica
e più per la voglia di generare polemica.
Illogico come la maionese dietetica rimane,
ad esempio, lo scandalo del povero Gianni
Morandi. Un artista di grande caratura morale
che deve giustificarsi e chiedere scusa di fronte
a commenti volgari e pesanti di chi lo accusa di
non solidarizzare con i lavoratori sfruttati degli
ipermercati e con, badate bene, il proletariato,
una categoria in estinzione quasi più dello yogurt
non cremoso al supermercato. Il suo peccato?
Una foto sui social mentre faceva spesa di domenica
per aiutare la moglie nelle commissioni domestiche.
Chi ormai, anche a suon di cause, ha da tempo
imparato a convivere con gli haters è Selvaggia
Lucarelli. Giornalista de Il Fatto Quotidiano,
spesso la Lucarelli cavalca la polemica sui
temi d’attualità, esprimendo giudizi molto netti
e precisi. Quello che stordisce è però la qualità
dei commenti negativi che riceve, in larghissima
maggioranza non generati
dal tema della discussione
ma basati su un attacco
personale. Ecco così che,
parlando di politica, si
deride la donna per il suo
seno prosperoso, le si
dà della meretrice, o la si
critica come madre, donna,
giornalista. Se va all’estero
e dice che ama il paese in
cui si trova è una ingrata, se
lo critica è una razzista; se
fotografa il figlio lo espone
alla rete (forse l’unica critica
che mi sento in parte di
condividere), se non lo fa è
una madre che si vergogna di
esserlo; Se sta con un uomo
famoso è una arrampicatrice
sociale, se ha un compagno
qualunque ma più giovane
è una virago alla ricerca di
carne fresca. Ogni post riceve
qualche centinaio di migliaia
di reazioni e commenti, di cui
molti inutilmente aggressivi. La
Lucarelli va avanti, ad alcuni
risponde, altri li chiama dalla radio per vedere come
reagiscono nella realtà, qualcuno lo denuncia pure
nei casi più gravi, leggasi autorità o persone con ruoli
istituzionali.
Questi evidenziati non sono che piccoli esempi di
un fenomeno sempre più ampio e complesso. La
già citata Black Mirror, ma anche South Park e
persino i Simpson hanno iniziato a preoccuparsi
di questa aggressività ormai sempre più
manifesta della rete. Che non filtra emozioni
o pareri ma li moltiplica, rafforzandoli. Anche
quando sono scorretti, insolenti, menzogneri.
Si può, in sostanza avere quindi un duplice
atteggiamento: o si combatte questo approccio
ai media, ma è una difficile battaglia, quasi
come il voler abbattere la muraglia cinese con
un cucchiaino di plastica o lo si gestisce, si
Il confine
esistente fra bene
e male, infatti, è
oggi più risicato
che mai: una
persona passa
rapidamente
dagli insulti alla
fama, dalla galera
alle serate in
discoteca, dal
dileggio alla
consacrazione
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
15
SOCIAL O SON DESTO?
cavalca e, in caso, comanda. Senza scatenare
odio verso altri ma gestendo quello che si riversa
nei nostri confronti. Non più famosi per 100 like
alla foto del matrimonio di nostra sorella ma per
i quindici milioni di insulti sotto il nostro video di
Feb. 2017
Youtube contro la cucina italiana. Sponsorizzati
presto da una catena di fast food americani o
ristoranti giapponesi.
Grano Salis
La stroncatura, la pasta gourmet dei poveri
di Elisa Ceccuzzi
“Non si butta via niente” è stato ciò che ha contraddistinto
l’economia dell’Italia del dopoguerra, quando non c’era
la tv nelle case e quando ancora si soffriva la fame.
L’economia moderna del benessere ha poi modificato
la situazione, di fatto facendo venir meno la necessità
di quelle che erano antiche abitudini, attualmente
soppiantate da processi industriali che hanno reso
possibile produrre di più e a minor costo quanto
necessario al fabbisogno alimentare di ogni paese.
A raccontarla oggi sembra quasi assurda la storia della
stroncantura, antica pasta di origine calabra e più nello
specifico della Piana di Gioia Tauro, come assurda era
la fame dei contadini calabresi. Per fare la stroncatura
infatti si raccoglieva con una scopa quanto cadeva
a terra all’interno del mulino dopo la fase di molitura
dei cereali, tra: crusca, farina e residui rimasti di ogni
genere. La farina andava al signore, e con gli scarti
veniva fatta la pasta dei poveri, dal gusto acido, dal
colore scuro, densa e ruvida.
Produrre questa stroncatura oggi, per ovvie ragioni igienico sanitarie è vietato, anche
se qualche bottega della provincia di Reggio Calabria e dintorni la commercia, di fatto di
contrabbando, giurando di avere ancora quella originale.
Dall’altro lato si trova comunque in tutta la regione una pasta, di solito di formato lungo,
chiamata stroncatura e prodotta con crusca segale e cereali integrali ricreando quella pasta
ruvida e porosa, dal gusto rustico che trattiene bene il condimento.
Ogni anno a Palmi si svolge la sagra che la celebra, ogni anno si ricorda che questo tipo
preparazione nasce proprio in questa zona perché centro nevralgico degli scambi commerciali,
con l’antico porto, quello di Gioia Tauro. Porto che ha visto gli amalfitani portare fin qui la
tecnica di lavorazione del grano e dell’essiccazione della pasta, merito dei calabresi poi
aver creato una pasta di prima e di seconda scelta, quest’ultima si rivela oggi quasi
più ricercata della prima.
Con quali condimenti abbinare questa pasta asciutta? Principe rimane l’abbinamento
territoriale, un ottimo olio extravergine cultivar Grossa di Cassano, 4 alici di Cetara in onore
alla sua origine, briciole di pane tostato ai semi di finocchio di Serra San Bruno.
16
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Il Mitologo
di Gerardo Iandoli
Don Chisciotte a caccia di fantasmi
L’uomo, per sua natura, non ha la possibilità che banali mulini a vento. Nell’avventura
di accedere direttamente all’oggetto: c’è che vi sto narrando, non accade che questo:
sempre una patina che avvolge tutto ciò che il Don, ancora una volta, «si rappresentò
vediamo, indipendentemente dalle nostre vivamente nell’immaginazione che quella
capacità analitiche. Lo studio, soprattutto fosse una delle avventure dei suoi libri» [3] e
quello scientifico e critico, possono aiutare a per questo «si figurò che la lettiga fosse una
rendere questa patina sempre più sottile, ma barella in cui doveva esservi un cavaliere
non ci sarà mai la possibilità di toglierla del ucciso o gravemente ferito, la cui vendetta
tutto. E forse è proprio questo a rendere la vita spettava a lui» [4].
Nel capolavoro di Cervantes i termini legati
umana così interessante: c’è sempre un livello
immaginifico, frutto di esperienze, racconti, al campo semantico della ‘visione’ sono
credenze, superstizioni o pregiudizi, che andrà innumerevoli, basta scorrere le brevi citazioni
ad ampliare la nostra visione diretta delle cose. che fin qui vi ho riportato: “rappresentò”,
Compito di questa rubrica è proprio quello “immaginazione”, “figurò”. Più precisamente,
di mostrare come, in ogni nostro sguardo, si il Don Chisciotte è un romanzo dalla visione
annidi un elemento che ‘straborda’ dall’oggetto alterata, tant’è che Sancio Panza, parlando
osservato, elemento figlio di un’intimità tutta proprio della scena appena descritta, la
personale e umana. Per poter rappresentare definirà «un’avventura di fantasmi» [5]. E
tutto ciò, un passaggio del Don Chisciotte di che cos’è un fantasma, se non la presenza
visiva di un qualcosa di immateriale? Di fatto,
Cervantes è particolarmente illuminante.
è un ossimoro: il fantasma
Nel primo libro, infatti,
manca
di
sostanza,
il Don e Sancio Panza
Il
nostro
cervello
è
eppure è presente: lo si
si ritrovano, una volta
vede, ma nel momento in
proprio come quello
«scesa la notte piuttosto
cui lo si prova a toccare,
buia» [1], di fronte a «una
di Don Chisciotte:
esso sfugge.
ventina di incamiciati, tutti
non
importa
quanto
Il fantasma è qualcosa di
a cavallo, con le torce
assurdo solo se si crede
sia buio, quanto siano
accese in mano, dietro i
che la visione non sia altro
quali veniva un cataletto
lontane le figure che
che la contemplazione
ricoperto a lutto» [2]. Come
ci
interessano,
quanti
di ciò che è, come se
molti lettori sapranno,
l’altro da noi ci apparisse
ostacoli siano posti
il Don Chisciotte è il
sempre nitido e chiaro
racconto delle avventure
tra di noi e la nostra
nelle sue forme. In realtà,
di un uomo che crede
visione:
la
nostra
mente
ogni nostro atto visivo è
di vivere all’interno di
già esso stesso un atto
cercherà sempre di
un mondo retto dalle
regole della cavalleria,
fornirci una storia che di credenza e, come
sostiene
Wittgenstein,
come esse appaiono nei
completi
il
quadro
l’espressione “io credo”
romanzi. Questo condurrà
«illumina il mio stato.
il Don a girovagare alla
ricerca di avventure, scontrandosi però con Da quest’espressione si possono trarre
una realtà molto meno fantastica e poetica conclusioni sul mio comportamento» [6].
di quella che egli si prefigura nella mente: Infatti, nonostante il buio della notte, Don
allora, temibilissimi giganti non saranno altro Chisciotte non rinuncia a vedere: e se i suoi
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
IL MITOLOGO
stessi occhi non sono capaci di mostrargli
per intero quanto gli si trova davanti, la sua
mente completa con i dati disponibili quanto
è presente: quindi il cataletto diviene la lettiga
di un cavaliere ucciso. Alla luce di ciò, si può
dire che l’atto della visione non ci fornisce
informazioni soltanto su ciò che si vede, su
ciò che è esterno, ma anche su ciò che è
il nostro stato, il nostro comportamento. Il
fantasma è ciò che resta della visione se
a questa eliminiamo la sostanza, poiché
non ci ritroveremo di fronte al nulla, anzi:
avremo sempre la nostra pura credenza,
quell’elemento immaginifico che appartiene
e deriva da noi indipendentemente da ciò
che esterno. Infatti,
il
neuroscienziato
Gazzaniga, grazie ai suoi esperimenti,
ha mostrato come nel nostro cervello sia
presente una struttura, chiamata ‘interprete’,
che si occupa di collegare i fatti tra di loro
attraverso un nesso causale: il problema
è che questa struttura va alla ricerca di
collegamenti in maniera così decisa, che,
a volte, in mancanza di dati sufficienti,
non rinuncia al proprio lavoro e per questo
improvvisa. Tale scoperta è stata possibile
grazie agli studi effettuati su pazienti splitbrain, cioè persone affette da una grave
forme di epilessia che sono state curate
grazie alla recisione di un nervo che collega
i due emisferi del cervello. Apparentemente
non sembrano subire disturbi dal punto
di vista cognitivo, anche se i due emisferi,
internamente, non possono più scambiarsi
informazioni: poco grave, poiché esistono
sempre le vie esterne (come il linguaggio e
la visione) che permettono ai due emisferi di
comunicare. Ma, se anche questa via viene
ostacolata, accadono cose interessanti. Di
seguito Gazzaniga ci fornisce un curioso
racconto di un esperimento che ci può
aiutare a capire come sia stata teorizzata la
presenza dell’ ‘interprete’ nel nostro cervello:
18
Feb. 2017
Abbiamo mostrato a un paziente split-brain
due immagini: una zampa di gallina al suo
campo visivo destro, così che l’emisfero
sinistro vedesse soltanto l’immagine della
zampa, e un paesaggio innevato al campo
visivo di sinistra, in modo che l’emisfero
destro vedesse solo quest’ultimo. Gli
abbiamo poi chiesto di scegliere tra una
serie di immagini poste centralmente di
fronte a lui, in modo cioè che fossero visibili
entrambi gli emisferi. La mano sinistra ha
indicato una pala (la scelta più appropriata
per un paesaggio innevato), la mano destra
una gallina (la scelta più appropriata per una
zampa). Abbiamo poi domandato perché
avesse scelto quelle immagini. Il suo centro
del linguaggio nell’emisfero sinistro ci ha
risposto: “Ah è semplice. La zampa di gallina
va con la gallina”, spiegando così ciò che
sapeva. Poi, guardando la sua mano sinistra
che indicava la pala, senza battere ciglio ha
aggiunto: “Be’, e poi ci vuole una pala per
pulire il pollaio”. Istantaneamente il cervello
di sinistra, osservando la risposta in modo
coerente con ciò che conosceva, e tutto
ciò che conosceva era: “zampa di gallina”.
