L`OSSERVATORE ROMANO

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L’OSSERVATORE ROMANO
GIORNALE QUOTIDIANO
Unicuique suum
Anno CLVII n. 25 (47.459)
POLITICO RELIGIOSO
Non praevalebunt
Città del Vaticano
mercoledì 1 febbraio 2017
.
Sale la protesta contro la politica sull’immigrazione mentre la Casa Bianca rimuove il segretario ad interim alla giustizia
Dopo gli ordini esecutivi del presidente statunitense
Trump
sceglie la linea dura
La chiusura
non è progresso
di GIUSEPPE FIORENTINO
WASHINGTON, 31. Non si fermano le
proteste e le polemiche sull’ordine
esecutivo firmato pochi giorni fa dal
presidente
statunitense
Donald
Trump che limita l’immigrazione da
sette paesi islamici.
Dopo la condanna dell’Onu, che
ha definito il provvedimento «illegale e meschino», è arrivata anche
l’opposizione dei diplomatici. Questi
ultimi, in una nota inviata al dipartimento di stato, hanno espresso perplessità sulle misure di sospensione.
Secca la replica della Casa Bianca:
«O rispettate il programma o potete
Dai vescovi
nuovo appello
alla difesa
della dignità umana
WASHINGTON, 31. Un appello in
difesa della dignità umana è stato
lanciato dai vescovi statunitensi,
che sono tornati a criticare in maniera ferma il provvedimento deciso dalla Casa Bianca sul tema
dell’accoglienza dei profughi. Critiche già avanzate a caldo da singoli presuli e dal presidente del
Comitato episcopale per la migrazione, il vescovo di Austin, Joe
Steve Vasquez, e ieri ribadite dai
vertici della Conferenza episcopale. In una dichiarazione a firma
del presidente e del vicepresidente, rispettivamente il cardinale
Daniel N. DiNardo, arcivescovo
di Galveston-Houston, e monsignor José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles, si fa appunto appello a tutti i fedeli cattolici perché uniscano la propria
voce «in difesa della dignità umana». Per i presuli non si tratta
certamente di una intromissione
in uno dei momenti più delicati
della scena pubblica — «il nostro
desiderio non è quello di entrare
nell’arena politica» — quanto di
ribadire il contenuto centrale del
vangelo, perché, ricordano, «accogliere lo straniero non è
un’opzione tra le tante nella vita
cristiana».
Citando il concilio Vaticano II,
in particolare la dichiarazione
Nostra aetate, i presuli sottolineano come il legame tra cristiani e
musulmani si fondi «sulla forza
indistruttibile della carità e della
giustizia», ribadendo altresì che
«la Chiesa non rinuncia alla difesa dei nostri fratelli e sorelle di
tutte le fedi che soffrono per mano di persecutori spietati». In
questo senso, viene ricordato che
quanti scappano dallo stato islamico e dalla furia di altre forze
estremiste «stanno sacrificando
tutto» quello che hanno di più
caro «nel nome della pace e della
libertà». Si tratta di persone e di
famiglie che «sono alla ricerca di
sicurezza e protezione per i loro
figli». Di qui dunque un rinnovato appello all’accoglienza. Occorre, certo, sempre vigilare attentamente sul pericolo di possibili infiltrazioni terroristiche ma «la nostra nazione — sostengono — deve
dare loro il benvenuto come alleati in una lotta comune contro il
male». E assicurano che, laddove
ci sono persone che patiscono il
rifiuto e l’abbandono, «noi leveremo la nostra voce in loro nome».
anche andare via» ha detto il portavoce Sean Spicer.
«Data la quasi assenza negli ultimi anni di attacchi compiuti da siriani, iracheni, iraniani, libici, somali, sudanesi e yemeniti entrati negli
Stati Uniti con un visto, questo divieto avrà scarsi effetti pratici nel
miglioramento della sicurezza» spiegano i diplomatici nel memo.
L’ordine esecutivo, aggiungono,
«va contro i valori costituzionali e
americani che noi, come dipendenti
federali, abbiamo giurato di difendere». E inoltre «danneggerà immediatamente le relazioni» con paesi i cui
governi sono «importanti alleati e
partner nella lotta contro il terrorismo a livello regionale e globale».
Anche il predecessore di Trump alla
Casa Bianca, Barack Obama, è intervenuto nella polemica sottolineando
che con il nuovo ordine esecutivo
firmato dal presidente «i valori americani sono a rischio».
A conferma del clima di tensione
interna c’è anche lo scontro con il
segretario ad interim della Giustizia,
Sally Yates, rimossa dall’incarico dopo aver ordinato ai legali del suo dipartimento di non difendere il decreto di Trump (dopo le accuse di incostituzionalità dei procuratori).
Yates «ha tradito il dipartimento
di giustizia» ha affermato la Casa
Bianca. Al suo posto è stata nominata Dana Boente, procuratore per il
distretto orientale della Virginia. Nominata da Obama, Yates si stava
preparando a lasciare il suo posto a
Jeff Sessions, designato da Trump
alla giustizia.
Quasi contemporaneamente a Yates, Trump ha rimosso anche il se-
gretario ad interim dell’immigrazione e delle dogane, Daniel Ragsdale,
anche lui un ex dell’amministrazione
Obama. Sarà sostituito da Thomas
Homan.
Intanto, la Federazione luterana
mondiale (Lwf), il Consiglio mon-
diale delle chiese (Wcc) e la Act Alliace hanno emesso un comunicato
congiunto nel quale sostengono la
protesta contro l’ordine esecutivo.
«La nostra fede chiede a noi e a tutti i cristiani — si legge nella nota —
di amare e accogliere lo straniero».
Il Cremlino disposto a trattare con Washington per rafforzare la tregua
Mosca apre a zone di sicurezza in Siria
DAMASCO, 31. Mosca è pronta a negoziare con Washington la creazione
di zone di sicurezza in Siria per cercare di rafforzare l’attuale cessate il
fuoco e garantire alla popolazione
una strada verso la normalità.
La proposta era stata avanzata nei
giorni scorsi dal presidente statunitense Donald Trump. «Chiariremo
con i colleghi statunitensi i dettagli
di questa idea» ha detto ieri in conferenza stampa il ministro degli
esteri russo, Serghiei Lavrov, che ha
salutato la proposta di Trump come
un tentativo «di fare alcuni passi
per allentare la carica migratoria»
sull’Europa e i paesi confinanti con
la Siria. In ogni caso, ha precisato
Lavrov, «si dovrebbe pensare a creare zone di residenza per gli sfollati
dentro il territorio siriano» oltre a
«condividere con il governo di Damasco tutti i dettagli pratici e lo
stesso principio della creazione di
zone di sicurezza».
Sulla questione è intervenuto anche il governo siriano. Damasco ha
sottolineato che qualsiasi proposta
deve anzitutto ricevere il suo consenso, altrimenti «viola la sovranità
nazionale siriana». Lo ha detto ieri
a Damasco, citato dall’agenzia governativa Sana, il ministro degli
esteri siriano Walid Al Muallim incontrando l’Alto commissario Onu
per i rifugiati Filippo Grandi.
Intanto, nelle zone non protette
dalla
tregua,
continuano
i
combattimenti. Sei bombardieri
strategici russi Tupolev hanno colpito due postazioni di comando, depositi di armi e altri obiettivi dei
jihadisti del cosiddetto stato islamico (Is) nella provincia siriana di
Deir Ezzor. «Il 30 gennaio — si legge in una nota del ministero della
difesa russo — sei bombardieri a
lungo raggio Tu-22M3 sono decollati da un aerodromo in Russia, hanno attraversato lo spazio aereo di
Iraq e Iran e hanno compiuto un
bombardamento massiccio su nuovi
obiettivi dell’Is nella provincia di
Deir Ezzor». Nel raid, sostiene Mosca, «sono stati distrutti due centri
di comando, depositi di armi e munizioni e un gran numero di attrezzature».
Ma il quadro siriano non è solo
fatto di cattive notizie. Ci sono an-
Tra i rifugiati siriani in Libano
Un mercato
come gli altri
Generazione
perduta
DE
PECHPEYROU
A PAGINA
5
S
Le manifestazioni di protesta in strada a Washington (Afp)
Il traffico di ostaggi e migranti
CHARLES
ono perfettamente in linea
con le promesse fatte durante
la campagna elettorale gli ordini esecutivi che Donald Trump
ha firmato appena assunta la presidenza degli Stati Uniti. Del muro
al confine con il Messico ha fatto il
suo cavallo di battaglia nei mesi
che hanno preceduto la vittoria su
Hillary Clinton. E anche la promessa di limitare l’immigrazione
dai paesi a maggioranza islamica è
stata tra i punti fondanti del suo
programma.
In molti avevano considerato tali
proposte irrealizzabili o le avevano
classificate come esagerazioni tipiche del clima pre-elettorale. E forse
anche per questo tutti i sondaggi,
senza alcuna eccezione, avevano
dato fino all’ultimo giorno Hillary
Clinton per vincitrice nella corsa
alla Casa Bianca.
Invece a vincere è stato Trump.
Ma non bisogna pensare che il suo
trionfo sia dovuto ai progetti di
chiusura. Il candidato repubblicano è potuto entrare nello studio
ovale perché ha saputo occupare
uno spazio che la classe politica di
Washington — non a caso indicata
da Trump come il nemico numero
uno — non ha saputo sfruttare. Ha
elaborato cioè un programma il cui
punto veramente qualificante è il
recupero della produzione industriale in territorio statunitense, come risposta all’impoverimento causato dalla globalizzazione.
Solo un’analisi molto superficiale
può tuttavia far pensare che la lotta alle storture di una globalizzazione mal gestita vada di pari pas-
Un bambino cammina davanti al muro del cimitero di Aleppo (Reuter)
FRANCESCA MANNO CCHI
A PAGINA
3
che segnali di speranza, che fanno
capire come la popolazione stia cercando di tornare alla normalità della
vita quotidiana. Ieri, dopo cinque
anni di sanguinosa guerriglia urbana, ad Aleppo ha ripreso a funzionare un treno. Il convoglio ha attraversato i quartieri periferici della seconda città della Siria, che in quattro anni di feroce assedio ha pagato
un tributo di 21.500 civili morti (secondo una stima di Human Rights
Watch). Il ministro dei trasporti siriano, Ali Hamoud, ha definito il ripristino del servizio ferroviario «una
vittoria che ha restituito sicurezza e
stabilità alla città intera».
so con la chiusura dei confini o
con la costruzione di muri sempre
più alti. A dimostrarlo è la stessa
storia degli Stati Uniti che hanno
costruito la loro potenza economica, e quindi la loro influenza politica, grazie al lavoro degli immigrati.
Che, peraltro, sono ancora una risorsa preziosa, come testimoniano
le reazioni di molti esponenti di
primo piano del nuovo capitalismo
a stelle e strisce di fronte alla decisione di limitare l’immigrazione.
Da Tim Cook di Apple (Steve
Jobs era di origine siriana) a Mark
Zuckerberg di Facebook, la presa
di distanza dall’iniziativa di Trump
è stata unanime. Ma se non è una
sorpresa che la silicon valley della
California post-hippie sia per sua
natura lontana dal nuovo presidente, certamente inedito è l’atteggiamento di giganti della finanza come Goldman Sachs, che annovera
alcuni suoi uomini di spicco all’interno della nuova amministrazione.
Ciò nonostante un messaggio è stato inviato a tutti i dipendenti per
sottolineare che l’istituto «non sostiene queste politiche».
Tali prese di posizione si spiegano con la semplice constatazione
che chiudere le porte agli immigrati significa privare il paese di risorse potenzialmente molto importanti. E bisogna ricordare che l’iniziativa del presidente riguarda le persone provenienti da sette paesi considerati a rischio terrorismo, con
l’esclusione di quelli che intrattengono rapporti economici più stretti
con gli Stati Uniti.
Certo è molto presto per parlare
di un Trump isolato, e lo stesso
presidente — secondo cui il blocco
parziale dell’aeroporto di New
York non è stato dovuto alle proteste ma a un problema al sistema
della Delta Airlines — si è affrettato
a sottolineare che la maggioranza
degli statunitensi sta con lui. Ma
sicuramente Trump dovrà tenere
conto delle reazioni della società
civile, giunte anche da parte cattolica, verso un’iniziativa che può
non solo rivelarsi nociva per la sfera economica, ma che, per quanto
concerne il rifiuto dell’accoglienza
dei profughi, sembra davvero andare contro la tradizione statunitense
di tutela dei diritti umani.
Durissime anche le condanne
degli ambienti politici internazionali nei confronti degli ordini esecutivi del presidente. Dall’O nu
all’Ue il coro è stato unanime. Ma
in un mondo che tollera la
persecuzione dei cristiani in Medio
oriente, la tragedia dei rohingya o i
fili spinati nel cuore dell’Europa
davvero nessuno può dirsi innocente.
Domani il mensile «donne chiesa mondo»
La metafora
del rammendo
All’arte femminile del rammendo,
metafora non di un ripiegamento
nel privato ma di un appassionato
impegno nella società di oggi, è dedicato il numero di febbraio del
mensile «donne chiesa mondo» in
allegato con il quotidiano di domani. Dal Libano al Kenya, dalla
Francia ai quartieri di Palermo assediati dalla mafia, la rivista presenta
le testimonianze di donne che, con
pazienza, umiltà e coraggio, dedicano la loro vita a ricucire le lacerazioni sociali provocate dagli esseri
umani.
Si tratta a volte, come spiega Anna Foa nell’editoriale, di «lacerazioni che mettono in gioco la vita o la
morte delle persone, a volte sono
strappi in una società dominata dalla mafia e dalla disuguaglianza, altre volte strappi determinati dalla
guerra». In ogni caso si tratta di
donne che riattualizzano «l’antica
abilità femminile del tessere e rammendare per risanare per quanto
possono il tessuto della società in
cui vivono».
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 2
mercoledì 1 febbraio 2017
Militari ucraini nella regione
del Donbass (Afp)
Putin
a Budapest
per colloqui
sull’energia
Arrestati trafficanti di esseri umani
Globalizzazione
del male
BRUXELLES, 31. «Una globalizzazione del male». Così il magistrato
italiano Ilda Boccassini ha definito
la banda internazionale di trafficanti di esseri umani sgominata ieri
dalla procura di Milano. Il tragico
business non si ferma nonostante le
difficili condizioni meteo: in tre
giorni sono state soccorse nel canale di Sicilia 1400 persone. Si tratta
di migranti che pagano per arrivare
sulle coste italiane e poi di nuovo
per raggiungere il nord Europa.
Intanto, cresce l’allarme per le condizioni di vita nel campo profughi
sull’isola greca di Moria: in una
settimana si contano tre morti.
Sono 34 i trafficanti individuati
dalla polizia italiana. Al vertice
dell’organizzazione c’erano tre egiziani dai 35 ai 40 anni, descritti dagli investigatori come i «manager
dei migranti» che per telefono gestivano il lavoro di quanti organizzavano i viaggi in mare e poi le
trasferte in altri paesi europei, intercettando i migranti disperati nei
campi di accoglienza o nei dintorni. Ad esempio, verso Ventimiglia
sono stati fermati furgoni con 40
persone stipate all’interno in condizioni disumane. Colpisce che gli
altri della banda siano somali, afghani, tunisini, eritrei, le stesse nazionalità dei migranti. Sono coinvolti anche tre italiani di circa 35
anni, che si limitavano ai trasporti
in auto da Ventimiglia.
