La vita di Jacopo da Lentini Jacopo da Lentini
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La vita di Jacopo da Lentini
Jacopo da Lentini (città vicino a Catania), vissuto fra il 1210 e il 1260
circa, fu notaio imperiale e poeta. E' considerato il caposcuola della
scuola siciliana fiorita alla corte di Federico II, la.
Dante lo chiama «'l Notaro» per antonomasia e lo considera
l'esponente tipico della poesia di corte.
Al "Notaro" si attribuiscono 16 anzoni di vario schema metrico, 22
sonetti. 2 dei sonetti sono in "tenzone" con l'Abate di Tivoli, uno
risponde a Jacopo Mostacci. Si deve alla sua iniziativa la rivisitazione in
lingua volgare dei temi e delle forme della poesia provenzale che ha
dato inizio alla lirica d'arte italiana. Giacomo è considerato il
"caposcuola" dei rimatori della cosiddetta scuola poeica Siciliana .
I versi di Jacopo da Lentini sono caratterizzati da varietà tematica e
abilità espressiva e riescono, in genere, ad offrire liriche d'amore
spontanee e vivaci. A volte, però, cadono in vuote espressioni formali.
Il poeta compose poesie in forma dialogata, ma il suo nome rimane
legato all'invenzione del sonetto, componimento poetico di quattordici
endecasillabi che per secoli sarebbe stato ampiamente utilizzato e
sviluppato dai maggiori poeti lirici europei come una forma metrica
classica.
La sua poesia più celebre è “Meravigliosamente".
Amor è uno desio che ven da core
Amor è un[o] desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima genera[n] l'amore
e lo core li dà nutricamento.
Ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so 'namoramento,
ma quell'amor che stringe con furore
da la vista de li occhi à nas[ci]mento.
Che li occhi rapresenta[n] a lo core
d'onni cosa che veden bono e rio,
com'è formata natural[e]mente;
e lo cor, che di zo è concepitore,
imagina, e piace quel desio:
e questo amore regna fra la gente.
Sonetto di Jacopo da Lentini fa parte di una " tenzone " poetica, cioè
di uno scambio di Sonetti fra Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e
Giaomo Lentini sul tema dell'amore. Jacopo ritiene che l'amore è la
passione che nasce dalla vista della donna desiderata e che si nutre
dell' immaginazione dell'uomo. In questa "tenzone", a cui appartiene il
sonetto di Jacopo, il problema da definire è quello della natura stessa
dell'amore. Un tema che appassionerà molto, anche in seguito. I primi
due versi di " Amor è uno disio che ven da core", espongono
sinteticamente la risposta al problema che il poeta affronta: il
desiderio della persona amata proviene dal cuore. Tuttavia, quel che
per prima genera la passione è lo sguardo, il vedere la persona amata
appunto : "e li occhi in prima generan l'amore". In un secondo moneto
l'amore arriva al cuore: " e lo core li dà nutricamento". Delle volte
capita che si ami senza aver visto la persona di cui ci si è innamorati,
ma l'amore vero, quello che prende interamente l'uomo nasce dalla
vista dell'amata" ma quell'amor che stringe con furore/ da la vista de li
occhi ha nascimento". Ci si può innamorare di qualcuno di cui si è sentito
parlare, ma la passione ed il vero amore nascono da altro. Gli occhi sono
il tramite fondamentale dell'amore. Il cuore riceve solo quel messaggio
che poi diventerà passione, quello che diventerà quindi il dolce
vagheggiar dei sensi. Per Jacopo da Lentini, il vero amore è quello che
coinvolge tutti i sensi. Dal punto di vista stilistico- espressivo, il
componimento è caratterizzato da una struttura rigida e schematica.
Chi non avesse mai veduto foco
[C]hi non avesse mai veduto foco
no crederia che cocere potesse,
anti li sembraria solazzo e gioco
lo so isprendor[e], quando lo vedesse.
Ma s’ello lo tocasse in alcun loco,
be·lli se[m]brara che forte cocesse:
quello d’Amore m’à tocato un poco,
molto me coce - Deo, che s’aprendesse!
Che s’aprendesse in voi, [ma]donna mia,
che mi mostrate dar solazzo amando,
e voi mi date pur pen’e tormento.
Certo l’Amor[e] fa gran vilania,
che no distringe te che vai gabando,
a me che servo non dà isbaldimento.
Il sonetto Chi non avesse mai veduto foco, di Giacomo da Letini, svolge
estesamente il tema della similitudine tra il fuoco e l'amore
accomunati, nelle parole del poeta, dal fatto di costituire una forte
attrattiva per l'uomo con il loro spendore, per poi rivelarsi entrambi
tutt'altro che innocui. Il tema è ricorrente nella letteratura amorosa
del Duecentro e del Trecento, dove rappresenta lo spunto di frequenti
metafore e similitudini; in questo caso, tuttavia, sorprende l'ampio
sviluppo del motivo, che occupa il testo quasi per intero.
Lo viso mi fa andare alegramente
Lo viso mi fa andare alegramente,
lo bello viso mi fa rinegare;
lo viso me conforta ispesament[e],
l'adorno viso che mi fa penare.
Lo chiaro viso de la più avenente,
l'adorno viso, riso me fa fare:
di quello viso parlane la gente,
che nullo viso [ a viso ] li po' stare.
Chi vide mai così begli ochi in viso,
né sì amorosi fare li sembianti,
né boca con cotanto dolce riso?
Quand'eo li parlo moroli davanti,
e paremi ch'ì vada in paradiso,
e tegnomi sovrano d'ogn'amante.
Uno dei primi sonetti della storia della letteratura italiana. Il
caposcuola dei lirici siciliani lo costruisce, ripetendo un artificio
retorico a suo tempo usato anche dal grande trovatore provenzale
Arnaut Daniel, attorno alla riproposizione di una sola parola chiave. La
donna amata e il suo viso, secondo la concezione tipica dell’amor
cortese, sono la fonte di ogni felicità del poeta: l’espressione di questo
concetto è affidata a frequentissime ripetizioni della parola viso, che
si presenta in forma di rima, di rima al mezzo, di supporto a quasi-rime
ed allitterazioni. Significativo il legame con l’altra parola chiave, riso,
anch’esso segno di una beatitudine e gioia così elevata da essere
metaforicamente accostata a quella prodotta dalla visione di Dio.
E' una poesia d'amore un amore, che apre il cuore al poeta ma allo
stesso tempo lo fa penare.
E' un tipico esempio di poesia dell'amor cortese dove la donna è
idealizzata e racchiusa in un immagine quasi sacra.