Non sapeva nulla del paesaggio innevato,
ma doveva spiegare la pala nella sua mano
sinistra. [7]
Il nostro cervello è proprio come quello
di Don Chisciotte: non importa quanto sia
buio, quanto siano lontane le figure che ci
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
IL MITOLOGO
interessano, quanti ostacoli siano posti tra
di noi e la nostra visione: la nostra mente
cercherà sempre di fornirci una storia che
completi il quadro, andando a pescare le
informazioni anche tra i nostri ricordi e le nostre
convinzioni, al di là del mero fatto contingente.
Don Chisciotte, allora, interpretando il mondo
secondo quello dei poemi cavallereschi, vedrà
in quegli uomini una processione funebre di
un eroico cavaliere.
Ma il racconto va avanti, infatti il folle
hidalgo si scaraventa sugli uomini, convinto di
vendicare così la morte di quell’eroe. I presenti,
spaventati, scappano poiché «tutti pensarono
che quello non era un uomo, ma un diavolo
dell’inferno, uscito a strappar loro la morta
salma che nel cataletto portavano» [8].
A mio parere, è questa ultima immagine a
rendere tale vicenda, di per sé di poco conto,
ricca di significato: infatti, l’intero romanzo si
basa sulla dicotomia in cui il Don è pazzo,
mentre gli altri sono i sani. Quindi, da una
parte c’è il mondo cavalleresco, dall’altra il
forte realismo delle bassezze quotidiane
trasfigurate dal povero Don. Eppure, questo
non significa che solo l’hidalgo interpreti
la realtà sulla base dei miti, poiché anche
i restanti lo fanno: lo si è visto, gli uomini
della processione funebre scappano perché,
nel buio, interpretano quello che vedono
secondo la propria mitologia cristiana: Don
Chisciotte è un diavolo, quindi è meglio
mettersi in salvo da un simbolo estremo
della paura.
Alla fine, questo racconto sembra dirci
proprio questo: la follia di Don Chisciotte è
tale perché la mitologia a cui fa riferimento
appartiene a una nicchia ed è meno
condivisa, mentre le mitologie largamente
diffuse, affermandosi come norma, perdono
il loro statuto di ‘fantasma’ per fondersi col
reale. Ma ciò non le realizza, semplicemente
le rende dei pregiudizi: cioè una conoscenza
che viene prima dell’atto del giudicare, che
è possibile solo analizzando i fatti. Compito
della mia rubrica, quindi, sarà quello di
analizzare non solo i fantasmi più spaventosi,
ma anche quelli più docili, che ormai fanno
parte della nostra vita quotidiana. Non per
scacciarli, ma per accorgersi della loro
presenza e per imparare a comunicare con
loro, senza doverne subire la presenza in
modo passivo.
[1] Miguel de Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha (1605), trad. it. Don Chisciotte della Mancia, Torino, Einaudi,
1994, p. 176.
[2] Ivi, p. 177.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 176.
[6] Ludwig Wittgenstein, Philosophisce Untersuchungen (1953), trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999, p. 252.
[7] Michael Gazzaniga, Who’s in Charge? (2012), trad. it. Chi comanda? Torino, Codice Edizione, 2013, pp. 86-87.
[8] Cervantes, Don Chisciotte, cit. p. 178.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
19
IL MUZUNGU
di Marco Simoncelli
La macchina dell’estinzione
La fauna selvatica del continente africano è in gravissimo pericolo e
rischia di scomparire. Una delle principali cause di questo disastro
è rappresentata dalla grande filiera del bracconaggio e del traffico
internazionale di specie protette. La maggior parte degli strumenti per
debellarlo sono evidenti, altri sono eticamente controversi.
Siete nel futuro, all’incirca nel 2045. Siete
seduti sul divano e sul mega schermo
del vostro televisore viene proiettato un
documentario sui rinoceronti e le giraffe nei
parchi africani, mentre vostro figlio, seduto lì
accanto, si diverte con gli ologrammi di leoni
ed elefanti. Poi il bambino al vostro fianco
vi pone delle domande piene di curiosità:
“Ma quanto era grande un elefante? Un
leone poteva attaccare un branco di bufali?
Esisteva un animale più veloce del ghepardo?
Ci sono ancora i gorilla di montagna?” e
cosi via. Voi rispondete incerti e malinconici.
Provate una strana sensazione perché vi
sembra di parlare di antichi dinosauri, ma in
realtà avete bene in mente di cosa si tratta.
Magari li avete visti allo zoo, o siete tra i
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
pochi fortunati che li ha osservati in libertà.
Siete vissuti nella loro stessa era, anche se
per poco. Solo che ora non ci sono più. Sono
estinti.
Il 2016 è stato un anno drammatico per la
fauna africana. La popolazione di elefanti
è in picchiata per via del traffico di avorio:
l’anno scorso ne sono stati uccisi 35mila
e in 7 anni i pachidermi sono diminuiti del
30% (150mila esemplari) secondo il Great
Elephant Census. In pratica, un elefante ogni
15 minuti. Stesso dramma per i rinoceronti,
il cui numero è crollato del 97,7% dalla fine
degli anni 60 (ne restano 29.500) e per altri
mammiferi, tra cui leoni (popolazione scesa
del 85%) e zebre di Grévy (ne resterebbero
solo 2000 esemplari secondo l’African
Feb. 2017
IL MUZUNGU
Wildlife Foundation. Il gorilla di montagna soprattutto Vietnam e Repubblica popolare
è ormai da tempo reputato in situazione cinese, viene ridotto in polvere e utilizzato
“critica”, infatti ne restano poco meno di 900. come ingrediente di miracolose cure
L’8 dicembre l’Unione Internazionale per per il cancro, l’impotenza, l’influenza o
la conservazione della Natura (IUCN) ha semplicemente i postumi da sbornia. Senza
classificato anche la giraffa come specie alcun fondamento medico-scientifico, visto
vulnerabile, con una popolazione che infatti che il corno è composto di cheratina, la
è scesa dai 155mila individui del 1985 ai stessa sostanza di cui sono fatte le nostre
97mila del 2015 (un calo del 40%), mentre unghie e i nostri capelli. Altri animali ,
pochi giorni dopo la Zoological Society di come i grandi felini , le giraffe o i gorilla di
Londra (ZSL) denuncia la presenza di soli montagna, interessano i cacciatori di frodo
7.100 ghepardi rispetto ai 14 mila del 1975. per le pellicce, per alcuni organi utilizzati
I ricercatori della Zsl hanno chiesto all’Iucn nei riti religiosi (ad esempio la coda della
inserire questo splendido e velocissimo giraffa), oppure come trofei.
felino fra le specie “in via d’estinzione”, Trattandosi di caccia e traffici illegali, il
anche perché il suo areale storico è ormai prezzo da pagare per averli è altissimo.
Ciononostante la domanda non manca
diminuito del 91%.
Le specie presenti nella lista rossa della (nel mercato nero sudafricano il corno di
rinoceronte bianco può valere
IUCN sono 8.688; il 72% di
fino a 6.500 dollari al chilo,
queste è “sovra-sfruttato”:
ma in quelli asiatici il valore
il loro tasso di eliminazione
all’ingrosso può essere dieci
non può essere compensato
volte più alto) e questo ha
dal tasso di riproduzione. A
fatto sviluppare una rete di
questo va aggiunto che la
contrabbando
mondiale.
fauna africana è minacciata
Parliamo
di
una
lunga
filiera,
dall’attività agricola e dai
che parte a livello locale ma
cambiamenti climatici. Un
è gestita e coordinata per lo
altro studio pubblicato lo
più dal crimine organizzato
scorso ottobre dai ricercatori
transnazionale. Il mercato
del Zsl assieme a quelli del
di specie protette rientra
Wwf ( ), ha affermato che il
nel sistema del crimine
numero di animali selvatici
secondo ZSL e WWF ambientale, una delle attività
diminuirà di 2/3 entro il 2020
più lucrative dopo il traffico
se non si farà qualcosa per
di droga e la tratta di esseri
invertire la rotta. Tra il 1970 e il 2012 c’è
umani. Come ha reso noto il rapporto “The
stato un crollo del 58%, e nei prossimi tre
Rise of Environmental Crime”, pubblicato
anni si potrebbe arrivare al 67%.
lo scorso 4 giugno dal Programma delle
Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) insieme
Perché si uccide?
all’Interpol, il giro d’affari si aggirerebbe tra i
La domanda arriva principalmente da 91 e i 258 miliardi di dollari, ed è aumentato
alcuni settori: moda, arte e gioielli, cibo e del 26% in rispetto al 2014. Di questo, i
medicamenti, cosmetici, profumi e forniture ricercatori stimano che tra i 3 e i 23 miliardi
per l’arredo. Il mercato è ricco e difficile da sarebbero ricavati solo dal commercio di
monitorare, specialmente se la merce è animali selvatici. I dati sulla media di crescita
destinata a paesi in cui la vendita è legale. del sono impressionanti. Il business illegale,
Solo un’analisi del DNA può svelarne la incluso il bracconaggio, nell’ultimo decennio,
provenienza. L’avorio degli elefanti è molto ha registrato una crescita annua del 6-7%.
richiesto dal mercato asiatico per creare L’enorme giro di denaro che ne deriva, viene
statuine, utensili e gioielli (la sola Cina in parte investito per finanziare gruppi ribelli e
assorbirebbe il 70% del mercato mondiale). reti terroristiche e in parte riciclato attraverso
Poi abbiamo il corno del rinoceronte che, investimenti in attività legali. Il rapporto inoltre
sempre nei Paesi del sudest asiatico, parla dell’aumento di quelli che definisce
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
21
il numero
di animali
selvatici
diminuirà di
2/3 entro il
2020
IL MUZUNGU
“crimini ambientali dei colletti bianchi”, in cui
si usano migliaia di società di comodo con
sede nei paradisi fiscali, per coprire il riciclo di
denaro sporco ed evasione fiscale.