Sul piano politico, il ministro
degli esteri italiano, Angelino Alfano, ha annunciato che domani presenterà il decreto denominato
«Fondo per l’Africa» che stanzia
200 milioni di euro per il contrasto
al traffico dei migranti. E oggi al
parlamento italiano c’è stata l’audizione del commissario Ue per l’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, che ha annunciato un ulteriore
stanziamento di un milione di euro
da parte di Bruxelles. «La cooperazione con i paesi terzi, e in particolare col nord Africa è una priorità
per la Commissione europea nel
suo approccio globale sulla migrazione» ha detto Avramopoulos.
Intanto, proseguono gli avvistamenti in mare e gli sbarchi. Duecento persone sono arrivate questa
mattina al porto di Augusta, in Sicilia. Sono stati fatti rientrare in Libia, invece, i 700 migranti a bordo
di due barconi che ieri erano stati
intercettati al largo dello stato africano dalla guardia costiera libica.
Erano appena salpati dai dintorni
di Sabrata, città della Tripolitiana
occidentale. La maggior parte sono
originari dell’Africa subsahariana,
ma tra loro ci sono anche siriani,
palestinesi, egiziani e tunisini. I
complici degli scafisti che si trovavano ancora sul litorale hanno sparato contro le guardie impegnate
nell’operazione, che hanno risposto
al fuoco mettendoli in fuga. Non ci
sono stati feriti.
Ma è allarme anche per la situazione nel campo per migranti di
Moria, sull’isola greca di Lesbos.
La morte di un pachistano, ieri, fa
seguito a quella di un siriano di 45
anni, sabato scorso, e di un ventiduenne egiziano, il martedì precedente. Sembra si tratti di tutti casi
di asfissia nel tentativo di proteggersi dal freddo.
Morti dodici militari ucraini
Combattimenti nel Donbass
KIEV, 31. Si combatte nella zona industriale dell’Ucraina orientale di
Avdiivka, vicino Donetsk, nel
Donbass, dove si contrappongono le
truppe dell’esercito di Kiev e i ribelli
separatisti pro-russi. Lo ha denunciato oggi il portavoce della difesa
di Kiev, Oleksandr Motuzuanyk.
Il quartier generale delle truppe
ucraine ha reso noto che nella notte
sono stati uccisi tre soldati e altri 20
sono rimasti feriti.
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I separatisti dell’autoproclamata
repubblica popolare di Donetsk riportano invece la morte di quattro
miliziani e il ferimento di altri sette.
Ieri, nella stessa zona, sono morti almeno nove militari di Kiev.
A causa dell’escalation del conflitto nel Donbass, il presidente ucraino, Petro Poroshenko, ha interrotto
la sua visita ufficiale a Berlino, anticipando il ritorno in patria. I combattimenti ad Avdiivka «hanno portato a una situazione di emergenza
che rasenta il disastro umanitario»,
ha dichiarato il portavoce della presidenza, Sviatoslav Tsegolko.
A Berlino, Poroshenko ha avuto
un colloquio con il cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ha sottolineato come non vi sia «un cessate il
fuoco» e che per questo è importante procedere sulla base degli accordi
di Minsk. Il presidente Poroshenko,
dal canto suo, ha ribadito che
l’Ucraina «fa affidamento sul sostegno di un’Europa unita».
Mattarella ai sindaci dei comuni colpiti dal sisma
Bloccato valico con l’ex Repubblica di Macedonia
La vicinanza dello stato
rimarrà forte
Agricoltori greci
contro l’austerity
ROMA, 31. Il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella,
è tornato ieri per la sesta volta nelle
zone terremotate. Prima di inaugurare il 681° anno accademico
dell’università di Camerino, il capo
dello stato ha parlato con i sindaci
dei comuni devastati dal sisma.
«Avete diritto a tutto l’aiuto possibile, aiuto che si cerca di garantire
in pieno», ha detto loro Mattarella.
«Talvolta — ha aggiunto — leggo sui
giornali di rimpalli di responsabilità,
ed è sempre utile quando vi siano
confronti sulle responsabilità cui far
fronte, ma io so che tra i sindaci alberga la ragione, il criterio che ciascuno, confrontandosi con gli altri,
verifica anzitutto quello che in proprio si può fare. E quando i sindaci
avvertono questa esigenza, hanno
diritto al sostegno intenso, pieno,
completo da parte delle altre istituzioni». Mi rendo conto — ha detto
ancora — «di cosa vuol dire il contatto con la vostra gente di fronte
ad allarmi lanciati per l’eventualità
di nuove emergenze. Il vostro compito è davvero difficile, questo non
viene ignorato. Avete tutto l’appoggio. In questi mesi vi sono stati
esempi straordinari di generosità.
Ogni volta è richiesto di più e l’impegno che voglio esprimere davanti
a voi è che questo di più troverà
una soddisfazione, si farà fronte a
quelle esigenze sempre maggiori».
Il leader libico
Al Serraj
bussa alle porte
della Nato
TRIPOLI, 31. Il primo ministro del
governo di accordo nazionale libico, Fayez Al Serraj, sarà domani al
quartiere generale dell’Alleanza
atlantica a Bruxelles. Intanto, la
Turchia fa sapere che riaprirà presto la sua ambasciata in Libia.
Quella di domani sarà la prima
visita di Serraj alla sede della Nato,
ma il primo ministro libico ha già
avuto un incontro con il segretario
generale Jens Stoltenberg a settembre scorso, in occasione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite a
New York.
Obiettivo del colloquio sarà fare
il punto della situazione della sicurezza in Libia ed esplorare le modalità di un supporto della Nato
alle istituzioni per la difesa e la sicurezza libiche. Nel vertice di luglio scorso a Varsavia, i leader
dell’Alleanza hanno convenuto
sull’urgenza di ristabilire la sicurezza in Libia e sulla disponibilità di
un supporto della Nato, ma anche
sulla necessità che sia il governo libico a chiederlo.
Intanto, la Turchia ha disposto
la riapertura della propria ambasciata a Tripoli, che era stata chiusa
nel 2014 per motivi di sicurezza.
Nelle settimane scorse è stata l’Italia il primo paese occidentale a riaprire la sede diplomatica nella capitale libica.
BUDAPEST, 31. Grande attesa in
Ungheria per la visita del presidente russo, Vladimir Putin. Il
leader del Cremlino sarà infatti
giovedì a Budapest per incontrare
il presidente, Viktor Orbán. Si
tratta — ricordano gli analisti politici — del quarto colloquio bilaterale in quattro anni.
Fra i temi in agenda per l’incontro con Putin, al primo posto
ci sarà l’energia: il governo di Budapest ha contrattato la costruzione di due nuovi reattori, affidata
alla società statale russa Rosatom,
per la centrale nucleare di Paks
(nel centro dell’Ungheria), con
un credito di dieci miliardi di euro erogato dalla Russia. Secondo
i partiti di opposizione, l’intesa
farà indebitare il paese per i decenni futuri, senza rispondere a
un vero bisogno di energia nucleare.
A Budapest si parlerà anche di
altre questioni energetiche. A riguardo, il ministro degli esteri
ungherese, Péter Szijjártó, ha dichiarato che l’Ungheria intende
ampliare la collaborazione con
Mosca sul gas.
Mattarella durante il suo incontro con i sindaci della provincia maceratese (Ansa)
ATENE, 31. A causa degli scioperi e
delle proteste degli agricoltori greci
è stato chiuso al traffico il valico di
frontiera tra la Grecia e la ex Repubblica jugoslava di Macedonia a
Gevgelija. I media macedoni riferiscono che è possibile attraversare la
frontiera solo a piedi, mentre gli
automobilisti vengono dirottati su
altri valichi.
Gli agricoltori greci hanno effettuato blocchi stradali per protestare
contro le misure di austerità del
governo, in particolare contro l’aumento della tassazione, del prezzo
del gas e dei contributi previdenziali. Utilizzando i trattori hanno
bloccato il traffico automobilistico
e i trasporti commerciali verso
Gevgelija, la piccola città di 22.000
abitanti nel sud della ex Repubblica jugoslava di Macedonia.
La nuova ondata di proteste è
iniziata una settimana fa. Nei
giorni scorsi è stata chiusa per alcune ore la strada nazionale tra
Serres e Salonicco, nel nord della
Grecia. L’intervento delle forze di
sicurezza è stato necessario per impedire ad alcuni agricoltori di attraversare con i loro trattori il confine con la Bulgaria, attraverso il
valico di Promachonas. E decine di
trattori e pick-up hanno bloccato
una parte dell’autostrada PatrassoCorinto, vicino Aigio, nel Peloponneso settentrionale. Inoltre, alcuni
contadini sono scesi in strada a
Zante, Hania, Veria, Creta e diverse località della Grecia centrale e
del Peloponneso settentrionale. In
alcuni casi le proteste hanno incontrato l’appoggio delle autorità municipali. I sindacati hanno annunciato che la protesta sarà «potente
e prolungata». Già nel 2015 e nel
2016 gli agricoltori hanno messo in
atto proteste con modalità simili.
Al vertice in corso ad Addis Abeba si discute anche del reintegro del Marocco
L’Unione africana elegge il nuovo capo della commissione
ADDIS ABEBA, 31. L’attuale ministro
degli esteri del Ciad, Moussa Faki, è
il nuovo presidente della commissione dell’Unione africana (Ua). Faki è
stato eletto ieri, nel vertice dei capi
di stato e di governo dei 54 paesi
dell’Ua, al quale chiede di essere
riammesso il Marocco. Nel pomeriggio tiene il suo discorso re Muhammed VI.
Tema ufficiale di questo ventottesimo vertice è: «Trarre profitto dal
dividendo demografico investendo
nella gioventù». Ma, al di là del tema, si sa che si potrebbe concretiz-
GIOVANNI MARIA VIAN
direttore responsabile
Giuseppe Fiorentino
vicedirettore
Piero Di Domenicantonio
zare l’idea della creazione di un’area
di libero scambio su tutto il continente. E c’è anche da mettere mano
alla riforma dell’Ua che, secondo gli
osservatori internazionali e locali,
soffre per la mancanza di efficienza
e di autonomia finanziaria. Durante
le due giornate di vertice si parla, infatti, proprio delle possibili riforme
istituzionali. Si parte dalle conclusioni del rapporto di esperti nominati dal presidente ruandese Paul Kagame, al quale è stato affidato l’incarico nel luglio scorso.
Servizio vaticano: [email protected]
Servizio internazionale: [email protected]
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Servizio religioso: [email protected]
caporedattore
Gaetano Vallini
segretario di redazione
Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998
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È importante anche la discussione
sul reintegro del Marocco nell’organizzazione, dopo 33 anni di assenza.
Nel 1984 Rabat decise di ritirarsi
dall’Ua in segno di protesta contro
l’ammissione della Repubblica democratica araba dei sahrawi, lo stato
autoproclamatosi che rivendica la sovranità sul Sahara occidentale. Ora
Rabat vuole tornare nell’organizzazione continentale. In questa fase
storica, l’influenza della monarchia
marocchina si estende praticamente
su tutta l’Africa. In particolare,
Mohammed VI, figlio di Hassan II e
Segreteria di redazione
telefono 06 698 83461, 06 698 84442
fax 06 698 83675
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Tipografia Vaticana
Editrice L’Osservatore Romano
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
re dal 1999, ha moltiplicato i suoi
sforzi, compiendo numerose visite
ufficiali nel continente, per puntare
su paesi dall’alto potenziale di crescita, a partire da Etiopia, Tanzania
e Nigeria.
Al vertice partecipano anche ospiti
della comunità internazionale, tra
cui
il
neosegretario
generale
dell’Onu, Antonio Guterres e il presidente dell’Autorità palestinese,
Mahmud Abbas. Sono circa 4000 i
rappresentanti che gravitano in questi giorni attorno al palazzo dell’Ua.
Tariffe di abbonamento
Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198
Europa: € 410; $ 605
Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665
America Nord, Oceania: € 500; $ 740
Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30):
telefono 06 698 99480, 06 698 99483
fax 06 69885164, 06 698 82818,
[email protected] [email protected]
Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675
Resta irrisolta
la crisi
politica
a Skopje
SKOPJE, 31. È fallito ieri nella ex
repubblica jugoslava di Macedonia il tentativo del partito conservatore Vmro-Dpmne di formare un nuovo governo di coalizione con l’Unione democratica per l’integrazione (Dui), che
rappresenta la numerosa minoranza albanese del paese balcanico (25 per cento del totale dei
due milioni di abitanti).
A mezzanotte è infatti scaduto il termine ultimo previsto dalla legge perché Nikola Gruevski,
leader del Vmro-Dpmne, al quale era stato affidato l’incarico,
annunciasse un eventuale accordo, che però non è arrivato.
Vmro-Dpmne ha vinto di
stretta misura le elezioni anticipate dell’11 dicembre scorso, aggiudicandosi 51 dei 120 deputati
al parlamento di Skopje. Al partito socialdemocratico (opposizione) Sdsm sono andati 49 seggi, al Dui 10. Ora — indicano gli
analisti — si attende la decisione
del presidente, Gjorge Ivanov,
che potrebbe affidare un nuovo
incarico a Zoran Zaev, il leader
dell’opposizione socialdemocratica, seconda forza in parlamento. Decisivo per ogni coalizione
resta, comunque, l’apporto dei
partiti della minoranza albanese.
Concessionaria di pubblicità
Aziende promotrici della diffusione
Il Sole 24 Ore S.p.A.
System Comunicazione Pubblicitaria
Ivan Ranza, direttore generale
Sede legale
Via Monte Rosa 91, 20149 Milano
telefono 02 30221/3003, fax 02 30223214
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Intesa San Paolo
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Società Cattolica di Assicurazione
Credito Valtellinese
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mercoledì 1 febbraio 2017
pagina 3
Per l’attacco terroristico alla moschea a Québec
Incriminato
uno studente
OTTAWA, 31. È stato incriminato
per omicidio premeditato e tentato
omicidio Alexandre Bissonnette, lo
studente di scienze politiche ventisettenne arrestato per l’attacco ieri
alla moschea di Québec City. Secondo l’ultimo bilancio sei persone
sono morte e diciannove sono rimaste ferite nell’attentato. La notizia dell’incriminazione è arrivata
dalla polizia canadese, dopo che il
giovane è comparso in tribunale. Il
secondo sospettato arrestato ieri,
Mohamed Khadir, di origine marocchina, è stato rilasciato e viene
considerato esclusivamente un testimone.
Bissonnette, che sul suo profilo
Facebook, ora rimosso, si professava ammiratore del presidente degli
Stati Uniti Donald Trump e della
leader del Fronte nazionale francese Marine Le Pen, è stato arrestato
dalle forze speciali canadesi a una
ventina di chilometri dal luogo
dell’attacco. È stato lui stesso a
chiamare la polizia, dicendosi
pronto ad arrendersi.
Bissonnette studiava antropologia
e
scienze
politiche
all’Università Laval, il cui campus si
trova a tre chilometri dal centro attaccato domenica sera. Francois
Dechamps, che lavora per il gruppo di attivisti Welcome to refugees,
ha raccontato che il giovane era
noto per le sue posizioni estremiste. «È con dolore e rabbia — ha
scritto Dechamps sulla sua pagina
Facebook — che abbiamo appreso
che il terrorista è Alexandre Bissonnette, sfortunatamente noto a
molti attivisti in Québec per le sue
posizioni nazionaliste, pro - Le Pen
e antifemministe espresse all’Università Laval e sui social media».
È stata intanto resa nota l’identità delle sei persone uccise. Si tratta
di Azzeddine Soufiane, di 57 anni,
macellaio padre di tre figli, del sessantenne Khaled Belkacemi, professore all’Università Laval, del
quarantunenne impiegato Abdelkrim Hassen, anche lui padre di tre
Epidemia
di febbre gialla
in Brasile
BRASILIA, 31. Continua a fare
paura e a mietere vittime l’epidemia di febbre gialla in Brasile,
la peggiore degli ultimi quattordici anni.
Nel solo mese di gennaio la
malattia ha causato oltre quaranta morti. I casi accertati di
ulteriori contagiati sono già più
di dieci e quelli sospetti sono oltre cinquecento, secondo quanto
rivelato dalle autorità sanitarie
locali. Lo stato più colpito è
quello di Minas Gerais, ma l’allarme si è diffuso anche nelle
confinanti regioni di Espírito
Santo, San Paolo, dove finora
sono stati confermati sei decessi,
e Bahia, tutte nel sud-est.
Intanto nel paese continua
l’azione di repressione contro la
violenza nelle carceri. Agenti
delle forze speciali di polizia
brasiliana hanno fatto irruzione,
nei giorni scorsi, nel penitenziario statale di Alcacuz, nello stato
del Rio Grande do Norte, nel
nord-est del paese. Il carcere è
in mano ai rivoltosi dallo scorso
14 gennaio, quando, in seguito
ai primi incidenti, sono morti
ventisei reclusi. L’obiettivo del
blitz è quello di riprendere il
controllo delle ali 4 e 5 della
struttura, occupate da detenuti
appartenenti a una pericolosa
fazione criminale.
Una pistola, oltre 500 coltelli
artigianali, cellulari e droga sono stati trovati all’interno del
penitenziario. Analoghe perquisizioni delle forze dell’ordine
stanno intanto avvenendo anche
nel carcere di Monte Cristo, a
Boa Vista (Roraima), che all’inizio del mese ha registrato una
sanguinaria sommossa seguita
dall’uccisione di 33 detenuti.
figli, di Aboubaker Thabti, di quarantaquattro anni, e di due cittadini di origine guineana: Mamadou
Tanou Barry, di 42 anni, e Ibrahima Barry, di 39.
La moschea teatro dell’attacco
era già stata oggetto di intimidazioni. In particolare un atto irriguardoso è stato registrato lo scorso giugno. I responsabili del centro
islamico hanno precisato che quello
non era stato il primo episodio del
genere. Circa tre settimane dopo,
in luglio, nel quartiere erano stati
distribuiti anonimamente volantini
che sostenevano un legame tra la
moschea e i Fratelli musulmani,
gruppo estremista nato in Egitto
nel 1928. Le accuse sono sempre
state respinte dai responsabili del
centro islamico.
Il premier canadese Justin Trudeau ha affermato che tutto il popolo canadese è al fianco della comunità musulmana dopo l’attacco
di ieri a Québec City. «Il crimine
orribile della scorsa notte contro la
comunità musulmana è stato un atto di terrorismo commesso contro
il Canada e contro tutti i canadesi». Rivolto al milione di musulmani che risiedono nel paese, Trudeau
ha detto: «Trentasei milioni di cuori battono con i vostri. Piangeremo
con voi, vi difenderemo, vi ameremo, e resteremo al vostro fianco».
In serata il premier e il capo
dell’opposizione Rona Ambrose saranno a Québec City per una veglia.
Sul tragico episodio ferma è stata la condanna anche dei vescovi
canadesi. «È stato con orrore e
shock che noi tutti siamo stati messi al corrente dell’attacco violento e
insensato di ieri sera al Centre culturel islamique de Québec», ha
detto il presidente della Conferenza episcopale canadese, il vescovo
di Hamilton Douglas Crosby. «Tale
violenza omicida è da condannare
nei termini più forti possibili. Si
tratta di una violazione della sacralità della vita umana, di un attacco
contro il diritto e la libertà dei
membri di tutte le religioni a riunirsi e a pregare in nome delle loro
convinzioni più profonde, di una
ferita alla pace, all’ordine e alla
tranquillità della nostra nazione e
delle sue comunità, e della profanazione di una casa di preghiera e
di culto», ha aggiunto. «Come uomini di fede — ha concluso — preghiamo intensamente per le anime
delle vittime» e per i loro familiari.
Cordoglio è stato espresso in
tutto il mondo. A Parigi la Tour
Eiffel non è stata illuminata durante la notte in omaggio alle vittime
della sparatoria. L’annuncio è arrivato con un comunicato del sindaco della città, Anne Hidalgo, che
ha condannato «con la più grande
fermezza questo atto spaventoso
fatto da fanatici che ancora una
volta hanno colpito degli innocenti
in modo cieco e arbitrario».
La storia di Hyam rifugiata siriana in Libano che vorrebbe aiutare i bambini traumatizzati dalla guerra
Generazione perduta
da Tel Abbas
FRANCESCA MANNO CCHI
Tel Abbas, Nord Libano. Hyam ha
tredici anni. Fino a tre anni fa viveva con sua madre, suo padre e i suoi
due fratelli a Qusayr, città siriana a
ridosso del confine libanese e molto
importante negli equilibri della guerra per la presenza della milizia libanese sciita di Hezbollah. Una mattina una bomba uccide il padre di
Hiyam. Il destino di quello che resta
della sua famiglia è il destino comune agli altri quattro milioni di profughi siriani: l’esodo.
Da allora Hyam vive a Tel Abbas,
nella regione di Akkar, tra le montagne libanesi al confine con la Siria,
in una delle migliaia di quelle tendopoli dimenticate che sono diventate parte integrante del territorio del
paese, nascoste tra le valli o in mezzo alle campagne, e in pieno inverno, sepolte dalla neve. Hiyam ha gli
occhi pieni di speranza e un grande
zaino verde al bordo del materasso
su cui dorme. Vorrebbe fare la psicologa da grande «per aiutare i bambini traumatizzati dalla guerra», dice.
Traumatizzati come lei. Quando
racconta la guerra, la piccola Hyam
lo fa con i particolari della vita quotidiana, perché per i bambini siriani
la guerra è stata questo: un elemento
tra tanti nella vita di ogni giorno.
«Ero in casa con la mamma che stava cucinando i maqi (involtini siriani) ma non avevamo abbastanza ceci
così chiesi a mia madre se potessi
uscire a comprarli, ma mia madre
era contraria, perché sentiva il rumore dei bombardamenti e aveva paura. Ho insistito così tanto che mi ha
fatto uscire. “Corri” mi ha detto,
“corri più che puoi e torna subito a
casa”». Hyam racconta di aver incontrato il cugino lungo la strada e
di essersi fermata con lui a guardare
le mucche in un campo, a salutare la
zia, che abitava in una casa poco distante dalla piccola bottega di alimentari. Ma al negozio di alimentari, Hyam non è arrivata mai. «Improvvisamente abbiamo visto un aereo sulla nostra testa e abbiamo capito. Io ho tappato le orecchie con
le mani con tutta la forza che avevo.
Del dopo ricordo solo il sangue sul
mio braccio e la pelle che non c’era
più». Quel giorno una bomba è caduta poco distante da Hyam e da
suo cugino, le schegge hanno colpito il braccio della bambina, che nonostante le molte operazioni subite
in Libano, non potrà mai più distenderlo completamente. La lunga cicatrice che parte dalla spalla e arriva al
polso è il segno che per tutta la vita
farà di Hyam una dei milioni di
bambini siriani che portano sulla
pelle il trauma della guerra.
A Qusayr Hyam era la più brava
della classe: diligente, curiosa, costante. Racconta che a scuola aveva
un piccolo armadietto di colore rosso in cui teneva tutti i libri che
avrebbe voluto leggere, già da bambina si interessava di anatomia e
biologia. Aveva grandi sogni, studiare medicina e poi specializzarsi. La
sua era una famiglia benestante, avevano una grande casa a due piani.
D’estate il padre portava lei e i suoi
fratelli lungo il fiume Oronte e
ognuno di loro esprimeva i propri
sogni sul futuro.
Oggi Hyam frequenta una scuola
informale in Libano, cioè una struttura in cui operatori e volontari di
varie ong (libanesi e internazionali)
mettono a disposizione il proprio
tempo per dare nozioni fondamentali ai bambini rifugiati, impegnare il
loro tempo e impedire che diventino
vittime di matrimoni precoci, sfruttamento lavorativo e soprattutto reclutamento da parte di gruppi fondamentalisti. Ma le scuole informali
non hanno curricula riconosciuti
dalla scuola pubblica libanese, dunque i bambini che le frequentano
stanno di fatto perdendo anni di insegnamento. Hyam è una dei trecentomila bambini siriani che in Libano
sono esclusi dal sistema scolastico.
Il Libano conta quasi sei milioni
di abitanti; i rifugiati siriani ufficialmente registrati sono un milione e
mezzo, ma le organizzazioni umanitarie stimano che da quando l’Unhcr
(Alto commissariato per i rifugiati
delle Nazioni Unite) ha smesso di
registrare i profughi, sotto indicazione del governo di Beirut, il numero
sia cresciuto almeno del trenta per
cento. Ciò significa che in Libano
un abitante su quattro è un profugo
siriano. Inoltre, per disincentivare i
rifugiati a restare nel paese, il governo libanese non ha mai autorizzato
la costruzione di campi profughi ufficiali, così il milione e mezzo di siriani in fuga dalla guerra sta vivendo
Alla Knesset parte l’esame della proposta di legge per regolarizzare gli insediamenti
Netanyahu andrà da Trump
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu durante una riunione di governo (Ansa)
TEL AVIV, 31. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sarà
in visita a Washington dal presidente statunitense, Donald
Trump, il prossimo 15 febbraio.
Lo ha annunciato ieri il portavoce della Casa Bianca, Sean
Spicer. «Il nostro rapporto con
l’unica democrazia del Medio
oriente è cruciale per la sicurezza di entrambe le nostre nazioni» ha detto Spicer riferendo
che i colloqui tra Trump e Netanyahu saranno incentrati sui
temi della cooperazione strategica, tecnologica e militare tra
Stati Uniti e Israele. E ovviamente anche sulla questione
degli insediamenti. A tale proposito inizia oggi il dibattito
alla Knesset sulla proposta di
legge per la regolarizzazione di
circa 4000 case in Cisgiordania.
l’ennesimo inverno da esule all’interno di campi che, in alcuni casi, non
hanno nemmeno l’acqua potabile.
Dopo cinque anni.
Del milione e mezzo di profughi,
più della metà sono bambini in età
scolare, Hyam è una di loro. Per tre
anni e mezzo i siriani non sono stati
ammessi nelle scuole libanesi, perdendo gli anni centrali della formazione scolastica.
Una delle più gravi conseguenze
del conflitto siriano — che ha generato e continua a generare la più
grave crisi umanitaria degli ultimi
venticinque anni — è che un’intera
capito che qualcuno avrebbe dovuto
sacrificarsi per la famiglia, e siccome
è il primogenito l’ha fatto lui. Aveva
un sogno, Mohammed, avrebbe voluto fare il pilota civile perché
dall’alto — dice — «tutto sembra più
bello». Oggi invece Mohammed fa
l’operaio in una ditta edile. Lavora
dalle sei del mattino al tramonto,
per una manciata di dollari al giorno. Non sempre riceve la paga pattuita, eppure non si ribella, perché
sua madre ha bisogno di soldi per
sfamare la famiglia.
Quando Mohammed esce dal
campo, all’alba, per andare a lavora-
generazione di bambini, vittime di
traumi psicologici e fisici, costretti a
vivere in condizione di pericolo e
fragilità, sta crescendo senza alcuna
educazione.
Solo in Libano sono mezzo milione i bambini siriani, dai 6 ai 18 anni,
che stanno diventando una generazione perduta. A confermarlo è anche il rapporto The Future of Syria –
Refugee Children in Crisis rilasciato
da Unhcr, secondo cui più della metà dei bambini siriani che si trovano
a vivere temporaneamente in Libano
e in Giordania (paesi confinanti con
la Siria e che accolgono il maggior
numero di profughi) sono esclusi
dalla formazione scolastica.
Hyam sa che le ore di lezione spese nella scuola informale di Tel Abbas non contribuiranno alla sua formazione scolastica, eppure ogni mattina si sveglia prima di tutti e comincia a studiare. Letteratura, geografia, storia soprattutto perché, dice, «la storia mi insegna quello che è
stato e mi aiuta a prevedere quello
che sarà». Nel suo libro di storia tiene un disegno fatto a mano, l’ha fatto lei a matita durante una delle tante notti in cui non riusciva a dormire. «Rappresenta il mio amore per la
Siria». Il disegno raffigura una mappa stilizzata della Siria, dal centro
del paese si estendono due braccia
che stringono una bimba. La bimba
è Hyam. «In questo disegno c’è il
mio amore per il mio paese. Mi
manca. E noi manchiamo a lei, alla
Siria, perché nessuno di noi ha scelto di andare via. Noi siamo stati costretti a scappare per non morire».
Hyam chiude gli occhi. Elenca tre
desideri. Desidera studiare ancora
nel suo paese, desidera che suo fratello Mohammed, quindici anni,
possa smettere di lavorare per mantenere la famiglia, e desidera dormire ancora nel suo letto, a Qusayr.
«Poi c’è un desiderio che non si può
avverare — dice — cioè che tornino i
giorni d’inverno, quando a Qusayr
scendeva la neve e mio padre mi accompagnava a scuola a piedi». Oggi
il capofamiglia è Mohammed.
Quando sono arrivati in Libano
Mohammed aveva dodici anni. Ha
re, i suoi fratelli dormono ancora.
«Vorrei che studiassero» afferma il
ragazzo. «Farei di tutto affinché
possano continuare a studiare. Il
mio sacrificio deve essere l’unico di
questa famiglia. Vorrei tanto che mia
sorella facesse qualcosa di utile per
la società».
Hyam, che vuole diventare psicologa per ricucire le ferite dei bambini traumatizzati dalla guerra, Hyam
che aiuta la mamma a lavare i vestiti
di tutti i fratelli, Hyam che cammina
nel fango per arrivare a una scuola
che non le darà alcun diploma,
Hyam che prega, che sorride ballando, Hyam che sui banchi della sua
scuola informale chiude gli occhi e
piange pensando al padre ucciso
dalla guerra.
Test
missilistico
iraniano
TEHERAN, 31. L’Iran ha effettuato
il test di un missile balistico. Si
tratterebbe di una aperta violazione delle risoluzioni delle Nazioni
Unite. Il lancio — dicono fonti di
stampa e di intelligence — è avvenuto domenica su un sito a circa
140 miglia a est di Teheran. Il
missile ha volato per 600 miglia
prima di esplodere. La risoluzione Onu numero 2231, seguita
all’accordo sul nucleare iraniano,
stabiliva che Teheran non avrebbe
dovuto condurre test su missili
balistici per otto anni. Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer,
ha chiarito che il Pentagono è
consapevole del test di Teheran in
violazione delle sanzioni sul programma missilistico, distinte da
quelle sul nucleare, revocate dopo
l’accordo del 14 luglio 2015.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 4
mercoledì 1 febbraio 2017
Don Bosco con un gruppo di ragazzi
in una foto d’epoca
Nuove prospettive di ricerca per chi vuole approfondire la figura del santo piemontese
Don Bosco
visto da lontano
di FRANCESCO MOTTO
na certa immagine di
don Bosco è stata ampiamente diffusa dal
«Bollettino
Salesiano», dalla notevole
pubblicistica dei salesiani, dal risvolto missionario del colonialismo europeo e soprattutto dalla fondazione
di opere salesiane, all’interno delle
quali i giovani potevano godere della presenza “palpabile” del santo, attraverso un ampio campionario di
statue, busti, quadri, immaginette,
feste, murales, frasi celebri, libretti,
commemorazioni, discorsi e così via.