Il sistema
Al di fuori delle aree protette è praticamente
impossibile trovare gli animali selvatici più
conosciuti e caratteristici, perché sono già
stati sterminati. I bracconieri devono dunque
penetrare illegalmente all’interno dei parchi
per trovare ciò che cercano. Coloro che
materialmente uccidono sono di solito dei
sicari locali organizzati in piccole formazioni
armate spesso dalle stesse reti criminali
commissionarie che si spostano con mezzi
Feb. 2017
elettriche.
Tutti questi prodotti passano poi attraverso
i principali porti dell’Africa orientale: Port
Sudan, Mogadiscio, Mombasa, Dar es
Salaam, Maputo etc. Infatti nonostante i
sequestri delle autorità siano aumentatati
negli ultimi anni, la maggior parte della
merce riesce comunque a passare, a causa
dell’impossibilità tecnica di controllare
centinaia di container e soprattutto per la
dilagante corruzione delle autorità portuali (un
problema diffusissimo in tutto il continente.
Ma quella dei container non è l’unica rotta
d’uscita utilizzata dal traffico. In molti casi la
merce viene condotta dai bracconieri sulle
disabitate coste del continente, messa su
piccole imbarcazioni e poi trasportata al largo,
in acque internazionali, dove ad attenderli ci
sono grosse imbarcazioni battenti bandiere
“asiatiche”, che completano il viaggio verso
le varie destinazioni finali. È un gioco
da ragazzi se pensate che non esiste
praticamente alcun controllo, poiché nessun
paese della costa orientale del continente
possiede una guardia costiera nemmeno
lontanamente adeguata allo scopo.
Villaggi e guardaparco
di trasporto rapido come motociclette.
Queste bande sono composte spesso da
giovani poveri e disoccupati appartenenti
alle comunità che vivono ai confini delle
riserve. Vengono preferiti i mitragliatori,
perché costano molto meno di un fucile da
caccia grossa, uccidono più velocemente e
non richiedono una buona mira. Ma ci sono
anche prove di utilizzo di lancia granate e
occhiali a infrarossi.
L’utilizzo di queste armi sempre più sofisticate
è devastante: per uccidere un esemplare
che si trova assieme al suo branco, questi
criminali sparano sventagliando a casaccio
nel gruppo, con la conseguenza che oltre a
uccidere l’animale scelto ne vengono feriti
mortalmente altri che muoiono altrove dopo
essere fuggiti. Si fa anche largo uso delle
classiche trappole artigianali in cui l’animale
muore dopo una lenta agonia (come cappi in
fil di ferro, tagliole in legno etc…) e le zanne
e i corni, nel caso di elefanti e rinoceronti,
vengono prelevati sul posto con seghe
22
Come si diceva più sopra, molto spesso sono i
membri delle comunità confinanti con i parchi
a far prosperare il bracconaggio. Questo è
un elemento drammatico e determinante.
La povertà e la mancanza di emancipazione
culturale portano la popolazione a
individuare in tale attività una facile fonte di
reddito. La maggior parte delle aree protette
in Africa non portano vantaggi diretti alle
comunità rurali perché le amministrazioni
statali non coinvolgono le popolazioni locali
in una strategia di sviluppo che garantisca
un indotto economico-lavorativo anche ai
villaggi che perdono territori in cui potevano
cacciare o coltivare. La tutela del patrimonio
faunistico non è vista come fonte di sviluppo,
ma come un ostacolo, un business che
arricchisce la solita minoranza lasciando i
poveri a bocca asciutta.
Aumentare il numero di aree protette
non serve senza un progetto sociale in
background e dei fondi adeguati. Come
raccontato dalla rivista Nigrizia in un recente
dossier, il numero delle aree protette è in
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
IL MUZUNGU
aumento, eppure diminuiscono le foreste
e la fauna. Tesi supportata anche dall’Iucn
secondo cui le aree protette nell’ultimo
decennio sono aumentate sia nel numero,
58% in più, sia nell’estensione +48%, ma solo
un’area su quattro è gestita correttamente.
Oltre alla popolazione locale, dietro il
traffico di animali ci sono le stesse guardie
che dovrebbero proteggerli. In molti casi le
guardie sono sottopagate e, in un continente
poverissimo, la tentazione di cedere alla
corruzione trova terreno fertile. Secondo
l’Ufficio Onu per Droga e Crimine (Undc) nel
suo studio “World Wildlife Crime Report”,
in cui viene tracciato un quadro generale
sui crimini contro le specie protette, questo
fenomeno è molto presente e addirittura in
aumento. Denunce si registrano in Camerun,
Tanzania, Sudafrica, Kenya, Zimbabwe,
Uganda e R.d.Congo.
Soluzioni controverse
Di recente sono emerse proposte giudicate come
possibili soluzioni al bracconaggio, ma contestate
dal mondo ambientalista che le considera
impraticabili, inutili o addirittura deleterie.
La prima riguarda il caso sudafricano degli
allevamenti di rinoceronti. A differenza delle
corna di molti animali, l’appendice di questi
animali non è fatta di osso ma di cheratina.
Quindi se tagliato adeguatamente, il corno
ricresce. Sono in molti dunque a ritenere che
se i rinoceronti venissero allevati allo scopo
di rimuovere e poi vendere legalmente i
loro corni, questo potrebbe ridurre se non
addirittura eliminare il bracconaggio grazie
al conseguente crollo dei prezzi nel mercato
nero. Per rendere quest’idea possibile
sarebbe però necessario legalizzare il
commercio dei corni e soprattutto garantire
i controlli su criminalità e corruzione. Senza
adeguate precauzioni le conseguenze
potrebbero essere disastrose. Come
avvenuto nel 2007 quando la Cites,
Convenzione sul commercio internazionale
delle specie minacciate di estinzione, provò
a sospendere il divieto internazionale sul
traffico dell’avorio, autorizzando quattro
paesi – Botswana, Namibia, Sudafrica e
Zimbabwe – a venderne 100 tonnellate
a Cina e Giappone al fine di saturarne il
mercato. Il tentativo finì col provocare un
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
numero di episodi di bracconaggio senza
precedenti negli anni seguenti. In più bisogna
considerare, come confermato dai veterinari,
che quando si taglia un corno troppo vicino
al punto di crescita si possono verificare
emorragie e, comunque, si provoca dolore
agli animali.
Il Sudafrica, dove vive il 70% degli ultimi
rinoceronti rimasti sul pianeta, è al centro
di questo dibattito. Nel paese i privati
(solitamente proprietari di riserve per fare
safari) possono acquistare ed allevare questi
animali, ma non possono venderne i corni.
Due personaggi, Dawie Groenewald e John
Hume, hanno fatto infuocare la disputa.
Il primo è proprietario di alcune riserve di
caccia ed è accusato di essere un trafficante
di corni di rinoceronte, il secondo detiene
il più grande allevamento di rinoceronti del
mondo e ha deciso di intentare un’azione
legale che sostiene l’incostituzionalità sul
divieto di commercio di corni e dei reati nel
paese. I due sono amici e sono convinti
che legalizzare il commercio salverebbe la
specie dal bracconaggio e porterebbe un
grande profitto. La causa di Hume, oltre ad
aver bloccato i processi contro Groenewald,
potrebbe anche risultare vincente. Come
raccontato nel reportage della rivista National
Geographic pubblicato lo scorso ottobre ( ),
in cui si delinea il profilo non proprio limpido
dei protagonisti, ma che genera anche molti
punti di riflessione.
La seconda controversa proposta riguarda
la caccia sportiva nel continente in aumento.
Anche se il dibattito su di essa va avanti
da anni, nel 2015 si è riacceso per via
dell’uccisone del leone più famoso del parco
nazionale di Hwange in Zimbabwe da parte
di un dentista americano durante un safari ().
Ambientalisti e animalisti sono ovviamente
contrari a questo tipo di business, ma
sono sempre di più quelli che ritengono
che le riserve di caccia sportiva, se ben
regolamentate e controllate, potrebbero
contribuire alla salvaguardia delle specie.
Ma è proprio nei metodi di controllo che
casca l’asino: Infatti dato per scontato
che il numero degli esemplari è in chiara
diminuzione anche per cause indirette (vedi
inquinamento, deforestazione, ecc), al punto
che alcune specie sono in via d’estinzione,
ne risulta che il numero degli esemplari
23
IL MUZUNGU
“cacciabili”
legalmente
non
sarebbe
sufficiente soddisfare il numero dei cacciatori
(in aumento) in cerca di questi trofei. Ergo la
caccia illegale continuerebbe indisturbata.
Un barlume di speranza
A parte queste proposte che possono essere
o no condivise, ciò che appare lapalissiano
è che per contrastare a livello globale
e in modo efficace la ramificata attività
bracconiera, occorrerebbe rafforzare le leggi
e aumentare le sanzioni penali nazionali
e internazionali sull’entrata e detenzione
nei paesi di consumo di questi “trofei”,
combattere la corruzione nel continente,
mettere in atto azioni mirate all’eliminazione
dei paradisi fiscali, aumentare il sostegno
economico legato alla ripopolazione della
fauna e tecnologico alle strutture territoriali
di sorveglianza e soprattutto rafforzare
l’interazione tra i governi, organizzazioni
che lottano contro i crimini ambientali, e la
popolazione locale. Un elenco d’intenti forse
troppo ambizioso, come quello che si stila
ogni inizio d’anno, ma indispensabile se non
si vuole vedere realizzato il futuro descritto
nell’apertura di questo testo.
Il 30 dicembre la Cina ha annunciato
la messa al bando di tutte le attività
commerciali e di trasformazione dell’avorio
entro la fine del 2017. Ciò rappresenta una
“decisione storica” per il futuro degli elefanti
perché la Repubblica Popolare rappresenta
il più grande mercato di avorio nel mondo.
24
Feb. 2017
Secondo alcune stime, tra il 50 e il 70% del
commercio mondiale di questo materiale è
destinato all’Impero Celeste dove un chilo di
avorio può raggiungere il valore di mille euro.
La decisione è arrivata in seguito ad una
risoluzione della Cites adottata in Sudafrica
nel mese di ottobre durante la conferenza
delle parti. I delegati avevano chiesto a tutti i
Paesi nei quali è ancora legale il commercio
di avorio di chiudere questi mercati per dare
un contributo fondamentale alla lotta contro
il bracconaggio, dato che quest’ultimo
continua ad essere trainato dalla domanda
asiatica. Il gigante cinese ha risposto così. È
solo un annuncio, ma si potrebbe partire da
qui se si concretizzasse.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Una Tantum
Perchè leggere il lavoro?
Porre, fin dal titolo, tale domanda è un modo alquanto brutale per evocare
due aspetti che, nell’opinione comune, sono alquanto distanti: il lavoro
e la letteratura, ma diciamolo meglio: il lavoro attraverso la letteratura.
Di Carlo Baghetti
Se il lavoro si trova, giustamente, al crocevia
di molte autorevoli discipline delle scienze
sociali, che si prendono la briga di spiegare
a persone più o meno profane come,
quando, dove e perché il mondo del lavoro è
cambiato e sta cambiando, in che direzione
sta andando, sembra alquanto bizzarro
che la letteratura, questa strana, scomoda
presenza del mondo culturale odierno dica la
sua e, in modo particolare, lo dica con tanta
insistenza. Insomma, perché dal pacchetto
Treu in poi la letteratura ha cominciato a
interessarsi nuovamente di lavoro? Perché
gli scrittori, dopo la stagione postmoderna,
hanno ripreso un filone che sembrava
definitivamente abbandonato dopo l’ultimo
rigurgito volponiano, Le mosche del capitale,
e - soprattutto - dopo la sonora sconfitta che
quei 40.000 colletti bianchi avevano inflitto
alle tute blu nel 14 ottobre 1980 a Torino?