Ma qual è stata l’immagine di don
Bosco percepita fino a mezzo secolo
fa al di fuori delle mura salesiane?
Alla domanda ha cercato di rispondere il convegno internazionale di
storia dell’opera salesiana, promosso
dall’ACSSA (Associazione cultori di
storia salesiana) in collaborazione
con l’ISS (Istituto storico salesiano)
che si è svolto a Torino dal 28 ottobre al 1° novembre 2015, del quale
sono appena usciti gli Atti, a cura di
suor Grazia Loparco e padre Stanislaw Zimniak.
Il volume Percezione della figura di
don Bosco all’esterno dell’Opera salesiana dal 1879 al 1965 (Roma, LAS,
U
se aree geografiche; «Il nome di don
Bosco lungo le strade. Toponomastica, monumenti, parrocchie, legislazione, memoria orale e altri» che copre tutto il periodo considerato e
anche oltre.
L’enorme diffusione internazionale dell’immagine di don Bosco ha
avuto due momenti topici: la morte in concetto di santità, allorché è
Con la sua opera ha fatto presa
stato celebrato come
educatore e operatore
non solo sugli ambienti
sociale dalle grandi inintorno a lui
tuizioni e realizzazioni
e il quinquennio delma su persone e luoghi lontanissimi
l’elevazione agli altari
per storia, cultura e religione
(1929-1934), quando la
sua figura ha valicato i
confini fino allora rag2016, pagine 909, euro 47), raccoglie giunti dalla presenza salesiana. Pri36 interventi relativi a 18 Paesi di vilegiate furono le aree cattoliche
quattro continenti, suddivisi in tre d’Europa e d’America, ma non furosezioni: «Don Bosco in prima lettu- no insensibili le aree con maggiora» che spazia soprattutto fino alla ranza di altre confessioni o di altre
canonizzazione del 1934; «Don Bo- religioni, sull’onda del rilancio missco a caratteri di stampa» che per- sionario della Chiesa cattolica
mette interessanti raffronti fra diver- dell’epoca.
Quali i risultati dell’ampio sondaggio? Interessanti, intriganti e anche problematici, che però non è qui
possibile presentare, data la mole di
documenti e riflessioni offerte dai relatori, che spaziano dal giornalismo
alla letteratura, dalla pedagogia alla
catechesi, dall’urbanistica alla legislazione, dalla politica all’associazionismo. Basterà allora dire che la figura di don Bosco che emerge è
quella di una persona eccezionale, di
un educatore eccellente anche se privo di studi specifici, di un sacerdote
zelante per le anime anche se sempre affaccendato in questioni materiali, di un fondatore di grande successo anche se privo di mezzi economici, di un santo moderno anche se
figlio del suo tempo.
Tasselli di una vita complessa, ben
collocati uno accanto all’altro, che
formano una sorta di mosaico con
cui si può definire la poliedrica figura di un santo che ha raggiunto e
fatto presa non solo negli ambienti
attorno a lui, o nel suo Paese, ma
pure su persone e in luoghi lontanis-
simi per storia, cultura, valori, religione, razza, geografia. Nel complesso risultano evidenti una generale ammirazione nei suoi confronti,
un’ampia divulgazione popolare della sua figura, una diffusa devozione
alla sua persona e una presenza, ancor timida e problematica, in alcuni
circoli culturali laici, per lo più cattolici.
L’interpretazione storica del personaggio, compiuta quasi sempre in
funzione dei bisogni del proprio
tempo e del proprio territorio, ha
poi portato a un enorme sviluppo
internazionale l’Opera da lui fondata, che a sua volta ha continuato a
diffondere una certa immagine del
fondatore. Sembra però che tale ampia risonanza, forse in quanto eccessivamente polarizzata su un’immagine di don Bosco entusiastica ed
oleografica, spesso retorica e priva di
spessore storico, non abbia inciso
più di tanto sull’identità collettiva
delle società e sulla loro opinione
pubblica. E non abbia particolarmente influito sulle concrete scelte
politico-social-culturali dei Paesi.
Anche se rimane vero che ha creato un contesto di maggior attenzione, da parte dei ceti dirigenti, a determinati principi educativi salesiani,
e ha dato origine a un maggior rispetto, da parte delle istituzioni
pubbliche, della cultura popolare,
ispirata a forme espressive salesiane.
Non per nulla don Bosco è stato intuito come personaggio significativo
da storici del calibro di Gaetano Salvemini e Federico Chabod ed è stato
ammirato da letterati del valore di
un Henry Daniel-Rops e di un Paul
Claudel.
La ricerca non è conclusa; pur
nella sua ampiezza ha tutto il sapore
di un sondaggio. Lancia però fin da
ora precisi e concreti segnali a studiosi di scienze sociali — antropologi
culturali, sociologi della religione,
iconografi, esperti di comunicazione,
di semiotica, di simbologia, di agiografia — che potranno approfondire
gli studi indagando la figura di don
Bosco a tutto campo in un solo Paese o in più Paesi, in un ristretto o in
un ampio arco di tempo, secondo
varie piste di ricerca, meglio ancora
se interdisciplinari.
Un’icona di don Bosco proveniente dalla Cappella dei salesiani di Betlemme (particolare)
Arte contemporanea in chiesa
Dialogo ancora possibile
di SILVIA GUIDI
«Giusto a fianco dell’immane e sublime scheletro di un’acciaieria abbandonata, si erge maestosa la chiesa.
Descriverla, non si può. Ma vale la
visita perché mette a fuoco uno dei
misteri delle Indias. Lo riassumerei
così: quale tragedia immane ha portato coloro che hanno voluto la catte-
so, «quale organo si è atrofizzato,
quale anima se n’è volata via? Che
dio è morto, se il loro sta bene in
quella casa?». Una domanda vasta,
profonda, argomentata, accorata, che
il libro di padre Andrea Dall’Asta
(Eclissi. Oltre il divorzio tra arte e
Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo,
2016, pagine 139, euro 16) non censura ma amplifica, evidenziandone la
stre chiese, scrive Dall’Asta, restiamo
troppo spesso costernati nel trovarci
di fronte a rappresentazioni “di plastica”, a pallide ombre. Torna in mente
una frase, severa ma profetica, di
Marc Chagall: «L’arte del ventesimo
secolo, tranne poche eccezioni — scrive nelle sue Memorie parlando della
debolezza creativa del secolo breve,
ma anche prefigurando la crisi
Mimmo Paladino, «Senza titolo» (2012) installazione nella Cappella delle ballerine della chiesa di San Fedele a Milano
drale di Chartres, la Cappella Sistina,
le Madonne del Bellini e i crocefissi
di Cimabue a volere quella cosa lì?».
Stavolta il j’accuse viene da un insospettabile, Alessandro Baricco. Quale
luce si è spenta, continua lo scrittore
piemontese in uno dei suoi più bei
reportage sulle periferie, pubblicato
su «Vanity Fair» del 4 novembre scor-
drammaticità e l’urgenza. Il volume,
infatti, è composto sostanzialmente di
interrogativi in cerca di una risposta e
di inviti a non accontentarsi di soluzioni parziali, frettolose, superficiali,
accostando a qualche esempio positivo tante perplessità su molte opere
già esistenti. Quando consideriamo
gli interventi contemporanei nelle no-
tutt’ora in corso — non è arrivata alla
forza, all’estasi di preghiera espresse
nelle sculture dei popoli antichi. E
non può affatto reggere il confronto
con loro».
Troppe volte manca l’“estasi”, l’intensità, l’autenticità della preghiera,
quell’energia invisibile che infonde
carne e sangue alle opere d’arte. Os-
servando molte immagini dell’arte liturgica contemporanea, scrive l’autore, riscontriamo forme sin troppo viste, troppo stancamente ripetute. Tutto è già stato troppo detto. Come se
non ci fosse più alcuna soglia da attraversare, alcun “oltre” verso il quale
dirigersi, in un mondo popolato da
«caricature di una spiritualità edulcorata e sentimentale che non mette in
gioco nessuno». È come se l’uomo di
oggi, scrive l’autore citando Romano
Guardini, avesse smarrito la sua identità religiosa più profonda, il suo essere homo simbolicus.
Ma un dialogo fruttuoso fra passato e presente è ancora possibile. Tra
gli esempi di questo circolo virtuoso
di forme e contenuti Dall’Asta cita la
chiesa di San Fedele a Milano. In
particolare, l’intervento di Mimmo
Paladino nella Cappella della Madonna Torriani, oggi chiamata Cappella
delle ballerine, in quanto le danzatrici
del Teatro della Scala, nel secondo
dopoguerra, portavano un fiore la sera del debutto, in omaggio alla Madonna. La cappella, progettata alla fine dell’Ottocento, conserva infatti
l’affresco della Madonna dei Torriani,
risalente agli inizi del XIV secolo, o
Madonna del latte, iconografia molto
diffusa in Italia in epoca medievale.
Gli antichi ex voto sono andati perduti dopo l’ultimo conflitto mondiale, e si è voluto ricordare la loro presenza con un’installazione di un artista che ama lasciarsi ispirare da questi oggetti nati dalla fede popolare,
testimonianze concrete del passaggio
della Grazia nella vita dell’uomo.
L’opera di Paladino è costituita da
una serie di scarpette in bronzo argentato di vario formato. Riconosciamo immediatamente che si tratta di
“per grazia ricevuta”, di oggetti votivi. Attraverso le piccole scarpe Paladino riprende infatti le forme tipiche
degli ex-voto, che spesso alludevano
alla guarigione di un arto, in riferimento a un modo mitico-simbolico
che affonda le proprie radici alle origini della storia umana.
L’installazione, nota Dall’Asta, evoca in questo modo frammenti di storie vissute e insieme ci immerge in un
mondo popolare arcaico. «Le piccole
scarpe appaiono costellare uno spazio
che si configura come quello della vita. Paladino fa emergere brandelli di
un dramma sofferto, ricompone frammenti ritrovati come quelli di una tragedia greca, di cui stiamo ricostruendo la trama. Lacerti di un dolore che
sale verso il cielo. E le scarpe sono
Quando consideriamo
gli interventi contemporanei
nei luoghi di culto
restiamo costernati nel trovarci di fronte
a rappresentazioni “di plastica”
disposte come se si arrampicassero
verso l’alto, come a segnare un desiderio di risalita».
Una luce dall’alto le investe, in
senso letterale e spirituale insieme.
«L’argento — continua l’autore — può
così riflettere la luce sulla parete, come testimonianza di una grazia ricevuta per la salvezza dell’uomo».
Il libro si chiude con una domanda: quali saranno i nuovi segni, i
nuovi simboli, una nuova carne per la
trasmissione della Parola, le diverse
forme di bellezza per il futuro? La
fiducia che il concilio Vaticano II
aveva riposto nel mondo della cultura
e dell’arte non può essere oggi
disattesa.
L’OSSERVATORE ROMANO
mercoledì 1 febbraio 2017
pagina 5
Migranti accampati
in un magazzino abbandonato
a Belgrado (Ap)
«Ho amici in paradiso»
di CHARLES
DE
Film
coraggioso
PECHPEYROU
se, invece della droga o
delle armi, fosse stata
trovata una merce più
redditizia e più facile da
trasportare da un continente all’altro, dai paesi più poveri
del mondo verso la vecchia Europa? E se si trattasse di esseri umani, pur considerati sacri? Questo
ragionamento, che sembra da incubo, è stato già applicato da numerosi trafficanti in diversi punti del
mondo durante quest’ultimo decennio, deplora Loretta Napoleoni
in «Mercanti di uomini» (Milano,
Rizzoli, 2016, pagine 350, euro
18,50), libro-inchiesta pubblicato a
gennaio. L’autrice denuncia inoltre
l’ingenuità, o meglio la complicità
dell’Occidente nei confronti di
questo “commercio”, finanziato in
gran parte dal terrorismo, e che a
sua volta lo finanzia. Un commercio dove un prezzo viene dato,
come accade per tutti i mercati, alla merce, che qui sono gli esseri
umani.
Come spesso accade, a dare l’avvio è stato il boom dei prezzi: citando fonti dell’Interpol, chi controllava il racket dell’immigrazione
in Costa d’Avorio quindici anni fa
guadagnava tra 50 e 100 milioni di
dollari l’anno. Nel 2015, solo in Libia la tratta dei migranti ha frutta-
E
Lungo la rotta centro-mediterranea
l’Is ha stabilito nuove regole
I trafficanti devono pagare
il 50 per cento dei loro guadagni
in cambio del diritto di navigazione
to circa 300 milioni di euro netti.
«Allo stesso modo, oggi è più semplice e lucroso organizzare i viaggi
dei Siriani in fuga che sequestrare
gli occidentali», afferma Loretta
Napoleoni, che ha raccolto tante
testimonianze, spesso agghiaccianti, per arricchire la sua argomenta-
di EMILIO RANZATO
elice Castriota (Fabrizio Ferracane),
commercialista colluso con la malavita,
accetta di collaborare con la giustizia in
cambio di una commutazione della pena
cui è stato condannato: invece di andare
in carcere, svolgerà i servizi sociali in un istituto
che ospita pazienti con disabilità. Proveniente dalla bella vita sulle spalle degli altri, e totalmente allergico alla generosità e all’abnegazione, Felice
all’inizio quasi rimpiange la galera. Pian piano, però, anche grazie all’affettuosa amicizia con una psicologa del centro (Valentina Cervi), capirà il valore
delle persone che lo circondano e rinnegherà il
proprio passato.
Ho amici in paradiso, scritto e diretto da Fabrizio
Maria Cortese, si regge caparbiamente su una piccolissima produzione, e nasce da un’esperienza
personale dello stesso regista all’interno del Centro
Don Guanella di Roma, proprio l’istituto che vediamo sullo schermo. Così come sono veri pazienti
del centro gli attori non professionisti che recitano
con disinvoltura accanto a nomi noti del cinema
italiano. Si tratta di un racconto esile ma divertente e soprattutto sincero, confezionato con discreta
professionalità tecnica. Ma la qualità maggiore del
film è quella di trovare un tono sensibile ed equilibrato, ovvero lontano tanto dall’ipocrisia quanto
dal cinismo. Riuscendo a cogliere, pur tra le maglie di un registro leggero e simpatiche escursioni
nell’action movie, l’essenza della condizione dei
portatori di disabilità, quella cioè di uno svantaggio che può trasformarsi in un modo più ricco con
F
Sul traffico di ostaggi e migranti che finanzia il jihadismo
Un mercato
come gli altri
zione. Tragicamente, nello stesso
modo in cui, qualche anno fa, il
fiorente mercato dei rapimenti classificava gli ostaggi in base a criteri
ben precisi, «compreso l’impatto
del rapimento sull’opinione pubblica», oggi un prezzo viene assegnato a ogni profugo, questa volta dai
trafficanti. Tuttavia, se da un lato i
governi occidentali erano pronti a
sborsare milioni di euro per far tornare un volontario dal Sahel o un
soldato dall’Afghanistan, basterà
qualche centinaio di dollari a un
trafficante per comprare un migrante abusivamente imprigionato,
dal quale poi estirpare denaro.
A causa della situazione politica
internazionale propizia, questo
mercato è diventato più glocal, in
mano a tribù o gruppi jihadisti,
nota Napoleoni, che da anni studia
i legami tra economia e terrorismo.
«Sempre più persone fuggono dagli Stati falliti e dai territori sotto
controllo islamista, dunque la tratta
di migranti è diventata un’attività
illecita tentacolare», denuncia la ricercatrice. Rapitori e trafficanti si
sono concertati su modelli economici localizzati. «Pirateria e jihadismo criminali sono fioriti in aree,
omogenee sul piano culturale e
storico, che un tempo facevano
parte di nazioni coloniali o postcoloniali».
Ma la colpa va attribuita anche
ai paesi occidentali, secondo l’autrice: oltre al fatto di aver sovralimentato il mercato dei rapimenti di
concittadini pagando somme ingenti — senza mai riconoscerlo ufficialmente — essi hanno permesso ai
trafficanti non europei di «esportare nell’Unione europea il modello
criminale del “pagamento alla consegna” anche perché è il più funzionale ed efficace per i migranti».
Siamo di fronte a un triste esempio
di «impollinazione incrociata» tra
criminalità europea e non. Tanto
che le migrazioni di clandestini
all’interno dell’Europa non funzionano molto diversamente da quelle
in mezzo al deserto libico o tra Siria e Turchia. «Ricco o povero che
sia, il migrante non può fare a meno di rivolgersi a un trafficante»,
riassume Napoleoni, «anche quando, nell’estate del 2015, l’Unione
europea ha aperto momentaneamente i confini, queste figure erano
indispensabili per raggiungere gli
Stati membri». Ovviamente, i trafficanti adattano prezzi e servizi al
potere d’acquisto di chi fugge: fino
a 10.000 euro per volare tra Turchia e Europa, 1000 dollari per
viaggiare in camion tra Bulgaria e
Germania.
Poi, ultimamente, un altro fattore si è introdotto nel mercato di
uomini, sempre più lucrativo: il co-
siddetto Stato islamico. Lungo la
rotta centro-mediterranea, oramai
meno affollata di quella che passa
per Turchia e Grecia, l’Is ha stabilito nuove regole. Ai trafficanti viene
richiesto il 50 per cento del guadagno in cambio del diritto di navigazione. Pertanto, l’Is in questo
modo fa sì che i contrabbandieri
non possano riscuotere dai passeggeri una somma ogni volta maggiore. Un “merito” agli occhi dei migranti, e una “garanzia”, esercitata
dai gruppi terroristici, che inoltre
non mancano di fare proselitismo
durante le permanenze dei migranti sulle coste libiche, aggiunge l’autrice.
Ora, dopo questa dettagliata ed
argomentata descrizione di un
complesso processo economico che
si è sviluppato tra traffico di droga,
sequestri di stranieri e infine gestione di flussi migratori, il lettore si
chiede: cosa bisogna fare per arginare questo dramma? «All’orizzonte non si profilano soluzioni semplici», si rammarica Loretta Napoleoni, ritenendo che «l’apertura dei
confini si è rivelata disastrosa per
via dell’enorme numero di rifugiati
e migranti in ingresso». In Siria,
mettere fine ai bombardamenti non
impedirà alle persone di fuggire
dalle proprie case. Secondo l’Ue,
ribadisce l’autrice, l’unica soluzione
possibile consiste nel «bloccare i
migranti alle porte dell’Europa con
l’aiuto di una nazione amica, la
Turchia». «Erdogan farà per
l’Unione europea ciò che Gheddafi
ha fatto per l’Italia e l’Ue fino a
qualche anno fa?», si chiede l’autrice. Con il timore comunque che
i campi profughi in Turchia diventino vivai di nuovi rapitori, jihadisti e criminali, pronti a entrare nei
ranghi del Califfato.
cui guardare alla vita, nonché in una preziosa risorsa umana per il resto della società.
Viste le ristrettezze economiche, Cortese poteva
paradossalmente essere anche meno accorto dal
punto di vista registico, ovvero puntare su un cinema dichiaratamente povero, simile a quello di
Gianni Di Gregorio (Pranzo di ferragosto), che fa
del suo aspetto spartano e orgogliosamente dilettantesco un segno di riconoscimento. Qui invece si rimane su uno stile più impersonale. Ma sono soltanto considerazioni cinematografiche su un lavoro che
mette in campo valori ovviamente più importanti.
La presenza del giovane Antonio Folletto (in
questo periodo anche sui piccoli schermi italiani
con la serie I bastardi di Pizzofalcone), nei panni di
uno dei portatori di disabilità, contraddice in parte
lo spirito dell’operazione. Ma la sua interpretazione è misurata e sentita. E dunque non rovina questo film piccolo ma coraggioso su un argomento
importante e poco trattato.
Omaggio all’archeologo siriano assassinato
di ROSSELLA FABIANI
Palmira, Petra, Samarcanda sono soltanto
alcune delle più famose città carovaniere
che un tempo costituirono i punti di riferimento di una fitta rete di commerci e di
relazioni umane. La seta, il cotone, il sale,
l’incenso, come pure le idee e le conoscenze, viaggiavano sulle grandi vie commerciali del passato che attraversavano il continente africano per approdare nelle città
costiere del Mediterraneo — dall’Algeria
alla Libia — oppure facevano rotta verso il
Mar Caspio per raggiungere il Centro
Asia. Le rotte commerciali attraversavano
l’odierno Azerbaigian, la catena del Caucaso, le oasi di Bukhara e di Samarcanda
fino a Kashgar, nell’odierna Cina, passando anche per Petra, Gerasa, Seleucia, cresciuta sulle sponde del Tigri, Dura Europos e Palmira.
E proprio dedicato alla città di Palmira,
patrimonio dell’umanità, martoriata dalla
guerra in Siria, uscirà a breve un volume
per i tipi di Archeo.
Si tratta di un progetto editoriale, fortemente voluto dal direttore di Archeo, Andreas Steiner, e promosso dalla Società
Dante Alighieri e dalla Commissione nazionale Unesco. Il volume è la traduzione
in italiano della guida archeologica della
città scritta dal direttore del Museo di Palmira, Khaled al-As’ad, che è stato ucciso
Per far rivivere Palmira
dai miliziani jihadisti nel 2015, quando la
città passò sotto il controllo del cosiddetto
stato islamico.
Il progetto è nato dal desiderio di rendere omaggio alla figura dell’archeologo
siriano assassinato nel 2015 per avere voluto difendere il patrimonio culturale dalla brutalità distruttiva dei terroristi che
fanno riferimento alla galassia islamica radicale chiamata ad-Dawlah al-Islāmiyah fī
'l-Irāq wa-sh-Shām («Stato islamico in
Iraq e Siria») con la pubblicazione in traduzione italiana, corredata da un ricco
apparato iconografico, della sua guida archeologica di Palmira, scritta insieme al
suo collega Adnan Bounni e pubblicata
per la prima volta a Damasco nel 1976.
Alla “perla” del deserto siriano, Khaled
al-As’ad ha dedicato tutta la sua esistenza
di studioso. Il nome greco della città, Palmyra (Παλμύρα), è la fedele traduzione
del suo nome originale aramaico, Tadmor, che significa palma, così come Tadmur (palma in arabo) è il nome della cittadina sorta in prossimità delle rovine.
Leggere oggi il testo di As’ad e Bounni,
alla luce dei tragici eventi che hanno sconvolto la città (le ultime distruzioni, rese
note il 20 gennaio scorso, hanno portato
via il Tetrapilo, il quadriportico all’inizio
della Via colonnata, e il proscenio del Teatro romano) e la stessa vita degli autori, è
un monito alla memoria, soprattutto
quando si incontrano descrizioni di luoghi
e di monumenti la cui sopravvivenza alla
devastazione della guerra è compromessa.
Le pagine scritte da Khaled sulla storia di
Palmira, sui suoi monumenti e sulle iscrizioni palmirene, sono un pellegrinaggio
nella realtà ideale e materiale di uno dei
siti archeologici più famosi del mondo e
«una rievocazione piena di gratitudine
dell’esistenza di coloro che hanno lavorato
con passione e spirito di sacrificio per trasmettere alle generazioni future la sua eredità. È grazie a uomini come questi che,
nonostante i massacri e le distruzioni, Palmira non morirà mai», dice Steiner.
Oltre alla traduzione del libro di As’ad,
il volume in uscita contiene un saggio
dell’archeologa dell’università degli Studi
di Milano, Maria Teresa Grassi, direttrice,
insieme al figlio di Khaled al-As’ad, Waleed, della missione archeologica italo-siriana di Palmira (Pal.M.A.I.S.), che offre al
lettore le coordinate storico-archeologiche
per comprendere al meglio l’importanza
della città nel contesto antico, tardoantico e medievale, e si sofferma sulle vicende della scoperta del sito, sulle ricerche e
sugli scavi che vi si sono succeduti per
più di un secolo e sulla fortuna di Palmira e della
sua celebre sovrana, la regina Zenobia,
nell’immaginario culturale dell’O ccidente. A questo saggio segue il contributo di
Marco Di Branco, bizantinista e islamista, che inquadra storicamente l’atteggiamento islamico nei confronti dell’arte figurativa e il problema della distruzione
di beni culturali. La speranza è quella di
poter ripercorrere la Via Colonnata di
Palmira, chiamata anche “la sposa del deserto”, con la guida di Khaled al-As’ad
alla mano. In tempo di pace.
L’arco monumentale di Palmira distrutto nel 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
mercoledì 1 febbraio 2017
Iniziative della Jeunesse ouvrière chrétienne
PARIGI, 31. In Francia ministero
dell’Interno, Federazione protestante, Federazione di mutua assistenza
protestante, Secours catholique,
Conferenza episcopale e Comunità
di Sant’Egidio firmeranno prossimamente un protocollo «basato sulla
messa in opera di un processo di accoglienza più specificamente riservato ai rifugiati considerati come persone vulnerabili, secondo i criteri
dell’Onu». Ad annunciarlo è stato
nei giorni scorsi a Parigi il presidente della Federazione protestante di
Francia, François Clavairoly, intervenendo
all’assemblea
generale
dell’organizzazione. Quello dell’accoglienza dei rifugiati è stato posto
da Clavairoly come primo di quattro improrogabili impegni dei protestanti. «Già l’anno scorso ne avevamo ricordato l’importanza e quanto
esso richieda uno sforzo a lungo termine. Si tratta — ha detto il presidente — di uno sforzo compiuto
principalmente dalla Federazione di
mutua assistenza, dalle associazioni
locali, dalle Chiese stesse e dalle
fondazioni, nonché da singoli individui. Questo sforzo è stato accompagnato e sostenuto felicemente
l’estate scorsa da una campagna lanciata dalla Chiesa protestante unita,
intitolata Exilés, l’accueil d’abord, che
ha mobilitato numerosi partner e il
cui messaggio ha raggiunto non soltanto noi membri ma è andato ben
al di là». La firma del protocollo
rappresenta quindi «il prolungamento di tutti questi impegni».
Ma anche il secondo dei punti
fissati da Clavairoly riguarda la solidarietà, per essere più precisi la
«Solidarietà protestante», strumento
della Fondazione del protestantesimo. Si tratta di una piattaforma che
consente di lanciare appelli legati a
emergenze o crisi e che è formata
dalla Federazione di mutua assistenza protestante, dalla Federazione
protestante, dal Servizio protestante
di missione e da tre organizzazioni
non governative (Medair, Le Sel e
Adra). «Questo coinvolgimento
porta dei frutti e promette progressi
nella raccolta dei fondi. Questa dimensione solidale e internazionale ci
ricorda come la Federazione protestante di Francia si inscriva in una
rete ben più ampia rispetto a quanto possa apparire e ci renda solidali
con numerosi Paesi e Chiese, soprattutto ad Haiti, in Libano, in Siria», ha detto il responsabile.
Alla ricerca
di un lavoro dignitoso
In Francia protocollo d’intesa con i protestanti sui rifugiati
Speciale
accoglienza
Non è da escludere che il protocollo francese segua, quantomeno
negli obiettivi, quello firmato il 12
gennaio in Italia dalla Conferenza
episcopale (che agirà attraverso la
Caritas Italiana e la Fondazione Migrantes),
dalla
comunità
di
Sant’Egidio, dal ministero dell’Interno e dalla direzione delle politiche migratorie della Farnesina. L’intesa prevede l’apertura di nuovi corridoi umanitari che permetteranno
l’arrivo in Italia, nei prossimi mesi,
di cinquecento profughi eritrei, somali e sud-sudanesi, fuggiti dai loro
paesi per i conflitti in corso. Secondo l’Alto commissariato dell’O nu
per i rifugiati, l’Etiopia oggi è la nazione che accoglie il maggior numero di rifugiati in Africa, più di
670.000 persone: un afflusso di dimensioni tanto ampie è stato determinato da una pluralità di motivi,
da ultimo la guerra civile in Sud
Sudan scoppiata nel dicembre 2013.
L’esperienza dei corridoi umanitari vede in prima fila la Federazio-
ne delle Chiese evangeliche in Italia, firmataria il 15 dicembre 2015 di
un accordo con il ministero degli
Affari esteri e della cooperazione internazionale, il ministero dell’Interno, la comunità di Sant’Egidio e la
Tavola valdese, che prevede l’arrivo,
nell’arco di due anni, di mille profughi dal Libano (per lo più siriani
fuggiti dalla guerra), dal Marocco
(dove approda gran parte di chi
proviene dai paesi subsahariani interessati da guerre civili e violenza
diffusa) e dall’Etiopia (eritrei, somali e sudanesi).
Nel suo messaggio all’assemblea
generale, Clavairoly esorta a guardare con fiducia al domani, nonostante il terrorismo, la violenza, conflitti,
tensioni: «Al centro della società, il
protestantesimo è attore del vivere
insieme secondo i criteri evangelici
della giustizia, della pace, del perdono e della speranza», in grado —
ha concluso — di dare una forza che
sollevi, liberi, riconcili, guarisca, benedica.
PARIGI, 31. Dalla chiesa di
Saint-Joseph ad Asnières-surSeine a quella del Sacré-Coeur
a Colombes, alla parrocchia di
Saint-Paul a Nanterre: in Francia — in particolare nel dipartimento di Hauts-de-Seine, nella
regione dell’Île-de-France — la
Jeunesse ouvrière chrétienne è
mobilitata da mesi per dare
una mano ai giovani nella ricerca di un lavoro “dignitoso”.
I piccoli annunci scritti da chi
è in cerca di impiego vengono
consegnati ogni primo martedì
del mese a responsabili del movimento che provvedono ad affiggerli nelle bacheche di tutte
le parrocchie della zona di
competenza. La Gioventù operaia cristiana, spiega Maïlys Benassi,
presidente
federale
dell’area Nord-Centre degli
Hauts-de-Seine, «vuole mettere
a disposizione tutta la rete parrocchiale del dipartimento per
le aspettative professionali di
questi ragazzi. Oltre ai pannelli, che rimangono in permanenza alla vista dei fedeli, periodicamente, al termine della messa, diffondiamo a voce alta le
richieste professionali dei nostri
giovani iscritti».