Dopo la stagione postmoderna italiana,
dominata da due figure che gravitavano
intorno al DAMS di Bologna, Eco e
Tondelli, la nostrana letteratura ricomincia a
interessarsi al lavoro, a rappresentare storie
di personaggi che, nauseati dal mondo delle
fabbriche, dalle tute blu impastate di grasso
dei genitori, dal rumore delle macchine,
sognavano, libertinamente, un mondo
d’avventura conquistato con un’automobile
che corre veloce sull’Autoban alla ricerca di
quel odorino di cui Tondelli parla nell’ultimo
capitolo del suo libro d’esordio ; questi
personaggi di carta sognanti si trovano invece
a scontrarsi con una realtà ben diversa da
quella immaginata, in cui il sogno di libertà
comincia a trovare sempre più difficoltà
per incanalarsi nelle forme contrattuali
esplose, frammentate, incomprensibili e -
il più delle volte - rischiose, questi giovani
esseri desideranti di un presente migliore
rispetto a quello che vedevano tornare a
casa ogni sera dalla fabbrica cominciano a
rimanere sospesi in riti di passaggio, in zone
lavorative purgatoriali, senza via d’uscita. È
il caso di Walter, protagonista di Tutti giù per
terra di Giuseppe Culicchia, per citarne uno
e parlare di un caso concreto, il romanzo anche qui d’esordio - che affronta il dramma
di un ragazzo il quale, pur di non ricalcare
le orme paterne, operaio Fiat - quand’anche
fosse stato possibile, visti i tempi - decide di
frequentare una facoltà umanistica, filosofia,
e seguire i suoi desideri e le sue inclinazioni.
Questa scelta poi si trasformerà in un
labirinto esistenziale e, ancor più, lavorativo
che permette al lettore di entrare nel mondo
della primissima precarietà italiana, fatta di
umiliazioni, vite sospese, squallori continui,
logiche perverse per ottenere un lavoro,
il tutto dominato dal gran vuoto lasciato
dalle illusioni del decennio precedente, che
avevano resistito, nonostante l’eroina.
Il romanzo d’esordio di Giuseppe Culicchia
è un esempio tra tanti, tantissimi, che si
trovano percorrendo i cataloghi delle case
editrici alla ricerca di titoli che ci raccontino
il terribile mondo del lavoro contemporaneo:
si potrebbero fare i nomi di Ermanno Rea,
Andrea Bajani, Giorgio Falco, Francesco
Dezio, Michela Murgia, Mario Desiati e molti
altri, ma in questa sede non si analizzeranno
romanzi ma due problematiche precise: la
prima riguarda il meccanismo romanzesco e
la sua congenialità alla narrazione del mondo
del lavoro; la seconda concerne invece la
capacità di far comprendere questo mondo
che ha la letteratura e come si differenzi
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
UNA TANTUM
dalle scienze sociali.
Se immaginare un romanzo ambientato
in una fabbrica può subito evocare uno
strumento ideale per la noia, da sfogliare
pagina dopo pagina, in cui il protagonista
è impegnato in un’attività ripetitiva e, molto
spesso, senza grande interesse salvo forse
la descrizione epica di lotte compiute tra
servi e padroni come nel celebre romanzo
balestriniano Vogliamo tutto del 1971, oppure
la fine analisi del naufragio delle aspirazioni
umanitarie della fabbrica olivettiana contro
il disastro nel Meridione come accadde in
Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri nel
1959, grossomodo la reazione dei potenziali
lettori di fronte ad un romanzo che tratti di
questo argomento è di
grande
circospezione.
Ancor di più lo è quando
dall’ambientazione
industriale
si
passa
all’ufficio, dal secondario
al terziario, in cui anche
l’ideologia che innervava
le pagine volponiane tende
a scomparire per lasciare
spazio a carte e scartoffie
h t t p s : / / w w w. i b s . i t / t r a carte-scartoffie-apologialetteraria-libro-lucianovandelli/e/9788815241658
e polvere, dagli energici
operai ai flaccidi impiegati.
Anche in questo caso la
tradizione è lunga, arrivando
ad affondare le sue radici
nel XIX secolo, ma la sfida narrativa rimane
molto difficile: come rendere un romanzo sul
lavoro avvincente? Su cosa si basa una trama
del genere?
La risposta ai due interrogativi, da un punto
di vista teorico, potrebbe essere formulata
nella maniera seguente: se si ha romanzo
laddove il corso degli eventi smette di seguire
l’ordine che la logica imporrebbe e il testo
narrativo si offre di ricostruire la “deviazione”;
in altre parole, se la macchina romanzo si
attiva quando un elemento imprevisto giunge
a mescolare le carte, il mondo del lavoro
precario è il luogo perfetto per intessere
le trame narrative Come ricorda Richard
Sennett nell’Introduzione del suo celebre
26
Feb. 2017
saggio L’uomo flessibile, pubblicato anni
fa da Feltrinelli, la differenza che intercorre
tra i lavoratori tipici del Novecento e quelli
flessibili della contemporaneità è la stessa
che viene significata dal termine career
(che rimanda etimologicamente alla strada
per carri, un lungo sentiero battuto, una
direzione da seguire per tutta la vita), e il
termine job (che nell’inglese del Trecento
significata un “blocco” o “pezzo”, qualcosa
che poteva essere spostato da una parte o
dall’altra). L’instabilità della vita lavorativa
dei contemporanei, l’imprevedibilità di alcuni
destini (nel bene e nel male) offre agli scrittori
un materiale molto vario a cui attingere o
ispirarsi per disegnare i propri intrecci.
Il secondo elemento a
cui si faceva riferimento
poco sopra, il potere
gnoseologico
della
letteratura
su
un
argomento, come il lavoro,
in cui si direbbe che
hanno più voce in capitolo
le varie scienze sociali,
si potrebbe avanzare
la tesi che la principale
modalità
conoscitiva
dell’uomo, nonché una
delle peculiarità che lo
contraddistingue
dalle
altre forme viventi, sia
la “capacità narrativa”, e
che il romanzo è il luogo
dove tale capacità trova
il luogo migliore dove
esprimersi e spiegarsi. L’uomo conosce e
trasmette le sue conoscenze grazie a tale
capacità, stigmatizzabile nella capacità di
isolare elementi e di dargli un giusto ordine
di successione, quindi una letteratura sul
lavoro precario assolve almeno due funzioni
molto importanti: la prima è quella, alquanto
ovvia o per lo meno tradizionale, di rendere
possibile una conoscenza per interposta
persona (in questo caso “personaggio”),
rendere
possibile
l’esperienza
della
precarietà/flessibilità
a
persone
che
ancora non sono riuscite a farne la prova,
trasmettere quella gamma di sensazioni che
abitano i precari a coloro che invece non
lo sono o non lo sono ancora; la seconda
se la macchina
romanzo si
attiva quando
un elemento
imprevisto giunge
a mescolare le
carte, il mondo del
lavoro precario è il
luogo perfetto per
intessere le trame
narrative
.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
UNA TANTUM
funzione che il romanzo del precariato
assolve e che forse è la sua funzione più
importante è quella di dare, o ri-dare, un’unità
narrativa alla vita dei personaggi all’interno
dell’universo conchiuso del romanzo,
elemento difficilmente raggiungibile al di
fuori di questa struttura, proprio a causa
dell’estrema frammentazione delle vite
lavorative, che precedentemente davano
una direzione e una unitarietà all’esistenza.
Questi due elementi, il potere gnoseologico
e la continuità narrativa che consente
il romanzo, sono oggi due ragioni per
guardare con interesse al panorama di
opere letterarie che si occupano all’intricato
mondo del lavoro e per cercare in esse
alcune risposte esistenziali che le scienze
sociali non possono fornire.
L’etilometro
L’insostenibile leggerezza del whisky
di Gabriele Monteduro
La pazienza è un ingrediente fondamentale della vita: soprattutto oggi, nel caos postmoderno,
ne serve davvero tanta. In Scozia, tuttavia, non ci sono grandi metropoli e la vita è decisamente
meno stressante che altrove. Ciononostante, la pazienza è una delle più grandi qualità
degli scozzesi, soprattutto di coloro che producono il whisky, e non sono pochi. In Scozia
la pazienza non serve per sopravvivere, serve per aspettare. Come un detenuto attende
la fine della sua pena con l’anima relativamente in pace, un bravo master blender deve
attendere che la maturazione del whisky all’interno delle botti sia completa, a seconda della
propria maestria e delle specifiche del distillato. Durante questa attesa non ci sono regole
fisse, a parte una: il whisky, per essere considerato tale in termini di legge, deve trascorrere
almeno tre anni in botte. In realtà, tolti alcuni casi sempre più degni di nota, l’invecchiamento
medio è di 8/10 anni per i prodotti base di quasi tutte le distillerie. Il master blender ha un
compito difficilissimo da portare a termine perché ogni botte fa storia a sé, eppure questo
signore deve saper ricreare gli stessi sapori e gli stessi profumi con identico bilanciamento
delle precedenti edizioni, rispettandone i criteri fondamentali ma con la libertà di correggere
il tiro per riportare il distillato sul suo binario di origine. Roba complicatissima. E qui si torna
alla pazienza, che ha un “costo” ben preciso. Le botti, infatti, non essendo ermetiche per via
della porosità del legno, interagiscono con l’ambiente circostante: a tutti gli effetti, respirano.
È per questo che il whisky viene considerato un prodotto del territorio, perché il tempo e
il luogo di invecchiamento di una botte vengono impressi nel whisky stesso. Ok, le botti
respirano, ma non solo: le botti bevono. Letteralmente. L’alcool, si sa, tende ad evaporare,
e la botte gli permette di farlo. In Scozia, per via delle basse temperature medie, si ha una
percentuale di evaporazione del whisky dall’interno delle botti di circa il 2% all’anno. Questo
vuol dire che quando la botte sarà pronta, il contenuto sarà diminuito sensibilmente: la
parte mancante, quella evaporata, viene chiamata “angels’ share”, la parte degli angeli. E
giustamente: chi ha avuto il merito di guadagnarsi il paradiso, è bene che beva whisky per
l’eternità. Eppure, in altri luoghi più esotici (come l’India, il Giappone, o Taiwan, patrie di
ottimi whisky da qualche anno a questa parte), le temperature medie sono terribilmente più
alte: ne consegue che l’evaporazione annua raggiunge percentuali spaventose (anche più
del 15%) e che tutte le proprietà “magiche” della botte vengono trasferite al whisky in un
lasso di tempo molto minore. Allora perché non andiamo tutti in posti del genere per produrre
whisky? Semplice, perché per fare un buon whisky servono tempo e pazienza, e bruciare le
tappe non è certo la soluzione migliore. Mettetevi l’anima in pace, e lasciate che gli angeli
facciano il loro. Senza farli bere troppo, possibilmente: d’altronde, i vizi sono roba terrena.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
27
SIRIA UNA VOLTA
di Lubna Sareji
L’Harem Europeo
Il “posto” della donna nella società mussulmana come è percepito in
Occidente ha radici molto antiche, a partire dal Mito dell’Harem nella società
Europea del Settecento. Ma questo mito si fonda su incomprensioni culturali.