Come riferisce il quotidiano
«La Croix», che ha dedicato
all’argomento un ampio servizio nell’edizione del 26 gennaio, l’iniziativa, promossa dalla sede di Colombes, si inserisce nel quadro della campagna
nazionale di azione intitolata
Dignes et travailleurs, notre défi
pour demain, lanciata dall’organizzazione nel settembre scorso. Ulteriore impulso è stato
dato dai risultati emersi da una
recente inchiesta, effettuata dalla stessa Jeunesse ouvrière chrétienne (Joc), che mettono in luce le difficoltà crescenti dei giovani a rendersi autonomi, a entrare nel mondo del lavoro e a
trovare un impiego. Un’inchie-
sta nata con l’obiettivo di «denunciare le loro situazioni»,
«urlare i loro sogni» e «far
prendere coscienza che avere
un lavoro dignitoso è un diritto». Dall’ottobre al dicembre
2016 rappresentanti della Joc
hanno incontrato più di tremilaseicento giovani fra i 13 e i 30
anni di età per raccogliere dati
utili alla statistica. Sviluppata
in collaborazione con l’Union
nationale de l’habitat jeune e
l’Union nationale des missions
locales, la ricerca evidenzia un
aumento della disoccupazione
e del precariato, difficoltà a trovare uno stage, un contratto
fisso o un impiego part-time.
Esiste una netta differenza nelle risposte fra i “giovani” e i
“giovani senza lavoro”. Il 69
per cento dei primi dice di aver
scelto la situazione nella quale
si trova e il 64 di essere in grado di portare a termine i propri
progetti considerando la sua si-
tuazione attuale, mentre il 42
per cento dei secondi afferma
di subire la condizione vissuta
e il 50 di non avere fiducia nel
futuro, percentuale che sale tra
coloro che sono disoccupati da
molto tempo. Più in generale, i
giovani della Joc sono alla ricerca di un posto stabile, sotto
forma di un contratto a tempo
indeterminato. E un modello
economico che tenga conto del
fattore umano è preferito alla
mera logica del profitto.
Di fronte a tale quadro, assume ancora più importanza il
ruolo della Chiesa. «In una società che tiene poco conto dei
giovani dei centri operai, i cattolici dovrebbero sentirsi maggiormente coinvolti in queste
situazioni», osserva la presidente della Jeunesse ouvrière chrétienne, Aina Rinà Rajaonary,
che auspica di vedere espandersi tale esperienza in altre città
della Francia.
Per il cattolicesimo francese
La sfida del cambiamento
di MARC RASTOIN
Negli anni Ottanta, il cardinale
Lustiger ricordava spesso che il
crollo del cattolicesimo rurale e la
trasformazione del cattolicesimo in
una religione essenzialmente «urbana» erano due degli eventi più
importanti che avevano caratterizzato la Chiesa francese.
I contadini immigrati in città
spesso hanno perso il loro legame
con la Chiesa. Una delle principali
conseguenze dell’evoluzione degli
ultimi cinquant’anni che possiamo
constatare oggi, oltre all’affermarsi
del carattere urbano della Chiesa,
è la sua perdita, in ampia misura,
delle classi popolari e delle low
middle class. La Chiesa cattolica è
sostenuta soprattutto dalle classi
medio-alte, il che è ancora più evidente per le vocazioni sacerdotali:
esse provengono soprattutto dalle
famiglie benestanti di tradizione
cattolica. Nei quartieri popolari, il
panorama religioso è caratterizzato
da un indifferentismo agnostico,
dalla presenza sempre più consistente dell’islam e di alcune comunità evangeliche abbastanza dinamiche.
Uno dei principali compiti della
Chiesa francese nel futuro sarà
quello di accogliere e integrare popolazioni immigrate o non metropolitane cattoliche, siano esse originarie dell’Africa o dell’oltremare
francese. Per il momento esse sono
poco rappresentate nel clero o nei
quadri ecclesiali. La Chiesa francese condivide senza dubbio questa
preoccupazione con i vescovi europei, come pure con quelli degli
Stati Uniti.
A differenza di altre Chiese occidentali, quella francese finora è
stata meno colpita dagli scandali
di pedofilia fra il clero. Infatti
“l’affare di Outreau” (2004), dove
innocenti — fra cui un sacerdote —
sono stati falsamente accusati, ha
fatto in modo che la stampa
trattasse le accuse con grande cautela. I casi recenti — nella diocesi
di Lione e altrove — hanno indubbiamente indebolito la credibilità
della Chiesa come istituzione e
hanno evidenziato la necessità di
una vigilanza rafforzata: occorre
mettersi all’ascolto del Vangelo; i
più piccoli, i bambini devono essere la prima preoccupazione della
Chiesa.
La natura «giacobina» del Paese
si riflette anche nel funzionamento
della sua Chiesa. È per questo che,
a partire dagli anni Ottanta, numerosi vescovi hanno desiderato
avere maggiore libertà nei confronti delle “direttive parigine”. Per
questo le iniziative sono diventate
più locali, con gli inconvenienti e i
vantaggi che ne derivano: per
esempio, sono stati riaperti alcuni
seminari diocesani, mentre diversi
seminari interdiocesani sono entrati in crisi. Sono stati convocati numerosi sinodi diocesani; sono stati
proposti percorsi catechistici nuovi, ma si è accentuata la diversità
delle pratiche (età della cresima,
rapporto con l’insegnamento cattolico). È difficile infatti conciliare
sussidiarietà e unità pastorale.
Questa realtà ha indotto la sociologa Danièle Hervieu-Léger a
parlare di «esculturazione» crescente del cattolicesimo francese. È
la constatazione che la cultura
maggioritaria della società francese
si distacca sempre più dalla tradi-
per cento della popolazione, ed è
in continua diminuzione. I praticanti regolari sono poco più del 4
per cento della popolazione e sono
costituiti per lo più da persone che
Civiltà Cattolica
D all’ultimo numero della Civiltà Cattolica anticipiamo stralci di
un focus dedicato alle sfide della Chiesa in Francia. In esso si
evidenziano le grandi trasformazioni avvenute negli ultimi
cinquant’anni e le opportunità pastorali di una comunità
forse non più maggioritaria ma comunque dinamica e attiva.
zione cattolica. I sondaggi — sia
quelli che riguardano questioni di
fede (sulla risurrezione, sulla divinità di Cristo), sia quelli che riguardano questioni di morale (eutanasia, aborto) — confermano
questa analisi. Riguardo alla morale, il nucleo dei praticanti cattolici
si restringe sempre più a un ambiente socialmente omogeneo. Riguardo alla fede, si nota una grande difficoltà a trasmetterla, in particolare a tutti i giovani di famiglie
non praticanti che la Chiesa riesce
ancora a raggiungere, soprattutto
grazie all’ampia rete dell’insegnamento cattolico, che riguarda circa
il 20 per cento della gioventù scolarizzata. Sebbene ci siano buoni
percorsi di formazione, la mancanza di dirigenti accentua questa difficoltà. Ed ecco allora le conseguenze di questi cambiamenti. Il
numero di francesi che si dichiarano cattolici si aggira attorno al 55
superano i 65 anni. Sul piano delle
vocazioni, se il numero dei seminaristi era rimasto basso ma stabile
dal 1980 al 2005 (attorno ai 1000),
negli ultimi anni si è ridotto notevolmente (attorno ai 700). È significativo che in tutta la Francia ci
siano meno di 100 ordinazioni
l’anno. Un fatto sembra dunque
accertato: la metà della popolazione — costituita da una trentina di
milioni di persone — ha perso o
sta perdendo ogni legame vivo con
la Chiesa.
Come vivere questa nuova situazione? Come pensare la relazione
della Chiesa con una società sempre più secolarizzata? Come prendere posizione di fronte a uno Stato che, in presenza di una sfida
islamica, tende a inasprire le condizioni della laicità? La Chiesa cattolica, che si è confrontata prima
di altre Chiese con la secolarizza-
zione, costituisce una specie di laboratorio.
La Chiesa francese sta vivendo
un cambiamento sensibile e spesso
doloroso: il passaggio da una maggioranza tranquilla allo status di
minoranza che deve vivere in un
ambiente sempre più lontano dalla
sua fede, dai suoi riti e dai suoi
valori. Ma la Chiesa francese non
è morta: essa ha in sé molte fonti
di vita. Alcune delle sue iniziative
evangelizzatrici si stanno diffondendo nel mondo intero. Essa accoglie numerose famiglie profondamente credenti e generosamente
aperte alla vita, giovani particolarmente impegnati e pastori zelanti.
In che modo essere al tempo stesso aperti e legati alla tradizione?
In che modo far posto alla differenza, riuscendo a rimanere uniti?
Come
impegnarsi
con
zelo
nell’evangelizzazione senza coltivare la nostalgia per il passato? In
che modo rimanere fedeli alla propria storia — e ai propri santi —
riuscendo a leggere i segni dei
nuovi tempi? Ecco alcune delle
domande che si impongono alla
Chiesa in Francia nell’attuale situazione di cambiamento.
L’OSSERVATORE ROMANO
mercoledì 1 febbraio 2017
pagina 7
Prosegue la visita del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin
Pace e sviluppo
per il Madagascar
«La Santa Sede segue le attività
che si svolgono ogni giorno» in
Madagascar «non solo per raggiungere l’obiettivo della coesione sociale, tanto necessaria per
un futuro di pace e di sviluppo,
ma anche per affrontare le persistenti avversità naturali». È
quanto assicurato dal cardinale
Pietro Parolin, segretario di Stato, nel corso della conferenza tenuta lunedì 30 gennaio ad Antananarivo. Proseguendo la visita
nel Paese malgascio in occasione
del cinquantenario delle relazioni, il porporato ha parlato
dell’«azione diplomatica della
Santa Sede nell’attuale contesto
internazionale» e subito ha rivolto il proprio pensiero «alla
grave siccità che già da tre anni
colpisce il Sud dell’isola, con effetti legati alla carenza di colture e quindi all’insicurezza alimentare di cui sono vittime soprattutto i gruppi vulnerabili
della popolazione».
Nell’auditorium Mandrimena
della congregazione delle suore
del Sacro cuore di Gesù e di
Maria — gremito da sacerdoti,
religiosi, religiose, docenti e studenti dell’ateneo — erano presenti tra gli altri il cardinale
mauriziano Piat, tutti i vescovi
del Madagascar, i presidenti del
senato e dell’assemblea nazionale, diversi ministri del governo e
parlamentari, giudici della corte
suprema, ambasciatori accreditati nel paese e molti altri uditori
interessati al tema. Nella relazione, seguita con attenzione e vivo
interesse e molto apprezzata, il
cardinale Parolin ha sottolineato
come la Chiesa cattolica presti
grande attenzione agli sforzi
compiuti dal paese e con le proprie istituzioni incoraggi «le soluzioni adottate nell’interesse
della gente, dei suoi diritti fondamentali, e per la salvaguardia
dei valori che fanno parte della
grande cultura malgascia». Del
resto, ha ricordato, «il Madagascar è un paese con secoli di
storia e la sua gente sa come la
sicurezza, la pace e le riforme
economiche e sociali siano importanti e urgenti».
Anche perché, ha aggiunto il
segretario di Stato, «la geografia
rende questa grande isola una
terra di incontro e di dialogo tra
uomini e donne appartenenti a
gruppi etnici, culture e religioni
differenti». Ed è proprio in questa diversità, ha auspicato, che
la nazione deve continuare a
cercare ispirazione per la stabili-
Celebrata in Vaticano la festa di don Bosco
La stessa missione
Don Bosco non appartiene a una
leggenda, a un mito o a una teoria:
è una persona con una storia concreta, che continua ancora oggi a essere significativa. Lo ha detto don
Renato dos Santos, direttore tecnico
della Tipografia Vaticana, celebrando — martedì mattina, 31 gennaio,
nella cappella del coro della basilica
di San Pietro — la messa per la festa
liturgica del santo fondatore della
famiglia salesiana. Al rito hanno
partecipato i responsabili e i dipendenti della
Tipografia
Vaticana,
dell’Osservatore Romano e del Servizio fotografico del giornale.
All’omelia il sacerdote — che ha festeggiato
il venticinquesimo anniversario di ordinazione — ha sottolineato
come Giovanni Bosco
andasse ad aiutare i
giovani bisognosi proprio dove vivevano, alla periferia di Torino,
Valdocco. Li cercava
nelle situazioni di disagio e di difficoltà esistenziali per accoglierli
e offrire loro rifugio e
libertà da tutto ciò che
li opprimeva. È la stessa missione, ha ricordato don Dos Santos, alla quale lavorano anche ai nostri
giorni in 133 paesi i salesiani che vivono il carisma del santo.
Attraverso i suoi progetti educativi, ha proseguito il celebrante, don
Bosco ha edificato tantissimi ponti e
ha trovato nella gioventù il senso
più profondo della sua vita. Commentando poi il brano del vangelo
di Matteo proposto dalla liturgia,
don dos Santos ha invitato a mettere sempre al centro i piccoli di oggi
per assicurare loro un presente dignitoso.
Al termine della concelebrazione,
monsignor Dario Edoardo Viganò,
prefetto della Segreteria per la comunicazione, ha rivolto un saluto al
religioso salesiano e gli ha consegnato una pergamena di benedizione
per il giubileo sacerdotale firmata da
Papa Francesco. Poi ha ringraziato
la comunità per il lavoro svolto al
servizio del Pontefice. Anche il direttore generale della Tipografia Vaticana editrice L’Osservatore Romano, don Sergio Pellini, all’inizio della messa ha fatto gli auguri a dos
Santos a nome di tutti i dipendenti.
Hanno concelebrato monsignor
Lucio Adrián Ruiz, segretario della
Segreteria per la comunicazione, il
salesiano Abraham Kavalakatt, direttore commerciale della Tipografia
Vaticana, il gesuita Władisław
Gryzło, incaricato dell’edizione polacca
dell’Osservatore
Romano,
l’agostiniano Paolo Benedik, della
Sagrestia pontificia. Erano presenti,
tra gli altri, i membri del consiglio
di sovrintendenza e del consiglio dei
revisori dei conti, e il vice direttore
dell’Osservatore Romano. Per l’occasione, sull’altare è stato collocato
tà delle istituzioni e per uno sviluppo pensato in loco ma in grado di utilizzare al meglio gli
aiuti esterni. «Penso soprattutto
— ha chiarit0 in proposito — ai
contributi che arrivano attraverso i canali della cooperazione
internazionale».
Attingendo quindi alla tradizione locale dell’oratoria Kabary,
il cardinale Parolin ha quindi
sviluppato il tema della conferenza, soffermandosi in particolare sulla diplomazia della Santa
Sede durante il pontificato di
Papa Francesco. «Dovrei pronunciare qui un “nobile e grande” discorso — ha detto in proposito — in grado di convincere
il pubblico illustre che ho davanti a me. Non so se sarò in
grado di farlo, ma lasciatemi dire che cercherò di dimostrare in
ogni caso la saggezza, il rispetto, la rettitudine morale e la modestia che sono componenti essenziali del Kabary».
In serata, nel giardino della
nunziatura apostolica, è stato
offerto un ricevimento in occasione del cinquantesimo anniversario e in onore del Papa. In
rappresentanza del presidente
della Repubblica — che nel pomeriggio di domenica 29 gennaio, dopo aver presenziato alla
solenne concelebrazione eucaristica è partito per Addis Abeba,
dove si sta svolgendo il vertice
dell’Unione africana — sono intervenuti il primo ministro e
quasi tutti i ministri del governo. Inoltre, erano presenti tutte
le alte autorità dello Stato, il
corpo diplomatico accreditato
ad Antananarivo, i presuli malgasci, il vescovo Gilbert Aubrit,
presidente della Conferenza episcopale dell’Oceano Indiano,
preti, religiosi, religiose e amici
della rappresentanza pontificia.