Siamo ciò che non è l’altro: la nostra
identità si crea nel confronto con l’esterno,
immaginiamo noi stessi nel momento in cui
creiamo l’immagine degli altri. Lo straniero,
per l’europeo, è da sempre, soprattutto, il
mussulmano. Per questo, da un punto di
vista dell’auto-definizione culturale, la storia
d’Europa si identifica nel dialogo/scontro
con l’Islam. Oggi, uno dei dibattiti più caldi
tra le due civiltà è quello sul ruolo della
donna nella società. Ma buona parte della
percezione degli occidentali sulla donna
nelle società mussulmane si fonda su dei
malintesi di lunga data, dovuti soprattutto
a letture fantastiche dell’Oriente, visto a
partire dagli schemi culturali occidentali. Il
mito dell’Harem, che attraversa l’Europa dal
Settecento a oggi, è forse l’origine di tutto.
La parola Harem, come si è inserita
nell’immaginario
collettivo
occidentale
significa: «spazio che rinchiude diverse
donne destinate ai piaceri di un solo uomo».
Questo senso è quello veicolato in Europa
già dai primi racconti di viaggio del XVI
secolo, per poi cristallizzarsi definitivamente
con la traduzione di Galland delle Mille e una
notte nel XVIII secolo.
Il libro delle mille e una notte ha in realtà un
significato politico: Harun El Rashid raccolse
i racconti e le fiabe tradizionali dei diversi
popoli mussulmani (Turchi, Persiani, Indiani,
Arabi e anche Arabi pagani), per divertire il
popolo e creare una sorta di racconto comune
capace di unificare le diverse civiltà su cui
regnava. Inoltre questi racconti servivano a
elogiarlo come re e avvicinare la sua figura
all’immaginario del popolo.
Il posto della donna è centrale nelle Mille e
una notte, a cominciare da Sharazad, una
delle donne dell’Harem del re Shahryar, che
racconta tutte le fiabe, in cui si va dalle stanze
femminili più intime nel racconto « le donne
di Bagdad », fino alla storia di re Omar El
Neman, che malgrado le sue 360 concubine
sente di non aver abbastanza donne.
Nel XVIII secolo, dopo la traduzione delle
Mille e una Notte, scoppia la moda dei
racconti di viaggio, comincia allora il fascino
degli europei per l’Oriente e nasce il mito
dell’Haremnell’immaginario
occidentale.
Chiunque
scrive
sull’argomento :
Montesquieu nelle sue Lettere Persiane, i
pittori, come Boucher et Ingres, dipingono
odalische, Victor Hugo pubblica Le
Orientali… Fino alla contemporaneità:
tra romanzi, dipinti e cinema, lo spazio
architetturale dell’Harem si trasforma fino a
diventare un Mito che nutre le fantasie degli
uomini occidentali. Dalle Mille e Una Notte
di Pasolini all’Harem onirico di Fellini in
Amarcord e in 8½.
Ma se si tratta di un mito, di una fantasia,
qual è la realtà ?
In arabo, la parola (‫ )ميرح‬harîm ha 2 sensi:
le donne in generale ; la dimora delle donne.
1)L’origine della parola è (‫ )مارح‬harâm, che
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
SIRIA UNA VOLTA
significa Tabù, proibito; è il contrario di (‫)لالح‬
halâl (così si chiama, per esempio, la carne
di animali uccisi secondo il giusto rito).
Quindi, la parola (‫ )ةمرُح‬hurma che ne deriva
significa «una donna proibita », cioè di un
uomo, tabù agli altri uomini
2)Harim o Haramlek: è una parte della casa,
consacrata alle donne; può essere abitata
dalla madre, le sorelle e le spose dell’uomo
di casa.
È nel « serraglio » (parola francese, che
a sua volta viene dal turco, e significa in
origine «palazzo ») che lo spazio dedicato
alle donne prende una dimensione più
importante, diventando il cuore stesso della
casa, e si organizza in una gerarchia: prima
di tutto la madre del Sultano, poi le sue
sorelle e le sue spose, infine le concubine e
al rango più basso le schiave, dette Odalik.
Si tratta insomma di una segregazione
spaziale (tra uomini e donne), certo, ma
si tratta anche di uno spazio famigliare,
e cioè un focolare che non può essere
varcato da estranei. Quando i viaggiatori
europei arrivarono alla corte del Sultano, si
scontrarono con questa realtà architetturale
di uno spazio in cui si sarebbero nascoste
delle donne, in grado di vedere gli estranei
senza che questi potessero vederle. Questo
gioco di voyeurismo ha suscitato negli uomini
occidentali ogni sorta di fantasia, spesso
nutrita dai racconti delle Mille e una Notte.
Bisogna sapere che questa divisione prende
fondamento nel pensiero mussulmano,
contrario alla promiscuità uomo-donna. Ma
raggiunge la sua dimensione finale sotto gli
Abbasidi, e in particolare col Califfo Harun
El Rashid (766-809). In quest’epoca, i Califfi
avevano ragione di non fidarsi troppo delle
guardie arabe locali, e decisero di integrare la
propria guardia personale con degli stranieri:
turchi, persiani, indiani… Con la presenza
fissa di stranieri, le donne cominciarono a
nascondere il volto, con la conseguenza
che una segregazione vestimentaria si è
aggiunta a quella architetturale: il velo,
nasce come reazione al soldato straniero.
Quindi, l’Harem è solo una realtà spaziale
che ospita una comunità femminile, che vi
conduce una vita naturalissima, lontana
dalla lascivia e/o dall’asservimento. Le
principesse ottomane vi organizzavano
concerti e ricevevano sapienti da tutto il
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Manoscritto arabo delle Mille e una Notte, Egitto, Nashki, ca. 1640.
mondo arabo per istruirsi.
Quando diciamo che l’altro, il mussulmano,
il nemico, è quello che segrega le donne
in una schiavitù erotica, ci definiamo e ci
percepiamo come colui che, invece, le
tratta bene. Ma il posto della donna nel
mondo mussulmano come è percepito
dagli europei, rivela, invece, come si guardi
all’altro secondo i propri schemi culturali.
La dimensione privata, “nascosta”, per
l’uomo europeo comprende una sfera più
piccola, ed ecco le fantasie erotiche legate
all’Harem, e alla donna haram. Questa
sfera privata e famigliare ha invece, nella
tradizione mussulmana, una dimensione ben
più ampia, e una concezione letteralmente
spaziale. Interessante notare che oggi, in
occidente, sono i movimenti femministi più
radicali a volere spazi “tabù”, dedicati alla
sola presenza femminile.
Tradotto dal francese da AM
29
Calciomercanti
di Rocco Di Vincenzo
La Cina e il titolo che tira: il Global
transfer market report 2017
Torniamo sulla Cina e il calcio, per l’ultima volta (?), in occasione della
pubblicazione del report della Fifa dedicato ai flussi economici legati al
calciomercato nel 2016. La Cina rappresenta un’anomalia. O no?
Da quando i cinesi sono entrati nel calcio,
l’interesse è tutto su di loro. Anche il mio,
in un certo senso, se è vero che il secondo
articolo (su due) di Calciomercanti ho deciso
dedicarlo a loro.
(Mi riprometto - e vi prometto - che sarà
anche l’ultimo e che la prossima volta che
mi dedicherò ad analizzare il rapporto tra i
cinesi e il calcio lo farò in maniera più estesa
e sistematica).
Se nella puntata precedente di Calciomercanti
mi sono trovato a parlare dei cinesi ignoti
che vorrebbero acquistare il Milan (Paolo
Berlusconi ha tranquillizzato i tifosi ribadendo
che il closing ci sarà. Intanto i rossoneri
hanno fatto un mercato pressoché a budget
zero, con un prestito oneroso secco e il giro di
un prestito), questa volta il pretesto mi viene
dato dalla pubblicazione del ‘Global transfer
market report 2017’, dossier prodotto da un
ramo della Fifa e citato da un articolo de ‘La
Stampa’ di venerdì 27 gennaio.
Nell’articolo in questione, scritto da
Massimiliano Nerozzi e intitolato “Il boom
della Cina spinge il pallone. Ma i nuovi ricchi
sono i procuratori”, il focus è incentrato
- a discapito del titolo, che sembrerebbe
dar maggior attenzione alla Cina - sulle
grosse quantità di denaro incassate dagli
intermediari attraverso commissioni varie.
Quantità
di
denaro
effettivamente
impressionanti, che sono andate aumentando
drasticamente dal 2013 ad oggi: se nel
2013, infatti, le commissioni pagate dai club
agli intermediari nell’ambito dei trasferimenti
internazionali ammontavano ad un totale di
218.4 milioni di dollari, nel 2016 la cifra è
arrivata a 369 milioni di euro.
E, in tal senso, possiamo essere orgogliosi:
l’Italia è la seconda nazione al mondo per
commissioni pagate (109 milioni), subito
dopo l’Inghilterra (122 milionI) ma ben prima
della Germania (32 milioni).
Sarebbe interessante vedere a chi sono
esattamente destinate queste commissioni,
ma non è questo l’argomento dell’articolo.
In questo articolo voglio soffermarmi sul
reale ruolo (e il reale peso) della Cina nel
calciomercato internazionale.
Per farlo, parto dal paragrafo dedicato al
paese più popoloso al mondo nel succitato
dossier (che potete interamente scaricare
da qui ):
As a result of significant transfers of players
moving from Europe to the Chinese Super
League, spending by Chinese clubs was the
talk of the football world in 2016. In 2015,
China‘s spending on international transfers
amounted to USD 168.3 million, 10.3% more
than all the other clubs in the AFC combined.
In 2016, their spending skyrocketed to USD
451.3 million, 344.4% more than the rest
of the AFC. China went from ranking 20th
worldwide in terms of spending in 2013 (USD
27.8 million) to ranking 5th in 2016.
The rapid nature of this growth is
unprecedented. One of the key objectives
fuelling China’s transfer drive is to raise the
overall standard of football in the country so
as to assist the national team in reaching the
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
CALCIOMERCANTI
FIFA World Cup for only the second time in
their history following their début in 2002.
Insomma, le cifre spese sono importantissime
e la Cina è passata dall’essere la 20esima
nazione al mondo in termini di spesa sul
calciomercato internazionale a seguire
a ruota Germania, Spagna e Italia (ma
sempre ben distante dall’Inghilterra,
capace di spendere oltre un miliardo e
trecentotsettantaduemila milioni di dollari).
Per la Fifa stessa il motivo di questo exploit
è facilmente comprensibile: ritornare a
partecipare al Mondiale dopo il debutto nel
2002 in Corea del Sud e Giappone e, perché
no, organizzarlo.
Nessun impeto masochista, nessuna voglia
di dimostrare il proprio strapotere economico,
nessuna follia (in tal senso suggerisco
un’intervista rilasciata a calciomercato.com
dall’agente di lungo corso Oberto Petricca,
che fa anche chiarezza sulle reali possibilità
economiche dei club cinesi): l’acquisto di
giocatori è solamente volto alla crescita del
movimento calcistico locale.
Ed è per questo che la Cina i giocatori li
acquista da altri club anziché affidarsi ai
parametro zero come fatto ad esempio dai
club di altri campionati emergenti, il cui appeal
non è poi cresciuto così tanto, almeno a livello
internazionale (in tal senso è emblematica
la MLS americana, dove il trasferimento
record è stato di circa 7 milioni di dollari, e gli
acquisti principe sono stati giocatori sul viale
del tramonto, á la Pirlo o á la Beckham. In
tal senso rappresenta un’eccezione il nostro
Giovinco, che ha ‘soli’ 30 anni e rappresenta
un fuoriclasse assoluto nel contesto. E da
fuoriclasse assoluto guadagna 10 milioni di
dollari all’anno).
Quando si parla di calcio e Cina, la tendenza
ad esagerare è assolutamente diffusa,
probabilmente per la tendenza messa in
mostra da alcuni club della Super League
cinese ad acquistare giocatori e pagargli
stipendi a prezzi al di sopra del mercato
(tra i giocatori più pagati al mondo, ben
sei giocano in Cina. Non fossero pagati
così tanto, ci giocherebbero lo stesso?).
Per questo motivo quasi ogni top player è
stato avvicinato al campionato cinese: si è
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
parlato di Kalinic (poi autore del gran rifiuto
nonostante la possibilità di guadagnare 48
milioni in 4 anni) e di Icardi per limitarci al
nostro campionato, ma si è parlato anche di
Cristiano Ronaldo, Messi e Rooney.
Nel tendenzialmente stucchevole andirivieni
di voci di mercato, la Cina è una pacchia
per i giornalisti di calciomercato che amano
inventare titoloni: nell’era della post-verità
e del clickbait, il titolone sulla Cina ci sta
sempre, perché in questo momento la Cina
tira. Speriamo presto faccia anche rete.
31
L’EUROPEIDE
di Valentina Palladini
1957-2017: Divorzio europeo a
sessant’anni dagli accordi di Roma
Le dichiarazioni di Draghi, la Hard Brexit del Regno Unito, il cambio di
vertice al Parlamento europeo, l’arrivo dell’anti-europeista Trump alla
Casa Bianca: inizia in salita il nuovo anno per la vecchia Europa, tra
mancanza di unità tra gli Stati ed il populismo che avanza mentre il fronte
socialista europeo crolla.
“Come l’Italia del Risorgimento ha avuto
bisogno dell’Europa per crescere, per
progredire, per stare meglio, anche quella
di oggi continuerà ad averne bisogno
per affrontare le sfide che si porranno
nel corso della sua esistenza”. Questo
è stato il messaggio lanciato da Mario
Draghi, presidente della BCE, durante la
cerimonia che lo ha visto vincere il Premio
Cavour 2016, conferitogli per aver saputo
mantenere l’indipendenza della BCE. Nel
suo discorso, il banchiere ha sottolineato la
necessità di un’Europa politica che risponda
alle domande del presente “partendo da
una conduzione che mantenga saldamente
il potere di iniziativa politica, che guardi alla
partecipazione di altre forze e di altri governi
come momenti di forza e non di sterile
condivisione del potere”.
Tutto il discorso di Draghi si è basato un
parallelismo della situazione storica e
politica che dovette affrontare l’Europa
all’indomani della primavera dei popoli,
l’ondata di moti rivoluzionari borghesi che
infiammarono l’Europa tra il 1848 e il 1849,
il cui scopo era quello di sovvertire i governi
della Restaurazione con governi liberali.
Come nel periodo storico in cui operò
Cavour, che dovette agire in un contesto
destabilizzato dalle rivoluzioni del 1848, oggi
siamo nuovamente in una fase storica di
mutamento dell’Europa: crisi dell’euro e dei
debito sovrani, Brexit, le tensioni economiche
e politiche nei paesi dell’Est Europa.
Il vecchio continente deve, di fatto, trovare
una nuova stabilità.
Nessun accenno da parte di Draghi
all’insediamento alla Casa Bianca di Donald
Trump, il quale non ha risparmiato dure
critiche all’Unione europea, “usata dalla
Germania per perseguire i suoi scopi” e
che ha sempre dichiarato apertamente il
suo sostegno alla scelta di Londra di uscire
dall’UE.
Ed in Gran Bretagna, intanto, la prima
ministra Teresa May ha annunciato qualche
giorno fa che il governo britannico ha
intenzione di attivare la Brexit entro marzo di
quest’anno, innescando il processo di uscita
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
EUROPEIDE
dall’UE previsto dall’articolo 50 del Trattato
di Lisbona. La presa di posizione della May
è stata parzialmente bloccata dalla Corte
Suprema della Gran Bretagna, che con
una sentenza che stabilisce che sarà la
Camera dei comuni e la Camera dei Lord a
decidere sull’attivazione dell’articolo 50: tale
sentenza, tuttavia, non dovrebbe allungare i
tempi di uscita previsti dal capo di governo
inglese. I laburisti hanno dichiarato che
non si opporranno a tale operazione, pur
chiedendo l’introduzione di emendamenti
che non facciano diventare Londra un
paradiso fiscale.
Rimane chiusa anche la strada di una bocciatura
della Brexit da parte dei Parlamenti statali,
dal momento che, nella sentenza, i supremi
giudici hanno bocciato i
ricorsi presentati da Irlanda
del Nord, Scozia e Galles,
che rivendicavano il diritto
di esprimere un voto.
Secondo la Corte non è
necessario l’assenso delle
Assemblee parlamentari
nordirlandese, scozzese
e gallese per decidere
l’attivazione dell’articolo 50
(1).
In questi giorni abbiamo
assistito anche all’addio al
Parlamento europeo del
socialista Martin Schulz,
che si è dimesso dalla carica di Presidente
dell’assemblea, lasciando il posto al nuovo
eletto Antonio Tajani, euro-deputato del PPE.
Monarchico in gioventù, berlusconiano in
età matura, ex commissario europeo nell’era
Barroso. A Strasburgo si cambia segno,
nettamente, ponendo fine alla legislatura
europea nata nel 2014. Si passa, di fatto,
dalla spinta anti-austerity, che da Roma
aveva contato molto sul sostegno di Juncker,
alle pulsioni anti-flessibilità dei tedeschi
impegnati nella loro campagna elettorale
per le elezioni di fine anno: nei sondaggi la
Merkel rimane saldamente in testa.
Pur senza annunci ufficiali, Juncker e Schulz
sono sempre stati dalla stessa parte della
barricata. E questo spiega la decisione
di Schulz di dimettersi dalla presidenza
dell’Europarlamento a dicembre, a sorpresa,
senza aver prima avvertito il gruppo o il
capogruppo PSE Pittella, informato solo
la sera prima. Nel loro schema (di Juncker
e Schulz), Verhofstadt era il tentativo di
mantenere in vita la coalizione tra Pse e Ppe.
Schema fallito, perché Pittella lancia la sua
candidatura anti-austerity. E viene battuto da
Tajani. Ora, un presidente del Parlamento
appartenente al Ppe, per i tedeschi, è più
funzionale rispetto a un presidente socialista
e per giunta italiano (Pittella), proveniente cioè
da un paese che è finito di nuovo nel mirino
della commissione Ue sui conti pubblici. La
sinistra finisce in minoranza. La famiglia
socialista è così debole da non riuscire
nemmeno a ipotizzare un attacco sul fatto
che ora il Ppe ha praticamente occupato tutte
le alte cariche europee: dalla Commissione
al Consiglio passando per
il Parlamento.
La crisi dei socialisti in
Europa è profonda e si
indebolisce, di fatto, il grido
che invoca la flessibilità.
La mancanza di unità tra
i progressisti europei non
fa ben sperare, data l’aria
di nazionalismo ed euro
scettiscismo che attraversa
il continente. Anche perché
in America è arrivato al
potere Trump, che non ha
mai fatto mistero della sua
volontà di dare vita a nuovi
e prolifici rapporti con la Russia di Putin,
infischiandosene beatamente dell’UE. L’altra
grossa crisi che rimane a tutt’oggi irrisolta
è quella dei migranti. Trump ha dichiarato
apertamente di non aver apprezzato la
scelta della Germania di accogliere un così
alto numero di extra comunitari: “un errore
catastrofico”, lo ha definito.
La possibile alleanza tra Putin e Trump
intimorisce mezzo mondo. Il Ministro degli
Esteri italiano Angelino Alfano ha richiamato
alla difesa comune europea: il capo della
diplomazia italiana apre al neo inquilino
della Casa Bianca – su di lui “vedo troppi
pregiudizi e pochi giudizi, soprattutto a
sinistra” – e invita l’Ue a collaborare con
la nuova amministrazione statunitense. A
partire dalla revoca delle sanzioni contro la
Russia: “Come Europa dobbiamo proporre
a Trump di decidere insieme”, indica.
33
La crisi dei
socialisti in Europa
è profonda e si
indebolisce, di fatto,
il grido che invoca
la flessibilità
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
EUROPEIDE
Anche perché, spiega, le sanzioni “non
sono un meccanismo perpetuo a rinnovo
automatico”, e bisogna evitare il “paradosso
per cui il Paese che più ha spinto per le
sanzioni – gli Stati Uniti – fa la pace, e quelli
che hanno pagato un significativo conto alle
sanzioni – l’Ue e l’Italia – restano ostaggio”
delle restrizioni economiche contro Mosca
(2). Ora bisogna attendere i prossimi sviluppi,
troppo presto ipotizzare quali nuovi scenari
si verranno a creare nel prossimo futuro.
Rimane certa solo una cosa: l’Unione
europea sta attraversando il momento più
critico della sua storia. Mai, dall’avvio di
questa avventura, l’Europa è stata così
discussa. La sua sorte dipenderà dalle
34
Feb. 2017
scelte che verranno fatte nei prossimi mesi,
sia nelle sedi europee che nei paesi più
forti dell’Eurozona. Il “gigante incatenato”
(https://fazieditore.it/catalogo-libri/il-giganteincatenato/ ) deve liberarsi delle sue catene
ed agire, in fretta.
Il prezzo da pagare per la non azione
potrebbe essere il perire definitivo della
macchina europea: siamo realmente pronti
a rinunciare al progetto europeo?
[1]. Brexit
[2]. Difesa Europea
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
La Linguaccia
di Antonio Marvasi
Dell’insulto in spazi sovrapopolati
(la rete) e analfabetismo di ritorno
In rete ci si esprime in modo sempre più violento e volgare, tanto che
la cosa comincia a delinearsi come un vero e proprio problema sociale
(cyber-bullismo), specie tra i più giovani. Ma non basta condannare
il fenomeno come violenza e ignoranza, è necessario interrogarsi sul
turpiloquio in quanto fenomeno sociolinguistico.
C’è una teoria dell’antropologo Adam Kendon
per spiegare perché nel mezzogiorno d’Italia
e in particolare a Napoli sono nati i gesti
codificati della lingua italiana che ancora
usiamo. La tesi avanzata è che gli abitanti
di Napoli, vivendo in uno spazio da sempre
sovrappopolato e caratterizzato da una
urbanizzazione mediterranea, cioè con vicoli
e passaggi stetti, hanno sviluppato i gesti,
un tono e una cadenza particolari, adatti a
imporsi nel marasma della città più grande
d’Europa, tra il porto e il mercato.