Lo statuto della Pontificia università cattolica del Perú
In dialogo
fede e ragione
La Congregazione per l’educazione cattolica ha approvato di recente il nuovo statuto della Pontificia
università cattolica del Perú, portando a termine il percorso di pieno adeguamento della quasi centenaria e prestigiosa istituzione accademica alla costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae.
L’approvazione è avvenuta il 3
novembre scorso, data in cui il
cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, ha autorizzato l’università a utilizzare nuovamente i
titoli di “pontificia” e “cattolica”.
Questo risultato positivo è stato
reso possibile grazie all’adozione,
da parte dell’assemblea universitaria, di una serie di modifiche allo
statuto apportate dalle autorità accademiche in seguito a un intenso
dialogo con il dicastero vaticano
per l’educazione cattolica e con la
segreteria di Stato, allo scopo di
di recepire le indicazioni dell’Ex
corde Ecclesiae.
Prima
dell’adozione
degli
emendamenti, nel settembre 2016,
il cardinale prefetto Giuseppe Versaldi, in visita a Lima, aveva illustrato il lavoro condotto e il contenuto delle modifiche allo statuto
proposte dalle autorità universitarie. In quella occasione, il porporato aveva messo in rilievo la collaborazione fra l’équipe del rettorato e i dicasteri della Curia romana, indicandola a esempio di quella capacità di dialogo che Papa
Francesco raccomanda come testimonianza cristiana in un mondo
lacerato da discordie e divisioni
(Evangelii gaudium n. 67).
Il nuovo statuto, infatti, è frutto
di un clima di dialogo e di fiducia
che ha permesso la comprensione
dell’autentico spirito della costituzione apostolica del 1990, la quale
intende valorizzare il dialogo tra
fede e ragione per un reciproco
arricchimento al fine di condividere «quel gaudium de veritate , tanto caro a sant’Agostino, cioè la
gioia di ricercare la verità, di scoprirla e di comunicarla in tutti i
campi della conoscenza» (Ex corde
Ecclesiae, n. 1). Tale dialogo «mette in evidenza che la ricerca metodica di ogni ramo del sapere, se
condotta in maniera veramente
scientifica e secondo le leggi morali, non può mai trovarsi in reale
contrasto con la fede» (n. 17). E
proprio a partire da questa consa-
Nel decennale della morte del cardinale Mario Francesco Pompedda
Prima di tutto l’uomo
di FRANCESCO MICCICHÈ*
Nino Musio, «Don Bosco calzolaio»
il reliquiario di don Bosco, esposto
per la prima volta durante la canonizzazione del 1° aprile 1934, concesso da monsignor Guido Marini,
maestro delle celebrazioni liturgiche
del Sommo Pontefice.
Un sacerdote, chiamato a esercitare il ministero come giudice, ma
incapace di umanità e vicinanza ai
fedeli, svuoterebbe di significato
evangelico il proprio servizio, rendendolo inefficace e formale, e si
ridurrebbe a una maschera tragica,
uno scarabocchio da cestinare. Ecco perché nel ricordare, a dieci anni dalla morte, la figura e la personalità del cardinale Mario Francesco Pompedda, insigne giurista e
decano della Rota Romana, è importante sottolinearne i tratti caratteristici: una calda e trasparente
umanità che, unità a una profonda
umiltà, lo rendevano accogliente,
comprensivo, partecipe delle gioie
e delle sofferenze di quanti, ricorrendo a lui, beneficiavano della
sua saggezza nell’affrontare i problemi e della sua capacità di indi-
Incontro tra Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e Wcc
Come educare alla pace
I membri dell’Ufficio per il dialogo interreligioso e la cooperazione (Irdc) del
Consiglio ecumenico delle Chiese (Wcc), insieme ai colleghi del Pontificio
Consiglio per il dialogo interreligioso (Pcdi), il 30 e il 31 gennaio hanno tenuto l’incontro annuale nella sede del dicastero. In un comunicato le due delegazioni hanno espresso gratitudine per l’opportunità avuta di incontrarsi pochi giorni dopo la conclusione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Hanno reso grazie a Dio per l’amicizia e per la feconda cooperazione
nel promuovere relazioni costruttive con individui e comunità appartenenti ad
altre tradizioni religiose.
L’agenda principale dell’incontro prevedeva la discussione e la deliberazione in merito alla proposta di un documento congiunto su «Educazione alla
pace», sull’esempio di progetti comuni simili del passato. È seguito uno
scambio di notizie e di opinioni sulle rispettive attività nell’anno passato e su
quelle programmate. Pcdi e l’Irdc hanno convenuto di proseguire la collaborazione, considerata l’urgenza della questione nell’attuale contesto globale.
care, alla luce della fede, un valore
salvifico alle sofferenze.
Tali tratti peculiari sono emersi
anche nell’omaggio che lo Studium
Romanae Rotae ha dedicato di recente all’antico direttore in occasione dell’inaugurazione dell’anno
accademico 2016-2017. Alla presenza, tra gli altri, del sostituto della
Segreteria di Stato, arcivescovo
Angelo Becciu, e del cardinale
Giuseppe Versaldi, sono intervenuti il decano della Rota Romana,
Pio Vito Pinto, che ha parlato del
cardinale Pompedda e dell’«Animo pastorale di un grande giurista
e uomo di Chiesa contemporaneo», e il prelato uditore Giovanni
Battista Defilippi che si è invece
soffermato su «I germi della riforma di Papa Francesco nell’operare
di un maestro della giurisprudenza
e del processo».
La salus animarum suprema lex è
stata — ha evidenziato monsignor
Pinto — il motivo ispiratore di tutta la vita del porporato di Ozieri
che, con carattere allo stesso tempo fermo e duttile, seppe sempre
coniugare aspetti teorici e pratici,
partendo dalle situazioni concrete
della vita. La sua umanità fu,
quindi, il canale attraverso il quale
mediare la misericordia di Dio. La
sua passione pastorale, ereditata
dal Vaticano II, è stata il volto della sua testimonianza sacerdotale:
uomo del suo tempo, ma con una
marcia in più, seppe cogliere le
istanze emergenti più profonde e
farne tesoro mettendole al servizio
dei fratelli con umiltà, sapienza e
carità.
Una vita spesa per gli altri,
quella di Pompedda, nella quale la
dedizione pastorale ha sempre accompagnato la passione per gli
studi giuridici che, come ha documentato monsignor Defilippi, lo
hanno portato a lungimiranti intuizioni canoniche, tanto da poter
essere considerato un precursore
dell’attuale riforma del processo
matrimoniale canonico voluta da
Papa Francesco. Nei due motuproprio — Mitis Iudex Dominus Iesus e
Mitis et misericors Iesus — si ritrovano infatti gli elementi portanti
della dottrina canonistica elaborata da Pompedda. Innanzitutto la
centralità del vescovo diocesano,
iudex natus, chiamato a esercitare
la paternità spirituale con giustizia
e misericordia, facendosi compagno, amico, e caricandosi della
croce che grava sulle spalle di
quanti si trovano a vivere il disastro di un matrimonio fallito che
ritengono in coscienza essere nullo. Al vescovo, coadiuvato dal tribunale diocesano, appartiene il discernimento nel quale deve essere
guidato da una empatia non formale, ma sostanziale. Il giudice,
cioè, deve avere fiducia verso l’uomo e la donna che a lui si rivolgono per avere quella pace del cuore
che vicende strane della vita hanno loro tolto.
Ne deriva che l’attenzione alle
persone nella loro peculiare situazione esistenziale e psicologica deve essere puntuale e costante, altrimenti il giudice si trasforma in un
aguzzino che sforna sentenze che
hanno più il sapore del killeraggio
piuttosto che della giustizia che libera e dona speranza. L’uomo con
le sue fragilità, il suo mondo interiore, le sue paure e le sue speranze, la sua cultura deve stare sommamente a cuore al giudice. Infine, sempre il cardinale Pompedda
aveva
previsto
l’eliminazione
dell’obbligo di appello in caso di
sentenza affermativa che dà respiro ai ricorrenti.
Oggi le sue intuizioni giuridiche
sono diventate norme per la Chiesa, chiamata a farsi madre tenera e
misericordiosa dei propri figli.
*Vescovo emerito di Trapani
pevolezza si è potuto adottare un
nuovo statuto che, da una parte,
salvaguarda la legittima autonomia della istituzione accademica e,
dall’altra, permette all’ispirazione
cristiana, che la definisce come
cattolica, di arricchire l’ambito
della conoscenza e di tradurre la
verità in opere di bene secondo il
necessario riferimento etico, come
ricordava Giovanni Paolo II: «Se
esiste il diritto di essere rispettati
nel proprio cammino di ricerca
della verità, esiste ancora prima
l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi
una volta conosciuta» (Veritatis
splendor, n. 34)
Fondata nel 1917 con il sostegno
dell’arcivescovo di Lima, monsignor Pedro Manuel García y Naranjo, per l’insegnamento delle
scienze e delle lettere ispirato alla
fede cattolica, l’ateneo annovera
nell’assemblea universitaria cinque
vescovi rappresentanti della Conferenza
episcopale
peruviana
(Cep), mentre il presidente della
Cep ricopre di ufficio l’incarico di
gran cancelliere. Tuttavia, proprio
per facilitare la realizzazione di
quanto approvato dall’assemblea
universitaria, Papa Francesco ha
nominato gran cancelliere per i
prossimi cinque anni lo stesso cardinale prefetto Versaldi.
Il proficuo e rispettoso legame
con la Santa Sede è inoltre confermato dal processo di nomina del
rettore il quale, liberamente scelto
dall’assemblea universitaria, viene
poi confermato dalla Congregazione per l’educazione cattolica
secondo i criteri comunemente accettati e corrispondenti a tutti gli
atenei cattolici nel mondo.
Procede così più speditamente
il cammino — mai del tutto interrotto — di partecipazione della
Pontificia università cattolica del
Perú alla missione della Chiesa:
una Chiesa “in uscita” che, secondo il magistero del Pontefice, «accompagna l’umanità in tutti i suoi
processi, per quanto duri e prolungati possano essere» (Evangelii
gaudium, n. 24).
Lutti nell’episcopato
Monsignor Stanisław Padewski,
vescovo emerito di Kharkiv-Zaporizhia, in Ucraina, è morto
domenica 29 gennaio in Polonia.
Nato il 18 settembre 1932 a
Nova Huta, regione di Ternopil
e arcidiocesi di Lviv dei latini,
nel 1945 si era trasferito con la
famiglia a Dolny Šląsk, in territorio polacco. Entrato nei frati
minori cappuccini a Cracovia il
27 agosto 1950, aveva ricevuto
l’ordinazione sacerdotale il 24
febbraio 1957. Tornato in Ucraina negli anni Settanta per aiutare i preti locali, vi si era ristabilito definitivamente nel 1988.
Eletto alla sede titolare di Tigia
il 13 aprile 1995 e nel contempo
nominato ausiliare di Kamyanets-Podilskyi dei latini, aveva
ricevuto l’ordinazione episcopale il successivo 10 giugno. Il 10
aprile 1998 era stato trasferito,
sempre come ausiliare, a Lviv, e
il 4 maggio 2002, con l’erezione della nuova diocesi di Kharkiv-Zaporizhia, ne era stato nominato primo vescovo. Aveva
rinunciato al governo pastorale
della diocesi il 19 marzo 2009
per motivi di salute e si era ritirato in Polonia nel convento
dei cappuccini di Sędziszów
Małopolski.
Monsignor Cesar C. Raval,
vescovo verbita, emerito di
Bangued, è morto nelle Filipppine lunedì mattina, 30 gennaio, all’età di 92 anni.
Il compianto presule era infatti nato in Laoag il 17 dicembre 1924, ed era stato orinato
sacerdote della società del Divin Verbo il 22 maggio 1952.
Eletto alla Chiesa titolare di
Cerbali e al contempo nominato ausiliare della prelatura territoriale di Bangued il 15 dicembre 1981, aveva ricevuto l’ordinazione episcopale il 18 febbraio 1982. Pochi mesi dopo, il
15 novembre, la prelatura era
stata elevata al rango di diocesi, alla cui guida era stato poi
nominato il 25 novembre 1988.
Aveva rinunciato al governo
pastorale di Bangued il 18 gennaio 1992.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
mercoledì 1 febbraio 2017
Messa a Santa Marta
Gesù non guarda le «statistiche» ma ha
attenzione per «ognuno di noi». Uno per
uno. Lo «stupore dell’incontro con Gesù», quella meraviglia che coglie chi lo
guarda e si rende conto che il Signore già
aveva «fisso il suo sguardo» su di lui, è
stata descritta da Papa Francesco
nell’omelia della messa celebrata a Santa
Marta martedì 31 gennaio.
È stato proprio lo «sguardo» il filo conduttore della meditazione che ha preso le
mosse dal brano della lettera agli Ebrei
(12, 1-4) nel quale l’autore, dopo aver sottolineato l’importanza del fare «memoria», invita tutti: «Corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su Gesù».
Raccogliendo tale suggerimento, il Ponte-
Gesù guarda ciascuno di noi
fice ha preso in esame il vangelo del giorno (Marco, 5 21-43) per vedere «cosa fa
Gesù».
Il particolare più evidente è che «Gesù
è sempre in mezzo alla folla». Nel brano
evangelico proposto dalla liturgia «la parola “folla”» è ripetuta per ben tre volte.
E non si tratta, ha sottolineato il Papa, di
un ordinato «corteo di gente», con le
guardie «che gli fanno la scorta, affinché
la gente non lo toccasse»: piuttosto è una
folla che avvolge Gesù, che «lo stringe».
E lui «è rimasto lì». E, anzi, «ogni volta
che Gesù usciva, c’era più folla». Forse,
ha detto Francesco con una battuta, «gli
specialisti delle statistiche avrebbero potuto pubblicare: “Cala la popolarità del
Rabbi Gesù”». Ma «lui cercava un’altra
cosa: cercava la gente. E la gente cercava
lui: la gente aveva gli occhi fissi su di lui
e lui aveva gli occhi fissi sulla gente».
Si potrebbe obbiettare: Gesù volgeva lo
sguardo «sulla gente, sulla moltitudine».
E invece no, ha precisato il Pontefice: «su
ognuno». Perché proprio questa è «la peculiarità dello sguardo di Gesù. Gesù non
massifica la gente: Gesù guarda ognuno».
La prova si trova, a più riprese, nei racconti evangelici. Nel vangelo del giorno,
per esempio, si legge che Gesù chiese:
«Chi mi ha toccato?» quando «era in
mezzo a quella gente, che lo stringeva».
Sembra strano, tant’è che gli stessi discepoli «gli dicevano: “Ma tu vedi la folla
che si stringe intorno a te!”». Sconcertati,
ha detto il Papa provando a immaginare
la loro reazione, hanno pensato: «Ma questo, forse, non ha dormito bene. Forse si
sbaglia». E invece Gesù era sicuro: «Qualcuno mi ha toccato!». Infatti, «in mezzo a
quella folla Gesù si accorse di quella vecchietta che lo aveva toccato. E la guarì».
C’era «tanta gente», ma lui prestò attenzione proprio a lei, «una signora, una vecchietta».