In rete, su twitter facebook e altri social
network, si è prodotto forse qualcosa di
analogo, su scala globale. Il mondo si è
drasticamente ristretto con internet; il flusso
dell’informazione assomiglia sempre più a un
mercato in cui regna la sovrabbondanza e la
confusione. È forse per questo, per potersi
imporre in questo marasma di voci (basta
pensare a Twitter) che si è sviluppato, e si
sta sviluppando, un linguaggio internauta
particolarmente espressivo, a partire
dall’uso di faccine (emoticon), che è per
molti aspetti comparabile ai gesti codificati
della comunicazione orale in italiano. E così
lo scivolamento verso uno stile parlato del
linguaggio scritto quotidiano, che troviamo
tutti i giorni sui social network, dalle maiuscole
per URLARE – tanto che è letteralmente
maleducato scrivere un intero commento o
tweet in maiuscolo – fino ai punti esclamativi
ripetuti a decine. Quest’ultimo fenomeno
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
ha addirittura provocato una parodia
linguistica, quella dell’uno inframmezzato
(“gombloddo!!1!!1!”). Si tratta di una presa in
giro che è del tutto paragonabile all’effetto
che farebbe un congiuntivo sbagliato:
denuncia mediocrità e ignoranza (quel “batti
lei” fantozziano). Si tratta insomma di un
linguaggio codificato, che a usarlo male si
passa per ignoranti.
In questa stessa prospettiva, quella di
imporsi nella confusione, si può interpretare
il trionfo del linguaggio scurrile sui social
network, degli insulti, dell’istigazione all’odio
e persino le famigerate bufale (o fake-news,
come ci piace chiamarle da qualche tempo).
Alzare i toni, giungendo perfino a inventare o
a minacciare, è come un grido disperato che
cerca di farsi sentire nel flusso. Sarebbe – è
solo una teoria – qualcosa che appartiene
allo stesso meccanismo comunicativo che
avrebbe portato i napoletani a creare gesti e
a allungare le vocali. Ma ingigantito, innanzi
tutto dal numero di voci in concorrenza.
Questo conta molto, perché è il numero
che rende internet dominato dalle masse,
che sono tutt’altro che ragionevoli. Sarebbe
interessantissimo
approfondire
questo
fenomeno: in rete, si producono gli stessi
fenomeni che si producono nelle masse
reali (linciaggi, pubbliche gogne ecc), ma
spalmate su più tempo, su più luoghi, e solo a
parole. Una violenza che ha causato più di un
suicidio. Crimine subdolo, specie quando è
LA LINGUACCIA
commesso dalla massa indistinta, quello della
tortura psicologica e istigazione al suicidio.
Ma bisogna tenere conto anche del fatto
che oggi c’è un bisogno impellente di
comunicazione, di dare spettacolo di sé,
della propria mediocre originalità. È un
vanto avere diversi seguaci su twitter, avere
sempre una frase arguta in formato 140
caratteri. Essere pronti a dire la propria
stupida opinione, commentando a caldo per
insultate Galassi, la sopravvissuta dell’Hotel
Rigopiano,
sostanzialmente
perché
sopravvissuta. L’insulto è per definizione un
atto violento. Scrivono le linguiste Giovanna
Alfonzetti e Margherita Spampinato Beretta:
“Come rivela la stessa etimologia latina (IN
+ SALTARE “saltare addosso”) (cf. Battisti
/ Alessio 1953), l’insulto è un attacco al
destinatario e va dunque collocato nello
spazio semantico-pragmatico della violenza
verbale, dove si trova in compagnia di e
in parziale so-vrapposizione con critiche,
imprecazioni,
maledizioni,
bestemmie,
maldi-cenze, derisioni, minacce, accuse,
invettive, ecc.”
Secondo lo psicologo inglese Richard
Stephens, però, chi dice parolacce è
percepito come più sincero. Se la rabbia
è il sentimento dominante, la volgarità è
il mezzo con cui si veicola. È questo che
determina il successo di Trump, o Salvini, o
Le Pen? Volgare, quindi sincero. Non solo,
ricorda Stephens, dire parolacce ha l’effetto
di scaricare lo stress. Insomma, la scienza
dice che possiamo bere un bicchiere di vino
rosso e mandare a fare in culo qualcuno una
volta al giorno. E, ovviamente, fare esercizio.
Possiamo allora prendere nota che la
volgarità è ormai totalmente sdoganata, in
politica e nella comunicazione quotidiana.
Volgarità ovvero rabbia: persino il papa ha
affermato che possiamo arrabbiarci con dio,
anzi è un bene; dichiarazione presa da molti
simpaticoni come l’autorizzazione papale
alla bestemmia. Beppe Severgnini, sul
corriere, decreta addirittura la morte della
parolaccia per noia: non fa più effetto tanto è
diventata banale.
Lo scrittore Nicola La Gioia racconta su
Internazionale una disavventura che gli è
capitata. Ha ricevuto un invito, da un’anonima
associazione culturale, a parlare del suo
36
Feb. 2017
nuovo libro Il lato oscuro del cuore. Solo
che questo è il romanzo di Corrado Augias.
Dopo averne riso su, qualcosa l’ha spinto
a pubblicare lo screenshot del messaggio
sulla sua pagina face book. In poche ore,
i comment i sono passati dagli insulti alle
velate minacce. Tanto che la povera direttrice
della Associazione culturale ha scritto un
messaggio pubblico in cui spiegava l’errore
e la serietà della sua organizzazione.
Intanto, Nicola La Gioia, scrive, si sentiva
“una merda” (sic). Ammette di aver voluto
creare, anche inconsciamente, un linciaggio
pubblico. Ne trae una lezione Gaberiana: “il
problema non è il troll in te, ma il troll in me”.
È un punto fondamentlae della questione.
I singoli che come uno sciame di libellule
attacca le bacheche face book di ignari più
o meno famosi con valanghe di insulti, non
sono satanisti assetati di sangue, ma brave
persone timorate di dio. Persone comuni.
Peggio: attaccano sempre in nome di valori
democratici e/o umanitari. Arrivano ad
augurare la morte e a minacciare persino chi
scrive frasi razziste, o sessiste, o omofobe.
O presunte tali, non importa. Insomma,
come fa notare Jon Ronson nel suo libro
appena pubblicato: I giustizieri della rete,
queste orde di violenti intervengono in nome
dell’empatia. È un bel paradosso.
Al di là degli episodi di violenza, del cosiddetto
cyberbullismo, e di ipotesi pseudo-sociologiche,
però, c’è un ragionamento più strettamente
linguistico da fare sulla parolaccia.
L’Accademia della Crusca organizza a
partire dal 6 febbraio un corso riservato
agli insegnanti sul linguaggio giovanile. Il
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
LA LINGUACCIA
primo incontro sarà tenuto da Vera Gheno, prendevano con le loro vittime andando a
responsabile twitter dell’Accademia, e avrà colpire nel merito. Oggi, invece, gli insultatori
per tema: “Come vivere felice sui social si limitano a fare riferimento ai difetti fisici –
network, piccola guida all’interazione ciccione, nano, strabico ecc. – o a prendere
telematica serena”.
dal mucchio insulti standard (figlio di…
“La conoscenza dei linguaggi giovanili – ecc.). Mancano, cioè, anche nel turpiloquio
afferma Vera Gheno sul Corriere – può e nell’aggressione verbale, di argomenti, di
essere propedeutica a una discussione sui parole. Insultare, significa trarre un’analisi
nuovi media. I docenti spesso non sanno finissima dell’altro e della situazione, tener
nemmeno quello che fanno i loro studenti in conto di tutti gli aspetti e bilanciarsi tra essi.
Rete e questa è una situazione pericolosa: Allora, nel turpiloquio comune, ormai così
non è detto, infatti, che i genitori abbiano
noioso, si può riscontrare un sintomo di
tempo, voglia e capacità per insegnare ai figli
analfabetismo di ritorno. Tra le conseguenze
l’utilizzo dei social media. E allora dovrebbe
del non essere in grado di capire un breve
intervenire la scuola, dando consigli su come
affrontare il cyberbullismo, come rispondere, testo, infatti, c’è anche quella di non essere
in grado di interpretare il mondo altrimenti
o meglio come non
che a partire dalla propria
rispondere, all’odio onesperienza diretta. Non
line. Anche i cosiddetti
essere in grado quindi
nativi
digitali
molto
di costruire un’analisi
spesso non sanno come
coerente che tenga conto
funzionano gli strumenti
delle conseguenze dirette
che utilizzano, non sanno
e indirette della situazione
come usare Google per
che trae da un articolo di
esempio”
Eppure
la
stessa
giornale. Non essere in
Accademia della Crusca
grado, in ultima analisi,
registra
un
drastico
nemmeno di insultare.
abbassamento di livello
W. Shakespeare, Henry IV,
linguistico
(i
famosi
analfabeti funzionali su
Part I (atto 2, scena 4)
cui si accalorava il buon
Tullio De Mauro): la
crescita esponenziale del
turpiloquio andrebbe letta anche in questa
prospettiva. Scade nell’insulto chi non ha
parole, cioè argomenti,cioè è ignorante.
Solo? Troppo semplice. Le parolacce e
gli insulti esistono da sempre: se la lingua
utilizzata si sta impoverendo, lo fa in
tutti i suoi registri, compreso quello della
volgarità. Insomma: il problema non è solo
l’aggressività e l’odio sul web. O meglio,
non è quello che ci interessa da un punto
di vista della sociolinguistica; bensì, il fatto
che il turpiloquio stesso sembra essersi
impoverito.
Sono ormai lontani i tempi in cui Dante
rispondeva per le rime a Cavalcanti, per
non parlare degli insulti elaboratissimi di
Shakespeare. Non è questione di snobismo,
non è che i poeti insultassero meglio perché
usavano giri di parole. Ma perché se la
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
37
“Away, you
starvelling, you
elf-skin, you dried
neat’s-tongue,
bull’s-pizzle, you
stock-fish!”
DISERTORI
di Carlotta Giauna
“Fenomenologia di tre elementi del
bene primario declinati in arte-ificio”
LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO GUARDANDO I TUBI LED
Luce-installazione
Volendo affrontare la questione “LUCE”, la straziata Aleppo giunge ai miei pensieri in modo
automatico, la città più antica del mondo e portatrice del primo esempio di culto solare.
Mai come oggi, nel momento storico in cui l’uomo necessita meno della componente
elettrotecnica sotto un profilo strettamente funzionale, essa diviene fisiologicamente
accessorio illuminotecnico, vanto narcisistico creativo di quello che fino a mezzo secolo fa
era ritenuta un’indispensabile fonte per la sopravvivenza.
Con fare metodico, l’utilità concreta di essa si “affievolisce” nel tempo e nel momento
di assoluto bisogno di una forza illuminante artistica, che ci scarceri da quella tendenza
post moderna che copia le sperimetazioni sulla Luce di matrice 1960 a.C., si continua a
rimanere “accecati” da modelli appassiti.
La ricerca espressiva costruita sulla luce si è lasciata semplicemente divorare a piccoli
bocconi dall’andamento tecnologico, fattosi iperbolico in campo Arts and Crafts.