Il racconto evangelico continua con
l’episodio di Giàiro, al quale dicono che la
figlia è morta. Gesù lo rassicura: «Non temere! Soltanto abbi fede!», così come in
precedenza alla donna aveva detto: «La
tua fede ti ha salvata!». Anche in questa
situazione Gesù si ritrova in mezzo alla
folla, con «tanta gente che piangeva, urlava nella veglia dei morti» — all’epoca, infatti, ha spiegato il Pontefice, era usanza
«“affittare” donne perché piangessero e
urlassero lì, nella veglia. Per sentire il dolore...» — e a loro Gesù dice: «Ma, state
tranquilli. La bambina dorme». Anche i
presenti, ha detto il Papa, forse «avranno
pensato: “Ma questo non ha dormito bene!”», tant’è che «lo deridevano». Ma Gesù entra e «resuscita la bambina». La cosa
che salta agli occhi, ha fatto notare Francesco, è che Gesù in quel trambusto, con
«le donne che urlavano e piangevano», si
preoccupa di dire «al papà e alla mamma
“Datele da mangiare!”». È l’attenzione al
«piccolo», è «lo sguardo di Gesù sul piccolo. Ma non aveva altre cose di cui
preoccuparsi? No, di questo».
In barba alle «statistiche che avrebbero
potuto dire: “Continua il calo della popolarità del Rabbi Gesù”», il Signore predicava per ore e «la gente lo ascoltava, lui
parlava ad ognuno». E come «sappiamo
che parlava ad ognuno?» si è chiesto il
Pontefice. Perché si è accorto, ha osservato, che la bimba «aveva fame» e ha detto:
«Datele da mangiare!».
Il Pontefice ha continuato negli esempi
citando l’episodio di Naim. Anche lì
«c’era la folla che lo seguiva». E Gesù
«vede che esce un corteo funebre: un ragazzo, figlio unico di madre vedova». Ancora una volta il Signore si accorge del
«piccolo». In mezzo a tanta gente «va,
ferma il corteo, resuscita il ragazzo e lo
consegna alla mamma».
Anthony Falbo
«Chi mi ha toccato?»
E ancora, a Gerico. Quando Gesù entra
nella città, c’è la gente che «grida: “Viva il
Signore! Viva Gesù! Viva il Messia!”. C’è
tanto chiasso... Anche un cieco si mette a
gridare; e lui, Gesù, con tanto chiasso che
c’era lì, sente il cieco». Il Signore, ha sottolineato il Papa, «si accorse del piccolo,
del cieco».
Tutto questo per dire che «lo sguardo
di Gesù va al grande e al piccolo». Egli,
ha detto il Pontefice, «guarda a noi tutti,
ma guarda ognuno di noi. Guarda i nostri
grandi problemi, le nostre grandi gioie; e
guarda anche le cose piccole di noi, perché è vicino. Così ci guarda Gesù».
Riprendendo a questo punto le fila della meditazione, il Papa ha ricordato come
l’autore della lettera agli Ebrei suggerisca
«di correre con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su Gesù». Ma, si è chiesto,
«cosa ci succederà, a noi, se faremo questo; se avremo fisso lo sguardo su Gesù?».
Ci accadrà, ha risposto, quanto è capitato
alla gente dopo la resurrezione della bambina: «Essi furono presi da grande stupore». Accade infatti che «io vado, guardo
Gesù, cammino davanti, fisso lo sguardo
su Gesù e cosa trovo? Che lui ha fisso il
suo sguardo su di me». E questo mi fa
sentire «grande stupore. È lo stupore
dell’incontro con Gesù». Per sperimentarlo, però, non bisogna avere paura, «come
non ha avuto paura quella vecchietta di
andare a toccare l’orlo del manto». Da qui
l’esortazione finale del Papa: «Non abbiamo paura! Corriamo su questa strada,
sempre fisso lo sguardo su Gesù. E avremo questa bella sorpresa: ci riempirà di
stupore. Lo stesso Gesù ha fisso il suo
sguardo su di me».
Anne Goetze
dalla serie «Pray to Love»
A colloquio con l’arcivescovo Rodríguez Carballo sulla plenaria del dicastero per la vita consacrata
ra armonia tra vita spirituale, vita fraterna
e missione evangelizzatrice.
Fedeltà alla prova
di NICOLA GORI
Ogni giorno la fedeltà alla vita consacrata
viene messa a dura prova dalle sfide del
mondo. Per superarle occorrono una solida vocazione e una formazione continua.
Lo ribadisce l’arcivescovo José Rodríguez
Carballo, segretario della Congregazione
per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, in questa intervista a
«L’Osservatore Romano» all’indomani
della plenaria dedicata alla fedeltà e
dell’incontro interdicasteriale sull’aggiornamento del documento Mutuae relationes.
Quali sono le sfide da affrontare nella revisione di questo testo?
Prima di tutto è bene dire che non si
tratta di una semplice revisione dell’attuale documento Mutuae relationes, ma di un
testo nuovo. Questa era già l’intenzione
dei superiori dei due dicasteri direttamente coinvolti per mandato del Papa, almeno
finora: la Congregazione per i vescovi e la
Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Ma
a tale intenzione si deve aggiungere il parere in questo stesso senso di diversi padri
della plenaria interdicasteriale che si è
svolta proprio il 26 gennaio. Un altro
aspetto da considerare è che il nuovo documento terrà conto non soltanto delle relazioni tra pastori e consacrati chierici, ma
tra pastori e tutte le forme di vita consacrata, maschile e femminile. Le sfide principali che vedo fanno riferimento a come
applicare i principi teologici e giuridici
che saranno alla base del nuovo documento — Chiesa di comunione, co-essenzialità
tra doni gerarchici e carismatici, la dimensione sponsale della Chiesa e della vita
consacrata, la giusta autonomia dei consacrati, la sana tensione tra particolare e universale — alla vita concreta tra i pastori e i
consacrati nelle Chiese particolari.
Come si realizza questo passaggio dalla teoria alla prassi?
Penso che dove si giocano veramente le
mutuae relationes è nel quotidiano e quindi
nel vivere la mistica dell’incontro, come
direbbe Papa Francesco, con tutto quello
che comporta. Come ha detto il Pontefice
ai vicari e delegati per la vita consacrata:
«non esistono relazioni mutue lì dove alcuni comandano e altri si sottomettono,
per paura o convenienza». Invece ci sono
mutuae relationes dove si coltivano la capacità di ascolto, la reciproca ospitalità,
l’apertura nel dialogo, la condivisione delle decisioni, il rispetto reciproco, una profonda conoscenza. Un elemento sul quale
nella plenaria si è insistito molto, e che si
ripeteva molto nelle proposte giunte al
nostro dicastero da parte di più di 150
conferenze di superiori maggiori di tutto
il mondo, è la necessità di una formazione
adeguata nell’ecclesiologia del Vaticano II.
In questo senso si chiede che nei programmi di formazione dei seminari diocesani siano previsti corsi obbligatori di teologia della vita consacrata e del suo posto
nella Chiesa, e nelle case di formazione
dei consacrati si studi la teologia della
Chiesa particolare e la missione del vescovo. Per superare incomprensioni reciproche è necessaria una adeguata formazione
su questi aspetti e molta creatività per trovare spazi di vero incontro. Un altro elemento sul quale si è pure insistito è di
non trattare la vita consacrata nella sua
pura funzionalità. La vita consacrata va
apprezzata prima di tutto dagli stessi consacrati e poi anche dai vescovi e sacerdoti
diocesani, per quello che è: come segno e
profezia. Infine, non si potrà dimenticare
un elemento importante che può causare
qualche tensione: la questione delle alienazioni da parte dei consacrati e la questione della proprietà. In questo secondo caso
sono fondamentali le convenzioni.
Quali sono le cause principali di questo fenomeno?
Durante la plenaria avete parlato della fedeltà. Quali gli aspetti principali trattati?
Non è facile individuarle: non sempre
quelle indicate nei documenti che ci inviano per ottenere la dispensa dai voti sono
le principali. Spesso vengono indicati problemi di tipo affettivo, seguiti dalle difficoltà nel vivere gli altri voti o la stessa vita
fraterna in comunità. Io credo, però, che
la prima causa abbia a che fare con la dimensione spirituale o di fede. Quando
parliamo di fede non si tratta soltanto
dell’adesione alla dottrina, ma di una fede
vissuta, che tocca e cambia il cuore e
quindi porta a una vita cristiana autentica
e, come conseguenza, a una vita consacrata conforme a quanto uno ha abbracciato
con la professione. A volte si confonde la
fede con la religiosità. L’esperienza ci dice
che uno può essere molto religioso e debole nella fede. La fede parte da un vero
incontro con Cristo e porta a rafforzare
questo incontro durante tutta la vita. Nella vita cristiana e consacrata si danno per
scontati diversi aspetti riguardanti la fede
ai quali si dovrebbe prestare molta più attenzione. Anche riguardo la spiritualità si
dovrebbe fare più attenzione. Non va confusa con il semplice devozionismo, ma deve essere incarnata per diventare figli del
cielo e della terra, mistici e profeti, discepoli e testimoni. Se la fede è debole, la
spiritualità non è solida e nella vita fraterna in comunità ci sono problemi, facilmente la prima opzione si indebolisce e
può venire meno, finendo con implicazioni affettive che fanno sì che prima o dopo
si lasci da parte detta opzione. Quindi io
sono dell’opinione che le principali cause
siano la fragilità nell’esperienza di fede e
nella vita spirituale, le difficoltà non risolte nella vita fraterna in comunità e, come
conseguenza, problemi di tipo affettivo.
Prima di tutto abbiamo constatato che
nella grande maggioranza i consacrati vivono con gioia la fedeltà alla loro vocazione. C’è molta santità nella vita consacrata,
come ha ricordato il Papa. Una fedeltà
che porta non pochi consacrati a testimoniare la loro fede e vocazione fino allo
spargimento del sangue. I martiri consacrati che ogni anno danno la vita per Cristo sono la prova migliore della vitalità e
della santità della vita consacrata. Non ho
dubbi nell’affermare che la vita consacrata
nel suo insieme è un corpo che gode di
buona salute. Abbiamo poi trattato degli
elementi che aiutano la fedeltà e di quelli
Si deve tener presente, prima di tutto,
un dato che proviene dall’antropologia attuale: l’uomo e la donna di oggi hanno
paura a impegnarsi definitivamente; si
vuole lasciare sempre una “finestra aperta”
per “imprevisti”, cadendo nell’ambivalenza
che impedisce di vivere la vita nella sua
pienezza. Questo ha molto a che fare con
il contesto culturale e sociale in cui viviamo. La nostra è una società liquida che
promuove una cultura liquida nella quale
una relazione si costruisce a partire dai
vantaggi che ognuna delle parti possa ot-
Come verrà elaborato il nuovo documento?
Questo è ancora da decidere, prevediamo una commissione mista dei due dicasteri. Quello che sembra molto chiaro è la
volontà che si attui una metodologia sinodale, prima di tutto tra le due Congregazioni e poi con le conferenze dei superiori
generali e con i vescovi. Inoltre la plenaria
ha chiesto che si elabori un documento
con indicazioni pratiche e pastorali, oltre
ai principi teologici e canonici. Per questo
consideriamo molto importante ascoltare i
protagonisti delle mutuae relationes: vescovi
e consacrati.
Si possono conoscere alcuni dati circa gli abbandoni?
che la ostacolano. Infine abbiamo riflettuto sul doloroso tema degli abbandoni e
segnalato alcune iniziative per prevenirli.
Quali fattori condizionano la fedeltà?
tenere dall’altra e quindi dura quando durano i vantaggi; una cultura frammentata
dove non c’è posto per i “grandi racconti”
e dove si vuole portare avanti una vita à
la carte, che spesso ci fa diventare schiavi
della moda; una cultura del benessere e
dell’autorealizzazione che facilmente ci fa
passare dall’homo sapiens all’homo consumens producendo un grande vuoto esistenziale. A tutti questi condizionamenti
vanno aggiunti quelli che provengono dal
mondo giovanile, una realtà molto complessa dove, a giudicare da recenti inchieste, la cosiddetta generazione millennial,
che succede alla generazione X, viene caratterizzata dall’indifferenza verso la religione e la poca conoscenza della Chiesa e
della vita consacrata. In questo contesto,
anche se a un certo momento alcuni si
“convertono” e fanno opzione per detta
forma di sequela, magari manca loro una
vera motivazione, per cui nei momenti di
difficoltà si cede alla tentazione di andarsene. Un ultimo elemento da tener presente è la stessa vita consacrata che può cadere nel discorso puramente estetico: si formulano alti ideali, ma poi la vita dei consacrati magari non testimonia la bellezza e
la bontà di tale forma di sequela Christi.
Così la vita consacrata non risponde più
alla sua missione profetica, come chiede
Papa Francesco, o, secondo le parole di
Metz, alla sua missione di essere «terapia
di shock per la grande Chiesa». La fedeltà
viene condizionata anche dalla non sufficiente chiarezza identitaria consacrata.
Non indifferente è la mancanza di un progetto di vita ecologico dove ci sia una ve-
Se il Papa parla di «emorragia» vuol dire che il problema è preoccupante, non
soltanto per il numero ma anche per l’età
in cui si verificano, la grande parte tra i 30
e 50 anni. Le cifre degli abbandoni negli
ultimi anni restano costanti. Negli anni
2015 e 2016 abbiamo avuto circa 2300 abbandoni all’anno, compresi i 271 decreti di
dimissione dall’istituto, le 518 dispense dal
celibato che concede la Congregazione
per il clero, i 141 sacerdoti religiosi incardinati pure et simpliciter in diverse diocesi e
le 332 dispense dai voti tra le contemplative. Durante la plenaria ci siamo soffermati
su tre constatazioni: l’elevato numero di
chi lascia la vita consacrata per incardinarsi in una diocesi, il numero non indifferente delle contemplative che lasciano la
vita consacrata e il numero di quelli che la
abbandonano (225 casi) dicendo che mai
hanno avuto vocazione. Si deve constatare
che il più alto numero di abbandoni si ha
tra le religiose, fatto almeno in parte spiegabile in quanto sono la grande maggioranza dei consacrati.
Cosa si può fare per aiutare chi è nel dubbio
o per prevenire questi abbandoni?
Personalmente penso che si debba puntare prima di tutto sul discernimento, in
modo che chi non è chiamato a questa
forma di sequela Christi non abbracci questa vita. Nel discernimento si deve curare
insieme la dimensione umana, affettiva e
sessuale, la dimensione spirituale e di fede
e anche quella intellettuale. Si deve prestare attenzione alle motivazioni, senza lasciarsi condizionare dalla tentazione del
numero e della efficacia, come ci ha ricordato Papa Francesco. La vita consacrata
non è per tutti e non tutti sono per la vita
consacrata. Si deve inoltre fare molta attenzione a coloro che passano da un seminario o da un istituto a un altro. Non è
possibile un discernimento adeguato senza
un accompagnamento appropriato, offerto
da persone capaci di trasmettere la bellezza del carisma in un determinato istituto e
che siano esperte nel cammino della ricerca di Dio, per poter accompagnare gli altri in questo itinerario. Molte vocazioni si
perdono lungo la strada per mancanza di
un adeguato accompagnamento umano,
spirituale e vocazionale. Poi è fondamentale curare la formazione, a partire dalla
formazione permanente, humus di quella
iniziale. Questa a sua volta dovrà essere:
una formazione personalizzata e in chiave
di processo; evangelicamente esigente ma
non rigida; umana e motivatrice, inculturata; una formazione alla fedeltà; una formazione a un’affettività sana e feconda.