Ed ecco che nell’ultimo quinquennio siamo sommersi da nugoli di Festival Light and
Space, solitamente tenuti in manieri medievali o fondazioni rimbambine che per
svecchiarsi si propongono promotrici di repechage artistici e che con feroci videomapping,
il più delle volte brutalizzano le architetture in un’orgia visiva. Le intenzioni stilistiche
tentano di rievocare scenari cyber punk da Trilogia dello Sprawl con metodico pessimo
gusto.
Ed ecco che diventa tutto una poetica della luce senza che il “lettore” abbia avuto
il tempo di immergersi, di comprendere quella poesia, di accogliere quella luce ed
mmaginarla, come durante un test ottico per ciechi, rimanendo in uno stato più percettivo e
profondamente legato alla psiche e ai suoi andamenti.
Se l’occhio è cacciatore, non è il caso che la preda a volte sfugga? Incomprensibile
animale che svanisce nella foresta?
Dall’alba della civiltà ne siamo schiavi veneratori, e da schiavi veneratori che hanno
compiuto sacrifici religiosi in nome di essa tendiamo le braccia all’incomprensibile divinità
solare nella speranza di essere perdonati, perché la vita e quindi l’arte, non esistono senza
la percezione materica della luce.
Iconograficamente è l’elemento in apparenza più semplice da “tratteggiare”, si lega
antropologicamente a tutto quello che è prima crescita, progresso, reatà ed esistenza, pian
piano agli aspetti simbolici, naturalistici, emotivi.
Per quattro secoli l’effetto luce, in “bidimensione piatta”, si avvale unicamente della
sensibilità oculare. La luce impressa sulla carta tramite il “tratteggio incrociato”, il
carboncino sfumato, la pittura tonale di Giorgione e gli effetti luce ottocenteschi, lascia
all’occhio di penetrare all’interno dell’immagine.
I Divisionisti reputano che la luce sia la radice della frantumazione dei colori, e la
frantumazione dei colori la radice dei sentimenti, da qui il desiderio moderno e dirompente
di renderla una creatura viva, pensante, autosufficiente, sintetizzandola in “gallerie
Feb. 2017
DISERTORI
laboratori” per lo spettatore più curioso.
Accresce con il tempo la consapevolezza dei galleristi e progettisti di mistificarla,
essendo essa materia sfuggente e fragile ma estremamente potente. Il sottile confine fra
immaginare l’installazione di luce, immagine che può essere presente in ogni luogo ed in
ogni elemento piuttosto che un costrutto materico assemblato, facilita il commercio visuale
di quest’ultima.
Il distacco passato fra la cultura umanistica e quella scientifica è ormai labile.
Geniali gli esempi di artisti della luce come Man Ray con i suoi “Space Writing”, i “Light
Painting” del primo ventennio dello scorso secolo, Picasso e Fontana con neon e luce UV
fino ad arrivare alla fine degli anni settanta con Dean Chamberlein e la sua pittura di luce
(traducibile nella famosa opera “Polyethylene bags on chais longue”) in cui utilizza luci
portatili per illuminare in modo selettivo parti di colore del soggetto o della scena.
Artisti che si erano precedentemente misurati con una vera ricerca sperimentale.
La questione di quanto sia evidente che non riusciamo ad interagire con questa “sostanza”
è l’artificio da parte del light designer di plasmare l’ambientazione da luminosità pura a una
privazione del gioco luce-ombra, e più l’oscurità dell’atomo opaco artistico ci avvolge più la
voglia di accecarci ci priva della vista.
IMPIATTAMENTO
Storia di un pasto nudo ed imbellettato
Ci-bo e foto-grafia
Vi è una forte associazione visiva fra le deformità viniliche di Cronenbergh
di gusto pop splatter e gli expo fotografici sul cibo.
Apro il social e ricevo, fra le varie notifiche, almeno due di inviti a mostre sull’argomento.
“Food design ed etica nel capitalismo maturo,
Gualtiero Toscani presenta al pubblico il trittico delle delizie
/
Meat Dress Performance
/
Laboratorio photocall hobbysta”
Bulloneria San Callisto
start h 23.00
finish h 23.30
Scorro in basso:
“Caravaggio mutimediale, fotografia da scomporre nelle nature morte del Merisi”
Sartoria dei Cenci
start h 21.30
dinner / special drinks / canestri di frutta e fegato fritto
Noto che il secondo evento ha una proroga, inizia quel giorno ma terminerà il mese
successivo.
Il rinfresco per chi sopraggiunge impavido solo quel giorno.
Sembra davvero curata nei minimi dettagli, avvolegnte, immersiva...Mi evito il colera.
Entrando in Bulloneria e nell’oscurità dell’ambiente risaltano le cromie chiassose, contrasto
sul nero opaco dei grandi pannelli in forex delle stampe. Sei divorato dall’estetica
sgargiante impressa sulle “tavole”.
Un’estetica esibizionista fatta di ripiani imbanditi in umor manierista chiaro scuro, in cui
ti rendi poco conto se stai osservando un iperrealismo o una fotografia. Più avanti un
cesto di pannocchie, trafitto da raggi di luce in un giallo indelebile, tenute in grembo da
un povero somalo. Di seguito un dittico ittico. Sul primo grande pannello l’occhio di triglia,
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
39
DISERTORI
Feb. 2017
perfetto, ultragrandangolare che ci risucchia con la stessa foga di una mano di roulette. Il
nero, il rosso, il verde si fondono diventando un seme unico. La pelle screziata di rosso e
d’argento lo rendono un marziano del 1973 sceso dal pianeta e autodepostosi sul piatto. Il
secondo pannello, la coda flambè fra le fiamme, le squame di brace.
Più proseguo e più avverto un senso di mancanza, di digiuno. Il languore visivo corrode i
bulbi come fosse in atto una rapida digestione. L’impressione che si voglia saziare l’occhio
sostituisce in modo più leccapiedi la vecchia formula del rinfresco in carne, ossa e salse.
Qui tutto è lasciato ai sensi e lo spettatore non si sente più quel maldestro ed
imbarazzante ingordo un po’ fuori luogo che si avvicinava con fare felino al tavolo
imbandito di canapè, pizzette e tramezzini, pardon! Finger Food.
La convivialità fra commensali, ha lasciato spazio a rappresentazioni statico circensi in
cui i cibi congelati saltano, vengono torturati, hanno un’etica, si vergognano di essere loro
stessi, ripudiano la semola ed il grano carezzevole di cui sono composti, cibi incorruttibili
che scappano da altri cibi per non essere stuprati.
Il cibo è protagonista ma è spento, morto, incomunicativo, “suggellato in pellicola”.
Potremmo definire questo sincretismo artistico nutrizionale dal gusto amaro, la prova di
come nella maggior parte dei casi la fotografia non possa rappresentaare il gusto e che la
voglia ultramoderna di impreziosire gli “incarnati”di quei cibi sono danno per la lingua e per
quei viaggi sapidi che essa intraprende senza sapere dove andrà.
Ripenso alla Vucciria di Guttuso, al “Bue macellato” di Rembrandt e ai “Mangiatori di
ricotta” del 1580, quattrocento anni dopo a Sergio Vastano e alle sue fameliche, laide
bionde. Ripenso al pesce marziano, che quella notte scese su Roma, che tanto destò
stupore e che ora viene rincelofanato.
CADAVERI ECCELLENTI
Performance e scultura
I Body Worlds
Gunther von Hagens ha un viso luciferino, il cappello alla Tom Waits, la morfologia di
Blank in Dick Tracy, l’espressione dello sterminatore di scarafaggi William Lee.
Non siamo in un noir gangsteristico anni 30, siamo a Tokio, 1995.
Il professor Von Hagens è definito lo scopritore della Plastinazione, tecnica che permette
la conservazione tramite “siliconi” del corpo umano, nonchè anatomopatologo di fama
globale.
La scelta del borsalino richiama intenzionalmente la “Lezione di anatomia del dottor Tulp”
di Rembrandt, e fin qui vi è dell’innegabile ironia.
La mostra itinerante “Body Worlds”, ospitata nei più grandi centri espositivo scientifici del
mondo potrebbe, secondo anche il personaggio caricaturale del dottore, avvalersi alla “Reanimator” di un trasporto facilitato dagli stessi vivaci cadaveri, l’assicurazione non copre
rischi da chiodo a chiodo...ve n’è bisogno?
In confronto a certe pratiche creative da trafiletto di cronaca nera di provincia in cui
il nostro eroe non beneficiando della pensione di reversibilità, impaglia il genitore,
l’azione di von Hagens è metodica come la stessa ricerca che lo conduce a proporre
da anni il progetto espositivo, fra i più remunerativi delle grandi esposizioni universali.
Poco c’entrano gli atti di psicosi romantica perpetrati da un Norman Bates o dalle
sorelle Legnani in “La casa dalle finestre che ridono”, in cui i protagonisti agiscono
passionalmente, seppur nella dissociazione mentale.
L’opera è corrispondente e contraria, il raggiro è simile ma inconscio, è un raggiro dello
spirito.
Diciamocelo, ci troviamo di fronte ad uno “stravagante” mercante dell’anatomia i cui fini si
misurano con un artificio senza chimera.
40
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
Feb. 2017
DISERTORI
L’imbalsamazione che diviene arte compare nell’Inghilterra vittoriana, senza le
pretese concettual tassidermiche di oggi, come divertissiment popolare ed applicata
esclusivamente al regno animale.
Fautore di queste Dolls Houses per topolini di campagna e scoiattoli è Walter Potter,
senza immaginare di dar vita ad uno dei manifesti estetici dominanti degli ultimi vent’anni,
quali il Pop surrealism, parte dello Steampunk di chiara matrice vittoriana e un gusto dark
carrolliano.
Tutta la collezione di piccole amabili creature è stata messa all’asta da Bonhams nel 2006.
E’ Damien Hirst, come sappiamo, a riportare in voga la mummificazione, con i suoi
notissimi squali in dissezione.
Affettati meglio che dal Shokunin più anziano sulla crosta terrestre, fauci spalancate ed
espressioni sclerotizzate che ti provocano più tenerezza che terrore.
Manifesto della sua poetica è “The physical impossibility of death in the mind of someone
living”, un concetto da dodici milioni di verdoni che ci ricorda, che il ricordo non esiste
perchè legato alla dipartita fisica e ai resti umani? Che ci ricorda che il ricordo del morto
esiste nella manifestazione tangibile dell’opera? Che ci ricorda che autori come lui, come
Jan Fabre (che espose lo scorso anno a Palazzo Vecchio a Firenze, una serie di bestioline
impagliate nell’indignazione generale) e come von Hagen, portino in giro per il mondo
come esploratori, zaini di carcasse pieni di noia e putrefazione lucidata.
Forgiano fantasmi che vorrebbero essere lasciati in pace e che puoi giusto immaginare
suonare un violino su una tomba come in una partitura di Saint Saens o animare di morte
in rosso, le sale di una festa.
Qui a “Corpo Mondi” fanno finta di essere morti, si praticano il massaggio cardiaco a
vicenda e per ingannare il tempo giocano a poker con tanto di barata.
La magnificenza della macchina umana, il cui sistema linfatico è immagine in movimento
somigliante ad un cablaggio elettrico, diventa monotona come la fila dal macellaio e la
trama espositiva è calibrata su un soggetto di Tobe Hooper.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
41
Feb. 2017
01 Gennaio 2017
Copertina
Woman Smiling
Augustus John, 1908/9
Olio su tela
Tate, London
42
RIPRODUZIONE RISERVATA ©